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Elementi di astronomia

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Elementi di astronomia

1.1 Fast Transient Imaging – FTI

Quando si pensa al cielo, molto spesso il pensiero tende a sfiorare l’idea di eternità. La volta celeste è considerata, da molti, una delle cose più fisse ed immutabili del creato; ed in effetti i tempi di vita degli astri, paragonati a quelli degli esseri viventi terrestri, o perfino alle durate delle ere geologiche, appaiono di ben superiori ordini di grandezza…

Tuttavia è bene non dimenticare che vi sono una gran quantità di fenomeni celesti che si manifestano molto velocemente, o perché si sviluppano e/o si esauriscono entro tempi brevi, o perché sono periodici con periodi anche molto ridotti.

Spesso questi fenomeni veloci sono eventi legati a grandi quantità di energie in gioco. Un esempio molto significativo è l’esplosione di una supernova: in un tale evento possono essere sprigionate energie anche superiori a 1026 megaton, e nel giro di poche ore. Una vera e propria catastrofe cosmica, capace di uccidere ogni forma di vita simile a noi nel raggio di diverse decine di anni-luce. Le esplosioni di supernovae sono tuttavia eventi piuttosto rari. Finora sono state ben visibili dalla Terra, ad occhio nudo, solamente tre supernovae: quelle del 1054 (che ha anche provocato la creazione della Nebulosa del Granchio), del 1572 e del 1604, tutte apparse addirittura prima dell’invenzione del cannocchiale. Tutte le altre supernovae conosciute, ormai parecchie centinaia, sono state osservate negli ultimi decenni tramite potenti telescopi1. Ciò ci fa capire quanto sia importante, per poter studiare meglio tale fenomeno, avere a disposizione strumenti capaci di spingere lo sguardo sempre più lontano, in modo da poter osservare un numero sempre più elevato di singoli eventi. E trattandosi di eventi “esplosivi”, bisogna anche utilizzare strumenti che consentano di seguirne la rapida evoluzione, soprattutto nelle fasi più veloci.

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(a) (b)

Figura 1.1: (a) Supernova comparsa nella galassia NGC 4725 tra il 1940 ed il 1941. Notare la luminosità dell’esplosione, confrontabile con quella dell’intera galassia.

(b) Esplosione della supernova SN1987A nella Grande nube di Magellano: in alto si osserva la regione di spazio prima dell’esplosione, mostrata sotto.

Eventi celesti paragonabili alle supernovae sono le esplosioni di stelle dette novae: queste ultime avvengono con minor intensità ma si osservano con maggiore frequenza. I meccanismi che portano all’esplosione delle novae possono essere fondamentalmente differenti da quelli all’origine delle supernovae: basti pensare al fatto che diverse stelle sono state osservate più di una volta nella fase di nova, rivelando una sorta di ricorrenza del fenomeno, che si manifesterebbe tanto più raramente quanto più violente sono le esplosioni. Tuttavia, almeno per quel che riguarda la banda visibile, i fenomeni legati alle novae ed alle supernovae appaiono molto simili nella curva di luce: ad un picco di luce massimo, raggiunto nel giro di poche ore, segue una coda di luminosità decrescente lunga anche mesi.

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Figura 1.2: Una stella nova fotografata al minimo e durante l’esplosione.

Figura 1.3: Esempio di curva di luce di una nova, CP Lacertae. Si noti il brusco aumento e la lenta diminuzione della luminosità subito dopo il massimo.

Per quel che riguarda i fenomeni periodici di brevissimo periodo, si possono invece citare le pulsar.

Nel luglio del 1967, i radioastronomi di Cambridge scoprirono casualmente che da un certo punto del cielo giungevano impulsi radio ad intervalli fissi di 1,3 secondi. Considerazioni fisiche portarono alla conclusione che la trasmittente era molto al di là dei confini del nostro sistema planetario, e doveva essere un oggetto non molto più grande di un pianeta. Nonostante lo sconcerto iniziale, le ricerche di queste sorgenti proseguirono, e nel giro di pochi anni ne furono individuate diverse decine. Dato il carattere pulsante della radioemissione, esse furono indicate col nome di pulsar.

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Fin dal momento della scoperta venivano indicati come possibili responsabili di questa strana radioemissione due tipi d’oggetti: le nane bianche e le stelle a neutroni. In particolare, queste ultime sono corpi con massa superiore a quella del Sole, ma con raggio piccolissimo: appena una quindicina di chilometri. La densità è altissima, praticamente inconcepibile: fino ad un miliardo di tonnellate per centimetro cubo. Stelle di questo genere non erano mai state osservate, ma già nel 1933 erano state previste come prodotto dell’esplosione delle già citate supernovae.

Nel novembre del 1968 fu scoperta una pulsar anche nella Nebulosa del Granchio, i cui impulsi venivano emessi ad intervalli di tempo brevissimi: uno ogni 33 millesimi di secondo. Si cercò allora di scoprire se essi provenivano da un corpo osservabile anche otticamente, e fu proprio grazie ad un “pionieristico” sistema di Fast Transient Imaging che anche questa ricerca ebbe successo.

Come già detto, la Nebulosa del Granchio è stata generata dall’esplosione di una supernova nel 1054. Non era assurdo chiedersi se, dopo tale evento, fosse rimasto qualcosa della stella originaria e se questo qualcosa fosse ancora visibile. Con quest’idea l’astronomo W. Baade, nel 1942, aveva messo in evidenza due stelline, vicino al centro della nebulosa: una di queste, con spettro anomalo, poteva essere l’oggetto cercato. Nel gennaio del 1969, osservando questa stella con tecniche speciali, veniva scoperto che emette guizzi luminosi con la stessa frequenza della pulsar. La Stella di Baade fotografata con pose tradizionali, lunghe, appare simile a tutte le altre, ma in realtà è una sorgente che emette luce a scatti, in lampi cento volte più luminosi del Sole, in ragione di 30 lampi al secondo. Tra un lampo e l’altro è oscura, invisibile, anche col più grande telescopio del mondo.

Nella primavera del 1969 veniva infine scoperto che anche l’emissione di raggi X presenta pulsazioni uguali a quelle radio e ottiche.

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Figura 1.4: Oscillazioni di luminosità della “Stella di Baade”

Risulta a questo punto evidente l’importanza di avere, in un osservatorio astronomico, dei sistemi per osservare, con buon dettaglio e con elevata velocità, fenomeni di transizione veloce. Fu proprio grazie anche ad una tecnica di “Fast Transient Imaging fotografico”, che gli astrofisici teorici poterono concludere felicemente che le stelle a neutroni, da essi previste come resto di una stella dopo la fase di supernova, esistevano realmente. Ancora oggi proseguono naturalmente ricerche teoriche tese a chiarire il mistero della rapida pulsazione, a risolvere i vari problemi del rapporto tra la stella a neutroni centrale e l’ambiente circostante e a costruire lo schema più plausibile della struttura interna della stella a neuroni stessa. Ma forse sarà proprio il miglioramento dei sistemi di FTI, e l’accumularsi di sempre più osservazioni disponibili allo studio, a permettere di fare più luce anche su questi aspetti, tuttora in parte oscuri, delle pulsar.

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1.2 Ottica adattiva – AO

Normalmente si ritiene che il potere separatore di un telescopio, cioè la sua capacità di discernere dettagli angolarmente distinti di un qualche oggetto celeste, sia governato unicamente dalle leggi della diffrazione, ovvero, in sostanza, dal diametro D del telescopio. Ed in effetti esiste una regoletta pratica secondo la quale il potere separatore P di un telescopio, espresso in secondi d’arco, è ottenibile dividendo 10 per D espresso in centimetri. Quindi, ed esempio, ad un telescopio di diametro 10 cm corrisponderà un potere separatore di circa un secondo d’arco, ad uno di 20 cm un potere separatore di mezzo secondo d’arco, e così via. Per valori di D inferiori a qualche decina di centimetri, i valori ottenuti con questa regola hanno effettivamente riscontro con la realtà, soprattutto per osservazioni di tipo visuale e non fotografico.

Tuttavia con telescopi sempre più grandi la qualità dell’immagine risulta perturbata dalla presenza dell’atmosfera terrestre: si osserva che la figura astrale appare meno netta, ed è difficile avvertire con chiarezza un qualche movimento erratico della stella, che appare come un oggetto la cui forma dettagliata cambia in continuazione. Questa immagine prende il nome di disco di seeing, ed è caratterizzata da un diametro esprimibile in secondi d’arco. Quando questa dimensione è maggiore o confrontabile con il potere risolutivo teorico imposto dalla diffrazione, gli effetti di seeing saranno preponderanti.

Gli astronomi, per quantificare la qualità del cielo dal punto di vista del potere risolutivo, utilizzano il parametro di Fried, dal nome di David Fried che lo introdusse nel 1966. Tale parametro, indicato con ro, indica il massimo diametro di un telescopio il cui potere risolvente non viene influenzato dalla turbolenza atmosferica. Tipici valori di ro possono variare da qualche centimetro a diverse decine di centimetri. Solo in siti eccezionali come Mauna Kea, nelle isole Hawaii, ed in notti particolarmente limpide, si può arrivare al metro. Appare quindi evidente quanto la presenza dell’atmosfera terrestre possa influire sul massimo potere separatore di un telescopio a terra.

Si osserva inoltre che il parametro di Fried dipende circa linearmente dalla lunghezza d’onda λ utilizzata nell’osservazione. Sembrerebbe quindi possibile aumentare molto il potere separatore, scrutando il cielo nel campo degli infrarossi, piuttosto che nel visibile o nell’ultravioletto. Tuttavia gli effetti indesiderati di diffrazione ottica influiscono con un peso inversamente proporzionale a λ, quindi non è possibile sfruttare troppo la dipendenza di ro dalla lunghezza d’onda.

Le prestazioni degli osservatori astronomici a terra e dei maggiori telescopi amatoriali sembrerebbero quindi dipendere inevitabilmente dai caotici capricci della turbolenza atmosferica. La prima e più immediata soluzione è costituita dai telescopi orbitanti, come Hubble. Tuttavia i progressi nella tecnologia del controllo della luce laser hanno consentito di realizzare dispositivi, a

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terra, che permettono di misurare la distorsione dell’immagine prodotta nel passaggio della luce degli oggetti celesti attraverso l’atmosfera e di introdurre, all’interno del telescopio ed in tempo reale, una distorsione uguale ed opposta, in modo da formare finalmente un’immagine chiara e nitida. Tale tecnica prende il nome di OTTICA ADATTIVA.

Figura 1.5. Possibile architettura di un sistema di ottica adattiva.

Tale tecnica è tuttavia comunque poco agevole: il tempo d’evoluzione della distorsione dell’immagine è dell’ordine di qualche millisecondo, ed è quindi con almeno questa velocità che è necessario misurare la distorsione dell’immagine, ed introdurne materialmente una uguale e contraria nel fascio ottico. Per introdurre le distorsioni variabili, che più propriamente prendono il nome di aberrazioni, si usa spesso uno specchio deformabile realizzato con una sottile lamina metallica solidale ad un elevato numero di attuatori piezoelettrici (sino ad un migliaio). Altre soluzioni prevedono l’uso di una lamina di materiale elettrostrittivo. In ogni caso si fa in modo che la superficie della lamina possa essere deformata a piacimento, disponendo opportunamente gli elettrodi, e utilizzando tensioni di comando appropriate. Sono oggi in via di sviluppo anche sistemi in cui invece di un unico specchio deformabile si usa una matrice di microspecchi inclinabili a piacimento, per una migliore correzione del fronte d’onda.

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suoi raggi sono rigorosamente paralleli; ma attraversando l’atmosfera la direzione dei raggi cambia in modo casuale, ed il fronte d’onda viene distorto.

Se lo si guarda su lunghezze di scala uguali od inferiori al parametro di Fried, il fronte appare comunque pressoché piano, ma inclinato di volta in volta in maniera diversa. Ciò si traduce in una diversa direzione apparente in cui la stella viene vista, ovvero da un movimento della stella sul piano focale (in inglese si usa il termine tilt-up). Per correggere tale difetto non è necessario uno specchio deformabile complesso e costoso, è sufficiente uno specchio rigido inclinabile a piacimento lungo due assi, e con un tempo di risposta sufficientemente piccolo. Tale specchio dovrà quindi anche essere piuttosto piccolo e leggero, in modo da poter essere agevolmente mosso da trasduttori piezoelettrici o attuatori elettromagnetici. Questo tipo di compensazione semplice, comunque inutile per telescopi a diametro troppo ridotto (nei quali il tilt-up non è quasi osservabile), può essere usato con visibile efficacia fino a rapporti di D/r0 non troppo elevati. Il

massimo di guadagno in chiarezza dell’immagine si ottiene per D/r0=2.6 circa.

Considerando invece telescopi di dimensioni considerevoli, si ritorna al fenomeno più generale dell’aberrazione, consistente nella distorsione non trascurabile del fronte d’onda. L’ottica adattiva in grado di compensare perfettamente l’immagine raccolta al suolo dovrebbe quindi correggere il fronte d’onda con almeno un attuatore per ogni areola di dimensioni r0. Questo richiederebbe circa

300 attuatori per un telescopio di classe 4m, e 1200 per un classe 8m. Spesso, per motivi di costo, si fanno delle compensazioni solo parziali, con un numero di attuatori tra qualche decina e qualche centinaio.

Per poter correggere l’aberrazione tramite la distorsione dello specchio deformabile, è però necessario compiere una preventiva osservazione di una stella sufficientemente brillante, per valutare la distorsione da compensare. E tale distorsione è fortemente dipendente dalla posizione osservata sulla volta celeste: si usa l’espressione di campo isoplanatico per indicare la regione di cielo all’interno della quale le distorsioni ottiche di due qualsivoglia oggetti celesti sono in sostanza uguali. La dimensione angolare del campo isoplanatico si chiama angolo isoplanatico. Usare una stella di riferimento che si trovi ad una distanza maggiore dell’angolo isoplanatico per derivare la deviazione del fronte d’onda non porterebbe ad alcun beneficio. Valori tipici di tale angolo sono compresi tra qualche arcosecondo e pochissimi minuti d’arco.

Se all’interno del campo isoplanatico non si hanno oggetti sufficientemente luminosi da poter essere usati come riferimento, si creano problemi ulteriori. Diventa quindi essenziale la cura che si pone nel sensore di forma d’onda, in modo da garantirne la maggiore sensibilità possibile: si preferiranno rivelatori con grande efficienza quantica e ridotto rumore di lettura. Un classico

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sensore è quello nella forma di Shack-Hartman, in cui una schiera di microlenti produce una moltitudine di immagini della stessa stella e su queste singole immagini è possibile ricavare il tilt-up locale, e da questo derivare la forma del fronte d’onda. Un’alternativa più recente riguarda proprio l’utilizzo dei sensori SPAD2.

Se nemmeno con sensori molto raffinati si riescono ad ottenere risultati soddisfacenti, si può ricorrere alla possibilità di creare delle stelle artificiali, da poter piazzare a piacimento sulla volta celeste in modo da formare un’immagine di riferimento. Grazie ad uno strato di sodio che ci sovrasta a circa 90km d’altezza e dello spessore di circa una decina di chilometri, è possibile, mediante eccitazione con luce laser, rendere luminosa una parte di questo strato così da avere, virtualmente, una “lampadina” al sodio (sintonizzata quindi sulla lunghezza d’onda di 589nm). Un sistema di questo tipo è ad esempio oggi utilizzato al Lick Observatory, sul monte Hamilton, vicino San Jose, in California.

Grazie a queste tecniche di ottica adattiva, unitamente a sistemi interferometrici su scale dell’ordine delle centinaia di metri, è - o sarà - possibile l’osservazione di dettagli circa due ordini di grandezza più fini di quanto osservato in passato. Già oggi i maggiori osservatori astronomici mondiali dispongono di sistemi di ottica adattiva più o meno raffinati. E’ impossibile prevedere cosa questo ci permetterà di scoprire, ma non è troppo azzardato pensare che tutti questi sforzi non saranno stati spesi invano.

Ad esempio, probabilmente, presto si riusciranno ad osservare, per la prima volta, pianeti in sistemi stellari extrasolari, la cui esistenza è provata oggi solamente da verifiche indirette. Infatti l’alone luminoso apparente della stella, creato dagli effetti dell’atmosfera terrestre, avvolge l’intera orbita di un pianeta eventualmente orbitante attorno ad essa. Bisogna inoltre considerare l’enorme differenza nella luminosità tra una stella ed un pianeta: ad esempio, tra la luminosità del Sole e quella del nostro gigante gassoso, Giove, c’è un fattore 1010. Cercare di osservare un pianeta

orbitante attorno ad una stella anche vicina, è quindi come cercare di scorgere una lucciola abbagliati da un grande riflettore, nel più ottimistico dei casi. Con i moderni sistemi di ottica adattiva si spera tuttavia di poter superare tali ostacoli ed osservare finalmente, dapprima almeno nello spettro infrarosso, un pianeta extrasolare.

Nelle figure 1.6, 1.7 ed 1.8, sono mostrati alcuni esempi di quello che con l’ottica adattiva si riesce già oggi ad ottenere.

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Figura 1.6: Galassia NGC 7469, distante 200 milioni d’anni luce, fotografata senza e con sistemi di ottica adattiva.

Figura 1.8: Ammasso globulare NGC 6934 ripreso senza e con sistemi di ottica adattiva dal “Gemini North”.

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Figura 1.8: Immagini della stella V1318 Cyg. Da sinistra verso destra:

senza OA, con OA, elaborazione di 13 immagini prese con OA. Nell’ultima è visibile la debole compagna della stella.

1.3 Layer sensing

Una terza applicazione per la quale è stata richiesta la possibilità di usare il sistema di acquisizione fotonica basato sul sensore SPADA riguarda il layer sensing (LS) atmosferico.

Gli esperimenti in questione vengono attualmente svolti presso l’installazione telescopica William Herschel sull’isola La Palma, nelle Canarie, da un team dipendente dall’inglese University of Durham.

Lo scopo è quello di studiare i vari strati dell’atmosfera terrestre analizzandone da terra le caratteristiche ottiche. Per poter fare ciò, ad intervalli regolari viene sparato verso l’alto un impulso laser. Esso percorre in meno di un millisecondo l’intera atmosfera, attraversandone i vari strati. Studiando in istanti successivi i fotoni di ritorno, si possono desumere le caratteristiche ottiche, e quindi anche fisiche, dei diversi strati (o layers).

Nel caso in esame la frequenza di ripetizione degli impulsi è di 7kHz: in questo modo ogni nuovo impulso corrisponde al ritorno del segnale precedente dall’altezza di circa 21.5km. Questa è quindi la quota entro la quale si ha l’area di studio. Bisogna anche puntualizzare che con questo metodo non possono essere studiate le basse quote: infatti, per i primi 2.5µs prevalgono dei fenomeni di fluorescenza, provocati dall’elevata potenza dell’impulso laser, a causa dei quali non avrebbe senso fisico uno studio dei dati provenienti dal sensore di fotoni in questo intervallo temporale, corrisponde ad un percorso del raggio di circa 500m.

Quello che deve fare il sistema di layer sensing è fondamentalmente l’acquisizione di dieci immagini provenienti dall’array di sensori ogni impulso di ripetizione, secondo la seguente temporizzazione: i primi 2.5µs dopo l’arrivo dell’impulso di sincronizzazione con l’invio del raggio

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laser, bisogna solo attendere che si esauriscano i fenomeni di fluorescenza; quindi per i successivi 130µs vengono acquisiti in diversi registri i conteggi relativi a 10 slot temporali, lunghi 13µs ciascuno, corrispondenti a 10 diversi layer atmosferici di profondità 2km circa; a questo punto si attende un nuovo segnale di sincronizzazione.

Alternativamente, si potrebbero suddividere i fotoni rilevati in un numero differente di slot temporali, di diversa durata. Se si volesse ad esempio usare una risoluzione di 15 slot temporali di acquisizione per ogni periodo dell’impulso laser, tali slot dovrebbero avere durate di circa 9µs.

Il ciclo totale di acquisizione deve essere ripetuto per un determinato numero di volte; i dati vengono salvati dapprima in una memoria “shift register” locale, per poi essere scaricati su un computer remoto.

Figura 1.9: Schema temporale approssimato del modello di acquisizione per LS.

10 9 8 7 6 5 4 3 2 1

Attesa di un nuovo impulso di sincronizzazione.

Dieci acquisizioni consecutive, lunghe 13µs ciascuna.

Attesa dell’esaurirsi delle fluorescenze. t 143µ

2.5µs 132.5µ

Figura

Figura 1.1: (a) Supernova comparsa nella galassia NGC 4725 tra il 1940 ed il 1941. Notare la  luminosità dell’esplosione, confrontabile con quella dell’intera galassia
Figura 1.2: Una stella nova fotografata al minimo e durante l’esplosione.
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