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Capitolo 1 Introduzione

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Capitolo 1

Introduzione

Il mantenimento degli animali particolari ed esotici in cattività ha origini antiche (IUDZG/IUCN/SSC, 1993; Finotello, 2004). L’obiettivo primario era, però, il divertimento del pubblico, infatti in passato la concezione di zoo era ben diversa da quella attuale e l’idea di creare parchi zoologici con uno scopo educativo e scientifico si è sviluppata solo di recente (www.bioparco.it; Finotello, 2004).

Il Decreto Legislativo del 21 marzo 2005 n. 73 (www.parlamento.it), noto come “legge zoo”, detta norme in materia di Giardini Zoologici, definendoli come strutture, pubbliche o private, aperte al pubblico, che espongono animali vivi di specie selvatiche, anche nate ed allevate in cattività. Tali strutture devono necessariamente partecipare a ricerche scientifiche e programmi di formazione per la conservazione della specie, tutto ciò garantendo il benessere degli animali ospitati.

Tra i compiti di un moderno giardino zoologico, negli ultimi anni ha assunto particolare importanza quello di contribuire alla salvaguardia della diversità di forme di vita esistenti nel nostro pianeta (IUDZG/IUCN/SSC, 1993; Finotello, 2004; Cavicchio, 2007). La conservazione della natura e della biodiversità è quindi divenuta la vera missione del giardino zoologico (IUDZG/IUCN/SSC, 1993; Cavicchio, 2007).

Attualmente gli zoo di tutto il mondo portano avanti programmi di riproduzione per centinaia di specie animali (IUDZG/IUCN/SSC, 1993; Finotello, 2004; Gippoliti, 2004). Le ricerche nel campo della riproduzione, del comportamento, della nutrizione e di altri settori della medicina veterinaria sono essenziali per garantire non solo la salute delle popolazioni mantenute in cattività, ma anche la sopravvivenza delle popolazioni allo stato selvatico (Gippoliti, 2004).

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Secondo il Decreto Legislativo 73/2005 il medico veterinario è responsabile del benessere animale, conseguito attraverso l’attuazione di programmi di profilassi, cura, alimentazione e ambientazione e di sanità pubblica; inoltre è un operatore fondamentale nei progetti di conservazione della biodiversità ed ha un ruolo di sanità pubblica, monitorando le zoonosi e facendo rispettare le norme igieniche e di sicurezza ad operatori e pubblico (Ghelfi, 2006; Cavicchio, 2007).

1.1 Storia

I primi giardini zoologici della storia sono i sontuosi parchi degli antichi re assiri, babilonesi, persiani, egiziani, che avevano come unico scopo l’ornamento delle loro regge. L'Italia vide i primi animali esotici nei serragli ambulanti dei sacerdoti venuti dall'Egitto e dalla Grecia e nei

circulatores, esibitori di bestie feroci (Autori vari, 1935; www.bioparco.it).

Durante l'Impero romano la passione per i giochi venatori era tale che tutti gli imperatori, per accattivarsi il favore popolare, li resero sempre più sontuosi; ci fu quindi la necessità di costruire enormi reparti, nei quali gli animali potessero essere raccolti, allevati e addomesticati (Autori vari, 1935; www.bioparco.it; Finotello, 2004). Nacque quindi il Vivarium, così chiamato perché conteneva animali vivi. Il Vivarium comprendeva celle per animali feroci e campi per quelli docili, era quindi un vero e proprio giardino zoologico. Anche i giardini imperiali ospitavano collezioni di animali esotici come manifestazione di lusso, uno dei più celebri era quello di Nerone al Palatino (Autori vari, 1935; www.bioparco.it).

Nel Medio Evo ci fu l’usanza da parte dei principi di collezionare animali esotici, che vennero spesso rappresentati negli stemmi come simboli delle città (Autori vari, 1935; www.bioparco.it).

Soltanto nel Rinascimento nacquero parchi ospitanti animali selvatici per il bisogno crescente di adorare la natura e le sue manifestazioni, ma anche allora il possesso di un parco zoologico da parte dei principi italiani era considerato dimostrazione di ricchezza. Il primo in Italia fu Lorenzo il

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Magnifico, che istituì a Firenze un serraglio famoso per qualità e quantità di animali selvatici, con i quali dava spettacoli di combattimenti (Autori vari, 1935; www.bioparco.it).

Nel XVIII secolo ci fu una evoluzione negli studi zoologici, i fenomeni naturali assunsero infatti interesse scientifico. I parchi zoologici non furono più soltanto una manifestazione di lusso, ma un campo di indagini. Il giardino zoologico, inteso nel vero senso scientifico, non sorse che alla fine del secolo (Autori vari, 1935; www.bioparco.it). Comunque già nel 1657 Luigi XIV, per un desiderio dell'Accademia di Francia, creò a Versailles, Parigi, una Ménagerie d'animali esotici, per favorire gli studi dei naturalisti dei suoi tempi. Il Principe Eugenio di Savoia nel 1716 creò un giardino zoologico al Belvedere presso Vienna. Contemporaneamente Augusto I di Sassonia ne fondava uno a Dresda, Germania, mentre a Loo, in Olanda, ne sorgeva un altro, grande per la quantità e qualità di animali provenienti dall'Africa, dalle Indie, e dall'America (Autori vari, 1935; www.bioparco.it; Finotello 2004). In Germania, in quasi tutte le città, i giardini zoologici furono considerati un pubblico dovere. Generalmente però le strutture lasciavano a desiderare dal punto di vista tecnico ed estetico, in quanto consistevano in ampi fabbricati destinati ad accogliere le gabbie degli animali (Autori vari, 1935; www.bioparco.it). Carlo Hagenbeck, con il suo Giardino di Stellingen, il famoso Tierpark, ad Amburgo, rivoluzionò il modo di progettare e costruire gli zoo. Hagenbeck iniziò nel 1848 il commercio di animali esotici e pensò di dare agli animali in cattività maggiore libertà, compatibilmente alle esigenze di spazio ed alla sicurezza dei visitatori, in modo che ciascuna specie animale potesse vivere in un ambiente il più possibile fedele al proprio habitat naturale. Gli animali non vivevano più in gabbie ma in caverne aperte al sole, chiuse per tre lati da alte muraglie e per un lato divise dal pubblico da profondi fossati, nel caso dei carnivori; spaziosi recinti per gli erbivori; laghetti per gli uccelli acquatici; ampie

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distese per i grandi uccelli di ogni genere; dirupi e rocce per scimmie e piccoli mammiferi, e, in mezzo a questi naturali paesaggi, grandi uccelliere per passeracei, fagiani e gallinacei di ogni genere (Autori vari, 1935; www.bioparco.it; Finotello, 2004 ). Così ai problemi di ordine zoologico vennero ad associarsi problemi di estetica e di botanica.

È possibile affermare comunque che la nascita dei giardini zoologici moderni è avvenuta con l’inaugurazione del parco zoologico di Vienna, l'Imperial Menagerié, aperto al pubblico nel 1765. L'Italia si è unita con un secolo di ritardo al movimento scientifico che portò alla nascita dei giardini zoologici (Autori vari, 1935; www.bioparco.it). Soltanto Vittorio Emanuele II, appassionato cacciatore, arricchiva i Giardini di Stupinigi, Torino, e di Boboli, Firenze, di animali esotici (Autori vari, 1935; www.bioparco.it; Finotello, 2004).

Oggi in Europa in tutte le capitali di Stato si trova un giardino zoologico. In Italia il più grande e noto è il Bioparco di Roma, creato a Villa Borghese nel 1911, sotto la diretta supervisione di Hagenbeck (Autori vari, 1935; www.bioparco.it; Finotello, 2004). Con il tempo, queste Istituzioni si sono diversificate fra loro tanto che oggi si va da zoo di impostazione "classica", con collezioni faunistiche generiche, a strutture che sono invece specializzate nell'allevamento di determinati gruppi animali, come gli Acquari, i Parchi per Uccelli, i Centri Primati e i Parchi-Safari (IUDZG/IUCN/SSC, 1993; www.bioparco.it; Finotello, 2004).

1.2 Il moderno parco faunistico

Il moderni parchi faunistici sono istituzioni aperte al pubblico adibite al mantenimento di animali domestici, selvatici ed esotici opportunamente gestiti e destinati a fini scientifici, conservazionistici, culturali e ricreativi (Finotello, 2004). Possiamo considerare quindi parchi faunistici i parchi ed i giardini zoologici, le collezioni faunistiche specializzate, gli zoosafari ed i vivari, anche se sono istituzioni profondamente diverse per il tipo di

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animali, l’impostazione architettonica e i diversi metodi di diffusione delle informazioni (Finotello, 2004). In particolare i parchi ed i giardini zoologici sono strutture debitamente delimitate, con ricoveri per animali concepiti in base alle esigenze di vita degli stessi e non esiste una netta distinzione qualitativa fra queste due istituzioni (Finotello, 2004). Esiste invece differenza da un punto di vista quantitativo, cioè nell’estensione delle strutture e nella conseguente organizzazione architettonica e gestionale. Sono considerati giardini zoologici le strutture sistemate su aree inferiori a 20 ettari che possono quindi trovarsi nelle città o alla periferia di queste, mentre i parchi zoologici hanno una estensione maggiore, sono esterni e non necessariamente vicini alle città (Finotello, 2004). Entrambi devono comunque ospitare collezioni “rappresentative” anche se il primo ha funzione divulgativa e di sensibilizzazione, mentre il secondo ha il ruolo primario di centro per l’allevamento di specie minacciate (Finotello, 2004). Gli zoosafari sono istituzioni sorte negli anni 60 in Inghilterra. Concepiti concettualmente per lo svago, sono situati su vaste aree, solitamente spoglie di alberi, con un regime di ampia libertà per gli animali. La visita degli zoosafari è permessa con veicoli a motore, lungo un tragitto predefinito, in modo tale da non pregiudicare l’equilibrio degli animali esibiti. La struttura è circondata da una doppia recinzione in rete, provvista anche di fili elettrici per evitare eventuali fughe. Doppi recinti separano anche i diversi settori degli animali, in particolare l’accesso alle aree che ospitano gli animali pericolosi è condizionato dall’apertura di doppi cancelli, controllati da guardiani posti su torrette (Finotello, 2004).

1.3 La Biodiversità

La biodiversità è la diversità tra gli ecosistemi, le specie e le popolazioni (Gippoliti, 2004; www.bioparco.it; www.mondomarino.net; www.dianosostenibile.it). Anche l’uomo ne fa parte e sfrutta i servizi che questa ci offre (cibo, acqua, energia e risorse), garantendo la sopravvivenza

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della vita sulla Terra (Balmford et al. 2005; Autori vari, 2007; www.parcodellacollinadisancolombano.it; Beta.wwf.it; www.bioparco.it). Esistono vari motivi per mantenere una elevata biodiversità. La perdita di specie o sottospecie comporta infatti un danno che può essere culturale, per la conseguente mancanza di conoscenza di queste specie; scientifico, per la ridotta disponibilità di geni e informazioni sul pianeta che ne deriva; economico, per le diminuite risorse genetiche potenziali; ecologico, per il degrado della funzionalità degli ecosistemi (Autori vari, 2007; www.parcodellacollinadisancolombano.it; www.wikipedia.org).

Negli ultimi anni molte agenzie governative e non si sono interessate a questo problema (Fonseca e Benson, 2003; Finotello, 2004; Gippoliti, 2004). Sono stati firmati accordi internazionali, come la Convenzione di Washington o Convenzione sul commercio internazionale della specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione (Convention on International Trade in Endangered Species of wild fauna and flora-CITES), a cui hanno aderito più di 120 nazioni. La Convenzione di Washington regolamenta il commercio internazionale delle specie minacciate e dei loro derivati (pelli, avorio, ossa ecc.), includendole in tre diverse appendici (Finotello, 2004; Gippoliti, 2004; www.cites.org).

Nell’Appendice I si trovano le specie più a rischio, che non possono essere commerciate a meno che non provengano da allevamento artificiale. In Appendice II sono incluse specie non minacciate il cui commercio deve essere però regolamentato. L’Appendice III elenca popolazioni di particolari Stati per cui si richiedono dei controlli. La CITES è uno strumento divenuto fondamentale per la conservazione di molti organismi del pianeta (Gippoliti, 2004; www.cites.org).

Per la salvaguardia della biodiversità sono nate inoltre organizzazioni come l’Unione Mondiale per la Conservazione (International Union for Conservation of Nature Resources-IUCN) (Finotello, 2004). L’IUCN è

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un’organizzazione indipendente non governativa, famosa per la stesura della Lista Rossa delle specie minacciate, strumento efficace per agire in difesa della biodiversità. La Lista Rossa viene pubblicata ogni due anni ed elenca tutte le specie viventi minacciate di estinzione (Gippoliti, 2004; www.iucnredlist.org).

1.3.1 La Convenzione sulla Biodiversità

La Convenzione sulla Biodiversità, adottata a Nairobi, Kenya, il 22 maggio 1992, è stata aperta alla firma dei paesi durante il Summit Mondiale dei Capi di Stato a Rio de Janeiro nel giugno 1992, per questo motivo è detta Convenzione di Rio (www.wikipedia.org; www.europa.eu). L’obiettivo della Convenzione è quello di conservare la biodiversità del pianeta tramite l’uso e la divisione equa dei prodotti dell’utilizzazione delle risorse genetiche (Gippoliti, 2004; www.europa.eu). Secondo questa convenzione, la conservazione della biodiversità degli ecosistemi è fondamentale per mantenere la produttività di questi e quindi la loro capacità di fornire i servizi (cibo, acqua, energia e risorse) necessari all'uomo (www.europa.eu; www.mondomarino.net). Nel secondo Summit della Terra, tenutosi nel 2002 a Johannesburg, in Sud Africa, è stato deciso di ridurre significativamente la perdita di biodiversità entro il 2010, il cosiddetto Target 2010 (Balmoford et al., 2005; www.wikipedia.org). Molti sono gli aspetti da affrontare per il raggiungimento di questo obiettivo. Uno di questi è la salvaguardia delle specie in via di estinzione. La conservazione effettuata negli ambienti naturali di tali specie e definita in-situ non è sempre possibile a causa dell’alto rischio di estinzione di queste specie e/o per il forte cambiamento dell’habitat, si rende quindi necessario attuare piani di conservazione ex-situ che si svolgono invece al di fuori dall'ambiente naturale delle specie e quando possibile parallelamente alla conservazione in-situ. Tali piani di conservazione prevedono ad esempio

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generazioni filiali, tali attività sono quindi attuate anche dai giardini zoologici, acquari e giardini botanici (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it; www.wikipedia.org). I giardini zoologici hanno infatti le potenzialità e posseggono la competenza per dedicarsi alla conservazione della natura. Per raggiungere questo traguardo è necessario agire seguendo un percorso ben delineato (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it) 1.3.2 La Strategia Mondiale degli Zoo per la Conservazione

La Strategia Mondiale degli Zoo per la Conservazione è nata da un'iniziativa dell'IUDZG, “L'Organizzazione Mondiale degli Zoo" e del C.B.S.G., il “Gruppo di Specialisti nella Riproduzione delle Specie in Cattività”, che fa capo alla “Commissione per la Sopravvivenza delle Specie dell'IUCN” - L'Unione Mondiale per la Conservazione. La Strategia Mondiale degli Zoo per la Conservazione ha come scopo la salvaguardia delle specie selvatiche, dei loro habitat naturali e degli ecosistemi che stanno rapidamente scomparendo dal nostro Pianeta e quindi la conservazione della biodiversità (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; Finotello, 2004; www.bioparco.it). La Strategia si rivolge in particolare ai Giardini Zoologici che sono organizzati in Associazioni, esistenti a livello nazionale in molti Paesi del mondo e a livello regionale in diversi continenti. A livello globale, la Comunità degli Zoo è rappresentata dall'IUDZG (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; Finotello, 2004; www.bioparco.it).

Gli zoo possono agire a favore della conservazione su diversi piani. L'educazione è un compito essenziale considerando la quantità e la qualità del pubblico degli zoo, che include tutti i livelli e gli strati della Società, quindi è possibile, tramite tali strutture, accrescere nel pubblico la consapevolezza dell’importanza della natura (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it; Finotello, 2004). Le popolazioni ex-situ degli zoo sono gestite in modo tale da essere di supporto alla sopravvivenza delle specie allo stato libero (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it; Finotello,

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2004). L’allevamento ex-situ degli animali consente infatti di ridurre il prelievo degli individui dal loro habitat, limitando la riduzione delle popolazioni libere e di acquisire, tramite la ricerca, conoscenze importanti nel campo della biologia per la conservazione in-situ (Finotello, 2004); inoltre, se gestito in maniera adeguata, esso può fornire preziose riserve genetiche per la sopravvivenza delle specie in natura (IUDGZ/CBSG/SSC,

1993; www.bioparco.it). Le specie in cattività potranno essere salvaguardate solo se verrà garantito

un soddisfacente livello di longevità, riproduzione e benessere dei singoli animali. Le conoscenze sulle tecniche di mantenimento degli animali selvatici sono state notevolmente approfondite negli ultimi anni e hanno dato buoni risultati (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it).

Sebbene il numero totale di specie la cui sopravvivenza può essere salvaguardata grazie all'aiuto diretto dei programmi ex-situ sia limitato, a volte, le specie prese in considerazione sono "specie-chiave" nei loro habitat e la loro conservazione è determinante per molte altre specie dello stesso ambiente. Ancora più frequentemente, le specie oggetto dei programmi ex-situ possono essere utilizzate come "specie-simbolo", suscitando interesse da parte del pubblico nei confronti della conservazione delle originarie aree naturali (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it). Gli zoo sono quindi istituzioni che possono integrare i tre principali compiti finalizzati alla conservazione: l'educazione ambientale, la ricerca e la conservazione delle specie e del loro habitat (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it).

1.4 Il medico veterinario

Il medico veterinario che lavora presso i giardini zoologici è una figura professionale specializzata ed esperta in una disciplina definita “zoo medicine” (Laricchiuta, 2007). Questa disciplina è riconosciuta nel

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contesto della medicina veterinaria, molte sono infatti nel mondo le facoltà universitarie che tengono corsi di specializzazione di “zoo medicine”. La medicina zoologica comprende la conoscenza della sistematica, dell’anatomia, della fisiologia, delle scienze alimentari, del comportamento, delle patologie e della clinica medica e chirurgica delle varie specie animali esotiche e selvatiche, oltre che le conoscenze di base della medicina veterinaria (Finotello, 2004; Laricchiuta, 2007). Con il Decreto Legislativo 73/2005 la figura del Medico Veterinario che lavora presso una struttura zoologica è stata maggiormente definita, attribuendo a questo il compito di garantire del benessere degli animali ospitati negli zoo, di cooperare in progetti per la conservazione della biodiversità e di garante della sanità pubblica.

1.4.1 Salute e Benessere animale nei giardini zoologici

Nei giardini zoologici oltre all’elevato numero di animali si aggiunge anche la molteplicità delle specie ospitate; queste infatti presentano diverse caratteristiche biologiche, comportamentali ed anche patologie diverse. È necessario quindi che il medico veterinario di uno zoo conosca profondamente queste differenze, per poter garantire la salute, il benessere e la sopravvivenza di ogni singolo individuo. Inoltre anche il personale operante con gli animali deve avere competenze sempre più specifiche in campo biologico e veterinario (Pierbattisti, 2007).

Il benessere degli animali deve essere conseguito tramite l’applicazione di piani di medicina preventiva, una idonea alimentazione, la giusta ambientazione, il controllo sanitario e la cura degli animali (Ghelfi, 2006). Negli zoo, per un animale che manifesta i sintomi di una malattia probabilmente esiste già il 50% di probabilità che sia troppo tardi per effettuare una terapia risolutiva; si rende necessario quindi intervenire sull’animale sano tramite piani di profilassi idonei, tutelandolo dal contagio di malattie anche tramite l’applicazione di piani di quarantena per i nuovi

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esemplari giunti allo zoo che possono rappresentare serbatoi di patogeni (Finotello, 2004).

Un piano di profilassi efficace è dato da una buona conoscenza del territorio, delle specie in esame, del metodo di somministrazione dei farmaci e della loro efficacia, oltre che da uno staff veterinario esperto (Laricchiuta, 2007). La tematica riguardante la gestione degli ambienti e degli animali viene ampiamente approfondita nel Decreto Legislativo 73/2005 (www.parlamento.it). Secondo questo decreto, gli ambienti in cui gli animali vivono devono avere dimensioni, temperatura, illuminazione e ventilazione idonei alle esigenze di ogni specie animale in ogni fase della vita (femmine gravide, animali appena nati e animali di recente introduzione nello zoo); inoltre, essi devono essere dotati di arricchimenti idonei per le specie che ospitano (lettiere, rami, tane etc..) ed i recinti adiacenti devono ospitare specie animali che non siano in conflitto tra loro per evitare stress; il cibo e l’acqua devono essere, da un punto di vista qualitativo e quantitativo, idonei alle necessità di specie ed individuali (giorni di digiuno, periodi di letargo, diete terapeutiche, età, taglia, condizioni fisiche, momenti fisiologici particolari ecc..) e somministrati in modo tale che ogni animale possa accedervi seguendo il proprio comportamento naturale.

Il controllo sanitario atto a verificare lo stato di salute degli animali deve essere routinario e comporta, da parte del medico veterinario, una conoscenza specifica del contenimento farmacologico e dell’effetto di questo sulle diverse specie, quando gli animali non sono collaborativi e potenzialmente pericolosi (Laricchiuta, 2007).

Le patologie riscontrabili all’interno di uno zoo possono essere genericamente classificate in tre gruppi: da errori gestionali, infettive e parassitarie (Pierbattisti, 2007).

Gli errori di gestione, specialmente sulle specie più sensibili e con maggiori difficoltà di adattamento, rappresentano gran parte delle cause che stanno

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alla base della comparsa di patologie talvolta gravi. Diete improprie, spazi insufficienti, scarsa igiene, coabitazioni inopportune, temperatura ed umidità inadeguate possono determinare l’insorgere di patologie sia comportamentali che organiche talvolta gravi (Pierbattisti, 2007).

Le patologie parassitarie possono essere sostenute sia da ectoparassiti che endoparassiti non necessariamente ospite-specifici. La trasmissione degli agenti parasitari è favorita, nel caso degli zoo, dalla stretta coabitazione degli animali (Naidu, 2000; www.frontlineonnet.com; Finotello, 2004), oltre che dalla introduzione di nuovi parassiti con l’introduzione di esemplari parassitati provenienti in particolare da aree naturali tropicali o subtropicali (Finotello, 2004). Alcuni parassiti possono essere inoltre trasmessi da animali domestici o selvatici della fauna urbana che possono avere facile accesso a recinti e gabbie. Lo stesso vale per le patologie infettive di origine batterica, virale o fungina. Particolare attenzione deve essere quindi rivolta, oltre che all’igiene dei recinti, al controllo degli esemplari di nuovo arrivo e degli animali serbatoi di patologie, quali topi, volpi, gatti ed uccelli di varie specie, che possono facilmente entrare in contatto con gli animali ospitati nei giardini zoologici (www.merckvetmanual.com; Klauss, 2007; Pierbattisti, 2007).

1.4.2 Il medico veterinario e la Biodiversità

Le popolazioni animali in via di estinzione presenti nei giardini zoologici sono gestite come una vera e propria “metapopolazione” poiché interagiscono con le popolazioni allo stato libero per la riproduzione di queste (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993). Appositi programmi di ripopolamento, denominati EEP-European Endangered Species Program, registrano tutti i dati genealogici dei soggetti presenti con lo scopo di garantire la massima variabilità genetica per il maggior numero possibile di anni, in vista di possibili reintroduzioni (Cavicchio, 2007).

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Le “metapopolazioni” di animali in pericolo di estinzione ospitati presso gli zoo rappresentano una fonte di geni importantissima (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; Ghelfi, 2006) e dovrebbero essere gestite in modo tale da essere di supporto alla sopravvivenza delle specie allo stato libero (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it).

Nei giardini zoologici la gestione ottimale, la salute ed il benessere degli animali sono quindi essenziali per il raggiungimento degli obiettivi scientifici e culturali (IUDGZ/CBSG/SSC, 1993; www.bioparco.it; Gippoliti, 2004), il medico veterinario è una figura importante per il mantenimento della biodiversità, essendo esperto di “zoo medicine” (Ghelfi, 2006) e quindi responsabile della sopravvivenza e del benessere di ogni singolo individuo.

1.4.3 Il medico veterinario e la Sanità Pubblica

Il programma di medicina preventiva da applicare in un giardino zoologico deve essere specifico per la moltitudine di specie animali che vi si trovano e per la frequente esposizione, soprattutto degli operatori, a materiali organici. La sorveglianza sanitaria richiede quindi una stretta collaborazione tra il medico veterinario dello zoo, il servizio veterinario delle A.A.S.S.L.L. ed il medico del lavoro (Klaus et al., 2000). I punti fondamentali di un adeguato piano di medicina preventiva sono tre: il controllo sanitario regolare degli animali, la sorveglianza sanitaria del personale ed il controllo delle modalità gestionali per evitare il contatto tra animali e visitatori (Klaus, 2007).

Il controllo sanitario degli animali deve essere fatto, nel contesto della sanità pubblica, in particolare nei confronti di malattie trasmissibili all’uomo e si attua grazie a visite, esami di laboratorio ed una corretta gestione della quarantena di animali arrivati da altre strutture (Klaus, 2007). La quarantena è uno strumento di prevenzione che da buoni risultati e notevoli garanzie quando opportunamente applicata, i tempi e le modalià

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di osservazione e gli interventi terapeutici e profilattici devono infatti variare in relazione alle specie in oggetto e alla malattia sospettata (Finotello, 2004). Nel caso delle malattie parassitarie, gli animali devono essere esaminati con tecniche diagnostiche specifiche, ad ex. test per dirofilariosi, e trattati con farmaci attivi su endo ed ecto-parassiti (www.merckvetmanual.com). Devono essere controllati anche gli animali appartenenti alla fauna urbana, quali gatti, topi e uccelli, che possono essere vettori di molti agenti patogeni tra cui anche quelli zoonotici (Klaus, 2007).

Gli operatori ed i visitatori dei giardini zoologici sono sottoposti a rischi di varia entità di tipo biologico, chimico e fisico (Ghelfi, 2006). Il rischio di infortuni in un giardino zoologico è elevato per la presenza di animali potenzialmente aggressivi, si rende quindi necessaria la valutazione del livello di sicurezza delle strutture di contenimento. Il rischio chimico è dato dall’eventuale contatto del personale, nel corso delle attività veterinarie, con polveri, areosol, vapori, gas anestetici e radiazioni. Il rischio biologico è dato dal contatto, da parte degli operatori, con gli animali durante le attività di cura, come la pulizia, la somministrazione di alimenti (Klaus et

al, 2000). Il medico veterinario deve collaborare con il datore di lavoro

come esperto nell’individuazione delle situazioni a rischio e segnalare le potenziali e probabili zoonosi (Ghelfi, 2006).

1.5 Le parassitosi negli zoo

La salute ed il benessere degli animali ospitati negli zoo è importante per il ruolo economico, scientifico e culturale che questi rivestono. La perdita di ogni esemplare comporta un danno economico per le strutture ospitanti, che sono solitamente private, ed (IUDZG/IUCN/SSC, 1993; Gippoliti, 2004) una perdita di risorse genetiche fondamentali per il mantenimento della biodiversità nel caso delle specie a rischio di estinzione. Inoltre, gli zoo

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sono strutture in cui animali e uomo vengono spesso a contatto, quindi come già detto, la salute di questi è fondamentale per la tutela della sanità pubblica, essendo potenziali serbatoi di agenti patogeni trasmissibili all’uomo (Klaus et al., 2000; Campolo, 2007; Klaus, 2007).

Le malattie parassitarie sono un problema importante, anche responsabili di morte di intere collezioni di animali (Finotello, 2004), probabilmente per il difficile adattamento di alcune specie animali che potremmo definire “fragili” e quindi maggiormente suscettibili all’azione dei patogeni (Pierbattisti, 2007). La convivenza tra parassita e ospite condiziona il benessere degli animali determinando sindromi cliniche e/o iporendimento nel caso degli animali da produzione (Ambrosi, 1995), mentre nel caso degli animali ospitati negli zoo il mancato benessere impedisce il raggiungimento degli obiettivi scientifici e culturali preposti (Gippoliti, 2004). Questo perché, oltre alle principali alterazioni date da parassiti, come l’anemia, i quadri carenziali, le alterazioni gravi a carico dei vari apparati ed organi nei quali si localizzano questi patogeni, sono possibili anche quadri collaterali come disendocrinie, ipofecondità ed aborti (Casarosa, 1980; Ambrosi, 1995). Le alterazioni sostenute dai parassiti possono influire quindi direttamente o indirettamente sulla sfera riproduttiva (Harvey e Pertridge, 1982; Hamilton e Zuk, 1982; Endler e Lyles, 1989; Genchi et al., 1991), oltre che determinare in casi gravi la morte degli stessi soggetti (Perrin e Powers, 1980; Manfredi et al., 1988; Genchi et al., 1991).

La presenza di parassiti è spesso una conseguenza di molti fattori (Ambrosi, 1995), tra cui il livello di contaminazione ambientale che è in stretta connessione con la densità animale (Genchi et al., 1991; Ambrosi, 1995; Urquhart et al., 1996). Gli zoo sono quindi ambienti suscettibili di elevata contaminazione parassitaria, soprattutto per la frequente elevata densità di animali della stessa specie in ambienti spesso ristretti, come i recinti (Naidu M. K., 2000; www.frontlineonnet.com). Inoltre, le

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caratteristiche delle strutture e dei recinti, la vicinanza degli animali e lo stato fisiologico indotto dalla vita in cattività sono caratteristiche che favoriscono la trasmissione dei parassiti (Gracenea et al. 2002). Le parassitosi a ciclo oro-fecale, che hanno nell’ambiente la principale, e spesso unica, fonte di infestazione/infezione (Genchi et al., 2007), sono un problema costante soprattutto nelle specie trattenute in exhibit e recinti o in terreni e pascoli contaminati, in particolare per esemplari giovani, di nuova introduzione o stressati (www.merckvetmanual.com). Negli zoo è quindi di fondamentale importanza che i recinti rimangano puliti il più a lungo possibile, anche perché il limitato spazio di un recinto porta gli animali a compiere azioni che allo stato naturale non compierebbero, come la coprofagia (Finotello, 2004). Inoltre l’elevata varietà di specie animali presenti negli stessi spazi garantisce la diffusione dei parassiti non strettamente ospite specifici. L’elevata densità influisce inoltre sull’immunità dell’ospite, condizionando quindi il rapporto ospite-parassita (Genchi et al., 1991).

La modificazione del rapporto tra ospite e parassita è alla base degli episodi di malattia nei soggetti che presentano una carica parassitaria tale da non determinare normalmente sintomatologia (Urquhart et al., 1998). La gestione degli animali ha un ruolo importante per il mantenimento della salute e del benessere di questi, specialmente nel caso di specie “fragili”. Gli animali possono essere affetti da patologie talvolta gravi se alimentati impropriamente e ospitati in spazi insufficienti con igiene, temperatura ed umidità non idonee (Pierbattisti, 2007). Ad esempio lo stato di nutrizione influisce in modo importante sulla resistenza nei confronti dei parassiti, infatti animali alimentati in modo adeguato sono in grado di tollerare meglio la presenza dei parassiti (Urquhart et al., 1998). La resistenza naturale dell’ospite può essere dovuta a refrattarietà o a resistenza di specie, di razza, di linea genetica di popolazione, di famiglia o individuale, legata al sesso o all’età (Ambrosi, 1995). Gli esemplari giovani, di nuova

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introduzione o stressati sono quelli più frequentemente affetti da parassitosi (www.merckvetmanual.com). In particolare la situazione immunitaria dell’ospite influisce sulla sopravvivenza di questo e sul mantenimento del parassita nell’ambiente (Genchi et al., 1991). La compromisione del sistema immunitario degli animali può derivare dallo stress indotto dalla vita in cattività che può determinare la cronicità delle parassitosi (Gracenea

et al., 2002). I piani di medicina preventiva dei giardini zoologici

includono tutte le pratiche che tendono a fortificare le resistenze genetiche ed immunologiche alle malattie, oltre che procurare una sana nutrizione e minimizzare le esposizioni agli agenti patogeni (Finotello, 2004).

Il mantenimento di condizioni igieniche adeguate negli ambienti in cui vivono gli animali riveste un ruolo importante nel garantire buone condizioni psicofisiche. I recinti devono rimanere puliti il più a lungo possibile, garantendo comunque “i punti di latrina” (Finotello, 2004). In molti zoo sono applicati protocolli igienico-sanitari che differiscono spesso da recinto a recinto, condizionati tra l’altro dal tipo di substrato e dalla specie mantenuta. Fondamentale è la rimozione di detriti organici di qualsiasi natura, mentre le disinfezioni sono considerate aggiuntive o straordinarie (Finotello, 2004).

L’aumento di ceppi farmaco-resistenti di popolazioni parassitarie è un problema da considerare in quelle situazioni in cui le misure di controllo sono applicate di routine (Urquhart et al., 1998).

La costante reinfezione/reinfestazione degli animali ospitati negli zoo dovuta al mantenimento degli animali della stessa specie in spazi ridotti, spesso determina lo sviluppo di resistenza da parte degli animali nei confronti dei parassiti ma anche dei stessi parassiti verso farmaci antiparassitari e antisettici utilizzati di routine nella medicina preventiva (www.merckvetmanual.com). E’ inoltre necessario estendere alla medicina veterinaria, ed in particolare alla zoo medicine, gli studi sulla tossicità, gli effetti indesiderati e sulla efficacia dei medicinali (Naidu, 2000;

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www.frontlineonnet.com). La scelta dei farmaci deve essere fatta con attenzione per la specie-specificità di efficacia di alcune molecole; inoltre, per impedire o rallentare la comparsa dei fenomeni di farmaco-resistenza, è importante non usare sempre lo stesso principio attivo (www.merckvetmanual.com).

1.6 Le zoonosi

Le zoonosi sono quelle malattie e/o infezioni/infestazioni trasmissibili naturalmente dagli animali all'uomo causate da batteri, virus o parassiti definiti agenti zoonotici (Direttiva 92/117/CEE; www.antropozoonosi.it). Negli ultimi anni è notevolmente aumentata l’attenzione per gli agenti responsabili di zoonosi che derivano dal mondo animale selvatico, inclusi i parassiti (Polley, 2005; Bengins et al., 2004). Questi patogeni hanno infatti un forte impatto sulla salute umana, sulla produzione agricola, sull’economia e sulla conservazione della natura (Bengins et al., 2004). L’insorgenza di questi patogeni è associata ad un aumento della popolazione umana, della frequenza e della velocità dei viaggi locali ed internazionali, al cambiamento delle pratiche agricole e ai cambiamenti ambientali e ad un aumento degli spostamenti di animali e di prodotti animali (Bengins et al., 2004).

Gli animali selvatici e gli uccelli sono considerati la maggiore fonte di patogeni emergenti per l’uomo (Daszak et al., 2000; Polley, 2005).

Baylascaris procionis, Strongyloides fülleborni, Toxocara canis, Trichostrongylus spp., Cryptosporidium spp. e Giardia spp. sono alcuni

parassiti di notevole interesse zoonotico che possono facilmente venire a contatto con l’uomo perché molto diffusi nell’ambiente; tra questi

Cryptosporidium spp., Gairdia spp. e Toxocara canis possono inoltre

contagiare l’uomo con il cibo e l’acqua. Altri parassiti, quali Dirofilaria spp. e Leishmania spp., sono trasmessi all’uomo tramite artropodi vettori (Polley, 2005). Tra gli animali, sia domestici che selvatici, i carnivori sono

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identificati come la maggiore fonte di agenti zoonotici parassitari seguiti da ungulati, roditori e primati non umani (Polley, 2005). Il livello di contaminazione ambientale, in stretta connessione con la densità animale (Genchi et al., 1991; Ambrosi, 1995; Urquhart et al., 1998), è importante nel determinare zoonosi da elminti e da protozoi a ciclo oro-fecale che rappresentano un problema attuale di non trascurabile interesse ed importanza sanitaria (Genchi et al, 2007). Situazioni di elevato livello di contaminazione ambientale e di densità degli animali si riscontrano spesso negli zoo.

Nella Sanità Pubblica le collezioni zoologiche e gli animali liberi in natura sono storicamente elencati tra i rischi di trasmissione di zoonosi (Chomel e Osburn, 2006). I giardini zoologici sono luoghi in cui il passaggio degli agenti patogeni all’uomo è altamente probabile, essendo luoghi in cui animali esotici e selvatici sono detenuti ed aperti ad un ampio pubblico di ogni fascia di età (Campolo, 2007; www.evd.admin.ch), oltre all’elevato rischi biologico a cui è sottoposto il personale (Klaus et al, 2000).

1.7 Endoparassitosi Criptosporidiosi

La Criptosporidiosi è una parassitosi, a diffusione cosmopolita, sostenuta da protozoi del genere Cryptosporidium (Phylum Apicomlexa, Famiglia Cryptosporidiidae). Nei mammiferi, i protozoi del genere Cryptosporidium si riscontrano prevalentemente a livello dell’intestino tenue di molte specie animali, sia domestiche che selvatiche. Il ciclo biologico è diretto, cioè si completa in un solo ospite, che si contagia ingerendo le oocisti mature, dalle quali si liberano a livello intestinale quattro sporozoiti i quali si localizzano nelle cellule della mucosa dei microvilli (Ambrosi, 1995; Urquhart et al., 1998; Genchi, 2002a; Thompson et al., 2007). Da ogni sporozoita, passando dalla stadio di trofozoita e di schizzonte, si formano

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4-8 merozoiti. Dopo una o due generazioni schizogoniche, alcuni merozoiti divengono microgamonti o macrogamonti e producono rispettivamente microgameti e macrogameti. Questi si uniscono dando origine alle oocisti. Le oocisti, che sporulano nell’ospite, sono di 2 tipi: oocisti con parete sottile, che si apre direttamente nell’intestino dell’ospite inducendo una reinfezione; oocisti con parete spessa, forma di resistenza, che sopravvive nell’ambiente esterno, permettendo la diffusine da un individuo ad un altro (Urquhart et al, 1998; Genchi, 2002a). Il periodo di pre-patenza varia nell’ambito delle diverse specie ospiti e delle specie di Cryptosporidium (Genchi, 2002a).

Il parassita altera la mucosa dell’ileo determinando riduzione delle dimensioni, rigonfiamento e fusione dei villi colpiti con conseguente riduzione della superficie di assorbimento (Thompson et al., 2007). Clinicamente i soggetti colpiti possono manifestare diarrea, depressione, anoressia e dolore addominale; in particolare, se immunodepressi, debilitati o stressati il parassita può aumentare il proprio potere patogeno e favorire l’insorgere di altre patologie batteriche, virali o parassitarie (Urquhat et al., 1998; Thompson et al., 2007). La diarrea è indotta soprattutto dai danni determinati dal parassita alle cellule, dal rilascio di metaboliti da parte dell’ospite e la produzione di sostanze enterotossiche da parte del parassita (Genchi, 2002a).

La parassitosi è diagnosticata tramite l’evidenziazione delle oocisti nel materiale fecale sia tramite flottazione (Genchi, 2002a), che con strisci fecali colorati con metodica Ziehl-Neelsen modificata, osservati al microscopio ottico (Ambrosi, 1995; Urquhart et al.,1998), oppure tramite la ricerca di coproantigeni del parassita per mezzo di kit ELISA (Genchi, 2002a) o delle oocisti con l’immunofluorescenza (Katanik et al., 2001). Le varie specie e genotipi di Cryptosporidium sono di solito morfologicamente indistinguibili all’osservazione microscopica e non possono essere distinte neanche con i test ELISA (Genchi, 2002a) o con l’immunofluorescenza; si

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rende quindi necessario l’utilizzo di tecniche molecolari per il riconoscimento delle specie, tecniche molto dispendiose e quindi solitamente impiegate negli studi epidemiologici (Xiao et al., 2004; Thompson et al, 2007).

Infezioni da Cryptosporidium sono state riportate in un ampio spettro di specie di mammiferi appartenenti ai diversi ordini e in numerose specie di rettili ed uccelli. Gli studi molecolari hanno permesso di distinguere 14 specie di Cryptosporidium e molti genotipi (Xiao et al, 2004; Alves et al., 2005).

Tabella 1.1 Specie di Cryptosporidium e ospiti maggiori

Specie Ospiti maggiori

C. muris Roditori

C. parvum Ruminanti e uomo

C. meleagridis Uccelli C. wrairi Cavie C. felis Gatto C. serpentis Rettili C. baileyi Pollame C. saurophilum Lucertole C. galli

C. andersoni Ruminanti domesrici

C. canis Cane

C. molnari Pesce

C. hominis Uomo

C. suis Maiale

Le diverse specie di Cryptosporidium si sono adattate ad un determinato range di ospiti, ma questo non significa che non possano infettare altre specie animali (Xiao et al., 2004).

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Alcune delle specie di Cryptosporidium non sono responsabili di zoonosi, altre invece hanno un ampio range di ospiti tra i quali anche l’uomo, come per esempio C. parvum (Genchi, 2002a; Thompson et al, 2007). La criptosporidiosi è un’importante zoonosi che può colpire in particolare bambini (Thompson et al, 2007) e soggetti immunodepressi (Urquhart et

al.,1998; Thompson et al, 2007). C. parvum e C. hominis sono responsabili

della maggior parte delle infezioni umane (Alves et al., 2003; Xiao et al., 2004), mentre C. meleagridis, C. canis e C. felis sono stati isolati in soggetti immunocompromessi (Xiao et al., 2004). Studi svolti su animali da compagnia hanno svelato che cani e gatti non sono importanti riserve zoonotiche per infezioni da Cryptosporidium, essendo questi infettati solitamente da C. canis e C. felis. Mentre sono molto importanti i contatti tra uomo e ruminanti da reddito (Thompson et al., 2007). L’elevata prevalenza di C. hominis negli uomini indica che questi sono la maggior fonte di infezione per la criptosporidiosi umana. Mentre per le altre specie di interesse zoonotico la trasmissione è data dal contatto L’infezione umana può avvenire anche indirettamente tramite acqua o cibo contaminati (Genchi, 2002a; Xiao et al., 2004). La specie più frequentemente isolata in campioni di acqua e cibo è C. parvum (Xiao et al., 2004).

Nei soggetti immnocompetenti la sintomatologia, che tende a regredire dopo una decina di giorni, si manifesta con una diarrea più o meno grave, ricorrente e autolimitante, talvolta possono essere presenti anche vomito, dolore e crampi addominali e febbre. Più grave l’infezione nei bambini o negli anziani, dove spesso si deve ricorrere all’ospedalizzazione e a terapie di sostegno. Negli immuno-deficienti o immuno-compromessi la malattia causa vomito, diarrea cronica acquosa e nei casi più gravi, morte per disidratazione (Genchi, 2002a).

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Eimeriosi

Le eimeriosi sono parassitosi causate da protozoi del genere Eimeria (Phylum Apicomplexa, Ordine Eucoccidida, Famiglia Eimeridae). I parassiti, ad alta specie specificità e diffusione cosmopolita, solitamente si localizzano a livello intestinale, soprattutto nel caso dei mammiferi. Le oocisti mature sono la forma infettante del parassita. Le dimensioni delle oocisti variano da pochi micron a qualche decina di micron; la forma può essere sferica, subsferica, ovoidale, ellissoidale. Presentano una doppia parete, provvista o meno di capsula polare, ed a volte interrotta internamente in un punto detto micropilo. Le oocisti immature presentano all’interno lo sporonte, sono emesse con le feci nell’ambiente dove avviene la sporulazione (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998; Klinkenberg e Heesterbeek, 2005; Perrucci et al., 2007): dallo zigote si formano 4 sporocisti, con all’interno 2 sporozoiti ciascuna (Casarosa, 1985; Urquhart

et al., 1998; Allen e Fetterer, 2002). Dopo l’ingestione da parte dell’ospite

delle oocisti mature, gli sporozoiti si liberano, entrano nelle cellule epiteliali della mucosa intestinale ed evolvono in trofozoiti, dai quali originano i merozoiti che distruggono vaste aree della mucosa intestinale fuoriuscendo dalle cellule epiteliali intestinali. La morfologia ed il tempo di sporulazione delle oocisti variano con il variare della specie e sono utili per l’identificazione di queste (Casarosa, 1985; Ambrosi, 1995; Perrucci et al., 2007).

Le lesioni a carico della mucosa intestinale possono essere di varia entità in base alla densità ed alla patogenicità del parassita. Nelle infezioni gravi la distruzione è tale da determinare gravi emorragie, mentre in quelle lievi si riscontra riduzione dell’assorbimento da parte della mucosa (Urquhart et

al., 1998). Nella forma acuta i soggetti manifestano febbre, diarrea

sanguinolenta, dimagrimento e anemia, nella forma cronica hanno luogo solo saltuari episodi diarroici; infatti, una volta superata la fase sintomatica

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dell’infezione gli animali possono diventare portatori sani (Casarosa, 1985).

La diagnosi si basa sull’isolamento delle oocisti in campioni fecali ed al rilevamento dei segni clinici (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998; Perrucci et al, 2007).

Giardiasi

Parassitosi causata da protozoi del genere Giardia (Phylum Sarcomastigophora, Ordine Diplomonadida, Famiglia Hexamitidae).

Il protozoo è caratterizzato da simmetria bilaterale, dotato di otto flagelli, due nuclei e un disco adesivo sul lato ventrale del corpo, necessario per aderire alle cellule dell’epitelio intestinale (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998). Il ciclo biologico è diretto e gli animali si infettano ingerendo cisti multinucleate, che possono sopravvivere per molto tempo nell’ambiente e anche nell’acqua (Urquhart et al., 1998; Thompson et al., 2007). Il periodo pre-patente può variare da 5 a 21 giorni a seconda della specie. Molte specie e genotipi possono infettare solo alcune particolari specie animali, mentre altre possiedono un ampio range di ospiti, compreso l’uomo (Thompson et al., 2007).

Giardia infatti è causa frequente di diarrea e altre manifestazioni

gastrointestinali in animali domestici, selvatici e uomo, in particolare in soggetti giovani, immunodepressi o sottoposti a stress (Urquhart et al., 1998; Thompson et al., 2007; Smith et al., 2007).

La sintomatologia è associata ad atrofia dei villi e riduzione dei microvilli intestinali con ridotta attività enzimatica, perdita della funzione della barriera intestinale e aumento della permeabilità (Buret, 2007; Thompson

et al., 2007).

La diagnosi si basa sul rilevamento delle cisti o trofozoiti nelle feci (Urquhart et al., 1998; Thompson et al., 2007). Metodi molecolari possono essere utilizzati soprattutto per il riconoscimento di specie anche se, per il

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loro costo, essi sono solitamente impiegati negli studi epidemiologici, molto importanti visto il potenziale zoonotico di questo parassita (Thompson et al., 2007).

G. duodenalis è l’agente eziologico della giardiasi in un’ampia varietà di

mammiferi incluso l’uomo (Coklin et al., 2007; Smith et al., 2007). Gli isolati di questa specie mostrano una estrema variabilità genetica dimostrata grazie all’utilizzo di tecniche diagnostiche molecolari che hanno permesso di riconoscere sette assemblaggi diversi di G. duodenalis (Smith

et al., 2007).

Tabella 1.2 Specie e rispettivi ospiti di Giardia

Specie Ospiti maggiori

G. duodenalis Uomo e altri primati, cane, gatto,ruminanti

domestici, roditori e altri mammiferi selvatici.

G. enterica Uomo e altri primati, cane

G. agilis Anfibi G. muris Roditori G. psittaci Uccelli G. ardeae Uccelli G. canis Cane G. cati Gatto G. bovis Bovini G. simondi Ratti Balantidiosi

Parassitosi sostenuta da protozoi del genere Balantidium (Phylum Ciliophora, Famiglia Balantidiidae).

Il parassita presenta un corpo ricoperto di ciglia, che gli conferiscono mobilità, due nuclei, un citostoma, cioè un’apertura per la prensione degli

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alimenti, e un citopigio, apertura per l’eliminazione dei prodotti di rifiuto (Urquhart et al., 1998).

In particolare la specie Balantidium coli, a diffusione cosmopolita, parassita i suini e occasionalmente altre specie animali compresi ratti e primati (Yazar et al., 2004). Vive nell’intestino crasso degli ospiti, come commensale e si riproduce per scissione binaria (Casarosa, 1985; Urquhart

et al., 1998; Anargyrou et al., 2003). La forma infettante è la cisti eliminata

con le feci, sferica o ovale, del diametro di 45-65 µm (Yazar et al., 2004), dotata di una parete spessa, attraverso la quale è possibile osservare il parassita (Urquhart et al., 1998).

Le cisti raggiungono l’intestino crasso in seguito alla loro ingestione, sviluppano la forma vegetativa, che di norma non è patogena anche se, per motivi non ancora chiari, talvolta può determinare ulcerazioni della mucosa con conseguente dissenteria (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

La diagnosi si basa sul rilevamento delle cisti o trofozoiti nelle feci (Anargyrou et al., 2003).

Balantidium coli è l’unico parassita della Famiglia Balantidiidae che può

infettare e essere patogeno per l’uomo, soprattutto nei soggetti immuno-compromessi, determinando fenomeni diarroici (Anargyrou et al., 2003; Ferry et al., 2004; Yazar et al., 2004). Raramente il parassita può invadere organi e tessuti extra-intestinali (Anargyrou et al., 2003).

Il parassita può infettare l’uomo tramite acqua e vegetali crudi contaminati oppure in modo diretto, per via oro-fecale (Ferry et al 2004; Yazar et al., 2004).

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Leishmaniosi

Parassitosi sostenuta da protozoi del genere Leishmania (Phylum Sarcomastigophora, Ordine Kinetoplastida, Famiglia Tripanosomatidae). Il protozoo ha un ciclo biologico indiretto, in cui intervengono un ospite vertebrato, un mammifero, e un vettore, un insetto del genere Phlebotomum (Gramiccia e Gradoni, 2005). Il parassita vive nell’ospite vertebrato all’interno di monociti e macrofagi, nella forma di amastigote. Gli amastigoti sono ingeriti dal flebotomo durante un pasto di sangue, nel vettore passano alla forma di promastigote, si moltiplicano e migrano a livello della proboscide, pronto per infettare un nuovo ospite mediante una puntura. Nell’ospite vertebrato i promastigoti sono fagocitati da monociti e macrofagi (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

Molte sono le specie conosciute di Leishmania raggruppate in complex da Zuckerman e Lainson (1977).

La sintomatologia nel cane è estremamente variabile, è infatti possibile osservare un solo sintomo o la combinazione di più segni clinici. I soggetti solitamente sono colpiti da un forte dimagrimento, atrofia muscolare con un tipico aspetto a “cane vecchio”. Comuni sono le manifestazioni cutanee con desquamazione dello strato corneo dell’epidermide, dermatosi ulcerativa, dermatite nodulare o postulosa, paronichia e ipercheratosi nasale e digitale. Le mucose di solito appaiono pallide ed è possibile riscontrare linfoadenopatia dei linfonodi periferici. L’epistassi è un sintomo molto frequente, solitamente a carattere intermittente ed unilaterale. A livello oculare è possibile osservare l’insorgenza di congiuntiviti, cheratiti superficiali e profonde, uveite anteriore e sclerite. L’insufficienza renale è fra i segni clinici più importanti e può essere causa di morte (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

La diagnosi si basa sull’evidenziazione del protozoo in strisci di midollo osseo o di puntati linfonodali (Urquhart et al., 1998), la dimostrazione di

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anticorpi anti-Leishmania circolanti con metodi sierologici e l’identificazione tramite tecniche di biologia molecolare quali la polimerase chain reaction (PCR) delle specie coinvolte (Mancianti et al., 1994; Urquhart et al., 1998; Mancianti, 2004; Gramiccia e Gradoni, 2005).

La leishmaniosi nell’uomo è classificata come viscerale, cutanea e mucocutanea. La leishmaniosi viscerale causata da L. infantum e L.

donovani colpisce soprattutto i bambini (Gramiccia e Gradoni, 2005),

determinando anemia, leucopenia, trombocitopenia e epatosplenomegalia, con prognosi infausta se non trattata. Numerosi casi sono stati segnalati anche in soggetti affetti da AIDS (Urquhart et al., 1998; Gramiccia e Gradoni, 2005).

Ascaridiosi

Le ascaridiosi sono parassitosi sostenute da nematodi della Famiglia Ascarididae. I parassiti adulti sono grandi e bianchi. Vivono liberi nell’intestino tenue dell’ospite, dove si accoppiano. Le femmine sono ovipare e depongono uova non embrionate che raggiungono l’ambiente esterno tramite le feci dell’ospite, dove sviluppano al loro interno, in condizioni di temperatura ed umidità idonee, lo stadio larvale L2 è infestante (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

Il ciclo biologico è diretto e l’infestazione avviene tramite l’ingestione di larve al secondo stadio di maturazione. Ospiti paratenici possono essere infestati contribuendo alla diffusione del parassita, che migra nei loro tessuti. L’ospite proprio può quindi infestarsi ingerendo sia uova contenenti larve L2, che ospiti paratenici nei quali le larve, a livello dei tessuti, sono ancora vive (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998; Genchi, 2002b).

Mentre gli adulti causano ostruzione e malassorbimento a carico dell’intestino, le larve possono essere responsabili di lesioni patologiche a vari organi nel corso delle loro migrazioni sia negli ospiti propri che negli

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ospiti paratenici (VLM-Visceral Larva Migrans) (Casarosa, 1985; Urquhart

et al., 1998; Genchi, 2002b).

Toxocara cati

Ascaride a diffusione cosmopolita che, allo stadio adulto, infesta gatto e felidi selvatici a livello dell’intestino tenue (Sprent, 1956; Casarosa, 1985; Parsons, 1987; Urquhart et al., 1998). Il parassita è stato isolato anche in tigre (Sprent, 1956; Prescott, 1981; González et al., 2007) e leone (Sprent, 1956; Prescott, 1981; Bjork et al., 2000).

Allo stadio adulto è un verme bianco con ali cefaliche ampie che gli conferiscono un tipico aspetto a punta di freccia (Sprent, 1956; Casarosa, 1985; Urquhart et al, 1998).

Il ciclo biologico varia a seconda che l’ospite ingerisca uova larvate oppure larve presenti nel latte materno o nei tessuti di ospiti paratenici. Le larve L2 ingerite con le uova migrano per via ematica e linfatica al fegato, attraverso la vena cava caudale raggiungono il cuore destro e quindi i polmoni, ritornano nel lume gastrico in seguito a deglutizione. Mentre le larve L2 ingerite con il latte materno o con gli ospiti paratenici non migrano, ma si accrescono e mutano nella parete e nel lume dello stomaco (Casarosa, 1985; Parsons, 1987; Urquhart et al, 1998).

Il periodo prepatente è di circa 8 settimane (Urquhart et al, 1998).

Nelle femmine in gravidanza alcune L2, ingerite durante la gravidanza o già presenti nei tessuti, migrano a livello mammario grazie ai cambiamenti ormonali e all’aumento del flusso ematico a livello delle ghiandole mammarie, tipici di questa fase. Ciò determina il contagio post-natale dei cuccioli attraverso il latte. In seguito a contagio trans-mammario le larve non migrano, probabilmente perchè hanno già compiuto la migrazione e sono maturate precedentemente (Swerczek et al., 1971; Coati et al 2007). La maggior parte delle infestazioni sono dovute all’assunzione del latte materno o per ingestione di ospiti paratenici. Ne consegue l’assenza della

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fase migratoria, quindi la sintomatologia è di tipo intestinale con “addome a botte”, diarrea e ritardo della crescita (Parsons, 1987; Urquhart et al, 1998). I parassiti adulti a livello intestinale possono determinare ostruzioni, perforazioni intestinali e talvolta ittero conseguente ad ostruzione delle vie biliari, anche se solitamente la sintomatologia da macroascaridiosi è attenuata, con episodi diarroici di lieve entità ed uno scarso dimagrimento. La sintomatologia, associata alla migrazione delle larve varia a seconda dei tessuti colpiti, determina l’insorgenza di processi flogistici inizialmente di tipo emorragico (Casarosa, 1985).

La diagnosi è data dal riconoscimento delle uova in seguito ad esami delle feci. Le uova sono ovoidali o subsferiche, misurano 65 µm x 75 µm, hanno una spessa parete con superficie finemente granulosa; all’interno la massa embrionale non differenziata è scura ad occupa quasi tutto lo spazio disponibile (Parsons, 1987; Gonzalez et al, 2007).

Toxocara cati è un parassita occasionale degli uomini (Sprent, 1956;

Genchi, 2002b), nei quali può determinare migrazione delle larve agli occhi (OLM- Ocular Larva Migrans) ed ai visceri (VLM-Visceral Larva Migrans) (Genchi, 2002b; González, 2007). L’uomo si infesta tramite l’ingestione accidentale di uova larvate, o più raramente, di larve presenti nella carne poco cotta o cruda di ospiti paratenici. I soggetti colpiti possono manifestare dolori addominali, epatomegalia, allergia e infiammazione polmonare cronica con tosse asmatica e febbre, miocarditi ed epilessia con disturbi di comportamento, quando le larve si localizzano a livello viscerale. La localizzazione oculare determina retinocoroiditi e retiniti periferiche, solitamente unilaterali che possono determinare la perdita della vista (Genchi, 2002b).

Toxascaris leonina

Ascaride a diffusione cosmopolita che può infestare cane, gatto, canidi e felidi selvatici (Casarosa, 1985; Urquhart et al, 1998). Il parassita è stato

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evidenziato anche nella tigre (Sprent, 1959; Prescott, 1981; González et al., 2007) e nel leone (Sprent, 1959; Prescott, 1981; Bjork et al., 2000). Allo stadio adulto vive a livello dell’intestino tenue, è caratterizzato da testa lanceolata che lo distingue da Toxocara cati (Casarosa, 1985; Urquhart et

al, 1998). Le larve L2 ingerite dall’ospite proprio hanno un’evoluzione limitata all’apparato gastroenterico, la migrazione è infatti limitata alla parete intestinale. Nel lume intestinale si sviluppa lo stadio adulto in seguito a varie mute (Wright, 1935; Sprent, 1959; Parsons, 1987). Il periodo prepatente è di 11 settimane (Urquhart et al, 1998). Occasionalmente, in particolare nelle infestazioni importanti, alcune larve attraversano la parete intestinale e raggiungono alcuni organi dove possono mutare nel terzo stadio larvale. Le larve che raggiungono i polmoni possono tornare nel lume intestinale in seguito a migrazione tracheale e deglutizione, raggiungendo con probabilità lo stadio adulto (Wright, 1935; Sprent, 1959; Parsons, 1987). Le larve L2 ingerite dall’ospite paratenico evolvono in L3 e si localizzano nelle sedi somatiche in ipobiosi; una volta ingerite dall’ospite definitivo completano la muta nel lume intestinale diventando adulti (Casarosa, 1985).

Toxascaris leonina è uno degli ascaridi meno patogeni, poiché raramente

compie migrazioni in organi e tessuti, non determina infestazioni prenatali o trans-mammarie ed ha un lungo periodo prepatente che permette ai cuccioli di crescere prima della comparsa della sintomatologia, prettamente gastro-intestinale. I soggetti colpiti presentano infatti vomito e diarrea, causati dall’irritazione data dal parassita nella parete e nel lume intestinale (Parsons, 1987).

La diagnosi è data dal riconoscimento delle uova in seguito ad esami delle feci. Le uova sono sferiche od ovali, misurano 60-75 µm x 75-85 µm, la parete è spessa con superficie liscia, all’interno la massa embrionale non differenziata è chiara e composta da 1 o 2 globuli sferici che occupano solo una parte dello spazio disponibile (Parsons, 1987; Gonzalez et al, 2007).

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Neosacris (sin. Toxocara) vitulorum

Ascaride, diffuso soprattutto nelle regioni calde e in quelle tropicali, che può infestare allo stadio adulto bovini e bufali a livello dell’intestino tenue (Casarosa, 1985; Urquhart et al, 1998). Il parassita è stato isolato anche nello yak (Roy et al., 1986; RangaRao et al., 1994). Il ciclo inizia con l’ingestione delle uova larvate o della larva presente nel latte (Urquhart et

al, 1998). Le uova si schiudono a livello gastrico, per via ematica e

linfatica arrivano al fegato, raggiungono il cuore destro attraverso la vena cava caudale e quindi i polmoni. La migrazione continua in modo diverso in base all’età del soggetto. Nei soggetti di età inferiore ai 6 mesi le larve raggiungono l’intestino in seguito a deglutizione, dove diventeranno adulti. Il periodo di prepatenza è di 20-22 giorni. Nei soggetti di età superiore ai 6 mesi di vita raramente hanno luogo infestazioni patenti, le larve rimangono quiescenti nei vari tessuti, si mobilitano in gravidanza grazie ai flussi ormonali (Urquhart et al, 1998). Il contagio trans-placentare è possibile, le larve si localizzano a livello di fegato e polmoni del feto dove rimangono quiescenti fino alla nascita. Dopo il parto concludono la migrazione raggiungendo l’intestino. Le larve ingerite con il latte non migrano nell’organismo, ma lo sviluppo ad adulto avviene nell’intestino in tre o quattro settimane (Urquhart et al, 1998).

La migrazione delle larve determina ipersecrezione bronchiale con tosse e dispnea nella fase di transito nell’apparato respiratorio, fenomeni di colica durante la migrazione entero-epatica. Nei vitelli con infestazioni gravi da parassiti adulti si osserva anoressia, dimagrimento, ritardo della crescita, coliche, diarrea, raramente accompagnate da sintomi di peritonite per perforazione intestinale (Casarosa, 1985 Ambrosi, 1995).

Con l’esame microscopico è possibile mettere in evidenza le uova, confermando il sospetto clinico. Queste si presentano con guscio spesso e

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granuloso, la massa embrionale non è segmentata, misurano 70-95 µm x 60-70 µm (Casarosa, 1985).

Tricocefalosi

Parassitosi, a diffusione cosmopolita, sostenuta da nematodi del genere

Trichuris (Ordine Trichuridea, Famiglia Trichuridae).

I parassiti si localizzano nel grosso intestino, in particolare nel cieco di varie specie di mammiferi. Sono vermi lunghi 4-6 cm circa, denominati “vermi a frusta” per la loro morfologia (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

Lo stadio infestante è l’uovo che, una volta ingerito, libera la larva L1, la quale penetra nelle ghiandole della mucosa del cieco, dove muta svariate volte fino a raggiungere lo stadio L5. Il quinto stadio larvale emerge sulla superficie della mucosa rimanendovi infisso con la parte anteriore del corpo. In questa posizione il parassita muta nello stadio adulto. Il periodo prepatente varia da 6 a 12 settimane a seconda della specie (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

Solitamente l’infestazione decorre in modo asintomatico, solo nel caso di gravi infestazioni è possibile verificare infiammazioni a carico della mucosa del cieco, che determinano grave dimagrimento con diarrea acquosa (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998).

La diagnosi si basa sull’evidenziazione delle uova nelle feci (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998; Yoshikawa et al, 1989).

La specie parassita di uomo (Urquhart et al., 1998; Stephenson et al., 2000) e scimmie (Myers e Kuntz, 1965; Munene et al., 1998;) è Trichuris

trichiura ma altre specie sono state isolate nell’uomo, come T. suis

(Casarosa, 1985). T. trichiura determina sintomatologia in particolare nei bambini che manifestano dissenteria cronica, malnutrizione, anemia e ritardo della crescita (Stephenson et al., 2000). La diagnosi si effettua in

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base alla sintomatologia ed evidenziando le uova, di dimensioni medie di 57 µm x 26 µm (Yoshikawa et al, 1989), nelle feci.

Strongiloidosi

Parassitosi sostenuta da nematodi del genere Strongyloides (Ordine Rhabdiasidea, Famiglia Rhabditoidea).

Il parassita, a diffusione cosmopolita, vive nell’intestino tenue di molte specie di mammiferi compreso l’uomo. Gli adulti sono vermi sottili, lunghi circa un centimetro (Urquhart et al., 1998). Solo la femmina e alcuni stadi larvali sono parassiti e si distinguono dalle forme a vita libera grazie all’aspetto dell’esofago, che è filiforme nelle forme parassitarie, mentre presenta un bulbo nei vermi liberi, ed è detto rabditoide (Casarosa, 1985). Il parassita si può riprodurre sia durante il ciclo a vita libera, che durante quello parassitario. Le femmine a livello dell’intestino tenue eliminano uova larvate o larve, che passano nell’ambiente esterno tramite le feci dell’ospite (Ambrosi, 1985; Urquhart et al., 1998). Se le condizioni ambientali sono favorevoli, dopo la schiusa e quattro mute, si sviluppano maschi e femmine a vita libera, in caso contrario si sviluppano larve di terzo stadio infestanti che penetrano nell’ospite per via per cutanea e raggiungono l’intestino tenue, dove diventano adulte (Ambrosi, 1985; Urquhart et al., 1998).

La sintomatologia è varia e conseguente alla penetrazione per cutanea, alla migrazione polmonare delle larve ed alla localizzazione a livello enterico degli adulti. In particolare i giovani animali manifestano diarrea, anoressia, abbattimento, perdita di peso o ridotto accrescimento ponderale. Dal punto di vista anatomopatologico è possibile quindi riscontrare reazioni eritematose, focolai emorragici sulla superficie polmonare ed infiammazioni edematose con erosioni epiteliali a livello intestinale (Ambrosi, 1985; Urquhart et al., 1998).

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La diagnosi si basa sull’evidenziazione delle uova o delle larve nelle feci, in seguito a manifestazioni di enterite in soggetti alla prima settimana di vita (Ambrosi, 1995; Urquhart et al., 1998). Le uova sono ovoidali, trasparenti, misurano 40-60 mµ x 20-40 mµ e presentano all’interno la larva già formata, che permette quindi una diagnosi a livello di genere certa (Urquhart et al. 1998).

Strongilosi degli equini

Parassitosi a diffusione cosmopolita, sostenuta da parassiti delle famiglie Strongylididae, Cyatostomidae e Trichostrongylidae (Casarosa, 1985; Urquhart et el., 1998).

Questi parassiti vivono nel cieco e nel colon degli ospiti. Le uova sono eliminate nell’ambiente con le feci. La forma infestante è il terzo stadio larvale, che una volta ingerito compie migrazioni di varia entità a seconda dei generi e delle specie (Casarosa, 1985; Urquhart et el., 1998).

In particolare i parassiti del genere Strongylus sono vermi robusti comunemente indicati con il termine di “grandi strongili”. Le larve infestanti ingerite divengono adulti in seguito a lunghe migrazioni, caratteristiche per ogni specie (Urquhart et el., 1998).

I Cyatostomi sono nematodi di piccole o medie dimensioni, di colore variabile dal rossastro al rosso brillante, comunemente indicati con il termine di “piccoli strongili”. Le larve dei “piccoli strongili” non compiono ampie migrazioni nell’ospite, ma si limitano ad invadere la parete del grosso intestino, dove mutano ad L4 prima di tornare nel lume intestinale (Casarosa, 1985; Urquhart et el., 1998).

I segni clinici sono caratterizzati da abbattimento, anemia e talvolta diarrea, in particolare le migrazioni compiute dalle larve del genere Strongylus possono determinare l’insorgenza di coliche. Alcuni soggetti possono non mostrare alcun segno clinico anche quando intensamente parassitati da ciatostomi che sono responsabili di diminuzione della performance,

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diminuzione dei tassi di crescita, coliche e debilitazione (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998). La diagnosi si basa, oltre che sulla sintomatologia, sull’evidenziazione delle uova in seguito ad esami coprologici (Casarosa, 1985; Urquhart et al., 1998). Le uova presentano parete sottile, sono trasparenti e all’interno si osservano agglomerati di blastomeri. I generi sono identificati in seguito ad allestimento di coprocolture, poiché le uova dei vari generi e specie non sono differenziabili (Ambrosi, 1995; Urquhart, 1998).

Strongilosi gastro-intestinale dei ruminanti

Parassitosi a diffusione cosmopolita, sostenuta da nematodi dell’Ordine Strongylida, appartenenti a generi e specie diversi, delle famiglie Strongylidae, Tirchostrongylidae e Ancylostomatidae, che interessa sia ruminanti domestici che quelli selvatici, in particolar modo se vivono all’aperto (Ambrosi, 1995; Casarosa).

Questi nematodi presentano tutti un ciclo biologico diretto. La forma infestante è la larva di terzo stadio che una volta ingerita penetra nello spessore della mucosa di abomaso ed intestino dove muta in L4, quindi ritorna nel lume di questi organi per diventare adulta e capace di riprodursi. Nel caso del genere Bunostomum sp. le L3 infestanti possono penetrare nell’animale ospite anche attraverso il tegumento. Risulta inoltre possibile la trasmissione verticale mediante la placenta, il colostro ed il latte (Casarosa, 1985; Ambrosi, 1995).

I soggetti colpiti, solitamente giovani, presentano sintomatologia generica, a carattere stagionale (primavera, autunno), caratterizzata da anoressia o disoressia, anemia di varia entità, deperimento, perdita di peso o ridotto incremento ponderale, diarrea di varia intensità o durata, tossicosi cronica, iporendimento o sottoproduzione (Ambrosi, 1995). L’azione patogena è determinata anche da concause come le scadenti condizioni generali,

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ipoalimentazione, squilibri nutrizionali, stress e malattie concomitanti come il poliparassitismo (Ambrosi, 1995).

La diagnosi di strongilosi gastroenterica si basa sul rilevamento dei sintomi clinici e l’identificazione delle uova tramite esami coprologici. Morfologicamente presentano parete sottile, sono trasparenti e all’interno si osservano agglomerati di blastomeri. Per l’identificazione dei generi è necessario l’allestimento di coprocolture, poiché le uova dei vari generi e specie non sono differenziabili con sicurezza tra di loro, l’unica eccezione si ha nel caso di Nematodirus sp. e Marshallagia sp. che sono molto grandi e all’interno presentano uno scarso numero di blastomeri anche essi molto grandi ed evidenti (Ambrosi, 1995; Urquhart, 1998).

Dirofilariosi cardio-polmonare dei carnivori

Parassitosi a diffusione cosmopolita, sostenuta da nematodi della specie

Dirofilaria immitis (Ordine Spirurida; Famiglia Filaridae).

Il parassita adulto è un verme filiforme bianco di 20-30 cm, che vive nell’arteria polmonare e talvolta nella camera cardiaca destra e vena cava caudale di cane e canidi selvatici, felidi e furetto (Casarosa, 1985; Urquahrt

et al., 1998). Il parassita è stato evidenziato anche in esemplari di orso

(Johnson, 1975; Crum et al, 1978).

Il ciclo biologico è indiretto. Le larve al primo stadio sono liberate nel torrente circolatorio. Una volta ingerite dall’ospite intermedio, zanzare appartenenti a diverse specie, si sviluppa la forma infestante L3 che si localizza a livello dell’apparato buccale della zanzara e viene trasmessa ad un altro ospite durante il pasto di sangue. Nel nuovo ospite definitivo le larve migrano nel sottocute dove compiono due mute prima di raggiungere la localizzazione definitiva (Casarosa, 1985; Urquahrt et al., 1998). Il periodo di prepatenza varia da 6 a 8 mesi a seconda della specie colpita (Urquahrt et al., 1998).

Figura

Tabella 1.1 Specie di Cryptosporidium e ospiti maggiori
Tabella 1.2 Specie e rispettivi ospiti di Giardia

Riferimenti

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