• Non ci sono risultati.

3. TFR E FORME DI INVESTIMENTO ALTERNATIVE

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "3. TFR E FORME DI INVESTIMENTO ALTERNATIVE"

Copied!
19
0
0

Testo completo

(1)

3. TFR E FORME DI INVESTIMENTO ALTERNATIVE

3.1. Premessa

Dallo studio della riforma Maroni, appare evidente come il nodo centrale per il lavoratore sia la scelta tra lasciare il TFR in azienda o all’INPS, godendo delle garanzie dell’art. 2120 CC, oppure investirlo nelle forme di previdenza complementare previste, siano esse un fondo negoziale, aperto o una FIP.

In termini finanziari ciò che è importante infatti, è l’ammontare del montante finale che il lavoratore si ritroverà alla fine del suo periodo lavorativo, sia esso maturato nel TFR oppure in una forma previdenziale complementare.

Uno degli argomenti usati in maniera martellante sia dai gestori che da molti economisti è che il rendimento assicurato dal TFR sia molto inferiore a quello che si otterrebbe investendo in forme alternative il flusso della liquidazione, in particolare l’affermazione principe è che i rendimenti delle azioni nel lungo periodo sono superiori, e di molto, a quelli assicurati dal TFR.

A rigore di logica, e di scienza, affermare verità assolute su questo tema è senz’altro pretestuoso: come già detto, in economia e in finanza, i fenomeni futuri sono aleatori, non prevedibili con la massima sicurezza da nessuno.

In genere la metodologia adottata è quella di osservare i comportamenti che le variabili economiche hanno assunto nel passato, analizzando le serie storiche di dati disponibili, per poter formulare previsioni, che però sono e restano, incerte. Eventi pregnanti di risvolti sui mercati finanziari come l’11 Settembre, la crisi del ’29, la crisi petrolifera degli anni ‘70 e così via non sono prevedibili da nessuno.

Tenuta ben presente questa verità, è chiaro però che bisogna comunque cercare nel passato alcune indicazioni di massima, che possano orientare l’investitore, o il lavoratore in questo caso, quantomeno ad una scelta consapevole.

A questo proposito utilizzeremo anche noi un approccio di tipo storico e confronteremo il rendimento del TFR con quello realizzato in passato dalle forme più tradizionali di investimento, vale a dire i Bot, i Btp e le azioni, in un orizzonte temporale che va dal dopoguerra fino ad oggi.

(2)

Come vedremo, i dati analizzati sono di tipo aggregato, rappresentati da indici di capitalizzazione, non potendo ovviamente fare una analisi sui singoli titoli azionari o obbligazionari: in pratica si tratta di analizzare i risultati di un investitore ben diversificato sul mercato.

Nel fare questo però, terremo ben presente che a nessun lavoratore è consentito di investire autonomamente il proprio flusso di TFR in queste forme, ma che deve necessariamente delegare l’investimento a una delle forme di previdenza complementare già esaminate, anche se fosse in possesso di una notevole cultura economico-finanziaria.

Dunque, dovremo necessariamente esaminare le performance del risparmio gestito italiano, dato che sarà a questi soggetti che i lavoratori, direttamente o indirettamente, dovranno affidare, se vorranno, la loro liquidazione: il che significa analizzare le performance dei fondi di investimento, siano essi azionari, bilanciati o monetari che dir si voglia.

Un’ultima osservazione: nel valutare le performance delle forme di investimento alternative al TFR, non potremo che adottare il punto di vista di un investitore “avverso al rischio”; è ovvio che la riforma della previdenza complementare è diretta principalmente a risolvere i problemi di coloro che si ritroveranno al pensionamento con una pensione pubblica insufficiente, quindi tutti coloro che ricevono già retribuzioni di livello medio – basso, i quali notoriamente sono poco portati ad assumersi rischi superiori alla norma, specialmente in cambio di rendimenti non così superiori a quelli del TFR come si vorrebbe far loro credere.

3.2. BOT, BTP e Azioni

Il Buono Ordinario del Tesoro (BOT) è un titolo c.d. zero-coupon, ovvero senza cedola, emesso dallo Stato Italiano: il suo rendimento è dato dalla differenza tra valore di rimborso (che è uguale al valore nominale, dato che i BOT sono rimborsati alla pari) e il prezzo di emissione, che è sotto la pari.

Lo Stato emette i BOT tramite aste, dette aste competitive, cui possono partecipare solo gli intermediari finanziari, che avvengono sui mercati regolamentati MOT (Mercato Obbligazionario Telematico) e MTS (Mercato dei Titoli di Stato); i titoli sono assegnati agli intermediari che propongono le offerte più vantaggiose per lo Stato, ovvero il prezzo più alto. Per la nostra analisi, utilizzeremo i tassi medi di aggiudicazione dei Bot alle aste del mese di Dicembre (dal 1976) o dell’ultimo mese dell’ano in cui vi sono state emissioni (dal 1971 al 1975); prima del 1971, il tasso medio annuo sui Bot a 10-12 mesi.

(3)

Il Buono del Tesoro Poliennale (BTP) è un titolo poliennale emesso dallo Stato Italiano che paga cedole semestrali in proporzione al valore nominale. Il rimborso, al termine della sua vita, è alla pari.

Il tasso del BTP è in genere fisso, anche se sono stati introdotti di recente i BTP€-I, indicizzati al tasso di inflazione europea (Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo, IACP), che garantiscono con un complesso meccanismo la protezione dall’inflazione.

E’ chiaro che data la durata poliennale (si può arrivare anche a 30 anni), il prezzo del titolo sul mercato secondario è soggetto a oscillazioni durante la sua vita (secondo la relazione inversa prezzo-tasso di interesse), e dunque è una componente importante per calcolare il rendimento, a meno che non si adotti il punto di vista del cassettista puro che detiene i titoli esclusivamente per beneficiare delle cedole e dunque attende fino alla maturità per il loro rimborso.

Per la nostra analisi, utilizzeremo la variazione percentuale sui dodici mesi a fine anno di un indice mensile che tiene conto del reinvestimento delle cedole; dal luglio 1988 l’indice si basa sulle quotazioni dei BTP al mercato italiano MTS; per il periodo precedente, sulle quotazioni alla borsa italiana.

L’azione è un titolo rappresentativo della quota di proprietà di una società; ve ne sono di svariati tipi (ordinarie, privilegiate, di risparmio,...) a seconda dei diritti patrimoniali e/o amministrativi che assegnano.

Il rendimento di un’azione è calcolato non solo sulla base del dividendo cui dà diritto, ma anche sulla variazione del prezzo, dato che l’azione è soggetta a variazioni molto più marcate rispetto ai titoli di Stato, si dice che è molto più “volatile”, quindi più rischiosa. Si può anzi tranquillamente affermare che la componente speculativa è nettamente predominante nel calcolo del rendimento di un’azione.

Per la nostra analisi, utilizzeremo la variazione percentuale sui dodici mesi a fine anno di un indice mensile di capitalizzazione delle azioni quotate sulla borsa italiana, che tiene conto del reinvestimento dei dividendi. Dal gennaio ’93, è l’indice MSCI Italy; per il periodo precedente, dati della Banca d’Italia.

Queste tre forme di investimento sono tra le più note e diffuse tra le famiglie, offrendo un buon ventaglio di opportunità rendimento-rischio; è quindi naturale vedere come si sono comportate nel tempo e soprattutto confrontare il loro andamento con quello del TFR per vedere se è vero che è una forma di investimento che offre dei rendimenti talmente scarsi da indurre i lavoratori ad accogliere a braccia aperte le nuove opportunità offerte dalla previdenza complementare.

(4)

3.3. Analisi storica: dal 1950 al 2006

3.3.1. Rendimenti annuali 1950-2006

Nella tabella 3.1 abbiamo i dati riguardanti i rendimenti annui di BOT, BTP, azioni, TFR dal 1950 al 2006; a fianco abbiamo riportato anche il livello del tasso di inflazione.

L’osservazione di questi dati è molto interessante: abbiamo contrassegnato con un asterisco tutti i casi in cui i rendimenti delle forme alternative di investimento hanno superato il TFR, per poter facilitare l’approccio visivo.

I rendimenti dei BOT sono quasi sempre stati inferiori a quelli del TFR fino alla fine degli anni ’70 quando infatti si diffusero fra le famiglie come la forma principe di investimento, dati gli elevatissimi rendimenti che offrivano, e che determinarono anche il famoso effetto “spiazzamento”, per cui rendevano più delle azioni e verso di loro si piazzò infatti il risparmio privato.

Con la discesa dei tassi dalla seconda metà degli anni ’90, il loro rendimento si è riallineato a quello del TFR, anzi è lievemente minore.

I BTP hanno avuto un andamento a dir poco altalenante, ma in generale hanno registrato quasi sempre rendimenti inferiori a quello del TFR fino alla fine degli anni ’80; essendo questi titoli a lungo termine e a tasso fisso (coupon bond), il loro corso risente molto degli spostamenti della curva dei tassi; infatti registrano le perdite più elevate proprio nel periodo degli anni ’70, quando l’inflazione “galoppante” a 2 cifre provocò un aumento enorme dei tassi nominali per poi invece registrare ottime riprese nei periodi di abbassamento dei tassi di interesse, per la basilare relazione inversa tra tassi di interesse e prezzo delle obbligazioni che è uno dei fondamenti del mercato finanziario.

Infine le azioni italiane: come largamente risaputo, l’andamento dei titoli azionari è fortemente correlato in maniera diretta con l’andamento dell’economia e possiamo infatti leggere, attraverso la lettura dei loro rendimenti, la storia del ciclo economico italiano.

Si va dai periodi migliori come quelli del boom economico ’58-62 o quello della seconda metà degli anni ’90 a quelli peggiori come quello seguente al boom economico culminante con il periodo della c.d. “stagflazione” (la perfida fusione stagnazione-inflazione) degli anni ’70 oppure, per venire a noi, l’11/9/2001 che comunque ci ha toccato solo parzialmente se pensiamo alle perdite da capogiro registrate negli USA.

Quello che si può concludere da questa prima semplice carrellata di dati è che, forse, il TFR non offre rendimenti così scarsi e soprattutto eternamente inferiori a quelli di altre forme di investimento diffuse tra le famiglie: in particolare il suo meccanismo di rivalutazione,

(5)

protegge nei periodi di alta inflazione e di crisi economica, quando i BTP e le azioni soffrono perdite particolarmente elevate.

E’ indubbio invece che nei periodi migliori, soprattutto le azioni assicurano rendimenti molto più elevati del TFR, così come i BTP beneficiano dei periodi riduzione dei tassi di interesse, in genere corrispondenti ai cicli di bassa inflazione.

Quello che va sottolineato è che nessuno può pensare di poter prevedere in anticipo con esattezza quello che accadrà sui mercati finanziari: si pensi che fino agli anni ’70 si riteneva impossibile dal punto di vista economico un periodo con inflazione e recessione contemporanee, tanto che gli economisti dovettero inventarsi un nuovo termine, stagflazione. Né tantomeno prevedere l’11 Settembre. Persino in questo periodo, sono di difficile previsione gli effetti che avrà sull’economia la crisi dei mutui subprime americani, anche se i maggiori organismi internazionali hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita; in Italia si discute persino se nel 2008 la crescita raggiungerà o meno l’1% ! E questa non è certo una buona notizia per chi investe in azioni.

Tabella 3.1: rendimenti annuali delle principali attività finanziarie italiane e del TFR

Anni BOT BTP Azioni TFR Inflazione

1950 4.86 -12.48 10.87* 5.54 5.40 1951 4.86 -1.93 14.96* 7.60 8.10 1952 4.71* 3.16 43.49* 4.21 3.60 1953 4.36* -4.15 9.27* 2.38 1.20 1954 4.17 0.81 37.00* 4.19 3.60 1955 4.17* -6.04 26.96* 3.73 3.00 1956 4.17 -8.68 3.87 4.65 4.20 1957 4.17 -2.42 10.78 4.27 3.70 1958 4.17* 30.76* 21.94* 2.37 1.20 1959 3.86* 5.76* 68.26* 3.31 2.40 1960 3.63* 1.32 27.78* 2.86 1.80 1961 3.63 8.36* 11.30* 4.37 3.80 1962 3.30 1.03 -9.44 5.94 5.90 1963 3.47 -13.39 -10.26 7.00 7.30 1964 3.59 0.72 -24.17 6.10 6.10 1965 3.63 2.96 19.93* 3.64 2.90 1966 3.63* -3.74 13.24* 2.87 1.80 1967 3.58* 0.00 -2.64 2.84 1.80 1968 3.58* 0.36 2.52 2.52 1.4 1969 3.56 -12.11 21.32* 4.75 4.30

(6)

Anni BOT BTP Azioni TFR Inflazione 1970 4.41 -19.49 -14.63 5.51 5.30 1971 6.79* 17.56* -14.91 5.02 4.70 1972 6.04 -1.47 14.98* 7.03 7.40 1973 5.82 -4.62 15.91* 10.69 12.00 1974 7.53 -38.68 -22.89 20.44 25.00 1975 15.61* 24.18* -11.41 9.85 11.00 1976 8.99 -35.06 -5.06 17.82 22.00 1977 16.69 8.31 -24.90 12.70 15.00 1978 12.99* 3.33 34.56 10.40 12.00 1979 12.30 -7.25 11.51 16.34 20.00 1980 14.55 -13.85 110.24* 17.30 21.00 1981 16.14* -24.23 11.80 14.90 18.00 1982 19.98* 8.77 -9.56 13.75 16.00 1983 18.55* 10.91 16.94* 11.06 13.00 1984 17.48* 21.75* 25.36* 8.10 8.80 1985 14.68* 6.29 97.91* 7.94 8.60 1986 13.14 35.99* 59.28* 4.75 4.30 1987 10.01* -4.29 -30.78 5.32 5.10 1988 11.39* 6.44* 23.69* 5.60 5.50 1989 11.51* 11.39* 19.39* 6.39 6.50 1990 13.04* 14.88* -23.19 6.28 6.40 1991 13.03* 17.50* 1.02 6.03 6.00 1992 12.86* 10.77* -7.73* 5.07 4.80 1993 14.10* 29.46* 50.00* 4.49 4.00 1994 8.54* -1.46 6.25* 4.54 4.10 1995 10.44* 16.55* -0.58 5.85 5.80 1996 10.34* 20.57* 8.72* 3.42 2.60 1997 6.58* 12.86* 58.59* 2.64 1.50 1998 5.02* 11.32* 42.88* 2.63 1.50 1999 3.16* -1.52 17.37* 3.10 2.10 2000 3.69* 6.33* 5.89* 3.54 2.70 2001 4.64* 6.65* -22.08 3.22 2.30 2002 3.20 8.73* -20.52 3.50 2.70 2003 2.76 3.68* 15.60* 3.20 2.30 2004 2.30 7.64* 24.30* 2.79 1.70 2005 2.16 5.33 18.79* 2.95 1.90 2006 2.64 -0.01 19.93* 2.75 1.70

(7)

Nella seguente tabella riportiamo le statistiche descrittive riassuntive dell’intero periodo in considerazione:

Tabella 3.2 : statistiche descrittive sui rendimenti delle principali attività italiane e il TFR

BOT BTP AZIONI TFR

Rendimento medio (media geometrica) 7.65% 1.88% 10.93% 6.27% Rendimento medio (media aritmetica) 7.76% 2.90% 14.03% 6.35% Deviazione standard 5.03% 14.09% 28.14% 4.35% Indice di Sharpe -0.41 0.12 -0.31

Il rendimento medio si può calcolare in 2 modi: o con la semplice media aritmetica (3.1) dei rendimenti di periodo o con la formula della media geometrica (3.2):

= = N i i a r N R 1 1 (3.1)

(

1

)

1 1 − + =

= N N i i g r R (3.2)

In realtà, quella della media geometrica è la formula corretta per il calcolo del rendimento medio in capitalizzazione composta ed è a questa che faremo sempre riferimento quando parleremo di “rendimento medio”.

La deviazione standard è un indice di rischio, rappresentante la volatilità dell’investimento, e corrisponde alla radice quadrata della varianza.

Si calcola con la seguente formula:

(

)

= − − = N i i i R R N s 1 2 1 1 (3.3)

Si noti che per costruire la deviazione standard si usa la media aritmetica e non quella geometrica2.

L’indice di Sharpe (che prende il nome da William Sharpe, che lo formulò nel 1966) è uno dei più celebri indicatori di rendimento-rischio.

E’ dato dal rapporto tra differenziale del rendimento del titolo (o del portafoglio) considerato e rendimento privo di rischio e il rischio del titolo stesso, misurato dalla sua deviazione standard.

E’ un indice basato sull’intuizione che il rischio aggiuntivo presentato da ogni titolo rispetto al titolo “free-risk” debba essere remunerato in termini di maggior rendimento; intuizione presente un po’ in tutti i modelli rendimento-rischio sviluppati in letteratura, dal CAPM

2

(8)

(Capital Asset Pricing Model), che è il modello tutt’ora più utilizzato a modelli più recenti come l’APT ( Arbitrage Pricing Theory) di Ross.

Comunque l’indice di Sharpe si calcola nel seguente modo:

p f p SH s R R I = − (3.4) -free itolo risk ento del t dim ren R foglio del porta ento medio dim ren R ortafoglio dard del p tan s deviazione s f p p = = =

In pratica, ci dice quanto viene remunerata ogni unità aggiuntiva di rischio rispetto al titolo privo di rischio, nel nostro caso il BOT. Ad esempio, le azioni hanno, nell’intero periodo, un indice di Sharpe di 0,12: ciò significa che un aumento dell’ 1% della deviazione standard, è compensato da un aumento di rendimento pari allo 0,12%.

Nel caso del BTP e del TFR, tale indice risulta negativo perché essi hanno entrambi un rendimento medio inferiore di quello dei BOT; addirittura i BTP hanno anche un rischio più elevato del BOT e quindi si dice che sono “dominati al I ordine” dai BOT (e anche dal TFR). I BTP nell’intero periodo considerato appaiono decisamente sfavoriti, ciò è dovuto principalmente alle forti perdite registrate negli anni ’70 a causa dello shock inflazionistico; i BOT hanno invece un rendimento medio leggermente superiore a quello del TFR, mentre decisamente superiore è quello delle azioni, a fronte però anche di un’alta volatilità, cioè di un alto rischio come è naturale che sia per questo tipo di titoli.

3.3.2. Performance di medio-lungo periodo

L’analisi condotta nel paragrafo precedente è certamente insufficiente ai nostri fini: quello che interessa l’investitore/lavoratore non è tanto conoscere i rendimenti che le singole forme di investimento finanziario hanno avuto nel singolo anno e nemmeno nell’intero periodo di 57 anni considerato, ma avere qualche informazione riguardo all’andamento dell’investimento in un periodo temporale medio, dato che il TFR è una forma di investimento che si protrae per tutto il periodo lavorativo.

Ecco che la cosa importante da verificare è se affermazioni del tipo “su investimenti di medio/lungo periodo il TFR è nettamente svantaggioso rispetto a altre forme di investimento” oppure “le azioni nel medio/lungo periodo hanno rendimenti superiori a qualsiasi altra forma di investimento” hanno un loro fondamento perlomeno storico, fermo restando che previsioni certe sul futuro non si possono fare.

(9)

Proviamo allora a verificare come sono andate le cose, osservando i seguenti grafici che riportano i rendimenti realizzati da BOT, BTP, Azioni e TFR, rispettivamente su orizzonti temporali di 5, 10 e 20 anni; le date sull’asse delle ascisse sono le date di inizio investimento. Ad esempio in corrispondenza del 1965 si legge il rendimento medio di un investimento rispettivamente nei periodi 1965-1970, 1965-1975 e 1965-1985.

Figura 3.1: rendimenti sui 5 anni

Sull’orizzonte quinquennale, la situazione rimane abbastanza variegata: la linea continua del TFR viene attraversata più volte da quelle delle altre forme di investimento, lungi dunque dall’essere dominato anche su un orizzonte di tempo più robusto dell’anno.

I BTP offrono rendimenti minori quasi ininterrottamente fino agli anni ’80, i BOT procedono spesso appaiati, per poi avere differenziali positivi dalla metà degli anni ’70 fino alla metà degli anni ’90; le azioni hanno periodi di splendore dopo la crisi degli anni ’70 (rendimenti medi annui superiori del 24% al TFR nel periodo 1981-1986 ad esempio) beneficiando del rialzo del mercato dopo i minimi dovuti alla crisi petrolifera e nel periodo di boom economico (+23% sul TFR nel 56-61) e anche nella seconda metà degli anni ’90, ma anche momenti di depressione a inizio anni ’60 (-9% sul TFR nel periodo 60-65) nei primi anni ’70 (addirittura

(10)

-25% sul TFR per chi avesse investito nel periodo 72-77) e, dulcis in fundo, nei periodi investiti dalla crisi dell’11/9 (-5,6% sul TFR nel periodo 1998-2003).

Figura 3.2: rendimenti sui 10 anni

Allungando l’orizzonte temporale di investimento a 10 anni, si ripetono all’incirca le stesse osservazioni per quanto riguarda l’andamento dei titoli di stato: i BOT procedono a un livello mediamente inferiore al TFR fino al 1974, quando si hanno dei differenziali positivi col TFR che si allargano fino all’ordine del 6-7%, per poi però riallinearsi negli anni più recenti, mentre i BTP cominciano a rendere di più dal 1981, mostrando però una tendenza al ribasso negli anni più recenti.

Invece, esaminando l’andamento dei rendimenti su investimenti azionari, si osserva come essi siano al di sopra del rendimento del TFR tranne che per il periodo di investimento che coinvolge fine anni ’60 – inizio anni ’70 (che va dal periodo 1959-1969 al 1973-1983) e per il periodo 1986-1996.

Rispetto all’orizzonte quinquennale, i periodi dove le azioni sono risultate meno convenienti del TFR si riducono (da 24 su 52, cioè il 46%, a 17 su 47, cioè il 36%), con particolare riferimento agli anni ’80 e alla crisi dell’11/9: il più lungo orizzonte temporale permette ai

(11)

rialzi azionari di controbilanciare l’effetto dei periodi negativi, ma siamo ancora ben lungi dall’affermare che “le azioni rendono sempre più del TFR”.

Infine, la figura 3.3, analizza i rendimenti sull’orizzonte ventennale.

Figura 3.3: rendimenti sui 20 anni

Su questo intervallo, si conferma la tendenza vista prima, ma ancora non si può affermare con granitica certezza che il TFR è sempre superato dalle performance azionarie: gli effetti della crisi di fine anni ’60 – anni ’70 si fanno sentire eccome, anche in un orizzonte di 20 anni. L’orizzonte ventennale fa sì che i rendimenti medi dell’investimento azionario (almeno nel periodo da noi analizzato) non divengano mai negativi; ma nel confronto col TFR sorprendentemente abbiamo ancora 15 periodi su 37 analizzati (il 40%!), in cui il TFR batte ancora le azioni. Eguale cifra raggiungono i BOT; i BTP restano invece il fanalino di coda. Pur riducendosi, continuano ad esserci periodi in cui il differenziale negativo tra rendimento dell’investimento azionario e del TFR rimane notevole.

Chi avesse investito nel periodo 1959-1979 in azioni, avrebbe avuto un rendimento medio annuo inferiore a quello del TFR di 7 punti percentuali ! Soltanto dal periodo 1973-1993 i rendimenti azionari staccano decisamente quelli del TFR, riuscendo a recuperare le perdite sui mercati finanziari di quegli anni disastrosi.

(12)

Dopo questa prima semplice analisi descrittiva si possono concludere alcune cose:

− Non è vero che il TFR sia sempre stato dominato dai titoli di stato e nemmeno dalle azioni, pur essendo queste ultime i titoli a più elevato rendimento e anche a più elevato rischio;

− Si nota, all’aumentare dell’orizzonte temporale di investimento, una tendenza delle azioni e anche degli altri titoli a superare il TFR in termini di rendimento medio o perlomeno ad attenuarne gli scostamenti nei periodi più bui; tuttavia siamo ben lungi dall’affermare che questo sia sempre accaduto in passato e tantomeno possiamo assicurare che avverrà in futuro;

− Il periodo che mette in crisi le nostre certezze, se mai ve ne sono state, è quello del dopo boom-economico fino alla fine degli anni ’70, un periodo particolarmente difficile caratterizzato da recessione e inflazione galoppante, che ha depresso sia i corsi delle obbligazioni di tipo coupon bond (come i BTP), che le quotazioni delle

azioni, rendendo semmai preferibile l’investimento in BOT.

Molti si dicono sicuri che una tale congiuntura difficilmente si ripeterà, tuttavia proprio in questi giorni si fanno sempre più fosche le previsioni sulla crescita europea (negli USA si parla ormai di recessione), mentre l’inflazione nel gennaio 2008 arriva a toccare il livello del 2,9%, che non si raggiungeva dal luglio del 2001: insomma, chi vivrà vedrà.

(13)

3.4. Il risparmio gestito italiano

Abbiamo già osservato nel paragrafo 3.1 che il lavoratore non è libero di investire la propria liquidazione in una delle forme di investimento viste sopra né in altre che non siano quelle previste espressamente dalla riforma Maroni (cioè tutte quelle esaminate nel par. 2.3), le quali, direttamente o indirettamente, fanno sempre riferimento a tutti quei soggetti che operano nel settore della gestione collettiva del risparmio o risparmio gestito.

Vediamo un po’ meglio chi sono questi soggetti e come hanno operato in passato.

3.4.1. L’attività di gestione collettiva del risparmio

Il Dlgs n. 58/98, noto anche come “Legge Draghi” o TUF (“Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria”), nel disciplinare l’attività mobiliare, la distingue essenzialmente in 2 grandi fattispecie: l’attività di servizi di investimento da una parte e quella di gestione collettiva del risparmio dall’altra.

Mentre la prima si caratterizza essenzialmente per attività come la negoziazione e il collocamento di strumenti finanziari, la gestione di portafogli individuali e la ricezione e trasmissione di ordini (art. 1, 5°c.), la seconda si caratterizza per la “promozione, istituzione e organizzazione di fondi comuni di investimento, e l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti” e “la gestione del patrimonio di OICR, di propria o altrui istituzione, mediante l’investimento avente ad oggetto strumenti finanziari, crediti, o altri beni mobili o immobili”(art. 1, 1°c., lettera n).

Per OICR, si intendono gli “organismi di investimento collettivo del risparmio, e sono due: i fondi comuni di investimento, il cui patrimonio autonomo è suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti e le SICAV, società a capitale variabile il cui oggetto sociale consiste esclusivamente nell’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di azioni.

E’ del tutto evidente la somiglianza tra fondi pensione e fondi comuni di investimento: sono entrambi patrimoni autonomi divisi in quote e gestiti su base collettiva, cioè senza riguardo alle esigenze particolari del partecipante; anche se, ovviamente, i fini sono diversi, poiché il fondo comune è un vero e proprio investimento finanziario mentre il fondo pensione ha marcatamente delle finalità previdenziali.

E per quanto riguarda i gestori?

La gestione dei fondi comuni di investimento è demandata a due soggetti: le SGR, società di gestione del risparmio, costituite ed operanti in Italia e le SGA, cioè le società di gestione

(14)

armonizzate, soggetti costituiti in altri stati UE e che possono esercitare l’attività di gestione del risparmio sulla base delle norme in materia di mutuo riconoscimento.

Va detto comunque che le SGR, seppur formalmente diverse da banche e assicurazioni, fanno comunque spesso capo a grandi gruppi bancari e assicurativi: basta vedere alcuni nomi come Banca Generali SGR, BiPiemme Gestioni SGR, BNP Paribas Asset Management SGR, per capire questa semplicissima situazione.

D’altro canto, abbiamo già visto (par. 2.3) che sia i fondi pensione negoziali, in via indiretta per convenzione, sia i fondi pensione aperti, sono gestiti da banche, SIM, SGR e Assicurazioni.

Dunque, con una certa approssimazione, sia i risparmi raccolti dai fondi comuni di investimento che i contributi ai fondi pensione vanno a finire nelle mani dei soliti soggetti: il che non significa ovviamente nulla di per sé, dipende da quello che l’industria del risparmio gestito italiano ha prodotto in questi anni, tenendo conto che l’esordio dei fondi comuni di investimento sul mercato finanziario italiano si ha nella prima metà degli anni ’80.

3.4.2. La classificazione dei fondi comuni di investimento

Nella breve analisi sulle performance dei fondi comuni di investimento italiani che effettueremo, utilizzeremo le serie storiche dal 1999 degli indici Banca Fideuram: tali indici vengono calcolati prendendo a riferimento la classificazione adottata dalla Assogestioni, cioè l’organizzazione dei gestori del risparmio italiano, aggiornata al 1 Luglio 2003, e sono quelli in assoluto più utilizzati nel campo del risparmio gestito, essendo addirittura i benchmark per molte linee di gestione.

Gli indici sono calcolati come media ponderata delle quotazioni giornaliere dei fondi rientranti in una data categoria o sottocategoria rapportate alla quotazione base. La ponderazione resta quindi invariata per un trimestre, prendendo a riferimento i patrimoni dei fondi valorizzati alla fine del trimestre solare precedente.

I fondi di nuova emissione entrano a far parte del calcolo dal trimestre solare successivo a quello della data di emissione sul mercato.

In particolare, noi prenderemo in considerazione le cinque macrocategorie di base:

− Fondi Azionari: tutti quelli che investono almeno il 70% del portafoglio in azioni e il residuo in titoli obbligazionari e liquidità;

− Fondi Bilanciati: si caratterizzano essenzialmente per la percentuale di titoli azionari in portafoglio e si dividono in Bilanciati azionari, con percentuale compresa fra il 50%

(15)

e il 90%, Bilanciati puri, con percentuale tra il 30% e il 70%, e Bilanciati obbligazionari, con percentuale tra il 10% e il 50%;

− Fondi Obbligazionari: investono esclusivamente in obbligazioni e liquidità, anche se vi si possono trovare azioni provenienti da operazioni di conversione (es. se possedevano in patrimonio obbligazioni convertibili);

− Fondi Liquidità: investono anch’essi in obbligazioni e liquidità, ma con particolari vincoli sugli investimenti effettuabili, come il limite minimo di rating A2(Moody’s) o A(S&P) e la duration del portafoglio inferiore a 6 mesi (la duration è un indice che misura la sensibilità del portafoglio agli spostamenti della curva dei tassi, particolarmente indicato come indice di rischio per questo tipo di fondi);

− Fondi Flessibili: sono una categoria residuale, che non ha alcun vincolo sull’asset allocation e non condividono alcuno specifico fattore di rischio (es. geografico, settoriale, valutario,...).

Naturalmente, la classificazione Assogestioni non si ferma qui, ma entra molto più nel particolare, suddividendo anche per aree geografiche, settori, ... Quello che a noi interessa è avere delle indicazioni di massima sulle performance dei fondi comuni italiani negli ultimi anni e non possiamo certo andare ad investigare ogni singola linea di investimento.

Va tenuto presente quindi che la nostra analisi è di tipo aggregato, come del resto lo è stata fino ad adesso: ci saranno senz’altro anche fondi comuni che sono andati meglio della media rappresentata da questi benchmark, così come ce ne saranno anche alcuni che sono andati peggio.

3.4.3. Le performance del risparmio gestito italiano

Di seguito riportiamo l’andamento di questi indici rappresentativi le 5 linee di gestione sopra descritte nel periodo Dicembre 1999 – Febbraio 2008, con sotto le statistiche descrittive principali per il periodo considerato e cioè il rendimento medio, la devianza e l’indice di Sharpe, utilizzando come tasso privo di rischio il rendimento medio dei BOT del periodo considerato.

Ovviamente bisogna tenere conto che questo periodo è anche fortemente influenzato dall’effetto 11/9; tuttavia è anche vero che, almeno in teoria, i gestori dei fondi comuni di investimento dovrebbero essere soggetti altamente specializzati, in grado di selezionare gli investimenti migliori in termini di rendimento-rischio (capacità di market picking) e attuare

(16)

periodi nefasti e, al contrario, sfruttare al massimo i periodi di rialzo del mercato finanziario (capacità di market timing)3; altrimenti non si capisce per quale motivo dover affidare i propri risparmi a questi soggetti anziché investire autonomamente, magari in titoli più sicuri.

ANDAMENTO DELLE QUOTE DEI FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO (Dicembre 1999-Febbraio 2008)

0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 31/ 12/ 1999 30/ 06/ 2000 31/ 12/ 2000 30/ 06/ 2001 31/ 12/ 2001 30/ 06/ 2002 31/ 12/ 2002 30/ 06/ 2003 31/ 12/ 2003 30/ 06/ 2004 31/ 12/ 2004 30/ 06/ 2005 31/ 12/ 2005 30/ 06/ 2006 31/ 12/ 2006 30/ 06/ 2007 31/ 12/ 2007 Date V a lo re q uot e Fondi Azionari Fondi Bilanciati Fondi Obbligazionari Fondi Flessibili Fondi Liquidità Figura 3.4

Tabella 3.2: rendimenti % di periodo e statistiche descrittive dei fondi comuni

Date Fondi

Azionari Fondi Bilanciati

Fondi Obbligazionari Fondi Flessibili Fondi Liquidità 2000 -12.70 -1.34 4.45 -8.22 3.10 2001 -16.86 -6.18 3.46 -13.68 3.47 2002 -26.88 -11.55 2.81 -13.36 2.59 2003 10.18 4.58 1.76 6.65 1.61 2004 6.16 3.99 2.48 3.93 1.28 2005 19.72 8.87 2.33 8.35 1.20 2006 9.87 2.96 0.57 4.20 1.89 2007 0.17 -0.94 1.39 1.07 2.76 Media -2.98 -0.14 2.40 -1.75 2.23 Dev. Std. 15.96 6.53 1.21 8.99 0.86 I. Sharpe -3.17 -0.49 -0.54 -0.54 -0.96

(17)

Osservando la figura 3.4, si nota come vi sia un andamento fortemente correlato dei fondi azionari, bilanciati e flessibili, da una parte, e degli obbligazionari e liquidità dall’altra.

E’ abbastanza naturale forse tranne che per i flessibili, che, almeno a giudicare dalla definizione che ne dà Assogestioni, dovrebbero essere fondi gestiti in maniera assai alternativa agli altri, di certo avrebbero dovuto cercare di evitare le perdite del dopo 11/9 invece di seguire in maniera così pedissequa i fondi azionari.

Ma è certamente la tabella 3.2 quella che fa riflettere: intanto i fondi azionari, bilanciati e flessibili hanno fatto registrare nel periodo un rendimento medio negativo.

Come abbiamo già osservato, è indubbio che l’effetto 11/9 si è fatto notevolmente sentire, bisogna anche pensare che i fondi azionari comprendono anche quelli che investono nei mercati USA, particolarmente colpiti.

Passi dunque per gli azionari (che però avrebbero potuto fare meglio negli anni successivi di ripresa), non si capisce però perché i bilanciati, e peggio ancora i flessibili che dovrebbero avere poco o nulla a che fare con i 2 precedenti, non abbiano cercato di contenere maggiormente le perdite puntando sui titoli obbligazionari in misura maggiore.

Ma non è tutto: in un periodo in cui i BOT hanno reso mediamente il 3.06% e i BTP il 4.55% (come si può facilmente calcolare dalla tabella 3.1, anche se mancano i dati del 2007), anche i fondi obbligazionari e liquidità hanno reso regolarmente meno, come testimoniano i valori tutti negativi dell’indice di Sharpe. Qui, l’alibi dell’11/9, se prima poteva parzialmente giustificare le terrificanti performance negative, ora non può reggere assolutamente.

I risparmiatori ovviamente si sono accorti di tutto questo: basta guardare i seguenti dati sulla raccolta netta dei fondi comuni4:

Tabella 3.3: dati sulla raccolta netta (milioni di euro)

Gennaio ‘08 Dicembre ‘07 Novembre ‘07 Un anno fa

RACCOLTA NETTA TOTALE -19,155.06 -5,598 -7,934.80 -5465

Fondi Azionari -9659.8 -1,388.1 -4981.4 -451.5 Fondi Bilanciati -1,763.2 -593.6 -826.4 -498.3 Fondi Obbligazionari -5,998.5 -2945 -3867 -3696.4 Fondi Liquidità 886.4 -13.1 2195.2 -2445.4 Fondi Flessibili -2812.7 -721.7 -772.3 1,646.8 Hedge Fund 192.2 63.5 317.1 -20.2 4

(18)

Come è noto, la raccolta netta è data semplicemente dalla sommatoria dei flussi netti di liquidità affluiti al fondo nel periodo di riferimento. Nel nostro caso abbiamo i dati di Gennaio ’08, confrontati con quelli dei due mesi precedenti e di un anno fa (cioè Gennaio ’07): in questo caso ci paiono dati assolutamente inequivocabili, che testimoniano una fuga generale dal risparmio gestito e in misura sempre crescente rispetto ai periodi precedenti.

Si salvano, ma per ovvi motivi, solo le categorie dei fondi liquidità e gli hedge: i primi perché sono quelli dai quali non ci si aspetta un grosso rendimento di per sé, vengono in genere detenuti dai risparmiatori al posto di un libretto di risparmio o di un c/c (e non sono comunque andati peggio degli altri), i secondi perché al contrario sono prodotti altamente speculativi a cui si rivolgono generalmente solo soggetti esperti e con un reddito ragguardevole.

Lo stesso governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, interviene in maniera molto pesante sulla crisi dei fondi comuni affermando fra l’altro5: “...il ridimensionamento di questo settore è un caso unico tra i principali paesi europei....Nel portafoglio delle famiglie italiane l’incidenza dei fondi comuni si è più che dimezzata tra il 2000 e oggi”.

Poi ne analizza le cause, sia di tipo normativo: “gli svantaggi fiscali penalizzano decisamente i fondi italiani rispetto a quelli esteri [si riferisce in questo caso alla tassazione che in Italia

avviene sui rendimenti maturati anziché su quelli effettivamente realizzati]....asimmetrie nella regolamentazione in materia di trasparenza e nella struttura delle commissioni, meno favorevoli rispetto ai prodotti assicurativi e strutturati”, sia di tipo strutturale “..l’attuale crisi mostra l’insufficienza dei modelli validi in passato. Le società di gestione e i rispettivi gruppi di appartenenza devono riconsiderare il proprio posizionamento strategico, realizzando economie di scala, accentuando la specializzazione, allineando gli oneri a carico dei risparmiatori alle caratteristiche dei prodotti e alle condizioni dei mercati”.

Infine arriva alle amare conclusioni: “La Banca d’Italia ha richiamato più volte l’industria del risparmio gestito alla necessità di affrontare questi nodi strutturali, in particolare aprendo le reti distributive, assicurando in modo adeguato l’indipendenza, dove opportuno anche con una separazione proprietaria, delle società di gestione del risparmio dai gruppi bancari [commistione che noi abbiamo già osservato nel par. 3.4.3 e fonte, par di capire, di

notevoli conflitti di interesse]. La risposta è stata finora deludente.”

Con queste ultime parole di Draghi, che ci sembrano emblematiche, concludiamo anche noi la nostra breve analisi sul risparmio gestito italiano.

(19)

3.5. Conclusioni

In questo capitolo abbiamo provato a cercare di rispondere fondamentalmente a una domanda: risponde a verità l’affermazione secondo cui il rendimento assicurato dal TFR secondo le regole dell’art. 2120 cc è perennemente inferiore a quello di tutte le altre forme di investimento finanziario disponibili sul mercato?

Possiamo affermare che l’evidenza empirica non ci permette di concordare con questa asserzione, conclusione alla quale si giunge analizzando semplicemente quelli che sono i dati raccolti dal dopoguerra a oggi, anche in orizzonti di medio – lungo periodo.

Questo non significa ovviamente che d’ora in poi non possa accadere che i rendimenti azionari o dei titoli di Stato superino di gran lunga quello del TFR anche per lunghi periodi, ma nemmeno che questo possa essere assicurato matematicamente o sulla base dell’osservazione storica.

Il pessimismo aumenta ancora se si pensa che a formare quella che dovrebbe essere la nostra futura pensione integrativa saranno i soggetti del risparmio gestito italiano, dai quali i risparmiatori stanno fuggendo in massa, preferendo, evidentemente visti i risultati, investire da soli i propri risparmi.

Anche qui, può darsi che in futuro le SGR vedano migliorare le loro capacità (magari seguendo i consigli di Draghi) e che riescano a fornire performance più incoraggianti: ma per il momento i risultati sono quelli visti, non certo molto incoraggianti.

Figura

Tabella 3.1: rendimenti annuali delle principali attività finanziarie italiane e del TFR
Figura 3.1: rendimenti sui 5 anni
Figura 3.2: rendimenti sui 10 anni
Figura 3.3: rendimenti sui 20 anni
+3

Riferimenti

Documenti correlati

Lavoratore può decidere di destinare parte della retribuzione al fondo prescelto, anche in assenza di accordo collettivo (comunica al datore di lavoro entità del contributo e

La somma anticipata viene detratta dal TFR complessivamente spettante al lavoratore, determinando così - per quella parte - l'effetto estintivo dell'obbligo del datore di lavoro

Prima rata: entro 3 (tre) mesi dalla maturazione del diritto al pagamento della prima quota o dell’importo in unica soluzione del TFS/TFR Seconda e terza rata (se

Infatti i partecipanti a fondi pensione aperti o pip potranno mantenere le loro posizioni anche in caso di cambio di attività lavorativa; è possibile inoltre trasferire la

h) ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro che ab- biano sottoscritto un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti di cui all’articolo 7, della

Inoltre è da dire che a differenza del settore privato, per i dipendenti pubblici i nuovi termini di pagamento e liquidazione Tfr cambiano a seconda delle cause di cessazione del

Marcolin e Max Mara annun- ciano il lancio ufficiale della loro prima collezione eyewear, frut- to della partnership quinquen- nale annunciata dalle due aziende lo scorso settembre e

…e questo lo può testimoniare quell’ 84,8 % di lavoratori del privato che, anche grazie alla nostra campagna di informazione, non ha ceduto alla tentazione, pur fortemente