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CAPITOLO 1. Trieste tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita del Territorio Libero di Trieste. 1.1 La corsa per Trieste.

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CAPITOLO 1. Trieste tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita del Territorio Libero di Trieste.

1.1 La corsa per Trieste.

Il 20 aprile 1945, in una Trieste grigia di pioggia, di paura e di guerra, si consumò l’ultimo atto ufficiale dell’occupazione tedesca della città. L’Obereste Kommissar dell’Adriatisches Küstenland, il carinziano Friedrich Alois Rainer, ricevette le autorità nel castello di Miramare, per festeggiare l’ultimo genetliaco del Führer. Nello stesso giorno gli Alleati erano ormai giunti alle porte della Pianura Padana, mentre sul fronte orientale l’Armata jugoslava raggiungeva i confini della Venezia Giulia. Nei giorni seguenti i disperati tentativi tedeschi di spezzare l’assedio a nord di Fiume furono respinti con gravi perdite e a nulla valse il cannoneggiamento verso il Carso. Nel frattempo sul fronte occidentale gli Alleati liberavano Bologna, Parma, Verona e il 29 aprile giungevano a Venezia. Il 28 aprile a Trieste, in Piazza Oberdan, Unità d’Italia e nelle periferie, si registrarono i primi scontri tra i partigiani triestini e i tedeschi che, verso sera, oramai accerchiati furono costretti ad abbandonare il faro della Vittoria e la Capitaneria di porto. Finalmente, dopo tanti anni, il tricolore tornò a sventolare sul Palazzo della Prefettura e sul Municipio triestino. La gioia popolare che accompagnò l’evento fu però di breve durata.

Da giorni le divisioni dell’Armata jugoslava e alleate marciavano a tappe forzate nel tentativo di raggiungere la città. Vincere la “Corsa per Trieste” significava non solo avere il controllo di una città, ma anche quello di un’intera regione destinata a diventare una delle zone calde del dopoguerra.

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Trieste era l’unica zona in Europa dove le tre grandi potenze non avevano raggiunto un accordo di spartizione. Ciò non era dovuto solo al complesso intreccio di nazionalità presenti nella regione, ma anche al fatto che sovietici e inglesi vantavano in quella zona divergenti e contrapposti interessi. Fu per questo deciso che la soluzione migliore era quella del rinvio, posizione però che finì per

giocare, peraltro, ad esclusivo vantaggio di Tito1.

Il 30 aprile, le prime avanguardie jugoslave penetrarono nella periferia triestina. Contemporaneamente, sul fronte occidentale, i neozelandesi, grazie all’aiuto dei partigiani della Osoppo, accelerarono ulteriormente la loro avanzata. In questo scenario il CLN triestino proclamò l’insurrezione generale. Quella notte però, sui muri di Trieste comparvero i manifesti con l’invito di Togliatti ad accogliere le truppe di Tito come liberatrici e a collaborare con loro. Si trattava dei primi segni che la liberazione di Trieste non sarebbe stata uguale alle altre.

Il 1° maggio, alle 9.30 del mattino, la quarta armata e il IX Korpus sloveno entrarono in città. I Tedeschi si asserragliarono nel Castello di San Giusto e nel palazzo di Giustizia, intanto in città, nei rioni di San Giacomo e di Roiano, si registravano i primi scontri tra italiani comunisti e non comunisti. Nel rione di San Giacomo le formazioni di “Delavaska Enotnost – Unità Operaia”, dopo aver disarmato la brigata “Frausin” di Giustizia e Libertà, tolsero la bandiera italiana dall’ex caserma dei Carabinieri e minacciarono l’uso delle armi contro i partigiani che presidiavano l’edificio. Solo l’intervento di Ercole Miani, membro azionista del CLN e carismatico capo giellino, evitò che la situazione degenerasse in bagno di sangue.

1 Raoul Pupo, Fra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945 – 1954), Udine, Del Bianco Editore, 1989, pag. 27-28.

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All’alba del 2 maggio le divisioni neozelandesi, superati i fiumi Tagliamento e Isonzo, giunsero a Pieris, dove vennero accolti con ostilità dai partigiani jugoslavi, che già controllavano la città. I vertici neozelandesi decisero di dividere in due tronconi le loro divisioni: una parte si sarebbe diretta verso Duino lungo la costiera, l’altra avrebbe raggiunto il Carso. Alle 12 del 2 maggio 1945 le truppe neozelandesi della 2^ Divisione, comandata dal generale Freyberg, raggiunsero e occuparono il castello di Miramare. Alle 16 entrarono in città, circondati dalla fanteria e dai carri armati jugoslavi, ma accolti con tripudio dai triestini. “Il loro benvenuto richiamò nelle strade folle eccitate ed esultanti. Erano soprattutto italiani che sventolavano il tricolore e ci salutavano in italiano. Si sentivano evidentemente sollevati dal nostro arrivo. Il loro benvenuto fu completamente diverso dalla fredda accoglienza riservataci dalle strade semivuote di Monfalcone. Qui, a Trieste, la gente individualmente salutava felice la fine della guerra e la speranza di aver diritto a dare il proprio contributo alla costruzione

del futuro della propria città”2. Subito dopo il 22° battaglione

raggiunse il Castello di San Giusto, dove i tedeschi continuavano a resistere, nonostante fossero cinti d’assedio dagli jugoslavi. Alla loro vista i tedeschi aprirono immediatamente i cancelli, arrendendosi. Con grande scorno delle truppe titine che così non poterono mai rivendicare la resa nazista. Per i nazisti l’unico esercito regolare era quello alleato. A Palazzo di Giustizia fu invece necessario un attacco congiunto jugoslavo-neozelandese per aver ragione di 200 soldati tedeschi.

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1.2 L’occupazione jugoslava di Trieste.

La corsa per Trieste terminò senza un vincitore “condiviso”: fin da subito Tito e i suoi uomini rivendicarono il diritto di proclamarsi liberatori della città, essendo stati i primi ad arrivare; da parte occidentale invece si sosteneva che le truppe di Freyberg sarebbero state in grado di raggiungere Trieste già il 1° maggio, se non fossero state rallentate proprio dagli jugoslavi a Monfalcone, e che, soprattutto, i tedeschi si erano effettivamente arresi nelle loro mani. La divergenza tra le due parti scaturiva dal fatto che “gli Alleati Occidentali, a differenza degli Jugoslavi, non considerarono Trieste un obbiettivo primario fin dall’inizio di quella campagna finale. Fu solo il 24 aprile che il Feldmaresciallo Alexander chiese istruzioni precise per Trieste e, appena il 30 aprile, quando, con il Generale Drapsin già alle porte di Trieste, che tali istruzioni arrivarono. Se Trieste fosse stata designata come obbiettivo dell’Ottava Armata più tempestivamente, se l’Ottava Armata fosse stata chiamata ad assumersi i rischi inerenti ad una precoce puntata attraverso il Friuli, saremmo arrivati a Trieste con uno, due, o forse addirittura tre

giorni d’anticipo”3.

Gli jugoslavi sapevano che la presenza neozelandese a Trieste, Monfalcone e Gorizia era controproducente per le loro ambizioni, quindi non restava loro che proseguire nell’occupazione della Venezia Giulia muovendo verso nord, lungo l’Isonzo fino al confine austriaco, provvedendo ad organizzare nei territori occupati un’amministrazione militare jugoslava, prima che gli alleati potessero far valere la loro autorità.

La sera del 2 maggio il comandante jugoslavo colonnello Vodopivez, annunciò al generale Freyberg di aver assunto il

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comando generale della città, anticipando in questo modo le mosse degli alleati. Intanto il Generale Arso Jovanovic, capo di stato maggiore di Tito, convocò l’ufficiale di collegamento della Quarta Armata onde esprimergli l’irritazione comunista per l’arrivo della divisione neozelandese in zone già controllate dagli jugoslavi, e la sua ferma determinazione circa il fatto che tutto il territorio ad est dell’Isonzo rappresentasse un obiettivo militare jugoslavo in cui la presenza occidentale riusciva inutile e sgradita.

A quel punto venne organizzata la nuova amministrazione della città, con la stessa tecnica adottata negli altri territori liberati: furono così impiegate per il disbrigo dell’attività amministrativa provvisoria solo le formazioni clandestine vicine a Belgrado. Nel caso triestino tale compito fu affidato al CEAIS, ovvero al Consiglio di Liberazione Italo-Sloveno e, immediatamente nella notte tra il 2 ed il 3 maggio, i tredici membri di detto organo furono

convocati nel palazzo della Prefettura4, dove venne loro comunicata

la presa del comando della città. Il nuovo organo era guidato dal generale Josip Černi, che aveva il compito di organizzare l’amministrazione militare della città, affiancato dal generale Dusan Kveder, come vice comandante, e da Franc Stoka, commissario politico e vero uomo di Tito a Trieste.

La mattina del 3 i triestini si svegliarono in un clima di strana calma; piazza Unità d’Italia era imbandierata a festa e, dai balconi e dalle finestre della Prefettura e del Municipio, sventolavano la bandiera rossa, quella jugoslava e il tricolore, in cui lo stemma sabaudo era però stato sostituito dalla stella rossa. Solo più tardi e in posizione defilata comparvero i vessilli inglese e statunitense. Le

4 Durante l’insurrezione il Palazzo della Prefettura era diventato la sede del CLN triestino. Le truppe di Tito lo occuparono la sera del 1° maggio, grazie all’aiuto dei partigiani comunisti italiani. Una ventina di membri del CLN, presenti nel palazzo, furono arrestati e deportati a Lubiana dove vennero fucilati.

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misure della nuova amministrazione non tardarono a farsi sentire: sui muri della città, il “Kommando Mesta Trst” (Comando città di Trieste), fece affiggere i primi decreti, firmati da Cerni e da Stoka. Vi si annunciava o intimava: la proclamazione dello stato di guerra e il ripristino della legge marziale; l’obbligo di dichiarare tutti i veicoli civili entro cinque giorni; la riconsegna di tutte le armi; il coprifuoco dalle 3 del pomeriggio alle 10 del mattino; l’ordine di spostare indietro di sessanta minuti l’ora legale per uniformarsi al resto della Jugoslavia. Questo fu l’inizio ufficiale dell’occupazione titina. In quello stesso pomeriggio migliaia di contadini sloveni furono portati in città e fatti sfilare, nel tentativo di dar vita a una manifestazione filoslava al grido di Trst jè nas! (Trieste è nostra).

Trieste era deserta, i negozi chiusi e sbarrati5. Intanto in città

iniziarono i primi arresti immotivati e le prime violenze da parte degli jugoslavi. “Attraverso le porte del Grand Hotel cominciò a riversarsi una marea di delegazioni: imprenditori italiani esasperati che cercavano protezione per le loro proprietà; il Vescovo di Trieste (Monsignor Santin) seriamente preoccupato per il numero degli arresti. Gli Italiani del Comitato di Liberazione Nazionale, poi, protestavano perché gli Jugoslavi non aggredivano e deportavano nell’interno della Jugoslavia solo gli ex-fascisti, ma arrestavano anche gli Italiani antifascisti che non volevano che la città diventasse jugoslava. Il terrore stava travolgendo la città come

un’epidemia”6.

5 Avvenimenti analoghi si riproporranno sempre più frequentemente durante il periodo del Territorio Libero. Le manifestazioni filoslave erano effettuate con uomini e donne reclutati nelle campagne che sfilavano in una città deserta. Le manifestazioni filoitaliane, sempre più numerose di quelle filoslave, erano formate da gente che, in maniera anche chiassosa e disordinata, usciva dalle case, dai luoghi di lavoro e andava ad ingrossare le file dei manifestanti. Il tutto contornato da una città festante, dove da ogni finestra sventolavano bandiere tricolori.

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Sempre la mattina del 3 maggio Tito inviò ad Alexander un messaggio in cui chiedeva spiegazioni sul perché le forze alleate fossero entrate a Trieste, Monfalcone e Gorizia. Un analogo messaggio fu inviato il giorno seguente al generale Freyberg, “che il 2 aveva nominato il generale Gentry comandante di tutte le truppe britanniche a Trieste, dovette decidere se accettare l’esistenza dell’amministrazione jugoslava e quindi implicitamente di riconoscerla, oppure tirare avanti ed insistere perché nella regione di Trieste fosse instaurato il governo militare alleato come era stato

fatto in altre parti d’Italia dalle forze alleate”7. Fu scelta la prima

opzione in attesa di istruzioni da parte di Alexander. Venne bloccato quindi a Monfalcone un autocarro pieno di carabinieri e fermati gli ufficiali anglo-americani incaricati di raggiungere Trieste per organizzare il governo militare alleato nella Venezia Giulia. Fu deciso di comunicare agli jugoslavi il riconoscimento dell’amministrazione civile, ammonendoli però che non sarebbero state tollerate ulteriori misure di polizia immotivate.

Agli jugoslavi ciò non bastò, tant’è che l’agenzia di stampa Tanjug pubblicò la sera stessa un comunicato proveniente dal Quartier Generale dell’Armata Jugoslava, in cui si dichiarava che Trieste e Gorizia non potevano essere occupate dalla Divisione Neozelandese, perché entrambe liberate dalle forze jugoslave. Vi si specificava pure che i tedeschi erano stati cacciati dall’Armata Jugoslava già il 30 aprile, perciò le truppe alleate erano penetrate senza permesso nelle città suddette. Il comunicato terminava con la minaccia, neanche tanto velata, di ricorrere alle armi qualora ci fosse stato bisogno. Freyberg non si lasciò tuttavia impressionare:

7 Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano, Mursia, 1973, pag. 165.

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dichiarò di essere in attesa di comunicazioni dal Comando di Caserta e ribadì di essere pronto a rispondere alla forza con la forza.

Fallito il tentativo di spaventare gli Alleati, gli jugoslavi si dedicarono ad usare la mano pesante sulla popolazione triestina. Infatti la neonata Guardia del popolo e l’OZNA, la polizia segreta jugoslava, diedero vita ad un rigido regime di terrore: intensificò l’opera di eliminazione sistematica degli italiani, sottopose a strettissimo controllo titino le banche e la radio, chiuse i giornali esistenti e li sostituì con quattro nuovi fogli, tutti filocomunisti. Il clima peggiorò ulteriormente, quando da Belgrado giunse la notizia ufficiale che Pola, Fiume e le altre terre quarnerine erano sotto il controllo jugoslavo.

A Roma, il 5, si tenne un’imponente manifestazione studentesca per rivendicare l’italianità della Venezia Giulia. Lo stesso giorno i triestini diedero vita a un altro grande corteo per riaffermare l’italianità della città, corteo che si concluse in un bagno di sangue: cinque persone furono uccise dagli uomini dell’Armata Rossa, che

aprirono il fuoco sui manifestanti8. “I fatti del 5 maggio maturarono

in una combinazione di episodi, casualità e coincidenze”9. Nel corso

di quella mattina si era diffusa la voce di una nuova manifestazione di stampo filojugoslava, in vista dell’arrivo a Trieste del generale americano Mark Wayne Clark, non un generale qualsiasi, ma l’uomo della liberazione di Roma. Così una folla sempre più consistente di persone andò radunandosi spontaneamente in Piazza Unità d’Italia a far da argine ai titini. Al grido di Italia, Italia la folla mosse verso l’Hotel de la Ville, sede del comando della 9th brigata neozelandese. “La folla proseguì verso Piazza Tommaseo.

8 Ai caduti di via Imbriani, compresa la signora Drassich, fu conferita, dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, la Medaglia d'oro al merito civile il 9 gennaio 2006. 9 Roberto Spazzali, Pallottole sulla folla, e il selciato di via Imbriani si tinse di rosso, Il Piccolo, 4 maggio 2005.

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Una parte continuò per piazza della Borsa e per corso Italia, un’altra risalì per via San Nicolò e, all’altezza di via Roma, via San Spiridione e via Dante, confluì nel folto corteo che spontaneamente si era formato. Alle finestre di casa molti esposero i tricolori italiani, alcuni ancora con lo stemma sabaudo, altri con un buco in mezzo. Delle bandiere vennero anche lanciate dalle finestre ai dimostranti, che le presero e le sventolarono ben volentieri in un clima di festa e

di ritrovata libertà”10. Giunto in Piazza Goldoni il corteo si fermò

sotto la sede del Piccolo, lo storico quotidiano triestino. “A un balcone si affacciano tre giovani e uno di questi, Bruno Gallico, ex ufficiale dell’esercito italiano, tiene un breve discorso inneggiante ai vincoli italiani di Trieste alla madrepatria. Improvvisamente sopraggiunge un automezzo con a bordo una ventina di bersaglieri italiani di scorta alla salma del tenete Galliano Marchiali caduto a Bergamo. La folla riconosce il guidoncino sul parafango e circonda

l’automezzo invocando all’Italia”11. Il tutto avvenne sotto gli occhi

degli uomini dell’Armata Rossa, che per il momento non intervennero. I manifestanti tornano nel centro della città e imboccarono Via Imbriani; a quel punto “la polizia titina, fortemente preoccupata, prima tentò invano di disperdere i manifestanti, poi sparò sulla folla uccidendo Claudio Burla,

Giovanna Drassich12, Carlo Murra, Graziano Novelli, Mirano

Sancin e ferendo altre dieci persone, che furono ricoverate all’Ospedale Maggiore. Anche le bandiere italiane furono crivellate di colpi. I manifestanti, presi dal panico, cercarono di mettersi in

10 Paolo Radivo, 5 maggio 1945: Caduti per la libertà, TriesteOggi, 6 maggio 2001. www.triesteitaliana.it/caduti45.htm

11 Roberto Spazzali, op. cit (2005), pag. 2.

12 “Sulla lapide posta in via Imbriani nel 1947 compare pure il nominativo di Giovanna Drassich, ma è frutto di un’errata trascrizione, in quanto la signora spirò alle 5 di mattina del 5 maggio, all’ospedale Maggiore dov’era stata ricoverata in precedenza per una ferita d’arma da fuoco. In un documento del CLN viene indicato tra i morti il nominativo di Vittoriano Stefani, originario di Cherso, ma non sembra trovare conferma”.

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salvo, ma il caos e la paura provocarono ulteriori ferimenti. I miliziani titini corsero dietro a chiunque si trovasse a tiro, persino dentro gli edifici privati. Alcuni salirono sui tetti per meglio controllare la situazione. Nel frattempo i prelevamenti di italiani a

scopo di arresto, deportazione o infoibamento si accentuarono”13.

Il giorno seguente il Comando Città di Trieste adottò un’ordinanza che vietava ogni manifestazione di stampo nazionalista e ogni riunione in pubblico. Si trattava di un nuovo provvedimento volto a discriminare la componente italiana, poiché le strade della città restavano tappezzate dai simboli comunisti e dai manifesti di propaganda filo jugoslava.

Il destino della Venezia Giulia si giocava, però sul piano diplomatico, date le mire espansionistiche titine. Il 7 maggio il generale Morgan volò a Belgrado per incontrare Tito e discutere della questione triestina. In quella sede Morgan presentò un piano di divisione in due della regione. Secondo quella che sarebbe diventata nota proprio come “linea Morgan”: Trieste, Monfalcone e Gorizia, unitamente alle vie di comunicazione con l’Austria, agli Alleati; il territorio rimanente, con Pola, alla Jugoslavia. Forte dell’appoggio di Mosca e convinto di trovarsi in condizione di superiorità, Tito fece la voce grossa: non solo rifiutò la linea Morgan, ma avvertì che alla Conferenza di Pace le sue richieste sarebbero andate ben aldilà della sola Venezia Giulia. Tale spavalderia era sostenuta anche da vari successi in campo militare, visto che nei giorni precedenti i suoi uomini avevano proseguito la marcia verso Vienna, fermandosi in Carinzia, dove stavano tentando di instaurare la loro amministrazione. Nuovamente Tito esibiva i muscoli, occupando territori che a Yalta erano già stati assegnati agli inglesi. Ciò ebbe

13 Paolo Radivo, 5 maggio 1945: Caduti per la libertà, TriesteOggi, 6 maggio 2001 www.triesteitaliana.it/caduti45.htm

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come unico risultato quello di irritare Londra e di risvegliare l’attenzione di Washington, fino ad allora completamente disinteressata ai destini della Venezia Giulia.

Il 12 maggio Truman comunicò ad Alexander, di ritorno da Belgrado, l’intenzione alleata di mantenere il controllo completo di Trieste, di Pola e delle linee di comunicazione per l’Austria. In aggiunta Alexander ricevette da Churchill il permesso di impiegare tutte le diciotto divisioni britanniche sotto il suo controllo per raggiungere tale obiettivo. Nel frattempo però, il 9 maggio, il Comandante Kveder, sostituto di Cerni, aveva annunciato la definitiva annessione di Trieste alla Jugoslavia.

Tra il 13 e il 17 maggio la nuova amministrazione civile procedette all’elezione dei 1348 delegati dell’assemblea costituente cittadina. Tutti i nuovi organi dovevano avere la presidenza o la maggioranza dei membri italiana, al fine di poter dimostrare l’assenza di discriminazioni. In realtà gli italiani chiamati a ricoprire tali incarichi erano tutti comunisti e sostenitori di Tito. Il 16 fu un altro giorno triste per i triestini: l’assemblea popolare, riunitasi nel teatro Rossetti, proclamò Trieste settima repubblica autonoma della Jugoslavia, mentre “Corso Italia” diventava “Corso Tito”. Intanto l’unico giornale filojugoslavo in lingua italiana, il comunista “Il Lavoratore”, inneggiava alla fratellanza italo-jugoslava.

La città non subì passivamente tutto questo, nonostante arresti e sparizioni crescenti.

Già nella notte del 2 maggio i membri del CLN ancora liberi erano rientrati in clandestinità e il 3, in risposta ai primi decreti dell’ amministrazione comunista, erano riusciti ad affiggere in città manifesti che invitavano i Triestini ad aver fiducia nel futuro e nella saggezza degli Alleati. Sfidando la censura jugoslava il CLN riusciva a far circolare clandestinamente i propri giornali, dove si

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auspicava la fine dell’occupazione jugoslava, il passaggio del territorio sotto il controllo alleato e nessuna collaborazione con i titini. I giornali clandestini che riuscirono a circolare furono: “l’Osservatorio del CLN”, bollettino ufficiale del stesso CLN, “la Nostra Vigilia”, “la Voce Giuliana” e la “Rinascita Giuliana”,

quest’ultimo stampato ad Udine14. I vertici del CLN giuliano

decisero anche l’invio di una delegazione a Venezia e Roma per informare i comandi alleati e il governo italiano di quanto stava accadendo a Trieste.

“La delegazione fu composta da Giovanni Paladin (azionista), Antonio De Berti (indipendente) e don Edoardo Marziani (democristiano). Quest’ultimo, presidente, con l’aiuto di un cappellano militare britannico riuscì, nascondendosi in un carro funebre, a superare il ponte sull’Isonzo, la via più rapida per uscire

da Trieste, nonostante fosse sotto lo stretto controllo jugoslavo15”.

Nel pomeriggio la delegazione raggiunse Venezia e riuscì a mettersi in contatto con il CLN di Roma e di Milano e col governo italiano. “I tre fuggitivi raccontarono ai compagni i dettagli delle azioni brutali perpetrate dagli Jugoslavi in Trieste, provando in modo lampante che, nonostante la presenza di forze alleate, il territorio stava venendo rapidamente incorporato nella Jugoslavia e che ogni

opposizione veniva schiacciata”16. Ai primi delegati si aggiunsero

poi Marcello Spaccini (democristiano) e Isidoro Maras (azionista). L’azione del CLN triestino ebbe il pregio di scuotere ulteriormente l’opinione pubblica e lo Stato italiano, visto che anche i giornali, in particolare quelli non comunisti, diedero ampio spazio alla

14 Ennio Maserati, L’occupazione jugoslava di Trieste, maggio-giugno 1945, Udine, Del Bianco, 1963, pag. 96.

15 Ivi, pag. 143.

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situazione triestina, denunciando le violenze e i soprusi subiti dagli italiani.

In questo clima, il 13 maggio, il luogotenente del Re, il Principe Umberto, insieme col capo di governo Ivanoe Bonomi, incontrò a Roma il Comandante Alleato Alexander, per fargli pressioni affinché la Venezia Giulia venisse interamente occupata dagli Alleati. Intanto la delegazione triestina continuava la sua opera in Italia consegnando il suo memorandum di denuncia sia all’ammiraglio Stone, capo della commissione militare alleata per l’Italia, sia alle ambasciate occidentali a Roma. Infine la delegazione, prima di ripartire per Milano, dove avrebbe costituito uno speciale comitato per la Venezia Giulia, fu ricevuta anche alla Santa Sede da Pio XII.

Alla fine di maggio, mentre Tito procedeva al ritiro delle truppe dalla Carinzia, il clima internazionale si surriscaldò ulteriormente e il rischio di un conflitto con la Jugoslavia per Trieste si fece sempre più alto. A gettare benzina sul fuoco questa volta fu il generale Alexander che in una nota attaccò duramente il comportamento della controparte, paragonandolo a quello di Mussolini, Hitler e dei capi giapponesi. In realtà si trattava delle stesse parole che Truman aveva usato con Alexander in un messaggio top secret di qualche giorno prima. Tito da parte sua, espresse il suo più duro risentimento per essere stato paragonato ai tre leader delle potenze nemiche.

La polemica verbale fece da preludio all’arrivo nel porto triestino di navi da guerra inglesi scortate da aerei statunitensi. Alla base di questa manovra strategica stava la convinzione di Churchill, che Mosca non sarebbe intervenuta militarmente in aiuto degli jugoslavi e il fatto che Truman, ormai abbandonata la ritrosia iniziale a farsi coinvolgere nella questione adriatica, si dimostrasse

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pronto a mettere in preallarme i propri uomini. Il Presidente americano chiese infatti: ad Eisenhower la disponibilità ad inviare tre divisioni al Brennero o comunque a nord di Trieste, all’ammiraglio King quella di trasferire alcune unità navali nell’Adriatico e infine al Generale Arnold circa la possibilità di quante e quali squadriglie riuscisse a mobilitare, con l’invito a tenerle pronte ad intervenire. “Il responso dei tre comandanti fu addirittura travolgente. Eisenhower dichiarò di poter inviare il Generale Patton con ben cinque divisioni corazzate fino al Brennero e, se necessario, farle entrare in Italia. L’ammiraglio King riferì che delle unità della Flotta Mediterranea erano state messe in stato d’allarme per dirigersi verso l’Adriatico. Il generale Arnold aveva squadriglie pronte ad intervenire in qualsiasi momento e senza preavviso. Si disegnò inoltre come base operativa un’area intorno a

Rimini”17. Il 27 maggio durante un discorso pubblico a Lubiana

Tito, per parte sua, proclamò l’annessione di Trieste alla Jugoslavia. Questa rappresentò la sua ultima azione provocatoria, visto che si rese ben presto conto che l’appoggio russo non sarebbe andato oltre l’ambito diplomatico e che quindi era preferibile tenere un comportamento più mite.

Di pari passo con queste schermaglie, la diplomazia si era già messa in moto e stava preparando il terreno per giungere ad un accordo. L’intesa fu raggiunta il 9 giugno 1945 a Belgrado. “Per effetto dell’accordo di Belgrado il territorio della Venezia Giulia quale si estendeva nel 1939 (le quattro province di Gorizia, Trieste, dell’Istria e di Fiume) veniva diviso in due parti lungo la cosiddetta linea Morgan. La parte ad est di essa, la Zona B, ricadeva sotto l’amministrazione militare jugoslava, quella ad ovest, la Zona A,

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veniva sottoposta all’autorità del Governo Militare Alleato”18.

Inizialmente Pola e le città italiane dell’Istria dovevano rimanere nella Zona A, ma in seguito solo la città di Pola entrò nella Zona A. L’accordo regolava anche tutta una serie di questioni minori: si concedeva a duemila soldati jugoslavi di restare nella Zona A, rimanendo però all’interno di un settore predeterminato, sotto il controllo alleato; si decise che le amministrazioni civili già costituite sarebbero rimaste in carica, ma il GMA ne avrebbe potuto disporre a proprio piacimento; si dispose la restituzione degli arrestati, dei deportati e dei beni confiscati dal governo jugoslavo, anche se questo rispose prontamente di aver proceduto a confische e deportazioni solo nei confronti di fascisti e criminali.

Il 12 giugno le armate di Tito si ritiravano effettivamente entro il confine della Linea Morgan, rispettando i patti alla lettera.

Un nuovo incontro tra le parti ebbe luogo il 20 a Duino per risolvere le ultime questioni connesse al nuovo confine. “Questa fu la sede in cui gli jugoslavi tentarono di presentare due emendamenti all’accordo del 9. Fu chiesto che la Slovenia Veneta, in pratica la provincia di Udine, fosse tolta all’Italia ed entrasse a far parte della Zona A. Il generale Morgan si rifiutò di discutere questa richiesta. Ancora più importante era la seconda richiesta, che fu aggiunta all’accordo di Duino come nota separata per il maresciallo Alexander; essa voleva che non fosse ripristinato nella Zona A il vecchio sistema dell’amministrazione civile italiana, visto che la popolazione della Zona A si era ribellata all’esercito italiano e si era dotata di una propria amministrazione, e chiedeva il mantenimento di quella esistente. In questo modo gli jugoslavi tentavano di nuovo di ottenere il riconoscimento, da parte alleata, della loro

18 Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto

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amministrazione civile comunista nella Zona A. Se accettata tale nota avrebbe dato all’accordo di Belgrado un senso favorevole agli jugoslavi. Il maresciallo Alexander non confermò mai tale nota, così

che non fece mai parte dell’accordo di Duino”19.

La fine dell’occupazione jugoslava pose termine alla caccia all’italiano, ma aprì il tragico capitolo delle foibe: letteralmente voragini rocciose a forma di imbuto rovesciato create dall’erosione

di corsi d’acqua, diventate poi strumento di sterminio di massa

utilizzato dagli jugoslavi contro gli oppositori al loro progetto politico. Si parla di foibe anche quando le vittime furono sotterrate

in cave di bauxite e in miniere20, ma molte di loro furono anche

uccise nei campi di concentramento o gettate in mare, come accadde in Dalmazia. La strategia dell’infoibamento seguì una logica a dir poco perversa, essa non era “soltanto una scelta tattica, per far scomparire in fretta le prove delle stragi: si è trattato anche di una scelta simbolica. Gettare un uomo in una foiba significa considerarlo alla stregua di un rifiuto, gettarlo là dove da sempre la gente getta ciò che non serve più. La vittima sprofondata nell’antro viene cancellata nell’esistenza fisica, ma anche nell’identità, nel nome, nella memoria. Uccidere chi è considerato nemico non basta: occorre andare oltre, occultare il corpo e la vita, eliminarne ogni

traccia, come se non fosse mai vissuto”21. Foiba diviene così un

termine che “fa scattare immediatamente l’idea di un rovesciamento di valori e di comportamenti: in chi ne è testimone diretto e in chi ne viene indirettamente a contatto; in chi giustifica il fatto come in chi lo denuncia; in che agisce nel ruolo di carnefice e in chi se ne

19 B. C. Novak, op. cit., (1973), pag. 193.

20 E’ il caso della foiba più famosa: quella di Basovizza, a 8 km da Trieste. Diventata oggi monumento nazionale, non si tratta di una foiba naturale ma del pozzo di una miniera di carbone.

21 Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Milano, Mondadori, 2003, pag. 86.

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ritiene vittima”22. Il progetto di Belgrado “saldava in maniera

inestricabile motivazioni nazionali e ideologiche; era compiutamente totalitario, perché ambiva a controllare tutti gli

aspetti della realtà locale”23. Per questo si può affermare che “alla

base della repressione vi era certamente un disegno politico: colpire subito e, nel più breve tempo possibile, eliminare tutti gli ex fascisti, i criminali di guerra, ma anche tutti coloro che si opponevano alla costruzione di uno Stato socialista. I reazionari e i nemici erano in ogni caso categorie molto ampie e generiche, al cui interno potevano essere inseriti tutti gli oppositori della soluzione

jugoslava”24. Categorie in cui, per un verso o per un altro, rientrava

la stragrande maggioranza degli italiani. La carneficina non

risparmiò né gli italiani di chiara fede antifascista25, né i membri del

CLN triestino. “Il CLN di Trieste era accusato di fascismo e collaborazionismo perché costituiva la prova dell’esistenza di un

antifascismo non comunista e soprattutto non jugoslavo”26. Difficile

è quantificare con precisione l’entità di una tale mattanza, sia perché non fu tenuta nessuna contabilità, sia perché in molti casi è stato impossibile raggiungere le profondità delle foibe e riesumare i cadaveri. “A ciò si aggiunge l’asprezza del dibattito politico alimentato nel dopoguerra dal fenomeno foibe e le contrapposte

tendenze alla minimizzazione o al sovradimensionamento”27.

Già dopo i 42 giorni di occupazione di Trieste da parte delle truppe jugoslave, la stazione radio inglese BBC comunicò, come

22 Giampiero Valdevit, Foibe: l’eredità della sconfitta in Giampiero Valdevit Foibe. Il peso del

passato, Venezia, Marsilio, 1997, pag. 17.

23 Raoul Pupo, Il lungo esodo, Milano, Rizzoli, 2005, pag. 98-99.

24 Pierluigi Pallante, La tragedia delle foibe, Roma, Editori Riuniti, 2006, pag. 119.

25 “Tipico il caso di Fiume, dove i primi ad essere colpiti furono gli esponenti del movimento zanelliano, che a cavallo degli anni Venti si era battuto contro i fascisti per lo Stato Libero di Fiume e che durante il periodo dell’occupazione tedesca si era mostrato capace di aggregare vasti consensi tra la popolazione cittadina”.

Gianni Oliva, Profughi, Milano, Mondadori, 2005, pag. 70. 26 Pierluigi Pallante, op. cit., (2006) pag. 121.

(18)

dato ufficiale, che le persone scomparse della Venezia Giulia, di cui si ignoravano le sorti, erano 4.768, di cui 2.210 scomparsi a Trieste, 1.560 a Gorizia e 998 a Pola.

Subito dopo, il 3 agosto 1945, il 13° corpo anglo-americano elaborò un rapporto circa il numero dei dispersi e degli arrestati durante l’occupazione slava: a Trieste i dispersi risultarono ammontare a 1.500 unità e gli arrestati a 17.000, di cui 8.000 rilasciati, 6.000 internati (di cui 3.000 a Borovnica) e 3.000 uccisi; nel Goriziano veniva indicato in 3-4.00 il numero degli arrestati; non vi era invece alcuna notizia su altre 1.500 persone dell’area di Trieste, 1000-1500 dell’area di Gorizia, 500-600 di Pola e 150 di Monfalcone; nessun dato nemmeno su Fiume e l’Istria. “Qualche mese più tardi, gli stessi anglo-americani ridimensionarono la cifra e compilano un elenco di 2472 persone scomparse nell’area giuliana

occidentale, di cui chiesero conto al governo di Belgrado28.

Nell’aprile del 1947, un rapporto inviato al Displaced Persons Branch al Quartier generale del Governo militare alleato a Trieste, confermò questo dato denunciando la scomparsa di 1492 persone a Trieste, mentre non fornì dati per la zona istriana; nel novembre dello stesso anno, le segnalazioni giunte al GMA salirono però a 3419”29

Sempre nel 1947, il Centro Studi Adriatico stilò un primo censimento degli scomparsi: 994 le salme esumate dalle foibe; 326 le vittime accertate e non recuperate; 5.643 quelle presunte; 3.174 i deportati nei campi di concentramento; 37 le foibe con vittime che non fu possibile ispezionare a causa della bauxite; in definitiva un totale di 16.500 infoibati tra Trieste, Gorizia e l’Istria.

28 A cui Belgrado rispose il 7 dicembre. “L’elenco è una provocazione alimentata da «certi Italiani che tentano di ingannare l’opinione pubblica del mondo» e voglio scatenare «una incredibile campagna politica contro la Repubblica popolare di Jugoslavia»”.

Ivi, pag. 168. 29 Ivi, pag. 26-27.

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Nel secondo dopoguerra sono stati realizzati diversi elenchi di persone scomparse dalla Venezia Giulia. A tal proposito la Croce Rossa, per il biennio 1943-45 e per l’intera Venezia Giulia, più Fiume e la Dalmazia, ha calcolato in 4.100 il numero degli scompari. Tale cifra venne poi confermata dal sindaco di Trieste Gianni Bartoli, nel suo Martirologio delle genti adriatiche del 1961, nel quale, sulla base delle dichiarazioni di morte presunta, indicò un totale di 4,122 nominativi di persone decedute o scomparse. Inoltre egli presentò un’interessante stima delle vittime della foiba di Basovizza, comparando alcuni dati circa la sua profondità: essa “misurava anteguerra la profondità di 208 metri; controllato il livello della medesima nel 1946, risultò diminuito di 18-20 metri. Trattandosi di una voragine lunga 6 metri e larga 4, con una cubatura da 430 a 480 metri, si calcolano a circa 1.200-1.500 le

vittime gettate in quella voragine”30.

Sempre utilizzando come fonte, le dichiarazioni di morte presunta rilasciate dagli organi giudiziari, emersero altri dati, significativamente inferiori: 601 dispersi a Trieste e 332 a Gorizia. Tali discrepanze si devono al fatto che molte pratiche giudiziarie erano state avviate in altre province e, in molti casi era stata usata la formula generica di “disperso in seguito agli eventi armistiziali dell’8 settembre”.

Nel 1989 Luigi Papo indicava in 10.137 il numero totale delle vittime per mano jugoslava, comprendendo anche i deportati. “E’ interessante seguire il procedimento di calcolo adottato da Luigi Papo: secondo i suoi dati, dalle foibe istriane (1943) erano state esumate 355 salme, altre 40 vittime erano state accertate e 503 risultavano presunte sulla base delle segnalazioni locali (quelle

30 Gianni Bartoli, Il martirologo delle genti adriatiche, Trieste, Tipografia comunale, 1961, pag. 204-205. Già alla fine dell’agosto ’45, sempre dalla foiba di Basovizza, furono recuperati 250 Kg di resti umani.

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ufficiali parlano di 217 cadaveri recuperati); sempre in Istria, fino alla fine delle operazioni militari, erano state esumate le salme di 93 vittime e indicate presunte altre 200. Dopo la fine delle operazioni militari erano state recuperate a ovest della linea Morgan 546 salme, mentre in tutta l’ex Venezia Giulia risultavano accertate, ma non recuperate, 286 vittime e 4.980 presunte, delle quali ben 3.500 solo nelle cavità di Basovizza e della foiba di Opicina. Sulla base di questi elementi Papo formulava la seguente ipotesi numerica per il periodo 1943-1945: 994 salme esumate da foibe, pozzi minerari, fosse comuni; 326 vittime accertate ma non recuperate; 5.463 vittime presunte sulla base di segnalazioni locali; 3.174 vittime nei campi di concentramento e di lavoro jugoslavi, computate sulla base

di segnalazioni o altre fonti”31. Per quanto riguarda solo le foibe

istriane, “nel corso di 31 esplorazioni ufficiali in cavità naturali e artificiali, vennero recuperate 217 salme (116 civili e 18 militari accertati) ma il numero degli scomparsi fu certo superiore, e alcuni fonti lo indicano in circa 500 persone (pari allo 0,06% della

popolazione della provincia”32. In tempi a noi più recenti, e

precisamente nel 2001, la Commissione storica italo-slovena ha preferito non avventurarsi in cifre, limitandosi a parlare “di centinaia di esecuzioni sommarie immediate e di un gran numero di civili e militari deportati, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi i

prigionia”33. Non si può quindi giungere a stabilire una cifra

precisa, “la cifra più diffusa nell’opinione corrente, anche in sede politica, indica le vittime in dieci-dodicimila, numero che secondo i ricercatori dell’Istituto friulano per il movimento di liberazione si

31 Roberto Spazzali Contabilità degli infoibati, in Giampiero Valdevit (1997), op. cit., pag. 100. 32 Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pag. 26.

33 Dossier Italia-Slovenia, Commissione storica italo-slovena. www.triesteistria.it/sec07_itslo_04.htm

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raggiunge «solo conteggiando tra gli infoibati, anche i morti e i dispersi in combattimento in tutto il periodo 1943-45. La stima scientificamente più credibile si attesterebbe pertanto sull’ordine

delle quattro-cinquemila vittime»”34.

(22)

1.3 L’intervento internazionale e il Governo Militare Alleato.

Il passaggio dall’occupazione jugoslava al governo alleato fu salutato da una Trieste festante: le truppe anglo-americane furono accolte da una folla immensa, “composta principalmente da giovani

donne, studenti, impiegati statali e addetti al commercio”35, mentre

dai balconi del Palazzo della Prefettura, insieme con le bandiere inglesi e americane, fu fatto sventolare il tricolore. Il nuovo Governo Militare Alleato (GMA), che si insediò a Trieste il 12 e a Gorizia il 14 giugno del 1945, ebbe un carattere autonomo rispetto a quello instauratosi in Italia, poiché la sua finalità “non era quella di un’amministrazione pro tempore, in nome e per conto del governo italiano, bensì quella di un governo che riuscisse ad imporre la piena autorità nel territorio in questione escludendo «ogni passo che sostenga o sembri sostenere o preluda ad una definitiva

assegnazione dell’area ad uno degli stati che la rivendica»”36;

inoltre doveva garantire la sicurezza delle vie di comunicazione con l’Austria. Nei primi mesi di vita i suoi vertici mutarono frequentemente: all’inizio “il comandante supremo alleato del Mediterraneo, maresciallo Alexander, divenne la più alta autorità militare e amministrativa. Siccome il maresciallo aveva il quartier generale in Italia, il tenente generale John Harding, comandante del XIII corpo, divenne suo rappresentante e perciò la più alta autorità della Zona A. Il capo del GMA stesso era l’ufficiale superiore per gli affari civili, colonnello Nelson M. Monfort. Alla fine del giugno del 1945, anche il colonnello Monfort partì e fu sostituito nella carica di ufficiale superiore degli affari civili dal colonnello americano Alfred C. Bowman. Alla fine del settembre del 1945, il

35 Giampaolo Valdevit, Trieste. Storia di una periferia insicura, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pag. 59.

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maresciallo Alexander partì per il Canada per assumere la carica di governatore generale e il generale William D. Morgan, suo capo di

stato maggiore, divenne comandante supremo alleato”37.

I primi provvedimenti presi dal GMA riguardarono lo smantellamento dell’amministrazione creata dagli jugoslavi, durante i 42 giorni d’occupazione. L’11 giugno furono sciolti il tribunale speciale del popolo e la guardia del popolo, mentre il 14 fu la volta della Difesa popolare, l’organo di polizia. Intanto, tra il 12 e il 24 giugno la nuova amministrazione promulgava i primi quattro proclami del nuovo governo, dove vi si affermava la piena autorità del governo militare e lo smantellamento delle istituzione jugoslave. Quest’ultima iniziativa scatenò le ire di Belgrado e dei comunisti triestini, che accusarono il GMA di voler ripristinare il sistema amministrativo fascista. Dalle pagine del quotidiano comunista “Il Lavoratore” si lanciavano strali in difesa delle istituzioni slave, proclamate esempi di democrazia, mentre il GMA veniva costantemente paragonato al governo repubblicano italiano, contrapponendo così forze democratiche e forze reazionarie, liberatori e occupatori, democratici e reazionari neofascisti. Le obiezioni comuniste non ebbero però alcun seguito pratico, stante il netto rifiuto da parte di Alexander di riconoscere, anche solo parzialmente, l’amministrazione civile jugoslava nella Zona A.

L’intenzione alleata era quella di dar vita a un modello di governo basato sul principio del direct rule, ovvero “sull’assunzione diretta del complesso delle responsabilità del governo locale da parte

anglo-americana”38. Il primo passo in questo senso fu fatto con

l’emanazione dell’“Ordine Generale n. 11”, datato 11 agosto 1945 e firmato dal colonnello Bowman. Con tale provvedimento si

37 B. C. Novak, op. cit., (1973), pag. 200. 38 G. Valdevit, op. cit., (1986), pag. 117.

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conferiva piena ed esclusiva autorità di governo, di controllo, di supervisione al GMA e il ripristino in tutta la Zona A del precedente sistema amministrativo italiano. “L’Ordine Generale divideva la Zona A in due aree (province), Gorizia e Trieste, a cui si aggiungeva il comune di Pola. Ciascuna provincia doveva essere amministrata da un presidente, con poteri e obblighi corrispondenti a quelli del precedente prefetto italiano, e da un consiglio provinciale. Il consiglio provinciale di Trieste sarebbe stato composto da un presidente e da 17 membri, quello di Gorizia da un presidente e da 14 membri. I presidenti, nonché gli altri membri dei consigli, erano nominati dal GMA e potevano essere rimossi dallo stesso. Un vicepresidente avrebbe assistito il presidente della provincia. Il consiglio doveva agire come organo consultivo del

presidente, e doveva riunirsi almeno una volta a settimana”39.

Parallelamente alla messa in pratica del principio della politica del direct rule, gli Alleati cercarono di avviare una politica volta a non escludere arbitrariamente nessuna fazione politica nella composizione dei nuovi organi istituzionali. Nel luglio del 1945 fu creato un organismo unitario formato sia dall’Unione antifascista italo-slava (UAIS), l’organizzazione comunista di massa, sia dal CLN. Questo tentativo si rivelò infruttuoso, a causa dell’inconciliabilità delle posizioni delle due fazioni. Un nuovo tentativo fu fatto con l’invito, rivolto sia ai comunisti che al CLN, di nominare i loro candidati per le nuove cariche amministrative. “Le trattative con il gruppo comunista si rivelarono inutili. L’atteggiamento del Consiglio regionale di liberazione nazionale può essere così descritto: «siamo disposti a cooperare, purché il governo militare alleato amministri in modo conforme alle nostre vedute e tramite le nostre istituzioni, ma non coopereremo in nessun

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altro modo, poiché ogni altra forma di governo è considerata

fascista e non democratica»”40. L’azione del GMA si rivelò così

sempre fallimentare, a causa della ferma opposizione comunista a qualsiasi forma di collaborazione. “Il partito comunista si poneva nella prospettiva del contropotere, che si traduceva nella difesa a oltranza di tutto ciò che erano riusciti a controllare dopo la presa del potere (la scuola, l’informazione, la piazza), nella creazione di apparati clandestini, nel ricorso continuo alla mobilitazione sociale e della classe operaia in particolare, per cui il sindacato diventa

cinghia di trasmissione nel senso più proprio del termine”41. La

cooperazione o meno con il GMA non dipendeva quindi dall’appartenenza all’una o l’altra componente etnica, ma era determinata più prettamente dalle posizioni politiche ed ideologiche. “Nel settembre 1945, 19 comuni compresi nella Zona A su 37, inclusi 4 comuni con una popolazione al 90% italiana, non riconoscevano l’amministrazione alleata. L’Ufficio per gli Affari Civili lo motivava affermando che la popolazione di questi comuni era o estremamente comunista o completamente intimidita dai

comunisti”42. “Viceversa fra i comuni che cooperavano, vi erano

alcuni comuni sloveni, soprattutto nella zona di Gorizia, la cui

popolazione era in gran parte anticomunista”43.

La contrapposizione tra la nuova amministrazione e i comunisti finì poi però per stritolare la componente slovena anticomunista. Questa, benché a agevolata da alcune misure varate dal GMA -

40 Ivi, pag. 206.

41 Giampaolo Valdevit, op. cit., (2004), pag. 61-62.

42 “As late as September 1945, 19 out of the 37 communes comprising Zone A, including four communes with a population of over 90 per cent Italian-speakers, were refusing Allied government-appointed administrations. The Senior Civil Affairs Officer for Zone A alleged that, «in each case the people of these Communes are either extremely Communistic or completely overawed by the Communist elements»”. Glenda Sluga, Trieste: Ethnicity and the

Cold War, 1945-54, in “Journal of Contemporaney History”, anno 29, n. 2, aprile 1994, pag.

291.

(26)

bilinguismo negli atti ufficiali; ripristino dei nomi sloveni proibiti dal fascismo; accesso agli sloveni nella nuova polizia; pubblicazione di giornali in lingua slovena; istituzione di scuole slovene - non manifestò mai il suo appoggio al governo alleato, soprattutto per il fatto che “nelle comunità rurali non c’era la protezione della polizia e qualsiasi mossa contro il potere comunista poteva essere la causa di rappresaglie, fu un importante fattore nel trattenere gli anticomunisti sloveni delle comunità rurali dal

cooperare con il GMA”44.

Da questa situazione, trasse profitto la componente italiana. Infatti l’8 settembre, quando il GMA decise di procedere alla formazione dei consigli di Zona e dei consigli comunali, le nuove amministrazioni comunali di Trieste, Monfalcone, Gorizia e Pola passarono nelle mani dei rappresentanti dei partiti italiani. “A lunga scadenza l’influenza italiana nel GMA aumentò notevolmente, e ciò che avrebbe dovuto essere un’amministrazione italo-slovena si trasformò in un’amministrazione puramente italiana sia a livello

provinciale sia nei comuni come Trieste e Gorizia”45. Non a caso la

classe dirigente amministrativa impiegata in questa prima fase “dal punto di vista anagrafico, risultava relativamente matura: l’età media, infatti, si aggirava attorno ai 45-48 anni, il che segnalava

l’apporto cospicuo della classe politica prefascista”46 .

Il panorama delle forze politiche italiane, eccezion fatta per il partito comunista, era poco più che allo stato embrionale; e tutte erano prive di una struttura organizzativa forte e capillare sul territorio.

Questo rendeva più difficile il compito degli Alleati.

44 Ibidem. 45 Ivi, pag. 220.

46 Raoul Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe dirigente amministrativa a Trieste

(27)

“Inizialmente la [loro] preferenza andò alle componenti di democrazia laica e socialista. A Trieste Presidente di Zona fu designato il socialista Edmondo Puecher, Presidente del Consiglio di Zona il liberale Ferdinando Gandusio, sindaco l’azionista Michele Miani, presidente del Consiglio comunale il liberale Bruno Forti. Nella composizione del Consiglio: le forze d’area socialista-socialdemocratica ottennero circa il 24% dei consiglieri, quelle d’area repubblicano-azionista il 23,5% e al terzo posto si posizionarono i democristiani, con il 15,5%, seguiti

immediatamente dai liberali, con il 14,08%”47.

Nell’autunno del 1945, i rapporti tra il GMA e i comunisti andarono sempre più deteriorandosi, fino a che, tra le due parti, non si consumò lo strappo decisivo. Il fatto scatenante si avverò il 24 e il

25 settembre l’UAIS e il Partito Comunista della Regione Giulia48

proclamarono due giorni di sciopero generale, per protestare contro il nascente assetto economico, sociale ed istituzionale e la possibilità di eventuali licenziamenti ai cantieri navali. All’indomani dello sciopero generale, il PCRG fece un ulteriore passo in avanti andando a presentare un documento in cui chiedeva esplicitamente l’annessione della regione Giulia alla Jugoslavia. Da quel momento per gli anglo-americani “i comunisti triestini divennero intimamente legati alla casa madre slovena e jugoslava, essi vennero assimilati ad una quinta colonna, un cavallo di Troia, un corpo estraneo che si è infiltrato oltre la cortina di ferro e perciò

doveva essere isolato”49. La risoluzione “contribuiva anche a dare

una spinta ulteriore a quel processo di polarizzazione fra i due

47 Ibidem.

48 “Fino al momento del ritiro delle truppe jugoslave dalla Zona A c’erano tre partiti comunisti nella Venezia Giulia, uno sloveno, uno croato e uno italiano. Dopo l’evacuazione degli jugoslavi fu fondato, il 13 agosto 1945, un nuovo ed unico partito comunista della Venezia Giulia (PCVG), che appoggiò sempre le rivendicazioni jugoslave su tutta la Venezia Giulia”. B.C. Novak, op. cit.,(1973), pag. 222-223.

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contrapposti schieramenti, sulla base delle pregiudiziali annessionistiche. Altrettanto esplicita era al contempo l’assunzione

della medesima pregiudiziale da parte delle forze del CLN”50.

Alla fine del 1945 la situazione politica triestina mutava radicalmente. Fra ottobre e novembre il GMA ravvisò un consolidamento organizzativo e propagandistico del fronte italiano, il cui primo risultato palese fu la manifestazione del 3 novembre

194551 che, oltre ad essere la festa di San Giusto, patrono di Trieste,

rappresentava l’entrata in città delle truppe italiane vittoriose al termine della prima guerra mondiale. In quell’occasione i partiti del CLN organizzarono una manifestazione per ribadire l’italianità della città, a cui partecipò un grande numero di persone. Durante il tragitto per raggiungere il colle di San Giusto, scoppiarono violenti scontri tra i partecipanti e alcuni gruppi di comunisti. Un italiano morto e numerosi feriti fu il bilancio finale. Dal punto di vista politico fu però un giorno importante, si trattò della “prima manifestazione italiana del dopoguerra con largo afflusso di massa, secondo il modello che fino ad allora soltanto il fronte comunista era stato in grado di adottare. Come riferiva l’Allied Information Service, «il risultato netto è stato un grande aumento di fiducia dei partiti italiani, alcuni dei quali si ritiene siano fermamente intenzionati a tendere prontamente verso più grandi trionfi nella stessa direzione»”52.

50 Giampaolo Valdevit, op. cit., (1986), pag. 131.

51 Non va dimenticato che “il 5 agosto 1945 i partiti del CLN organizzarono la prima manifestazione in commemorazione dei caduti di Via Imbriani. Il corteo non riuscì a deporre le corone di fiori sul luogo dell’eccidio, anzi dovette aprire con fatica la strada verso il Carso, presidiato in forze da elementi comunisti e filojugoslavi. Scoppiò un violento tafferuglio e le corone furono depositate nel luogo dove oggi c’è la lapide: fu collocata una targa provvisoria dirimpetto”.

Roberto Spazzali, Pallottole sulla folla, e il selciato di via Imbriani si tinse di rosso, Il Piccolo, 4 maggio 2005.

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Il clima politico si fece così sempre più infuocato. I circoli estremisti italiani facevano pressione sui partiti del CLN affinché assumessero atteggiamenti più oltranzisti, mentre si costituivano gruppi paramilitari come gli Arditi d’Italia e il Fronte per l’Unità d’Italia. “Il quadro politico che le autorità alleate vedevano di fronte appariva in via di modificazione rispetto a quello che avevano trovato nell’atto dell’assunzione dei poteri nella Zona A dopo l’accordo di Belgrado. Il processo apertosi con «la crescita di fiducia dei partiti italiani» poneva il GMA al centro di una situazione dominata da uno stato di acuta tensione fra due componenti politiche locali e faceva emergere fra le autorità militari l’esigenza di non trovarsi ingabbiati. L’imparzialità fra destra e

sinistra, fra italiani e sloveni era l’obbiettivo cui tendeva il GMA”53.

Nei primi mesi del 1946 quasi giornalmente si ebbero scontri tra le due fazioni e, l’arrivo della Commissione alleata, il 7 marzo, non poteva non alimentare nuova violenza. Già il 9 marzo, il tentativo della polizia civile di togliere delle bandiere jugoslave da una scuola fu ostacolato dalle proteste dei filoslavi, mentre il giorno successivo un nuovo tentativo della polizia provocò scontri che terminarono con due morti e una ventina di feriti. Sull’onda di questi fatti, l’11 marzo, i comunisti proclamarono due giorni di sciopero generale, cui si opposero i partiti italiani, i quali organizzarono il 22 a Pola un’imponente manifestazione per ribadire l’italianità della città e dell’Istria. Nei giorni seguenti si raggiunse l’apice della tensione: il 24, due manifestazioni, una filoitaliana e l’altra proslava, si incrociarono in Piazza Unità d’Italia, e la sede del Partito Comunista Giuliano venne fatta oggetto di una fitta sassaiola; il giorno dopo una manifestazione pro-jugoslava ebbe luogo nella mattinata, mentre una pro-italiana prese vita nel pomeriggio. Gli

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scontri del 25 provocarono trenta feriti e un centinaio di arresti, un bilancio assai ragguardevole se si tiene presente che la sede del Fronte per l’Indipendenza fu assaltata dai manifestanti filoitaliani. “Il 26, alle 14, la manifestazione pro-italiana riprese. Le librerie slovene, la sede del Fronte dell’Indipendenza sono attaccate. Alle 15 gli operai dei cantieri navali entrarono in sciopero. Alle 17 una contro-manifestazione pro-iugoslava proveniente dal rione rosso di San Giacomo entra in città. I commerci chiusero i negozi. Ci sono

scontri: sessanta feriti, centocinquanta arresti.Il 27 marzo, il centro

della città tappezzato di bandiere italiane. I sostenitori filoslavi manifestano davanti al Municipio. Alle 16 è la volta di una manifestazione pro-italiana, la più grande che Trieste abbia conosciuto: 40.000 partecipanti secondo la polizia (80.000, 100.000, 200.000 secondo altre fonti). Le forze dell’ordine cercarono di separare i manifestanti pro- italiani e pro- jugoslavi. Tuttavia, le sedi del SIAU-UAIS e del Fronte per l’indipendenza sono attaccate. La sera ci sono contro-manifestazioni pro-jugoslave. Bilancio:

settantacinque arresti, trentacinque feriti”54.

Il totale degli arresti fu di 548 persone in tutta la Zona A, di cui 407 nella sola città di Trieste. L’inaspettato successo di queste manifestazioni segnò la definitiva “resurgence of italianità” e la conseguente fine della cosiddetta politica di passività del gruppo dirigente del CLN.

La tensione però non andò diminuendo neanche nei mesi successivi: il 15 giugno fu ucciso un sindacalista dall’UAIS e il 17 la vettura su cui si trovava il vescovo di Trieste, Monsignor Santin, venne fatta oggetto di un fitto lancio di pietre nei pressi di Opicina.

54 Jean Baptiste Duroselle, Le conflict de Trieste 1943-1954, vol. II, Bruxelles, Institut de Sociologie de L’université Libre de Bruxelles, 1966, pag. 213.

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Gli incidenti più gravi si registrarono il 30 giugno e il 1° luglio, in concomitanza con l’arrivo a Trieste del Giro d’Italia. Si trattava di una cosa piccola, ma carica di valenza patriottica per gli italiani di Trieste: per la prima volta la manifestazione sportiva nazionale più importante giungeva in città. Doveva essere una festa e invece divenne il pretesto per nuove violenze.

“In località Begliano, poco prima dell’entrata a Pieris. Ai bordi della strada non c’è quasi nessuno, sono tutti in paese ad aspettare l’arrivo dei corridori. Qualcuno dapprima cominciò a tirare fiori di campo con in mezzo dei sassi, i corridori pensano a qualche idiota in vena di scherzi. Invece dal lato destro della strada sbuca un ragazzetto: lancia un grosso sasso in mezzo al gruppo. Alcuni ciclisti cadono, i ciclisti si fermano, mentre i due motociclisti della Polizia Civile si lanciano all’inseguimento del teppista che sta scappando per i campi. Si pensa al gesto di un qualche delinquente isolato. Il gruppo riparte, ma cento metri dopo si trova la strada sbarrata da bidoni di catrame, macigni e pezzi di filo spinato. All’improvviso dai campi sbucano altri giovani che cominciano a tirare sassi, alcuni ciclisti sono colpiti. La scorta al Giro comincia a sparare contro gli attentatori ma anche dai campi cominciano a

piovere spari in direzione della corsa”55. La corsa tanto attesa

rimase bloccata per un paio d’ore. Finché la maggior parte dei corridori si rifiutò di proseguire e l’arrivo a Trieste fu annullato. I

mandanti vennero fin da subito individuati nei comunisti56. Un

gruppetto di 17 corridori, capeggiato dal triestino Cottur, decise di proseguire e di arrivare lo stesso a Trieste.

55 Paolo Facchinetti, Quando spararono al Giro d’Italia, Arezzo, Limina, 2006, pag. 62-64. 56 La conferma venne qualche anno dopo da Giovanni Padoan, commissario politico della divisione Garibaldi Natisone, che in un suo libro indicherà chiaramente in Franc Stoka il nome del mandante dei fatti di Pieris.

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Nel frattempo la notizia del sabotaggio della corsa per merito dei comunisti si diffuse, giungendo in un lampo in una Trieste dove, fin dalle prime ore dell’alba, 30.000 persone affollavano le strade. Gli altoparlanti annunciarono addirittura che c’erano stati dei morti. Il clima si fece subito rovente. Solamente l’arrivo del gruppo di 17 corridori, riportò un minimo di calma, che lasciò poi il posto ad un tripudio di gioia quando la folla poté salutare l’arrivo dei ciclisti e la vittoria del triestino Cottur.

Passata l’euforia, rimaneva la voglia di vendetta da parte italiana. Per tutta la serata, si ebbero assalti alle sedi delle associazioni e degli enti filojugoslavi; scontri nei rioni rossi, soprattutto in quello di San Giacomo e sparatorie in Via Valdrivio e in Via Pascoli. Alle ore 20, un italiano rimase ucciso e il livello dello scontro si alzò, quando alle 23, dalla sede di una delle organizzazioni comuniste, fu lanciata una bomba a mano contro un gruppo di militari americani. Alla fine il bilancio di quella che avrebbe dovuto essere una giornata di festa, era di un morto, trenta feriti e una quindicina di arrestati. Il CLN emise un comunicato dove si deploravano gli eccessi e proclamava lo sciopero generale per il giorno successivo.

Gli atti di violenza proseguirono anche il giorno seguente: la sede della Delegazione Ferroviaria Jugoslava venne incendiata; nel primo pomeriggio, furono assaltate la tipografia del “Lavoratore” e la sede della “Voce Libera”; e, infine, alle 23, un agente di polizia rimase ucciso. Per protesta contro gli assalti alle sedi comuniste l’UAIS proclamò per il giorno 2 uno sciopero generale, che fu dichiarato illegale dal GMA. Soltanto il 5 ritornò la calma a Trieste, dopo un resoconto complessivo di 3 morti, 138 feriti e 414 arresti. Il GMA optò per la chiusura di alcuni locali, usuali ritrovi degli estremisti italiani, e intanto venivano spiccati mandati di cattura

(33)

contro i membri del comitato promotore dello sciopero comunista del 2 luglio, che si rifugiarono nella Zona B.

L’emergere di forze filoitaliane, capaci di rivaleggiare sulla piazza con i comunisti, metteva il GMA nella posizione di sentirsi sottoposto ad un fuoco incrociato, situazione dalla quale cercò di uscire con un ulteriore giro di vite: si spiega così la decisione di dichiarare illegale lo sciopero generale del 2 luglio e di proibire la serrata dei Cantieri navali del 12 luglio. “Ogni qualvolta la prassi di governo del GMA era stata messa in discussione, l’assoluta indisponibilità al cedimento di fronte alla pressione avversaria era una norma da tempo codificata da parte alleata; il fatto poi che la pressione si manifestasse nella forma dello sciopero generale, nella forma, tutto sommato eccezionale, di una mobilitazione di massa contro il GMA sollecitava quest’ultimo a fornire una dimostrazione, essa pure intermini eccezionali, del fatto che l’iniziativa del fronte avversario era priva di via d’uscita, comportava obiettivi che «non

potevano essere raggiunti» ed andava perciò arrestata”57. Nel

frattempo venne anche deciso di aumentare di 1850 unità il contingente di polizia civile. Nel corso del primo anno di amministrazione alleata “il GMA fu spinto ad accentuare il direct rule, a presentarsi come governo che poneva fra sé e le forze politiche e sociali locali un netto diaframma e che tendeva ad indicare inappellabilmente gli argini entro i quali l’attività di queste

ultime avevano la possibilità di esplicarsi”58.

57 G. Valdevit, op. cit.,(1986), pag. 152. 58 Ivi, pag. 153.

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1.4 La firma del trattato di pace e la nascita del Territorio Libero di Trieste.

Il primo passo del lungo cammino verso la firma dei trattati di pace fu la Conferenza del Consiglio dei Ministri degli Esteri, che si

tenne a Londra dall’11 settembre al 2 ottobre 194559. La Conferenza

fu preceduta da un incontro con la stampa del segretario di Stato americano, Byrnes, che confermò come la questione italiana fosse il primo punto nell’agenda della Conferenza. Il 18 settembre, dopo una serie di rinvii, sia il rappresentante italiano De Gasperi, sia il rappresentante jugoslavo Kardelj, esposero alla Conferenza i memorandum dei due paesi. Il piano jugoslavo prevedeva che il tracciato del confine seguisse quello italo-austriaco precedente allo scoppio della guerra del ’15-’18, con correzioni al Nord a favore jugoslavo e a sud a favore dell’Italia, sulla base del principio etnico. In quel modo le città e i grossi comuni della Venezia Giulia, a netta maggioranza italiana, diventavano isole straniere in terra croata e slovena. Per quanto riguardava il caso triestino, Kardelj rivendicò la città per ragioni economiche, poiché il porto si era sviluppato soprattutto grazie all’influenza del retroterra sloveno. Ad ogni modo la Jugoslavia era disposta ad internazionalizzare il porto e a fornire alla città un’ampia autonomia, pari a quella di una repubblica federale della Jugoslavia.

“Il governo italiano aveva anteriormente deciso di chiedere la linea Wilson del 1919 con l’integrazione dell’Arsa, di Lussino e di Cherso, lo stato libero o il «Corpus separatum» per Fiume e Zara e di promettere di dare ampia funzione internazionale al porto di Trieste”60.

59 I Ministri delle Cinque potenze erano: Molotov (Unione Sovietica), Byrnes (Stati Uniti), Bidault (Francia), Bevin (Gran Bretagna), Wang Shih Ciech (Cina).

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L’audizione dei due rappresentanti non fece altro che confermare come le posizioni fossero totalmente incompatibili. Le parole di Kardelj “vennero immediatamente percepite dal Foreign Office come un ostacolo di natura permanente ad una soluzione stabile

della vertenza”61, in particolar modo se esse avessero avuto il

sostegno di Mosca. Allo stesso modo i due interventi non mutarono le posizioni dei Tre Grandi: per gli americani si doveva adottare la linea Wilson con aggiustamenti economici a favore dell’Italia; per gli inglesi si doveva applicare il solo criterio etnico; per i russi era da seguire invece il criterio dell’assorbimento della città da parte della campagna.

Il Consiglio dei Ministri degli Esteri decise di prendere tempo, nominando una commissione quadripartita col compito di visitare il territorio conteso, studiarne le condizioni etniche ed economiche locali, al fine di giungere ad un confine che lasciasse il minor numero possibile di slavi in Italia e di italiani in Jugoslavia.

Tra il 16 e il 26 dicembre 1945 i rappresentanti di USA, Gran Bretagna e URSS si riunirono in una nuova conferenza a Mosca, a cui non furono invitate Francia e Cina. Questa nuova Conferenza naufragò in un nulla di fatto, limitandosi alle questioni procedurali relative ai negoziati62.

Il 18 gennaio 1946 intanto, il Consiglio dei Ministri degli Esteri

aveva già proceduto ad incaricare il Consiglio dei Supplenti63 di

61 Giampiero Valdevit, op. cit., (1986), pag. 143.

62 “Venne chiesta l’adesione della Francia e della Cina alla procedura stabilita. La seconda aveva aderito subito; la prima, il 3 gennaio 1946, aveva inviato una nota contenente qualche richiesta di chiarimenti. A nome dei Tre Grandi, il 12 gennaio 1946, Byrnes aveva risposto a Bidault.”

Diego De Castro, La questione di Trieste, Trieste, Edizioni Lint, 1981, Volume II, pag. 406-407.

63 I Supplenti nominati erano: Dunn per gli Stati Uniti, Jebb per il Regno Unito, Gousev per l’URSS, Couve de Murville per la Francia Insieme a loro avrebbero partecipato i rappresentanti di tutte le Nazioni già in guerra contro l’Italia.

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nominare la Commissione degli Esperti64, la quale avrebbe dovuto

portare avanti in prima persona i compiti di perlustrazione e studio del territorio. Questa svolse i suoi lavori tra il 9 marzo e il 5 aprile 1946, in un clima di scontri e di violenze. Non furono visitati i territori al di là della linea Wilson, dato che l’Italia vi aveva ufficialmente rinunciato; né le isole del Quarnero per espresso rifiuto del commissario sovietico. Fiume venne visitata solo da una commissione economica; mentre, fra le proteste di Roma, fu visitata la Slavia Veneta, in provincia di Udine. Com’era prevedibile, alla fine la Commissione non riuscì ad elaborare un piano unitario e così furono presentate quattro relazioni conclusive, una per ogni delegato: i quattro confini proposti erano lo specchio delle posizioni delle nazioni a cui appartenevano gli esperti.

“Il confine proposto dagli esperti russi era quasi identico a quello chiesto dalla Jugoslavia. La linea successiva, andando da occidente ad oriente, era quella prospettata dai francesi, che era anche la più vicina al vecchio confine italo-austriaco esistente prima della guerra ’15-’18. Infatti, a nord, lungo il fiume Isonzo, la linea francese era quasi identica a quel confine, mentre a sud includeva nell’Italia territorio etnicamente italiano. La Val Canale, la Slovenia Veneta e le città di Gorizia e di Trieste sarebbero rimaste all’Italia, mentre quasi tutta l’Istria nonché la città di Fiume, sarebbe passata sotto la Jugoslavia.

Gli esperti inglesi e americani seguirono strettamente la linea francese dal confine austriaco a Trieste, ma poi tendevano a concedere all’Italia più territorio. In base al confine proposto dagli inglesi, l’Italia avrebbe ottenuto la costa occidentale dell’Istria; secondo quello proposto dagli americani, che era il confine più

64 La commissione era composta da: Wolfrom (Francia), Gerascenko (URSS), Waldock (Gran Bretagna), Mosley (Stati Uniti).

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