GOYA TRA SOGNI, BURLE E REALTÀ Traduzione di Andrea Govi
RINGRAZIAMENTI
Alla dottoressa Manuela Mena Marqués, vicedirettrice del Museo del Prado, e alla dottoressa Rocío Arnaiz per avermi permesso un facile accesso ai documenti. A José Batzán per la sua pazienza e il suo prezioso aiuto nella preparazione del materiale fotografico. A tutto il personale dell’Instituto de
Conservación y Restauración de Bienes Culturales, sempre disposto a
collaborare, e soprattutto ai miei amici dell’équipe scientifica che mi sopportano con stoicismo: Marisa Gómez González, Lola Gayo, Ángela Arteaga, Andrés Sánchez Ledesma, Montse Algueró, Carmen Martín de Hijas, José Vicente Navarro, Araceli Gabaldón e Tomás Antelo.
Al professor José Luis Morales y Marín e al dottor Wifredo Rincón per avermi permesso di utilizzare materiale su Bayeu prima della sua pubblicazione.
Ai medici: Antonio Viladot Pericé, Ricardo Mar Monux e Ana María Dorrego, che hanno gentilmente chiarito tutti i miei dubbi.
Agli “speziali”, dottori in farmacia: Rosa Basante Pol, Santiago Ayala, Juan Carlos Doadrio (il mio “direttore spirituale”) e a tutti gli amici del corso di Chimica inorganica della Facoltà di Farmacia dell’Università Complutense di Madrid.
A Jorge Barandiarán, José Julián Bakedano, Ana e Paloma Sánchez-Lassa, María José Ruiz, Mercedes Bilbao e a tutti i membri del Museo di Belle Arti di Bilbao.
A Joaquín González, Ángel Luis González, Jesús Herrero e Belén Aliste per il loro lavoro, aiuto e affetto.
Al personale delle biblioteche: Museo del Prado, Nazionale, Consejo
Superior de Investigaciones Científicas - Instituto Diego Velázquez, Museo
di Belle Arti di Bilbao e Facoltà di Medicina e Farmacia dell’Università Complutense di Madrid.
A Pilar Areses e Alberto Conde de Oya che hanno letto pazientemente il manoscritto, e a Guillermo Ortiz de Urbina per le sue osservazioni.
E infine, a mio marito, a mio figlio e a Gilda, che hanno mantenuto una rigida dieta alimentare mentre io scrivevo questa “scemenza” con un minimo di fondamento.
1. I SOGNI
…ci sono molte cose in quella Repubblica, che muovono il riso al più saturnino.
Saavedra Fajardo
Dopo aver studiato con una certa attenzione alcuni disegni di Goya conservati al Museo del Prado, mi sono convinta che questi possono essere reinterpretati, con la prudenza che la questione merita, alla luce del saturnismo1 di cui Goya ha sofferto, ipotesi che avevo già avanzato, in modo generico, in un’altra pubblicazione relativa alla sua malattia2.
I disegni di cui ci occuperemo sono autentici documenti grafici dei suoi deliri onirici, nei quali neppure lo stesso autore sa se ha interpretato il ruolo di attore o di spettatore. Fedele notaio delle sue disgrazie, Goya le esprime in modo rapido e sommario, quasi volesse fissare la fugace memoria, e anche se questa chiave di lettura non è il passe-partout che apre tutte le porte del tortuoso corridoio dei suoi pensieri, non dovrebbe essere scartata unanimemente per una nuova, ma dovremmo attribuirle lo stesso valore che hanno avuto fino a oggi l’iconologia, il neoplatonismo, i proverbi, la risaputa tradizione teatrale e letteraria, che ci hanno aiutato molto in altre questioni riguardanti lo stesso pittore. Nello studio di un genio gravemente ammalato, non bisogna disprezzare questa nuova arma, ma accogliere tutto ciò che è accettabile, invece di contrapporre.
1 Intossicazione cronica causata dal piombo.
2 M. T. RODRÍGUEZ TORRES, Goya, Saturno y el saturnismo. Su enfermedad, Fotojae, Madrid 1993, p. 71.
1.1. Un’altra [visione] nella stessa notte
Il primo disegno che affronteremo (fig. 1) fa parte della serie dei Sogni, tutti numerati e vissuti durante la stessa notte, come testimonia lo stesso Goya, e definiti dalla critica specialistica Visioni comiche o grottesche3. Questo gruppo di nove disegni, che sembrerebbe comprensibile nella sua continuità numerica, risulta misterioso nella tematica, a causa della logica involontarietà dei sogni.
Fino ad oggi si è continuato ad accettare, con poche varianti, l’interpretazione fornita da López Rey e da Gassier4 che possiamo riassumere così: un uomo che balla, con il volto di gatto e un berretto militare; interpretazione che successivamente è stata arricchita con l’aggiunta di curiose intenzioni satiriche, sociali o militari attribuite allo stesso Goya.
La spiegazione che propongo per questa visione è molto equilibrata, semplice, e avanzando nella lettura comprenderete che questa asserzione ha una sua logica, anche se si scontra frontalmente con quelle di coloro che mi hanno preceduto nell’analisi di questi disegni, i quali hanno mescolato, a mio giudizio, ebrei e samaritani, uscendo di carreggiata.
In primo luogo, quello che si considera un berretto militare non lo è, poiché all’epoca un tale berretto non esisteva. Riesaminando le uniformi militari di quegli anni non ho incontrato, tra l’equipaggiamento, nessun
3 P. GASSIER – J. WILSON-BAREAU, Vie et œuvre de Francisco Goya, Office du Livre, Editions Vilo, Parigi 1970, p. 283.
4 J. LÓPEZ REY, Goya’s Caprichos, Beauty, Reasons and Caricature, Princeton University Press, Princeton, New Jersey 1953, Cat. 34.
berretto militare da passeggio o da libera uscita, né da caserma che abbia qualcosa in comune con quello del disegno. Scartando il berretto militare da cosacco-mammalucco, che è di pelle e più arrotondato, si nota una leggera somiglianza solo con il morione senza tesa, una sorta di cono tronco rovesciato, fatto con cartone foderato di tela cerata o di panno con la parte superiore in cuoio. Il berretto piatto con la breve tesa a mezzaluna compare più tardi e viene adottato dagli eserciti soltanto agli inizi del XX secolo, quando si realizza la loro uniformità a livello internazionale.
Per poter affrontare la discussione di un problema, il primo passo è la conoscenza degli elementi che lo compongono. Questo principio, molto semplice nel mondo delle scienze esatte, si trasforma in un ginepraio in ambito artistico; da ciò dipende la disseminazione delle interpretazioni. E per non cadere nell’infantile io vedo, vedo… cosa vedi?, consideriamo quello che abbiamo realmente di fronte: un uomo di campagna, lo capiamo dall’abbigliamento e dalle calzature di corda allacciate alla contadina, con un’espressione di sofferenza indicibile, la facies sconvolta, gli occhi fuori dalle orbite e i gesti pieni di angoscia, che geme o grida facendo una smorfia che sembra un conato di vomito. Goya gli ha fatto sparire la parte superiore della testa, ovvero, come si dice in Aragona, gli ha scapezzato “la zucca”, o in termini di medicina legale, gli ha praticato una “sezione trasversale netta e totale della calotta con il suo contenuto celebrale”, sostituendo l’emisfero cerebrale o calotta cranica con una pietra molare che presenta la relativa fenditura per un arcaico asse quadrato5; o meglio, ciò
5 L. DA VINCI, Codice, Trattato di Estetica e Meccanica, in italiano, Codex Madrid I, facsimile, Taurus, Madrid 1974.
P. J. TURRIANO, Los 21 libros de los ingenios de máquinas (II), Prologo di J. A. García Diego, Colegio de Ingenieros de Caminos y Puertos, Ed. Túrner, Madrid 1983, vol. XI. J. CARO BAROJA, Tecnología popular española, Editora Nacional, Madrid 1983.
che sembra più probabile, gli ha sostituito l’intera testa con una mola troncoconica (fig. 2) umanizzata attraverso alcuni tratti angosciosi che, essendo inseriti a forza dentro un cono, le conferiscono un aspetto scimmiesco o gattesco, un aspetto che potrebbe “orripilare” l’osservatore, ma non il protagonista, almeno nel senso letterale del termine, dato che ha perso tutto il pelo.
Questa sostituzione della testa, il cui scopo è simulare una pesante e rumorosa rotazione, ha trasformato questo decapitato o “scapezzato” in un macchinario rudimentale che gira su se stesso come una pietra molare, mentre il contenuto gastrico gli finisce sul petto. Tiene ciò che gli rimane della testa, ovvero la grande mola troncoconica umanizzata, con le due mani nervose che l’aiutano a mantenere la verticalità; però, sotto l’effetto della nausea e sotto il peso della pietra molare e dell’instabilità, allarga con forza le gambe per tenere basso, mezzo accucciato, quasi fosse a cavallo, il centro di gravità del sedere, e per cercare di mantenersi stabile mentre intorno a lui tutto gira. La sensazione vorticosa viene accentuata dalla gamba in secondo piano disegnata con tratto più leggero, non sappiamo se per una correzione del disegno o volontariamente; Goya anticipa così i vignettisti contemporanei.
Ciò che ha voluto esprimere è l’intensa cefalea di cui soffrono questi malati, i quali hanno la sensazione che qualcuno stia strappando loro la parte superiore del cranio, insieme alle vertigini e all’impressione di sentire un rumore assordante (un ronzio nelle orecchie) che Goya stesso provò, come testimoniano le lettere dell’epistolario che si riferiscono alla sua
malattia6. Queste sensazioni le ritroviamo tutte nell’ingente campionario dei sintomi saturnini descritti dagli intossicati, che ritroviamo raccolti nell’amplissima bibliografia esistente sul saturnismo7. Chi ha assistito alla macinatura delle olive capirà perfettamente quello che Goya voleva esprimere.
Credo perciò che la sensazione manifestata dal volto (fig. 3) sia tanto chiara come lo è ciò che l’artista vuole rappresentare: il binomio grido-angoscia causato dallo squilibrio o da qualsiasi altra sua variante, come le vertigini, lo stordimento, il ronzio o l’instabilità. Questo è il nocciolo della spiegazione.
Per disegnare, descrivere o comparare è necessario che il malato conosca ciò che vuole esprimere e abbia un esempio pertinente che gli permetta di associarlo alle sue sensazioni. Nel nostro caso non c’è alcun dubbio che Goya, oltre a soffrire di questo problema, abbia conosciuto e richiamato, nel corso della vita e nella memoria, le diverse tipologie di pietre molari: la mola per affilare i coltelli (fig. 4), la pietra per macinare la farina nel mulino, quella troncoconica per spremere le olive, che in Aragona viene chiamata “molone” (fig. 3), quelle da barbiere, citate spesso da Villarroel nei suoi Sogni morali, e infine l’antica mola pro impresoribus (fig. 5).
La prima volta che rappresenta una di queste pietre, di cui si abbia testimonianza, è nel bozzetto per la Regina Martyrum (fig. 6): collocata
6 Á. CANELLAS LÓPEZ, Francisco de Goya. Diplomatario, Institución Fernando el Católico, Saragozza 1981, lettera LXIX, p. 455.
7 L. TANQUEREL DES PLANCHES, Traité des maladies de plomb, ou saturnines, Parigi 1839, vol. II, p. 160, caso X.
vicino ai piedi dei santi Vincenzo e Valerio, di fianco alla corona d’alloro e alla palma del martirio, possiamo considerarla, senza dubbio, premonitrice del boccone amaro che dovrà mandar giù durante i lavori della Basilica del Pilar e che tanto gli peserà sullo stomaco.
Nonostante la rapida esecuzione, il disegno è perfetto. Ha fallito solo la nostra capacità di leggerlo correttamente, poiché il fatto che alcuni suoi disegni trattino di dolori saturnini non è casuale, ma causale. Tuttavia, non è affatto mia intenzione diffondere neanche per un momento l’idea che il pittore stia dipingendo, con uno specchio di fronte, fasi della sua malattia in un momento culminante, ma di certo lo è constatare che Goya, a partire dalla grande crisi del 1793, diventa sempre più incline al racconto “patografico” in generale e, perché no, a quello “biopatografico”, dato che il fatto di avere una malattia permette di conoscerla e di rappresentarla molto meglio.
Questo disegno è un’allusione diretta di Goya al grido causato dall’angoscia e dallo squilibrio; se lo togliamo dall’insieme delle nove visioni e lo presentiamo come un’opera singola, ci rendiamo conto che contiene una forza espressiva, un’originalità, un senso del movimento e una tensione emotiva tale da richiamare il celeberrimo Urlo di Edvard Munch (fig. 7), suo ipotetico parente stretto se non addirittura figlio.
Secondo Ulrich Bischof8, il professor Robert Rosenblum sosteneva che
l’origine dell’Urlo di Munch fosse da ricercare nella mummia peruviana del Museo de l’Homme di Parigi (fig. 8); ma secondo la nostra opinione, se consideriamo il debito che il nordico ha, in altri temi e disegni, nei confronti
dell’ultimo Goya, la somiglianza tra i due soggetti risulta davvero sorprendente, e quindi sembra più probabile che il suo Urlo sia un’eco del disegno di Goya che stiamo analizzando, anche se, con benevolenza, possiamo considerare l’opera di Munch e la cariatide di Parigi una coppia dinamica e atemporale di sofferenti. Ma il fatto è che la mummia peruviana non emana nessun senso di angoscia o instabilità, ed è molto più vicina a una versione statica, impacchettata e rinsecchita del Pensatore di Rodin che a qualsiasi altra sensazione di mancanza di equilibrio, di vorticosità o d’instabilità. La mummia è staticità pura, L’urlo è dinamismo al cento per cento.
Lo storico tedesco Mayer considerava il movimento come uno degli elementi fondamentali nell’arte di Goya, spiegandolo così nella monografia del pittore9:
Fu uno dei primi a cercare di dipingere l’attività e il movimento in un senso moderno. E anche in questo campo non si limitò alle riproduzioni esteriori, come il rumore della rocca e della pietra del mulino seguendo l’opera iniziata da Velázquez, ma accentuò il potere dinamico, dando forza espressiva al movimento.
All’espressione del movimento bisogna aggiungere un altro elemento chiave nell’arte di Goya, ovvero l’angoscia. A ragione, André Malraux sosteneva: «Sans doute Goya est-il alors le plus grand interprète de l’angoisse qui ait connu l’occident»10; e pensare che lui questo disegno, perfetto esemplare per l’occasione, neanche lo prese in considerazione.
9 L. A. MAYER, Francisco de Goya, F. Bruckmann, Monaco 1923; edizione spagnola, Labor, Barcellona 1925.
Bisogna quindi isolarlo dal gruppo delle Visioni comiche e definirlo in maniera più consona. Ciò vale anche per un altro disegno della serie, ovvero 6ª con incubo (fig. 9), che non ha niente di comico o di faceto, e piuttosto, con i suoi fasci di luce e gli uccelli che sembrano gracchi, assomiglia al preludio di una locandina di un qualsiasi film appartenente al più duro espressionismo tedesco, o di un’opera cinematografica molto vicina e affine al capolavoro di Alfred Hitchcock, Gli uccelli11.
Se facciamo l’esercizio storico di andare indietro nel tempo, risulta chiaro che nel disegno non c’è nessuna motivazione politica, sociale, satirica e tanto meno militare. In modo schematico ma evidente, Goya ha preteso solo di raffigurare il risultato di un problema patologico, illustrandolo con la maestria di un artista dell’ultimo decennio del XVIII secolo, dotato di qualità straordinarie, e con una profonda conoscenza della propria malattia.
Dal nostro punto di vista, si allontana dal concetto comico-militare alla stessa velocità con cui si avvicina a quello che ha voluto esprimere Munch nel suo Urlo. Entrambe le opere sono autentici emblemi dell’angoscia e della nausea, figlie di due grandi esperti in materia, anche se la forma espressiva di Goya è più primitiva e iberica rispetto a quella nordica ed esistenziale di Munch. Emendiamo l’errore e lo sottolineiamo con ancor più orrore, in accordo con ciò che Goya ha realmente disegnato.
11 Scienziati dell’Università di Santa Fe, California, sostengono che gli uccelli ispiratori del film impazzirono a causa di una tossina (acido domoico) contenuta in un’alga marina, la Pseudo-Nitzschia australis. Secondo il dott. David Garrison, i volatili si avvelenarono cibandosi di organismi marini intossicati. Il veleno causava loro disorientamento e danni celebrali, sintomi molto simili a quelli osservati nella realtà, e Hitchcock li avrebbe quindi riprodotti all’interno del suo film.
In qualunque manuale di fisica elementare troviamo la rappresentazione grafica, per mezzo di coni, dei tre diversi stati dell’equilibrio: stabile, instabile e indifferente (fig. 10). Queste figure geometriche sono molto diffuse anche nei manuali di pratica pittorica12. Teorizzando, potremmo
ricostruire, a prescindere dalla distanza temporale dell’esecuzione e dalle intenzioni dell’artista, un’ipotetica trilogia sull’equilibrio: il primo elemento è costituito dalle Smorfie di Bacco (fig. 11), disegno in cui il pittore, giocando con un motivo burlesco, rappresenta un equilibrio ancora stabile, dove però la stabilità è direttamente proporzionale al livello di vino nella bottiglia; il secondo stato lo ritroviamo nel disegno che abbiamo appena studiato, Un’altra [visione] nella stessa notte (fig. 1), fedele rappresentazione del tormentoso equilibrio instabile; infine, chiude questa immaginaria e involontaria trilogia La grande follia (fig. 12), che illustra l’equilibrio indifferente, dove la perdita della testa è totale e definitiva, dato che è posata sopra il tavolo e tenuta per i capelli per mantenerne la verticalità. In questi disegni, sembra che la sua mente abbia seguito un itinerario razionale ed elaborato diverse forme per esprimere uno stesso concetto, ovvero la perdita della testa.
1.2 La grande follia
Soffermiamoci adesso su questo disegno, che è molto più rimuginato di quanto non possa sembrare. Per prima cosa delineiamo i contorni (fig. 13) in modo tale da identificare i soggetti e gli utensili che compongono la scena: una vecchia, un decapitato, un personaggio che versa del liquido in un imbuto, alcune seghe, degli strumenti da chirurgo, quindi non da pittore,
12 A. PALOMINO DE CASTRO Y VELASCO, El museo pictórico y escala óptica, Madrid 1715-1724, Ed. Aguilar, Madrid 1988, vol. III, cap. I, fig. 1, p. 484.
e inoltre un recipiente di vetro, presumibilmente da farmacia, conosciuto come vaso da distillazione o “testa di moro”13. Focalizziamo la nostra attenzione sulle seghe nell’angolo in alto a destra, poiché offrono la chiave di lettura del disegno.
Non è la prima volta che Goya le rappresenta, sia in scene lavorative che in composizioni figurate, sempre specifiche e ben distinte. Ognuna è stata pensata per svolgere una funzione: quella lunga usata da due persone per segare longitudinalmente assi di legno (fig. 14), quella con telaio e tenditore di corda usata dal carpentiere (figg. 15-16) o dallo scultore (fig. 17), quelle rappresentate nel disegno che stiamo studiando, ovvero le cruente seghe con costola usate dal chirurgo per le amputazioni (fig. 18), e aggiungerei anche, per concludere, quelle robuste del medico legale.
Riguardo alla possibile fonte d’ispirazione del disegno, una delle ipotesi che ha avuto grande seguito è quella del professor Klingender14, tanto arguta quanto erudita, visto che ravvisa nel disegno tracce dell’Estrazione
della pietra della pazzia del Bosch (fig. 19); però, io non riesco a credere
che Goya, a quel punto della vita, avesse bisogno di ricorrere al Bosch per rappresentare una sensazione ben conosciuta perché legata alla sua malattia: la perdita della testa, la sua, quella di sempre, che poi è realmente ciò che ha rappresentato in questo disegno. Una sensazione che aveva già descritto in una lettera non datata che oggi si trova al Museo del Prado: «Mio caro, sono in piedi, ma con tali difficoltà che non so se ho ancora la testa sulle spalle, non ho voglia di mangiare né di fare alcuna cosa…», lettera che può essere associata a qualunque crisi saturnina di cui l’artista ha sofferto.
13 E. A. PÉREZ, Vidrio y cristal. El Museo de la Farmacia Hispana, pubblicato dal Consejo Social de la Universidad Complutense de Madrid, Madrid 1993, fig. 78, p. 95. 14 F. D. KLINGENDER, Goya in the democratic tradition, Londra 1945, pp.168-169.
Secondo la nostra opinione, il trascendente Autoritratto con il medico
Arrieta (fig. 20) può essere sovrapposto, o se preferite accostato al distorto
martirio della Grande follia, per formare così un dittico in cui l’identificazione delle seghe e della loro funzione ci offre una comune chiave di lettura, e conferisce a entrambe le scene un poderoso significato unitario. Nel disegno appaiono tutti gli elementi, e anche qualcosa di più: il medico con una brocca, il malato senza testa e i simboli della sua perdita, vale a dire le seghe, mentre le numerose vecchie domestiche presenti nell’autoritratto sono riassunte nel disegno in un’unica figura.
Gli sforzi che il decapitato compie per alimentarsi col cucchiaio risultano del tutto inutili, poiché il cibo che era entrato dalla bocca inevitabilmente ricade. Tutto è ambiguo. Sembra che l’artista voglia dimostrare il totale fallimento della macchina umana, e come il ciclo della vita finisca sempre inevitabilmente male. Nemmeno con la più grande volontà del mondo potrebbe liberarsi da questo martirio, e pensare che, nonostante tutto, Goya ne era uscito trionfante come un San Lamberto (fig. 21), protettore dei contadini aragonesi, che all’epoca godeva di una grande devozione e del quale l’artista doveva certamente aver studiato la vita e i miracoli15, prima per il bozzetto e poi per l’affresco finale della cupola
(Regina Martyrum); chiaramente, gomito a gomito con la già citata pietra molare del martirio di San Vincenzo. Se l’invenzione di Goya è una grande follia, non è certo da meno la storia del miracolo di San Lamberto, almeno a giudicare dalle grandi polemiche che ha sollevato16.
15 W. RINCÓN – A. ROMERO, Iconografía de los Santos aragoneses I y II, Col. Aragón, Saragozza 1982.
16 FRA’ LAMBERTO DA SARAGOZZA, Disertación histórico-crítica-apologética sobre la vida y martirio de San Lamberto, mártir cesaraugustano, Pamplona 1780.
Martín Carrillo17 riflette saggiamente sulla presunta irrazionalità del miracolo facendosi le seguenti domande: «Voi siete sia colui che porta il feretro che il sepolto? Fate il corteo funebre e allo stesso tempo siete colui per il quale viene fatto?»
In sostanza, una grande e autentica versione irrazionale, come sottolinea lo stesso Goya, ma che allo stesso tempo coincide senza dubbio con le strane allucinazioni di cui soffrono gli intossicati dal piombo, nelle quali i medici e gli assistenti vengono considerati allo stesso tempo salvatori e aguzzini: un’esperienza assolutamente comune per chi è affetto da questo tipo di malattia.
Per concludere, La grande follia rappresenta il suo ex voto personale, il suo autovaccino, l’in memoriam burlesco e distorto di ciò che ha provato quando Arrieta gli ha “restituito la testa dopo una acuta e pericolosa malattia”, come riporta l’iscrizione del dipinto, è un esempio di come le interpretazioni agiografiche del Santo rappresentato da Goya diano ancora del tu, con naturalezza e dopo diversi anni, a quelle saturnine del pittore. 1.3. Il brutto sogno
Proseguendo nello studio dei disegni che possiamo mettere in relazione con la malattia di Goya, incontriamo questo Brutto sogno, chiamato così dallo stesso autore (fig. 22), anche se sotto la didascalia manoscritta che dà il nome al disegno s’intravede un’altra iscrizione, con tratto più leggero, in cui possiamo distinguere abbastanza chiaramente due parole: Apparizione…
uccelli. I due vocaboli si integrano l’un l’altro e forniscono un particolare
17 M. CARRILLO, Historia del glorioso San Valero, obispo de la ciudad de Çaragoça, con los Martyrios de San Vicente, Santa Engracia y San Lamberto, Saragozza 1615.
significato a questa composizione, classificabile tra le allucinazioni coscienti riconosciute dai pazienti come irreali.
Un uomo, imbacuccato in un mantello dal collo ampio, guarda atterrito un volto con gli occhi fuori dalle orbite che viene beccato con grande accanimento da alcuni uccelli. Di fronte a questa terribile visione, che sembra l’immagine speculare del suo volto, il malato stringe istintivamente con la mano destra il cappotto contro il suo corpo, mentre la bocca si apre per esalare un gemito, una sorta di muggito di bue, un grido che, come accade di solito quando il terrore è estremo, non riesce a uscire; allo stesso tempo i capelli, in disordine per la brutta notte insonne, gli si rizzano per la scarica di adrenalina: è la nota sensazione di avere i capelli ritti di fronte a un fatto insolito che provoca terrore. Questo terrore allucinatorio e cosciente è di tipo selettivo e individualizzato; la sua contrapposizione è rappresentata dai gatti che, nonostante siano presenti nella scena, non mostrano nessun segno di inquietudine, sono totalmente estranei alla visione che tormenta il malato, dimostrando così l’irrealtà dell’apparizione. Se Goya avesse voluto raffigurare la scena in modo più comune, li avrebbe rappresentati con il dorso inarcato e il pelo ritto come nel cartone per arazzo del Museo del Prado (fig. 23). La sensibilità che l’artista mostra nel sintetizzare e manifestare il distinguo è geniale.
Ci troviamo ancora una volta di fronte alla rappresentazione grafica di un sintomo saturnino descritto dai soggetti colpiti da questo tipo di intossicazione, ovvero la terribile cefalea unita alla sensazione di essere beccati: come se uno stormo di uccelli li stesse attaccando per strappare il loro cuoio capelluto a colpi di becco.
In sostanza, Goya ci rende nuovamente partecipi delle sue sofferenze, e lo fa attraverso la forma migliore che un pittore conosca: trasferisce sul foglio le sue sensazioni, e se ciò non fosse sufficiente, lo rubrica tramite le didascalie o i titoli dei sogni, delle visioni, delle apparizioni che confermano il calvario della sua vita e allo stesso tempo il fatto che questa sofferenza ha arricchito con nuovi motivi la sua portentosa immaginazione.
Ciononostante, non dobbiamo vedere nella sua intossicazione il germe della sua genialità, poiché è un genio colui che soffre di saturnismo ma non è il saturnismo che conforma un genio; se così fosse ci sarebbero moltissimi geni, vista la grande diffusione di questo tipo d’intossicazione tra i pittori. Diciamo che la genialità è una caratteristica innata, mentre l’intossicazione, come la conoscenza, si acquisisce.
1.4. La purga
È sicuramente un trattamento che Goya, date le caratteristiche della sua malattia, ha visto e vissuto molte volte, con i propri occhi e da estraneo. Per dissipare ogni dubbio basti pensare ai numerosi esempi che offrono la storia dell’arte (fig. 24) e la letteratura18, e considerare il fatto che questa pratica ha persino dato luogo a un dibattito religioso sulla legittimità del battesimo “in utero”, come dimostra una curiosa opera del canonico della Cattedrale di Palermo, Francesco Cangiamila19; senza dimenticare la sua presenza costante nella vita quotidiana del popolo e della nobiltà20.
18 D. DE TORRES Y VILLARROEL, Vida, Collezione Austral, Editorial Espasa Calpe, Madrid 1989.
19 F. E. CANGIAMILA, Embriologia Sacra, ovvero dell’uffizio de’ sacerdoti, medici, e superiori circa l’eterna salute de’ bambini racchiusi nell’utero, per Giuseppe Cairoli, Milano 1751, 4 voll. Trad. spagnola di Joaquín Castellot, Madrid 1774.
L’aspetto più interessante di questo disegno (fig. 25) è il volto sofferente del protagonista, del tutto simile a quelli studiati in precedenza (fig. 26), i quali raffigurano i tormenti di cui l’autore ha certamente sofferto. Per l’artista, questa sequenza disegnata di un saturnino con la sua stitichezza persistente non rappresenta soltanto un tema alla moda, ma piuttosto il promemoria di una stazione della sua sporca via crucis personale, con lo stesso valore di auto-osservazione che ritroviamo diverse volte nel diario di Jovellanos, per esempio nella lettera del 18 marzo 180521: «…per ritrovarmi con un forte senso di pesantezza di testa dovuto, credo, all’occlusione intestinale di cui soffro da alcuni mesi a questa parte, che non vuole cedere alle irrigazioni e alle purghe che utilizzo per curarla».
Nonostante la particolarità della situazione, l’aragonese non si è risparmiato l’inserimento di un tocco malizioso nella scena, insinuando un sorrisetto complice sul volto della serva accovacciata tra le sue gambe, mentre l’umiliazione viene accentuata dalla rozza smorfia burlesca della cieca retroguardia con l’enorme clistere: entrambi aspettano il dodecafonico concerto aerofono che sta per iniziare, ammesso che il rimedio funzioni.
L’immagine del pitale a forma di tazza o vaso da notte in posizione verticale contrasta con la scena rappresentata nell’Età delle disgrazie (fig. 27), visto che in questo caso il suo contenuto è completamente rovesciato e il protagonista, solo e abbandonato al suo destino, si è sporcato con le sue stesse feci.
21 J. MARTÍNEZ FERNÁNDEZ, Jovellanos: patobiografía y pensamiento biológico, Instituto de Estudios Asturianos, Oviedo 1966, p. 81.
2. LE LETTERE
Dai disegni passiamo ora alle lettere per tentare di chiarire il significato, in alcuni casi del testo scritto, e in altri dei disegni che vi sono inseriti; alcuni di questi hanno avuto una grande importanza per noi, non per Goya, e sono diventati oggetto di vere e proprie analisi scientifiche, basti pensare al lavoro di Rorscharch22, al T.A.T. (Thematic Aperception Test), allo studio delle frasi incomplete, alle prove di disegno proiettivo di uso comune di Lubin e Larsen23, ecc.
È giusto ricordare anche l’approfondito e minuzioso lavoro di compilazione portato a termine da Ángel Canellas24, e quello non meno straordinario di Mercedes Águeda e Xavier de Salas25 che hanno pubblicato, con note esplicative, le lettere di Goya a Zapater conservate al Museo del Prado, entrambe opere fondamentali per lo studio dell’artista; così come il recente lavoro di Arturo Ansón Navarro26, che ha completato con preziosissimi dati le inevitabili lacune proprie dei valorosi ricercatori che hanno aperto la strada.
Secondo la mia opinione, gli esempi che ho selezionato hanno sofferto di una lettura approssimativa, a volte per difetto altre per eccesso; nella maggior parte dei casi è stata calcata la mano sulle motivazioni sessuali, mentre in altri ciò si è evitato solo per non urtare la suscettibilità altrui.
22 H. RORSCHARCH, Psychodiagnostic, P.U.F., Parigi 1917.
23 H. EY – P. BERNARD – C. BRISSET, Tratado de psiquiatría, Masson, Barcellona 1994, pp. 189 ss.
24 Á. CANELLAS LÓPEZ, Francisco de Goya. Diplomatario, cit.
25 M. ÁGUEDA – X. SALAS, Francisco de Goya. Cartas a Martín Zapater, Ed. Túrner, Madrid 1982.
26 A. ANSÓN NAVARRO, Revisión crítica de las cartas escritas por Goya a su amigo Martín Zapater, Boletín del Museo e Instituto “Camón Aznar”, LIX-LX, Saragozza 1995.
Per comprendere senza difficoltà l’autentico senso e il reale significato di queste lettere, è imprescindibile osservare che Goya, soprattutto nella corrispondenza con l’amico Zapater, dà particolare importanza ad alcuni temi, tra tutti quello del denaro, e soprattutto nei momenti in cui ne era a corto.
La questione economica può essere chiarita attraverso le numerose notizie di questo tipo che costellano l’epistolario del pittore, che compaiono tanto nelle lettere a Zapater, suo principale corrispondente, quanto in quelle scritte alla famiglia, agli amici, ai clienti o in quelle relative al Real
Servicio, nelle quali si reclamano crediti, si rimettono fatture e conti delle
spese, poiché anche Goya, naturalmente, per tutta la vita e come tutti gli altri mortali, si è preoccupato delle proprie retribuzioni, come il mugnaio pensa al suo guadagno. Zapater è il suo consigliere pratico, banchiere e fedele confidente, nelle cui opinioni sugli affari crede ciecamente, e, allo stesso tempo, il suo confessore spirituale, il consolatore delle sue pene più intime, come i problemi di salute, le piccole vendette personali, e in generale di tutte le sue tribolazioni.
Dalla sua corrispondenza si deduce che al pittore dava fastidio sia dovere dei soldi a qualcuno che doverli avere: era un investitore meticoloso, affidabile e buon pagatore. Con i suoi debitori era uno “di parola” e con il suo curriculum qualsiasi banca di oggi che si informasse sul suo conto darebbe buone referenze che lui non tradirebbe mai.
La reiterazione delle faccende economiche è talmente costante, tra le notizie generali, che per non ripetere da cima a fondo tutto l’epistolario prenderemo in considerazione solo quelle più pertinenti.
Una delle prime notizie documentate in cui si dimostra un buon pagatore è quella fornita da un certo Ramón Picardo, il quale scrive a Goya27 il 13 giugno 1776 per offrirgli denaro in questa forma: «se hai bisogno di denaro chiedilo a Sebastián il sarto che ne ha di mio»; e in una lettera dello stesso anno, Goya ricorda a Mariquita28 che ha nei suoi confronti un debito di 20 reali, che salderà per suo conto l’amico Grasa. Ma è soprattutto nell’abbondante corrispondenza con Zapater che incontriamo il maggior numero di riferimenti; per esempio, il 23 novembre 1782 gli comunica29:
Ho già tutti i tuoi incarichi in casa… Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Inizio, non ti infastidire, perché io lo sono di più, per avere inviato oggi a Piran un messaggio chiedendogli di spedirmi settecento reali in più per pagare le tue cose… e mi ha risposto dicendo che non ce l’aveva e che me li avrebbe spediti martedì, quindi ho scritto a un amico e ho risolto… Visto che si avvicina Natale per incassare la mia rendita, avevo disponibilità solo per arrivare alla riscossione, e non per molto tempo…
Il 15 gennaio 178330: «…ti spedirò a stretto giro di posta il conto e tu mi spedirai il tuo, così vedrò se posso pagarti tutto…»
Il 26 aprile 178331: «…ti spedisco questa tratta perché incassi tremila reali
che mi ha dato il duca di Hijar e poi faremo i conti, a suo tempo…»
27 Á. CANELLAS LÓPEZ, lettera IX, p. 403. 28 Ibidem, lettera n. 8, p. 208.
29 M. ÁGUEDA – X. SALAS, lettera n. 34, p. 86, col. Casa Torres. 30 Ibidem, lettera n. 38, p. 93, Museo del Prado, Ms. 12.
Il 7 gennaio 178432: «…dopodomani incasserò dal fondo e se vuoi girerò quello che ti devo a Piran oppure a chi preferisci, aspetto una tua risposta…»
Il 14 gennaio 178433: «…quando puoi spediscimi il conto, ne sarei felice…»
Il 21 febbraio 178434: «…oggi stesso ho consegnato a Piran il corrispondente in oro dei tremilaottocento reali e diciassette maravedì. Il conto non l’ho guardato, se ci fosse uno sbaglio c’è tempo per…»
Il 3 marzo 178435: «…ti consiglio di non dare a nessuno neanche una moneta per mio conto, visto che siamo in uno stato di solvenza cerchiamo di rimanerci…»
Dieci anni dopo, il 21 maggio 179436: «…dato che parliamo di interessi, io non so quanto ti devo e pensarci tutti i giorni mi disturba molto, quindi per favore fammi il conto e dimmi a chi lo devo versare, te ne sarei grato…»
Si potrebbe continuare con questa ininterrotta e monotona elencazione fino alla conclusione della sua corrispondenza, ma crediamo che ciò possa bastare per corroborare le sue preoccupazioni finanziarie37.
32 Ibidem, lettera n. 50, p. 110. 33 Ibidem, lettera n. 51, p. 112.
34 Ibidem, lettera n. 52, p. 113, Museo del Prado, Ms. 17. 35 Ibidem, lettera n. 53, p. 114, col. Rodríguez Moñino. 36 Ibidem, lettera n. 132, p. 222, Museo del Prado, Ms. 53.
Non erano insolite neppure le sensazioni di oppressione del cognato di Goya, Francisco Bayeu, legate ai debiti nei confronti di Zapater, come possiamo vedere nelle seguenti lettere. Una è datata 24 novembre 178438:
Ho ricevuto la tua lettera e sono venuto a sapere di mio fratello Manuel, al quale hai dato 40 monete d’argento, mille grazie per la tua generosità, e credimi che è un favore per il quale te se sono molto grato, poiché sono sicuro che non tutti coloro che si vantano di essere miei amici me lo avrebbero fatto (anche se avrebbero potuto), e adesso apprezzerei che con questo stesso giro di posta tu mi dicessi se vuoi che li dia a Piran oppure se te li devo far avere lì, perché il pensiero del debito mi fa venire gli incubi perciò fammi questo favore…
L’altra è del 1° aprile 179539:
…e poiché sono libero dai debiti non devo niente a nessuno, mi dispiace per quello che hai dovuto spendere fino ad oggi per Manuel, per mio conto, e pertanto ti supplico di dirmi chiaramente, senza alcun indugio e risparmiando parole del tuo generoso cuore, mi devi tanto, in modo tale da potertelo pagare a stretto giro di posta, dato che non voglio restare in Purgatorio perché continui a fare i complimenti. Te le chiedo per l’amore di Dio, non ti scusare e toglimi questo…
Altre caratteristiche che possiamo osservare nelle lettere di Goya sono la sincerità, la rotondità, la crudezza e la volgarità con le quali scrive. Chiama le cose col suo nome senza preoccuparsi minimamente se sono parole sconce o meno, dato che erano di consumo strettamente privato tra i
38 J. L. MORALES Y MARÍN, Francisco Bayeu. Vida y obra, Saragozza 1995, appendice documentaria, lettera n. 139, p. 249.
due amici d’infanzia, gioventù e maturità; sono espressioni ricche di allusioni, con doppio o triplo significato, raccomandazioni scambiate o anche conversazioni sui cambiamenti da un’epoca all’altra, che se le trasferiamo nella nostra e le prendiamo alla lettera perdono del tutto o in parte molte delle loro sfumature e valenze idiomatiche. Non dobbiamo dimenticare che erano uniti da una profonda amicizia, e come una coppia di giocatori di mus40si capivano praticamente a segni.
Per quanto riguarda la crudezza del lessico e l’utilizzazione di parolacce non c’è da dire molto, poiché sono tanto chiare quanto copiose; siano da esempio alcune di quelle che pur essendo conosciute anche oggi non perdono certo la loro spontanea e sporca grazia.
Partiamo dal 22 maggio 1777: «…che tu farabutto di merda…»; il 7 ottobre 1778: «…vivo e sempre per servirti anima di merda…»; nel dicembre 1778: «…sono rimasto in mutande…e vaffa…»; senza data, ma anteriore al 20 ottobre 1781: «…vai a fare in culo…Torra dice che se ne frega del…»; il 20 ottobre 1781: «…baciami il culo… e vattene a cagare…»; il 28 dicembre 1781: «…non fare il coglione…»; il 23 novembre 1782: «…tu dirai a quel cazzone quanto mi logora…»; il 22 gennaio 1783: «…suppongo che te ne fregherai di tutto come…»; senza data: «…bastardo di merda…»; il 2 luglio 1784: «…sei stato un coglione di merda…»; senza data:«…accidenti a Pallas…»; il 19 febbraio 1785: «…almeno sette volte, mi baceresti il culo…»; senza data, ma anteriore al 1786: «…vaffanculo, e senza fare tanto rumore…»; il 19 novembre 1788: «Se continuano così me ne frego del diavolo anche se…»; il 5 agosto 1789:
40 Gioco di carte. Si dice che un buon giocatore di mus trae più vantaggio da un gesto del suo compagno che il migliore oratore.
«…vattene affanculo…»; il 17 febbraio 1792: «cazzo, prezzemolo e culo…»; senza data: «…che mi baci il culo…»; senza data: «…non venire a casa mia, sennò a cagare… Vaffanculo…».
Quindi, risulta abbastanza chiaro che tanto le notizie economiche, viste nei paragrafi precedenti, quanto le parolacce condiscono qua e là l’intero epistolario dei due intimi. Una volta assodata questa situazione, passiamo ad analizzare una delle lettere più controverse e travisate che Goya ha scritto a Zapater:
Lettera I - Senza data. Collezione Casa Torres41:
C’è molta energia nell’ultima lettera che mi hai scritto. È proprio vero che tu trovi tutto nella penna, come io invento nella pittura, comunque… Spediscimi questo conto, satanasso, che è da tanto tempo che l’aspetto e se non t’incomoda ti spedirei ciò che ha speso mia sorella da quando hai pagato, per non dovere più niente, che mi piace molto; e mi mette di cattivo umore, fino a quando non metto mano all’ombelico. Cosa ridi? Fallo, fallo e vedrai come ti farà star bene, soprattutto ora che è il momento in cui ne hai più bisogno, poiché questo è il tempo dei cattivi pensieri, discorsi e comportamenti. Grazie alla cara zia Lorenza che me l’ha insegnato, confesso che all’inizio ero sorpreso ma ora…
Caro Martín Zapater.
Fino ad oggi questa lettera è stata interpretata come pornografica e incitatrice alla pratica dell’onanismo. Questo tipo di lettura ha trasformato il testo, sessualmente innocuo (sempre che al mondo sia rimasto qualcosa che lo sia), in un manuale sulla vita e le abitudini dell’onanista, più adatto a un
41 Á. CANELLAS LÓPEZ, lettera n. 77, p. 252. M. ÁGUEDA – X. SALAS, lettera n. 123, p. 210.
collegiale imberbe che a un Goya maturo, i cui testi sono insaporiti con scurrilità e nei quali il culo viene chiamato culo, il cazzo viene chiamato cazzo, o in alternativa pisello, e le espressioni di saluto come vaffanculo e baciami il culo sono di corso legale, anche se non dobbiamo prenderlo alla lettera.
Che Goya debba ricorrere a sotterfugi, come quello di chiamare il pisello ombelico, non ci quadra. Una persona così franca e diretta non si perde in circonlocuzioni per scrivere al suo amico intimo una battuta grossolana, che sia di buono o di cattivo gusto per noi, dato che Goya prima di essere un accademico, e lo era nell’arte della pittura ma non in quella della lingua, parlava come pensava e scriveva come parlava. Grazie a Dio, non era uno di quei damerini che Torres y Villarroel42 descriveva così: «…un omuncolo di quelli che si crescono a Corte come cani addestrati con un biscotto e una mandorla ripartiti in tre pasti».
Perciò il pittore non fa da istruttore sessuale a Zapater, e nemmeno lo si può considerare un anticipatore aragonese del dottor Kinsey43. Sta parlando in modo semplice e aperto di un problema economico (vile metallo!) e non ecumenico (captazione di nuovi proseliti del biblico Onan, tra i quali la tale zia Lorenza figura come una che sapeva il fatto suo). Non c’è nessun tipo di istigazione, uso o piacere per l’onanismo, e non c’è motivo di affibbiarglielo gratuitamente. Non ha problemi con l’onanismo, e se guardiamo la questione da un punto di vista strettamente anatomico, l’ombelico non è esattamente il luogo adeguato per questo tipo di pratica.
42 D. TORRES Y VILLARROEL, Sueños morales, Madrid 1786, p. 29.
43 B. WARDELL POMEROY, Dr. Kinsey and the Institute for Sex Research, Harper and Row Publishers, New York-London 1972.
Pertanto l’espressione «metto mano all’ombelico» non è altro che la ricostruzione metaforica del gesto di portare la mano alla borsa, tenuta al sicuro all’altezza dell’ombelico, tra la camicia e il busto, in alcuni casi, fissata e appesa sulla larga cintura, di oltre quattro dita, in altri, come il pittore stesso rappresenta spesso: nel bozzetto de La nevicata, conservato all’Arts Institute di Chicago (fig. 28), nel cartone per arazzo con lo stesso tema conservato al Museo del Prado (fig. 29), nella Caccia al cinghiale (fig. 30), nel Cacciatore che carica lo schioppo e nel suo corrispondente disegno del Fine Arts Museum di Boston (fig. 31), nella Battuta di caccia (fig. 32) e nel disegno del Venditore d’olio (fig. 33).
Questo particolare tipo di borsa compare anche in numerosi disegni e incisioni dell’epoca44, come mostrano le raccolte delle collezioni di stampe di abiti, modelli e consuetudini di Manuel Salvador Carmona, Tomas López, Alfonso Cruzado, Juan de la Cruz Cano y Olmedilla, Marcos Téllez, Antonio Rodríguez e di un gran numero di anonimi, tutti ben studiati da numerosi autori45, soprattutto le serie di contadini, mulattieri (fig. 34) e carbonai delle diverse città, come Granada, Jaén, Valencia e Malaga, del libro di Cano y Olmedilla46.
Sono facilmente identificabili come una borsa (sacchetto portamonete) cucita o fissata all’altezza dell’ombelico, comprese le due o tre borse appese alla cintura, o meglio, come abbiamo detto, messa tra il busto e la camicia, come si intuisce dal rigonfiamento di quest’ultima.
44 A. E. PÉREZ SÁNCHEZ, Catálogo de dibujos del Museo del Prado I y II, Museo del Prado 1988.
45 C. y Candi, V. Bozal, C. Parrondo, A. Gallego e C. Baroja. Si veda la bibliografia. 46 J. DE LA CRUZ CANO Y OLMEDILLA, Colección de trajes de España, Madrid 1777.
Cosicché alla frase «metto mano all’ombelico» bisogna darle il significato di mi palpo la borsa [portamonete]47 e se proseguiamo nella lettura: «Cosa ridi? Fallo, fallo [palpala, palpala] e vedrai come ti farà star bene [sentirla piena] e soprattutto ora [nel periodo di Carnevale] che è il momento in cui ne hai più bisogno [della borsa piena] poiché questo è il tempo dei cattivi pensieri, discorsi e comportamenti [si può spendere ora, nel periodo di Carnevale, e non in Quaresima]. Grazie alla cara zia Lorenza [qui zia non sembra riferirsi al legame di parentela ma a un comune appellativo molto usato all’epoca e che stupiva gli stranieri48] che me l’ha insegnato [se non devi niente, non temere niente!]».
Se questa lettera invece di una motivazione economica ne avesse avuta una legata a pendenze o contese, quel «metto mano all’ombelico» dovrebbe essere letto come prendo il coltello, o la pistola, entrambi posizionati vicino all’ombelico, a destra e a sinistra, secondo l’abitudine diffusa in quella città, in quella corte, e più in generale in tutto il regno fino all’Ottocento inoltrato. Il suo attuale equivalente economico è mettere mano al cuore, o
al petto, per la sua vicinanza alla tasca interna della giacca, dove si tiene il
portafoglio per effettuare il pagamento.
Il senso comune invalida, in quanto illogico, il fatto che per togliersi il pensiero di avere debiti si pratichi l’onanismo, e ancor di più che si inciti il creditore a farlo, perché se così fosse avremmo fuori dalle banche lunghe code di debitori che lo praticano. Per liberarsi dall’ansia causata dai debiti, ciò che è normale, e Goya indiscutibilmente lo era, è tastare la borsa piena per la tranquillità che dà sapere che si possono saldare, e così l’inquietudine
47 Le frasi esplicative tra parentesi quadre sono mie.
48 É. GIGAS, Un voyageur allemand-danois en Espagne sous le règne de Charles III, Revue Hispanique, Parigi 1927, vol. LXIX, n. 155.
scompare. Poiché, in alcuni casi, per far comprendere una cosa è necessario scardinarla, invertiamo la frase: se Goya invece di dire «metto mano all’ombelico» avesse detto «metto mano alla borsa», avremmo pensato che si trattava dello scroto, la borsa che contiene i testicoli?49 Quindi, accusare
Goya di onanismo risulta quanto meno gratuito, e mi riporta alla memoria un altro simpatico errore madornale: quando davano dell’onanista a Maese Pérez.
Visto che abbiamo fatto una maliziosa selezione di espressioni triviali dalle lettere di Goya, che potrebbero confondere perché presentate in blocco, conviene ricordare che queste sono state scritte in un periodo di oltre ventidue anni, che non è molto, né sufficiente per accusarlo di volgarità, considerato che, da un punto di vista statistico, sfodera una parolaccia all’anno.
Ci sono altri epistolari e testi dell’epoca in cui la scatologia e l’esagerata effusione servono, ai nostri occhi, ad arricchire i testi, nei quali si può osservare che la coprolalia50 e la sua comparsa nei carteggi era abituale. E non c’è solo questo, ma anche il fatto che tra amici l’effusione estrema, che incontriamo spesso nelle lettere di Goya e che agli occhi di alcuni desta molti sospetti, era normale, anche se in certi periodi della sua malattia era potenziata, poiché il piombo danneggia il sistema limbico che controlla le emozioni. Questo è vero per qualsiasi mortale, che dipinga, scolpisca,
49 Per il termine volgare e le sue varianti sonore si veda il Diccionario secreto del nostro Premio Nobel Camilo José Cela, Alianza Editorial, Madrid 1974, p. 82.
commerci il grano, scriva o allevi animali, sia reo51 o benemerito della patria, come vedremo più avanti.
Nel momento di valutare gli aspetti più sorprendenti dei carteggi, una rapida incursione nelle lettere intime di due illustri coetanei e amici di Goya, come lo erano Vargas Ponce e Ceán Bermúdez, permetterà di orientarci e di dare loro un giudizio generale. Scritte tra il 1803 e il 1805, queste lettere si trovano negli archivi della Direzione di Idrografia e della Reale Accademia di Storia, che le ha ricevute dal marchese di Seoane, corrispondente dell’Accademia di San Fernando, il quale, a proposito dell’epistolario, dice: «…stile ironico e poco corretto poiché questo tipo di scrittura intima si presta alla spontaneità, che è propria del suo carattere. Alcune volte oltrepassa i limiti non solo dell’urbanità, ma anche quelli della decenza con espressioni troppo naturali». Tre quarti di questa affermazione valgono anche per Goya e Zapater, in teoria meno raffinati e colti dei precedenti.
Lettera 2 - Pepe a Juan. Vergara, 28 agosto 1803: «Ha iniziato Vostra Signoria a pisciare sul mondo, onorevole asturiano…»
Lettera 3 - Vargas a Ceán: «Salute e felicità: San Sebastian era addormentato // il sole gli splendeva sul buco del culo»
Lettera 4 - Ceán a Vargas: «Mio amato Pepe: che Dio ci lasci vedere, parlare e abbracciare prima della fine dell’anno… alla vista di chi sospira
51 A. GRISOLLE, Tratado elemental y práctico de la patología interna, traduzione spagnola di Gaspar Roig, 1870, vol. IV, p. 428.
oppresso dalla nostra separazione… un abbraccio dal suo amatissimo Juan Agustín»
Lettera 5 - Ceán a Vargas. Siviglia, 1° ottobre 1803: «Mio amatissimo Pepe… che chieda e ami il suo sincero amico che lo abbraccia»
Lettera 7 - Pepe a Juan: «…ed è una grossa stronzata la mia che pur potendo ordinare mi accontento di pregare in ginocchio, stai attento che non mi chiamo Contento…»
Lettera 9 - Vargas a Ceán. Madrid, agosto 1804: «…me lo spedisca qui prima che perda la pazienza e la mandi a fare in culo…»
Lettera 11 - Pepe a Juan. Madrid, 11 settembre 1804: «Gliel’ho supplicato con pianti e mocci… Sì, caro Ceán… sì caro il mio Ceán… nella quale i miei occhi e la mia testa non sono in vena di festeggiamenti»
Lettera 18 - Ceán a Vargas. Siviglia, 12 dicembre 1804: «…è necessario cambiare stile, e parlare con tono da ventre straziato e cagare forte… non facciamo gli andalusi, perché altrimenti me ne fregherei del direttore»
Lettera 24 - Pepe a Juan. Madrid, 8 gennaio 1805: «Mio caro Ceán… Mi resta la consolazione di non avere più niente da fare, come dicono le vedove quando hanno martirizzato i loro defunti…»
Un altro esempio è quello riportato da Émile Gigas52: «Moldenhawer a observé aussi quelques usages et singularités de la nation. C’est ainsi qu’il a noté des locutions du langage courant, par exemple: “Sono felice che non ci siano novità – Vai – con Dio” ; et en opposition: “Vai [vattene] affanculo!”»
Anche i repertori storici delle jotas53 (danza folcloristica aragonese), soprattutto nella versione de picadillo (in cui due cantanti o gruppi di cantanti si affrontano, in tono ironico, attaccando l’avversario), sono terribili. Ancora oggi, anche nel mondo infantile persistono innocenti espressioni di questo tipo. López de Guereñu54 riporta una poesia di Apellániz, dalla quale prendiamo alcuni versi:
San Martin e Sant’Emilian a raccoglier olive van San Martin porta la cesta, e Sant’Emilian porta il tascapan, Sant’Emilian portava il cacio, e San Martin portava il pan. Chi dei due è il più goloso? quello che porta il cacio.
E sul culo mi dai un bacio.
L’ultimo verso non è altro che un ritornello per fare rima, nessuno lo prende alla lettera e di certo nessuno lo porterà a compimento.
52 ÉMILE GIGAS, p. 471.
53 S. DOPORTO, Cancionero Popular Turolense, canzoni censurate perché sporche e indecorose, Madrid, s. d., sezione 13, p. XXIX del prologo.
54 G. LÓPEZ DE GUEREÑU, La vida infantil en la montaña alavesa, Revista de Dialectología y Tradiciones Populares, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Centro de Estudios de Etnología Penínsular, Madrid 1960, vol. XVI, cuaderni 1 e 2.
Per quanto riguarda Madrid, città che Goya ha disprezzato sia prima che dopo aver messo piede sui tappeti di palazzo, bisogna dire che anche questa era molto più volgare e sporca di quanto si possa pensare. Due piccoli esempi serviranno per confermare che si potrebbe parlare tanto, o più, di inciviltà del Settecento che di civiltà.
Foulché-Delbosc riporta un’opera manoscritta del 1807 intitolata I vizi
di Madrid, scritta dal Sottotenente del Real Cuerpo de Ingenieros, nella
quale troviamo un dialogo tra Antonio e Perico che ci riporta, con poche parole, nel bel mezzo della Madrid di Goya55.
Senza dimenticare il famosissimo Arte de las Putas di Moratín56 in cui, tra gli altri improperi, si parla dell’uso del preservativo, di palpitante attualità oggi e tanto perseguito all’epoca di Goya, quando il solo possesso poteva essere causa di condanna alla prigione57. Edith Helman58, a ragione, lo chiama documento sociale della prostituzione; l’autentico curriculum “putae” della Madrid di Goya.
Quindi, bisogna tenere presente questo tipo di cultura, la sporcizia dell’ambiente, nella quale non possiamo ignorare lo sversamento delle acque nere pubbliche e private che avvolgevano tutto, l’utilizzo di parole sconce e rozze, compresi i suoni rabbiosi delle conversazioni quotidiane59, e
55 R. FOULCHÉ-DELBOSC, Los vicios de Madrid. Diálogo entre Perico y Ant°//Por el Subteniente del Real//Cuerpo de Yngenieros//Dn. J. M. S.//Año 1807, Revue Hispanique, Kraus Reprint Corporation, New York 1962, vol. XIII, p. 169.
56 N. FERNÁNDEZ DE MORATÍN, El arte de las putas, pubblicato da Emilio Cotarelo y Mori, Madrid 1898.
57 J. A. GARCÍA BORREGA, Delito y sociedad en Madrid en el reinado de Fernando VII, Estudios de Historia Social, Instituto de Estudios Laborales y de la Seguridad Social, Madrid 1982, nn. 20-21, gennaio-giugno.
58 E. HELMAN, Jovellanos y Goya, Taurus, Madrid 1970, p. 230. 59 É. GIGAS, p. 474.
tutta l’indecenza che si voglia aggiungere, poiché ce n’era in abbondanza. Tutto ciò faceva parte anche dei facili nutrimenti ai quali poteva ricorrere nella sua attività di disegnatore, visto che erano temi molto diffusi. Se la confrontiamo con quella dei suoi contemporanei, soprattutto inglesi, l’opera grafico-incisoria di Goya risulta più discreta in quello sporco mondo.
2.1. Interpretazione di alcuni disegni delle lettere
L’epistolario di Goya con Martín Zapater è condito con disegni che ci sorprendono. Cercherò di spiegarne qualcuno dal mio punto di vista, forse soggettivo, ma ragionato.
Lettera II - 22 gennaio 1777. Collezione Casa Torres60.
Alludendo a una cosa conosciuta da entrambi, incontriamo il disegno di una mano che tocca il naso (fig. 35), che può rappresentare sia il gesto di chi fiuta il rapè, come sostengono Salas e Àgueda, sia quello di chi si soffia il naso in modo rozzo, cioè lanciando il moccio direttamente a terra attraverso un’espirazione violenta, facendolo uscire da uno degli orifizi nasali dopo aver chiuso l’altro con il pollice. È ciò che, in termini volgari, si chiama “smocciata”, e la saggezza popolare l’aveva osservata bene nel detto: solo i ricchi conservano il moccio, poiché al tempo erano gli unici che usavano il fazzoletto.
Lettera III - 21 gennaio 1778. Museo del Prado61, Ms. 1:
60 Á. CANELLAS, lettera n. 11, p. 209. M. ÁGUEDA – X. SALAS, lettera n. 2, p. 38. 61 Á. CANELLAS, lettera n. 17, p.213. M. ÁGUEDA – X. SALAS, lettera n. 4, p. 42.
…sono molto felice di sapere che sei andato alla Certosa e che ti stai divertendo, ricorda che ti avevo chiesto i
ω
della volpe, però, per mantenere la virtù, devono essere tagliati quando la volpe è ancora viva altrimenti non servono; quindi se sono così inviameli che te ne sarò grato.Si tratta evidentemente della rappresentazione grafica di testicoli (fig. 36), come è stato unanimemente riconosciuto. È stato Camón Aznar62 che gli ha dato questo significato, nonostante l’opinione contraria di Salas e Àgueda63, affermando: «…la loro virtù curativa era una credenza popolare». E in effetti era così, ma non soltanto popolare, bensì universale, poiché, secondo le abitudini del tempo, c’era un costante interscambio epistolare di raccomandazioni riguardo a erbe, macerazioni in vino, unguenti, pozioni, giulebbe, pomate, e in generale a tutto ciò che rientra nei medicamenti, i quali erano conosciuti anche da altri monaci e certosini, oltre a quelli della Certosa di Las Fuentes alla quale la lettera si riferisce.
È Goya stesso che lo sollecita affinché gli procuri i testicoli di volpe, specificando «dal vivo», e la richiesta ha un senso assolutamente concreto. In altre lettere dei suoi cognati Francisco e Manuel Bayeu vengono trattate con uguale naturalezza richieste simili:
Francisco Bayeu a Zapater, 20 novembre 178464:
Mio fratello Manuel mi ha informato del suo miglioramento… al recupero della sua salute spendesse ciò che spendesse in rane, tartarughe, ecc. Mi ha
62 J. CAMÓN AZNAR, Goya, Saragozza 1980-82, vol. I, p. 94. 63 M. ÁGUEDA – X. SALAS, lettera n. 4, nota 3, p. 43.
64 J. L. MORALES Y MARÍN, Francisco Bayeu. Vida y obra, Saragozza 1995, appendice documentaria, lettera n. 138, p. 249.
scritto che ti chiederà 30 o 40 reali, che ha bisogno di una cappa di stoffa, una scorta di carbone, una macinata di cioccolato, blandire i medici, ecc…
Dello stesso Francesco, 25 marzo 179565:
…perché nel mio copro non vi era altro alimento che brodo e veleni come l’oppio, l’assafetida66, il castoro67 e la canfora...
Manuel Bayeu a Zapater, 6 agosto 177568:
«Ricevo la Vostra apprezzabile lettera con le 4 dozzine di tartarughe che apprezzo infinitamente, anche se adesso la mia ristabilita salute non le guarda con la stessa necessità dei mesi passati…»
Dello stesso Manuel a Zapater, 15 febbraio 179669:
«Ho ricevuto la lettera di Vostra Signoria, scritta il 12 del corrente mese, insieme alle Rane e al paio di Talpe che mi avete spedito, che sono arrivate al momento giusto poiché da 6 giorni ho iniziato la dieta ma ancora non riesco a digerire molto a causa del mio stomaco debilitato, a malapena riesco a ingoiare qualcosa senza vomitare…»
65 Ibidem, lettera n. 214, p. 264.
66 Gommoresina ricavata da varie piante del genere Ferula L., della famiglia delle ombrellifere. Si utilizza in medicina e veterinaria come antispastico.
67 Mammifero della famiglia dei Roditori. Possiede delle ghiandole secretorie, situate su entrambi i lati dell’ano, che producono una sostanza chiamata castoreo, utilizzata come antispastico.
68 Lettera inedita. Museo del Prado. 69 Lettera inedita. Museo del Prado.
Perciò è irreprensibile che Goya accettasse, quasi come dogma di fede, la credenza popolare, ancora oggi materializzata nel proverbio: siamo
quello che mangiamo; ed è molto probabile che abbia a che vedere con la
sua prima crisi di cui abbiamo notizia, poiché una delle conseguenze è proprio la perdita di potenza sessuale o l’alterazione dell’attività sessuale accompagnata da anafrodisia e inattitudine al coito. Di solito questo sintomo saturnino si affievolisce col tempo, ma è logico che fosse preoccupato in quanto non conosceva né la causa né la durata del problema.
La richiesta, dunque, non deve apparire scioccante, dato che il dottor Carnot70 parla dell’opoterapia71 in questi termini:
L’uso afrodisiaco dei testicoli d’animale si ritrova in tutte le civiltà e in tutte le epoche: sin dall’antichità sono stati somministrati testicoli di toro, di gallo e di cervo per far rinascere o aumentare la forza virile. I risultati ottenuti sono facilmente spiegabili se pensiamo al ruolo che spesso l’immaginazione ha nell’impotenza.
E l’idea non è nuova; anche il dottor Castillo de Lucas72 ci dice:
Possiamo certamente affermare che nel regno animale l’opoterapia ha la sua più tipica ragione d’impiego nei concetti di simila, similibus e proprio in questo senso si continuano a mangiare, sin dall’antichità più remota, i granelli (testicoli di animali) per aumentare la potenza sessuale.
70 P. CARNOT, Biblioteca de Terapéutica-Medicamentos animales, Salvat Editores, Barcellona 1900, vol. XI.
71 Procedimento curativo basato sull’uso di succo di organi animali o dei loro estratti. 72 Á. CASTILLO DE LUCAS, Folclore y etnografía. Retablo de tradiciones populares españolas, 1968, p. 33.
Pertanto, quando Goya aggiunge la puntualizzazione «però, per mantenere la virtù, devono essere tagliati quando la volpe è ancora viva altrimenti non servono…», dimostra di possedere informazioni più precise dell’argomento in questione, visto che se ripassiamo i trattati di opoterapia fino ai giorni nostri, ci rendiamo conto che tutti insistono sul fatto di procedere alla dissezione degli organi immediatamente dopo la morte dell’animale; e tutti riportano come condizione essenziale che siano utilizzati rapidamente, lasciando trascorrere il minor tempo possibile dal momento dell’estrazione dall’animale. È esattamente ciò che accade oggi nell’ambito dei trapianti.
Per i preparati opoterapici si sono utilizzati testicoli freschi disseccati e ridotti in polvere, e gli estratti glicerici. Gli uni o gli altri vengono somministrati, a seconda dei casi, per via orale o rettale. Nel corso della storia esistono mille varianti di questo tipo di medicamenti.
I metodi di Plinio, come quelli di altri autori, bazzicano i Capricci e le
Follie del nostro compatriota. Questo, nella sua Storia Naturale73, assicura
che: «le ceneri prodotte dalla combustione dei genitali di un asino sono eccellenti per la calvizie». Plinio stesso garantisce che74: «il pene di una volpe legato alla testa fa scomparire la cefalgia» e «la zampa di una lepre legata alla gamba del malato curava la podagra (gotta), purché fosse stata tagliata dall’animale vivo75». E più avanti raccomanda76: «il testicolo
destro di un asino bevuto in una giusta proporzione di vino, o portato come
73 GAIO SECONDO PLINIO, Naturalis Historia, I secolo, vol. XXVIII, p. 164. 74 Ibidem, p. 166.
75 Ibidem, p. 220. 76 Ibidem, p. 261.
braccialetto a modo di amuleto, oppure gli stessi organi di un cavallo, seccati, polverizzati e serviti in una pozione, sono stimolanti specifici della potenza sessuale».
Nel 1730, a Saragozza, viene pubblicato un curiosissimo libro del chirurgo Juan de Roda y Bayo77, originario della città di Maella, in cui ritroviamo tutti i tipi di rimedi opoterapici, catalogati da diversi medici di tutte le epoche, secondo le diverse malattie, dal quale estraggo alcuni brani che possono dare l’idea dello stato della medicina al tempo di Goya:
Laguna scrive dell’Alcakenki, o vescica di cane, che bollendo il suo succo con vino, tenendolo in bocca mitiga il dolore… E il decotto delle rane di fiume… Dioscorides scrive della lacerta o lucertola, che mettendo il suo fegato dentro i denti guasti toglie il dolore. Dice la stessa cosa Avicena e Daza… E lo stesso dicono del dente della talpa, strappatole da viva… il dente di cane maschio strappato quando il cane è ancora vivo, e appeso, portandolo al collo, a contatto con la carne, protegge dal mal di denti tutta la vita…
Conclude questo capitolo dedicato ai problemi della bocca, consapevole, per esperienza, dell’inutilità di questi rimedi, affermando: «Infine, tra tutti i rimedi, nessuno è più sicuro ed efficace dell’essere devoto alla gloriosissima Santa Polonia, avvocata del dolore tanto crudele e penoso come quello dei denti».
77 J. DE RODA Y BAYO, Recopilación de lo más selectos y experimentados remedios, simples, y compuestos, para la curación de las enfermedades y accidentes de Cirugía, Saragozza 1730.
Ancora oggi il preistorico rinoceronte, con la polvere del suo corno, paga il tributo di coloro che falliscono nelle alcove di mezzo mondo orientale; e per questo motivo ci rimette la vita.
È solo un piccolo esempio, ma la bibliografia su questo tema è ampissima e al suo interno è bene mettere in rilievo la straordinaria opera del dottor Luis Gil78, intitolata Therapeia. La medicina popolare nel mondo
classico, per l’abbondante documentazione che fornisce su questo
argomento.
Lettera IV - Senza data. Fondazione Lázaro Galdiano79:
…Mi sono dimenticato di dirti che mia cognata Maria si è sposata e che io sono stato lo strumento o motore del matrimonio poiché lui era amico mio già prima di pensare a tale cosa, neanche la conosceva; è un bravo ragazzo (non si offendano i presenti)… non guadagna più di cento dobloni ma ha altre cose che gli permettono di passarsela bene… Il bel fidanzato che casca dalla stanchezza e che ha solo ventiquattro anni. Mi sembra di averti informato già abbastanza, ma se vuoi altri particolari chiedi a…
In questo punto della lettera intercala un disegno, come possiamo vedere nella fig. 37, che sostituisce la parola barbiere, come ho già chiarito in un precedente articolo80.
78 LUIS GIL, Therapeia. La medicina popular en el mundo clásico, Ed. Guadarrama, Madrid 1969.
79 Á. CANELLAS, lettera n. 69, p. 248. M. ÁGUEDA – X. SALAS, lettera n. 43, p. 99. 80 M. T. RODRÍGUEZ TORRES, Retrato de M.ª Luisa de Parma. Un cuadro de Goya postergado y otras observaciones sobre el pintor, Museo di Belle Arti di Bilbao, annuario, 1994, p. 67.