ASPETTI CARATTERISTICI DEL LAVORO IN CARNIA
MAURIZIO LUCCHETT A
L'artigianato in Carnia ebbe un ruolo e uno sviluppo svincolati dall'arte, in quanto crebbe e si affinò indipendentemente da essa. La faticosa esistenza condotta per millenni da quella popola- zione, costretta ad una laboriosa povertà per l'av- versa natura del suolo e del clima, portò per se- coli ad una emigrazione diffusa nella quale l'indu- striosità delle genti carniche fece sì che la lunga e forzata lontananza non intaccasse il rapporto con il paese natale, ma contribuisse anzi ad ogni gene- razione a costituire una gerarchia di patrimoni più o meno consistenti, quindi una diversa capacità e- conomica e abitazioni di diversa struttura e diver- samente arredate, pur sempre restando nell'ambi- to delle arti e tradizioni popolari. Gli artigiani del- la Carnia ritornando in patria certo portavano an- che gli influssi di quanto di meglio avevano impa- rato nei paesi di emigrazione, sia nel resto d'Ita- lia che all'estero. Tuttavia l'abilità dei nostri arti- giani seppe assimilare le caratteristiche di questi vari stili, dando vita comunque ad una produzio- ne originale in cui la matrice carnica è fondamen- tale. La virtù della pazienza e il gusto di caratte- rizzare anche i più modesti oggetti casalinghi sono quelli particolari delle genti nordiche, destinate al- la clausura dei lunghi inverni: non soltanto ma- die, armadi, tavole e sedie sono sempre religio- samente scolpiti, ma anche le mestole, i porta po- sate, i soffietti per attizzare il fuoco, i cucchiai di legno, le grattugie, le navette per tessere e persi- no la lamina per togliere dalla caldi era le croste della polenta sono tutte minutamente e fantasio- samente istoriate. Uguale armonia si ritrova negli alari, nei bronzini e nei secchi di rame. « Una gen-
te che ama ingentilire a questo modo gli oggetti che le proprie mani devono usare e quanto fa par- te della propria vita nell'interno della casa, dimo- stra una civiltà recondita delle più raffinate e che dà sicura promessa di un artigianato prezioso, solo che venga aiutato a risorgere », scriveva Giovanni Comisso. Tra lo studio quindi di questa terra e quello delle opere artigiane degli uomini che lo abitano non esiste alcuna discontinuità, essendo queste il frutto di quella.
In questo senso il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Tolmezzo si pone come il punto di par- tenza per un recupero e per una rinascita culturale della Carnia. La Carnia, del resto, che aveva una propria identità culturale, non poteva sentire al- cuna influenza determinante da parte dei movimen- ti paralleli operanti allora in altri luoghi del Friu- li e nelle alte vallate carinziane. Vittime della pia- ga secolare dell'emigrazione che li costringeva ad abbandonare la terra nativa magra di risorse eco- nomiche muratori, tagliapietra, carpentieri andava- no per il mondo lasciando in patria i boscaioli (bo- scad6rs), i segantini (segàz), i tessitori (tessérs), i costruttori di talz, le strisce elastiche di faggio che sagomano i formaggi, i dalmenars costruttori di dalmine, i guardiani del bestiame a monte e i lavoratori delle malghe, le donne con l'inseparabi- le gerla (zei) le quali dovevano curare i campi, i prati, la stalla, custodire le case.
Non si ritrovano in Carnia le comunità mono- tipiche di mestieri che caratterizzano altre parti della nostra Regione, se si fa eccezione per i mo- bilieri di Sutrio, che vanta una fiorente industria di mobili di tipo pregiato e comune, In stile car-
Molino a MisincÌnis
Molino e lavatoio, "in dai Vìdui" (Paularo - 1940).
nico, con esposizioni permanenti e con l'esistenza di un consorzio di artigiani mobilieri. Ci si è in- nestati nel solco della tradizione, qui, dove anche nel passato si fabbricavano cassettoni da camera e tinelli perfino nelle case.
Bisogna risalire al '700 per trovare un altro in- sediamento rilevante; quello della tessitura di Li- nussio, a Tolmezzo, di cui diremo in seguito.
L'artigianato della Carnia è quasi sempre in funzione della stessa gente carnica e non rivolto all'esterno. L'artigianato aveva inoltre caratteristi- che stagionali. Quasi tutte le contadine lavoravano il lino di cui era fatta la loro biancheria. Si usava seminare un po' di canapa e di lino che venivano filati e tessuti dalle donne; così si preparava in ca- sa la biancheria domestica. Le donne, in molte lo- calità, cardavano, filavano, torcevano e tingevano anche la lana e con questa facevano calze, maglie e berretti per ragazzi. Tessevano anche, aggiungen- do alla lana altre fibre filamentose, certe stoffe dette mezza-lana.
I boschi, soprattutto nella conca d'Ampezzo, famosa per i noci, erano una ricchezza amministra- ta scrupolosamente.
Se ci si guarda attorno in Carnia ci si accorge che quello che ha saputo dare l'anima popolare per millenni, lo ha detto con il linguaggio degli artigia- ni. Tenteremo pertanto di risalire storicamente al- le origini delle attività artigianali in Carnia. Du- rante il periodo patriarcale tutte le attività erano sottoposte ai voleri feudali. I feudatari facevano pagare gabelle e pedaggi alle merci in transito sui loro territori. Le banche erano rare. I contadini producevano le stesse merci in ogni luogo (frumen- to, sorgo, vino, latte) e fabbricavano in casa anche attrezzi e prodotti artigianali perché avevano po- chi soldi da spendere. Fra le corti o fra i paesi c'e- rano quindi poche possibilità di scambio, ma il com- mercio poteva svilupparsi tra città e campagna, perché i cittadini avevano bisogno di alimenti e offrivano merci, e «servizi» che potevano es- sere prodotti solo dai membri delle corporazioni
di arti e mestieri (avvocati, medici, setaioli, lanaio- li, pellicciai ... ). Le città, ben difese da mura, ricche di botteghe artigiane, officine e magazzini erano dunque i luoghi in cui di preferenza lavoravano i commercianti. Ma le città erano rare, i mercati pochi.
Si ha notizia di una comunità artigiana in quel di Gorto, il 5 dicembre 1259, allorché il Patriar- ca Gregorio da Montelongo concesse il permesso
« di cavare oro e argento da un monte ». Agli arti- giani fu inoltre consentito di costruirsi sul luogo, case, forni, e mulini. Con speciali disposizioni si provvedeva alla mutua sicurezza di questo agglo- merato artigiano. Sempre Gregorio da Montelongo, nel 1258, aveva concesso a Tolmezzo un mercato che richiamò venditori, compratori e altra gente che aveva convenienza a vivere stabilmente nei pressi di un centro commerciale: prestatori di de- naro, artigiani, osti, locandieri, mercanti, magazzi- nieri. Così Tolmezzo diventò il centro più impor- tante della Carnia.
Di un molino sul rivo della villa di Cavazzo vi è cenno in un documento del 19 giugno 1290. L' artigianato nell'ultimo secolo del Patriarcato di A- quileia visse un periodo florido, e fu saldamente inserito in tutti i settori dell'economia, iniziando ad affermarsi anche in Carnia. La caduta del Go- verno parti arcale e l'avvento di quello veneziano ebbero notevoli ripercussioni sul piano sociale ed economico. Vi fu un evidente salto di qualità che permise un'avanzata in tutti i campi. Tuttavia gli artigiani furono favoriti solo quando le loro ini- ziative non disturbarono i traffici e gli artigiani del- la Serenissima. Né Venezia mancò di imporre agli artigiani, così come accadeva precedentemente, pre- stazioni obbligatorie in caso di interesse pubblico.
Cosicché ci si guardò bene dall'approfittare della situazione apparentemente favorevole per assume- re iniziative di ordine politico ed economico tali da disturbare il predominio veneto.
Oltre che del mercato di Tolmezzo, le genti carniche avevano forse indirettamente potuto av-
vantaggiarsi della pOSIZIone di privilegio che fin dalla metà del '200 Gemona godeva, con il Nider- lech, o diritto di scaricamento, abbastanza diffuso nei paesi germanici, in forza del quale tutte le mer- ci in entrata dai Paesi d'oltre Alpe dovevano sa- lire a Gemona, essere scaricate e poi ricaricate su carri friulani, pagando un dazio. Parimenti le mer- ei in uscita dovevano essere caricate su carri tede- schi per proseguire il viaggio, con l'obbligo a tut- te le persone che accompagnavano i trasporti di pernottare in paese. Per effetto del Niderlech, Ge- mona aveva visto sviluppare in vantaggio dei suoi
abit~nti una remunerativa attività che aveva con- sentito il formarsi di un buon numero di attività artigianali, quali fabbri, maniscalchi, carpentieri, fa- legnami, ecc. I mercati di Tolmezzo e Gemona a~
vevano grande importanza. Erano istituzioni per- manenti, a differenza di altre in Friuli a carattere temporaneo, intorno alle quali operavano fondaci, negozi e botteghe artigiane.
Con l'avvento della Repubblica Veneta, le piaz- ze commerciali di Gemona, Venzone, Cividale ven- nero abolite, cosicché frequenti furono le lamente- le degli artigiani al Parlamento della Patria per la mancanza di ferro e di altre materie prime. A fa- re le spese in particolare della politica protezioni- stica della Repubblica Veneta furono i carnici, nei confronti dei quali venne posta in atto una vera e propria spoliazione con la confisca di 47 località boschive passate alla Casa dell' Arsenale di Venezia.
Ciò determinò una vera e propria crisi nelle val- late dove era fiorente, proprio nel periodo della Serenissima, la lavorazione del legname. Sotto la dominazione del Patriarcato di Aquileia e sotto la Repubblica della Serenissima, la Carnia godette tut- tavia di una certa autonomia. Questa situazione favorevole permise ai principali centri di orientare l'evoluzione delle loro strutture economiche verso forme aperte. L'economia libera favorì la vita di molti paesi in pianura e nelle valli e, dove la mor- fologia del terreno permetteva un insediamento sufficientemente isolato, la coltivazione della poca
terra necessaria al fabbisogno. Ogni insediamento era una piccola unità autosufficiente che risolveva nel proprio interno le necessità· basilari per la so- pravvivenza: forno, fontane, lavatoio e, ove pos- sibile, il molino.
Il 23 gennaio 1356 il Patriarca Nicolò di Lus- semburgo (1350-1358) assegnava a Tolmezzo la Braida «Pralongiades », un fondo argilloso pres- so Invillino, perché vi si piantasse una fornace di tegole da coperto, utili a difendere le case dal fuo- co. E' presumibile che fino da allora si avvertisse la necessità di edificare le case in mura tura, vista la frequenza degli incendi per cui le vicìnie ordina- rono turni di vigilanza e misure intese a scon- giurare il ripetersi di tali disastri.
Alla fine del '400 si fecero strada i pittori e gli intagliatori tolmezzini: è la maggiore espres- sione dell'arte in Carnia e fa capo alle tre Casate che conquisteranno le botteghe d'arte di Udine:
i Floreani, i Martini e i Mioni. La scultura lignea in Friuli rappresentò, a differenza di quella in pie- tra, un fatto di costume, oltre che artistico, per- ché rispose alla pratica esigenza di una popolazio- ne impossibilitata, per le scarse disponibilità eco- nomiche, a commissionare le opere di abbellimento delle proprie Chiese ad artisti di fama consacrata.
La gente carnica desiderò comunque adornare i luoghi del culto con oggetti che avessero una par- venza di ricchezza. Con esiti felici, i maestri tol- mezzini si dedicarono all'affresco di Chiese, alla fattura di altari lignei ed alla loro decorazione. Vi fu in Carnia la più importante fioritura di opere d'intaglio della Regione, che trova riscontro quan- titativamente solo in quella toscana e trentina. Nel- l'arco di alcuni secoli si ha notizia in Friuli di oltre 300 intagliatori in legno, molti dei quali durante il dominio della Repubblica veneta sentirono i fer- menti innovatori, che furono senza dubbio rilevan- ti, ma non tanto da incidere profondamente sulla genuina espressione delle tradizioni affermate, le quali sopravvissero ai suggestivi richiami del gu- sto veneziano. Non pochi artigiani della regione tra
Tolmezzo, Museo delle Arti e Tradizioni Popolari: grande cucina padronale.
Tolmezzo, Museo delle Arti e Tradizioni Popolari: camera da letto di famiglia agiata (con lettuccio a carriola, con rotelle).
l'altro si formarono nelle botteghe di Venezia. L'ar- te dell'antico mobile friulano sembra ricongiunger- si alle fonti della scuola tolmezzina sorta nelle val- li della Carnia e poi attiva in altre località del Friu- li a cavallo tra i due secoli della rinascenza. E' opi- nione credibile che, nelle zone della pianura friu- lana in cui la lavorazione del legno è attualmente diffusa, essa sia stata introdotta da famiglie giunte dalla Carnia. Ciò sarebbe dimostrato dai molti co- gnomi di chiara origine carnica che si riscontrano nei centri per la lavorazione del legno, come Ma- riano e Manzano. Pur nella lenta evoluzione degli stili e delle tecniche, le casse nunziali, o cassepan- che, i letti, le culle, gli armadi a muro, i cassetto- ni, gli inginocchiatoi, i ballatoi, le porte, le panche ecc., rappresentano quanto di meglio ha prodotto l'artigianato tradizionale della Carnia. Si tratta qua- si sempre di materiale ottenuto dai maestosi noci secolari che nel '600 e nel '700 dovevano essere numerosissimi nella Carnia. Nelle lavorazioni si so- no formate tipologie tradizionali per ciascuna val- le o per singoli gruppi di paesi, con influssi tede- schi o veneziani, ma sempre con adattamenti, tra- sformazioni e creazioni locali. L'intaglio domina nei mobili fino a tutto il 700 accompagnato dal- l'intarsio con figure di animali o di greche e altre figure geometriche, mentre dall'800 all'incirca vi predomina l'intarsio.
Oggi i mobilieri di Sutrio si tramandano di ge- nerazione in generazione il mestiere esteso un tem- po ai più svariati mobili, domestici e da chiesa, e limitato successivamente alla costruzione dei cas- settoni. L'artigianato del mobile si è esteso a Pau- laro, a Tolmezzo e ad Ampezzo, ma sono ormai lontani i prodotti di queste botteghe dai mobili custoditi nel Museo di Tolmezzo, perché il mobi- le è certamente espressione caratterizzante di una cultura, il riflesso della vita dell'uomo e della ci- viltà, elemento rivelatore della situazione economi- ca, sociale ed ambientale. La Carnia ad esempio non è stata caratterizzata dalla proprietà feudale ma, nei secoli, ha goduto della proprietà privata e co-
munitaria, mentre nel Friuli di pianura la proprie- tà terriera si è ormai concentrata in poche fami- glie e questo fatto non ha mancato di incidere no- tevolmente anche sul piano della vita familiare.
In Carnia pertanto si è sviluppato capillarmente un artigianato del legno contraddistinto da un par- ticolare buon gusto. La presenza in lo co di gran quantità di pregiatissimo noce, i lunghi inverni a disposizione favorirono i prodotti di un prezioso patrimonio anche senza bisogno di ricchi commit- tenti. In Friuli invece le botteghe artigiane erano soprattutto a servizio dei nobili e delle chiese.
Presso il Museo Carnico figura la bottega del falegname di Sutrio Pietro Straulino, che lavora- va nella prima metà dell'800. Parecchi degli stru- menti di lavoro sono datati fine '700. A documen- to dell'abilità degli artigiani carnici del legno del secolo scorso è stato acquistato anche il campio- nario dell'artigiano Michele Fedele da Clavis di Ovaro, nato nel 1799 e del quale vi sono opere nelle chiese di Ovaro, Ovasta, Rigolato e Parenzo.
Un altro aspetto caratteristico del lavoro in e- same è quello del taglio, della lavorazione e del trasporto del legname. Il Gortani afferma di ave- re visto nel 1930 l'ultima zattera per il trasporto del legname, ormeggiata sul Tagliamento, e ripor- ta la testimonianza di un segantino di Arta. Gli zatars o ciatars scendevano lungo le acque dei tor- renti della Carnia tra mille difficoltà, fino al ma- re, un tempo fino ai grandi arsenali della Serenis- sima: vivevano praticamente le loro giornate sul- le zattere ove consumavano i loro pasti.
Dal taglio del bosco alla zattera, gli attrezzi era- no sempre gli stessi: manarìn, langhir, sapìn; veni- vano consegnati al garzone come insegna di grado solo dopo un lungo tirocinio. I boscadors, abbat- tevano gli alberi che erano quindi avvallati con vari sistemi (martors, lìsse). Attraverso il siste- ma delle chiuse (stùe) si riuscivano a far arrivare i tronchi fino alla segheria. L'operazione era co- sì pericolosa che se ne dava notizia in chiesa af- finché la gente stesse in guardia. La costruzione
Cason di boscad6rs sull'Orteglàs (Paularo - 1930).
delle zattere era un mestiere ereditario come quel- lo dei pescatori sulla costa, legato ai luoghi tradi- zionali. Da Stazione Carnia a Latisana il viaggio durava in media dalle 12 alle 15 ore e aveva al- cuni punti di sosta obbligatori (dogane). I princi- pali raccordi erano Villa Santina, Tolmezzo, Ven- zone, Osoppo, Pinzano, Spilimbergo, Turrida, San- to Odorico, Latisana e Pertegada. Dopo Venzone, se l'acqua non era troppo tumultuosa, due zatterai bastavano alla guida, mentre gli altri potevano ri- tornare al paese. Talvolta, invece che di legname le zattere erano cariche di pietra da costruzione, destinata ai palazzi di Venezia e di Udine, di im- balli di tela e di sacchi di granoturco e patate.
Spesso tagliapietre, sarti, tessitori, contrabbandie- ri e pellegrini dividevano coi zatterieri i vantaggi e i disagi del viaggio.
La guida della Carnia del Marinelli (1924) ri- porta questo passo: «Le industrie del legno sono anzitutto rappresentate da ben 33 segherie a lame multiple e oltre 60 circa a lama semplice o doppia, mosse dalle acque. Solo alcune maggiori hanno il motore a combustibile e sono adibite alla riduzione in tavole di quasi 40 mila metri cubi annui di tron- chi dei boschi locali. Fabbriche di mobili e offici- ne per la lavorazione meccanica del legno si han- no a Sutrio, dove l'industria è diffusa e molto an- tica, a Cercivento, Rigolato, Villa Santina Tolmez- zo e altre minori a Cavasso e Verzegnis. Mobili artistici si fanno a Tolmezzo, Paularo, Ovaro, Co- meglians, scatole e vari utensili di legno, mastelle, botti ad Ampezzo ».
Anche le donne lavoravano nelle segherie ed erano chiamate le sfilere: portavano fuori dalla segheria le tavole e le accatastavano a livello, nel cortile, in modo che si asciugassero senza torcersi.
Molinari, segantini e zatterai si avvicendavano lun- go il But, nel tratto da Arta a Timau. Le acque si ingrossavano nel mese di maggio, ma «per il re- stante periodo dell'anno il fiume scorreva tran- quillo e ripagava gli operosi valligiani dei danni loro arrecati, fornendo movimento ai numerosi in-
sediamenti di molinari, fabbri e segantlm ».
La stùe di Ramàz sorgeva poco più a monte del luogo dove nasce il torrente Chiarsò, incassa- to tra le due montagne che formano il letto del Rio Lanza, ed era stata costruita da boscaioli della Val d'Incarojo. La prima stùe di Ramàz ha origi- ni molto lontane; risale all'epoca in cui la repub- blica di Venezia avvertì il bisogno di rapidi sistemi per il trasporto del legname necessario per la co- struzione delle navi. Di questo bisogno si fece in·
terprete Tommaso Calice di Paularo, che nella pri ma metà del 1600 fu ideatore e proprietario della prima stùe di Ramàz e ottenne l'incarico di orga- nizzare il commercio di legname dell'Arsenale di Venezia. Questo commercio si protrasse fino alla caduta della Repubblica, quindi subì una interru- zione durata fino al 1866 allorché riprese a fun- zionare la stue che fu fatta poi saltare nel 1917 per essere ricostruita nel 1920.
L'arte della lana era già fiorente al tempo dei Patriarchi, organizzata dallo stesso Comune di U- dine il quale aveva chiamato numerosi artigiani fo- restieri favorendoli in ogni modo. Soprattutto in Carnia la lavorazione domestica della lana si este- se un po' ovunque. Si producevano indumenti grez- zi destinati al fabbisogno familiare. La materia pri-
ma· veniva fornita dall'allevamento ovino pratica-
to dalle stesse famiglie che esercitavano l'arte. E proprio nell'arte della tessitura la Carnia vide una iniziativa industriale senza precedenti e di portata europea. Si hanno documentazioni che già nel '600 e '700 molti abitanti dei piccoli villaggi montani della Carnia si dedicavano a questo genere di la- voro soprattutto durante i mesi invernali. Una no- ta del 1721 ammette l'esistenza di una quarantina di telai e quindi di altrettanti tessitori nel solo Comune di Sutrio. Di questi solamente una parte lavorava tutto l'anno in loco. Molti erano costretti a lavorare per alcuni mesi in altre zone del Friuli soprattutto nel trevigiano. I manufatti venivano poi opportunamente tinti o sbiancati con speciali tinture vegetali da esperti tintori locali. Uno dei
colori più usati soprattutto per la mezza lana era il verde di cui esiste una ricetta del 1612 per le operazioni di tintura. Nel 1724 i produttori di tes- suti e di tela della Carnia venivano esonerati dal pagamento dei dazi della città di Udine, con un preciso riferimento a privilegi precedenti. Molte tele erano esportate in Austria e in Baviera dov,e alcuni carnici tra i quali Giacomo Mussinano e Antonio Morassi, Antonio Diobello e certo Leonar- do di Cercivento possedevano avviati negozi. Nel '600 e '700 fiorisce in Carnia anche l'arte del ri- camo. Fin dal 16° secolo i tessitori carnici aveva- no una fama eccellente in tutta Europa, ma la lo- ro capacità si esplicava essenzialmente nelle lane e nei lini. Il De Morelli afferma che nel goriziano, nel '600, sparirono a poco a poco i telai in quan- to «sostenuti da operai forestieri non potevano mantenersi sotto un governo il quale, anzi che pro- teggerli con moderate gravezze, li disgustava e li forzava ad abbandonare la contea e ritornare nella Carnia da dove erano venuti ». La tessitura era un'antica arte friulana fiorita durante il patriarca- to di Aquileia. Già prima del '400 e nel '500 da- va il pane e lavoro a gran numero di carnici che portavano in tutta Europa l'arte loro di cui si di- mostravano ,eccellenti e rari secondo la testimonian- za di Jacopo Valvason di Maniago. Un quadro esi- stente presso il Museo di Tolmezzo testimonia quel- la che è stata l'epopea tessile della Carnia nella sua massima espressione: rappresenta uno stuolo di donne intente a filare sotto la sorveglianza di Ja- copo Linussio.
Nato egli a Paularo nel 1691, da modestissima famiglia, fu mandato da giovane ad apprendere il mestiere a Villaco, dove erano fiorenti il commer- cio e la produzione di tessuti. Qui, con alcuni ope- rai carnici già addestrati all'arte, apprese i sistemi di lavorazione della lana e del lino.
In 15 anni di lavoro mise da parte il capitale necessario a trasportare tale iniziativa in Friuli. A 27 anni costruì a Moggio un piccolo opificio per la tessitura del lino, quindi ne mise in piedi un altro
maggiore a Tolmezzo. A Moggio già nel 1725, egli era riuscito ad ottenere formale licenza di fabbri- care panni ed alcune facilitazioni doganali, dimo- strando che la sua produzione si limitava a quei ti- pi di tessuto che dovevano essere importati dalla Slesia e quindi non erano concorrenti con quelli prodotti dalle fabbriche veneziane, eludendone co- sì il protezionismo. I preposti comunicavano a Ve- nezia da Tolmezzo: «J acopo Linussio maneggia attualmente l'industria dei renzetti con l'uso di manghina e tiratoio e con l'impiego di 150 fami- glie di lavoratori tessèri nelle ville di Terzo, Lo- renzaso, Casanova, Chiazzaso, Fusea, Canipa, Ver- zegnis, Enamonzo e Raveo, tutte famiglie che pri- ma erano costrette di viaggiare con sommo disa- gio ad esteri paesi per trovare lavoro ora godono in propria casa con doppio vantaggio della conta- dinanza e dell'arte ».
A Casabianca presso San Vito al Tagliamento faceva coltivare il lino, a Moggio nel suo opificio faceva purgare e biancheggiare il filato e lavorare il lino grezzo importato dalla Slesia che poi face- va tèssere a Tolmezzo. Nel 1726 oltre 3000 fami- glie lavoravano per il Linussio. A Moggio impie- gava più di 100 donne e quasi altrettanti uomi- ni; a Tolmezzo vi erano oltre 1100 telai e più di 50 ve ne erano in Friuli nei centri di distribuzione del materiale per la filatura a domicilio. La produ- zione annuale si aggirava sulle 40.000 pezze. Lo Zanon afferma: «Non esservi mai stata nel Friuli e nella Carnia un'impresa meglio formata e con- dotta con maggior coraggio ed abilità di quella del Signor Jacopo Linussio ». Per lo smercio egli aveva magazzini a Napoli a Cadice, a Costantino- poli, e calcolava di importare annualmente valuta estera per oltre 100.000 ducati. Il Linussio morì prematuramente nel giugno del 1747.
La fabbrica cessò di lavorare nel 1813, ebbe una successiva ripresa per una Società svizzera, che però non seppe addattarsi alle esigenze locali del lavoro e che la abbandonò nel '18 definitiva- mente.
Splendido esemplare di doppio alare carnico.
Ferro battuto per sopraporta (dis. M. Forte).
Tipico elemento decorativo in ferro battuto (Paularo - Palazzo Calice).
Gli ultimi tessitori sui primi del '900, anda- vano ancora in giro a vendere la merce di loro fat- tura, disposta in pezze sulla cràme (sostegno di legno a forma di seggiolino che si adattava con cinghie sulle spalle). I prodotti consistevano per lo più ormai in tela di canapa per biancheria da la- voro e da letto e, solo nei centri più remoti come Sauris e Forni di Sopra e di Sotto, si tessèvano ancora coperte da letto di lana colorata con dise- gni geometrici e tele di cotone e di lino. Una scuo- la di ricamo a Sutrio sopravvisse fino al 1885. Fi- no a dopo l'ultima guerra mondiale, i telai del Friuli e della Carnia continuarono a lavorare e i tessérs di Enemonzo, di Preone e del resto della Carnia abbandonarono i loro paesi per svernare a Udine, Gorizia, Cormons, Cervignano e Latisana presso famiglie benestanti o piccoli artigiani. La Carnia conserva ancora le sue tradizioni e a Soc- chieve si costruiscono telai di legno. Lenzuola di canapa di 100 anni fa si trovano ancora nei bor- ghi isolati. In particolare i telai a mano sopravvi- vono a Sauris di Sotto e di Sopra dove, a dirla con Chino Ermacora, si contavano più pecore che donne e la tosa tura avveniva con la luna di set- tembre prèvia lavatura delle pecore in una màdia.
Le mani delle filatrici che prillavano il fuso richie- devano abbondante umettatura: da ciò l'uso di masticare i lops, minuscole mele selvatiche, per au- mentare la salivazione. Quanto al lino, veniva col- tivato sui pendii assolati a contatto con i campi- celli di patate e di sègala, con la malva che com-
"ltte la tosse, con i cavoli destinati a trasformarsi
in crauti. Strappato insieme con le radici il lino veniva allargato sui prati falciati. A Sauris le qua- lità di tela che si ottenevano erano, una fine per biancheria femminile, una andante, ed una terza mista alla canapa grezza. Un interessante «libro di tacamenti» datato Cavazzo Carnico 1869 ci P.
stato tramandato manoscritto da Antonio Michieli Filosa. Attualmente stoffe di tradizione carnica si possono acquistare presso il laboratorio della Tes-
situra Carnica, alle porte di Villa Santina, dove si usano ancora gli antichi sistemi.
L'artigianato del ferro non poté avere in Car- nia un grande sviluppo, per mancanza di materia prima. Sulla porta maggiore dell'antica Chiesa di S. Pietro di Zuglio in Carnia si legge «Nicolaus Jancilli faber de Tumecio hoc opus fecit ». L'iscri- zione porta la data del 1442; si tratta dell'unico nominativo di artigiano medioevale del ferro che sia noto in Carnia. Tuttavia cospicua è stata la pro- duzione di cjavedai, chiavistelli, lucchetti, serratu- re, maniglie, battacchi, picchiotti, ferri per marca- re il bestiame, catene da fuoco, inferriate, gron- daie. Un esempio antico di officina è la farie di Checo, di Cercivento e di altro antico battiferro si ha notizia in Paularo. Nel 1924, secondo il Gor- tani, si contavano nel complesso della Carnia 20 officine meccaniche, lO battiferro, 3 battirame, 1 bilanciaio, 1 fonditore di bronzo, unico superstite dell'antica industria dei branzini La più antica cam- pana del Friuli, tra quelle che ancora si conserva- no, è quella di Fresis in Carnia che porta la data del 1358.
Tra i fonditori carnici ricordiamo un Candido Moro di Tolmezzo e un Antonio Gonan carnico, precedenti la prima metà del '600. Nei primi anni del '600 un Giuseppe Samassa di Forni Avoltri diede vita ad una bottega di apprezzati fonditori, tra i quali fu celebre Antonio Samassa che fuse ben 1264 campane al di qua e al di là delle Alpi.
I fonditori di bronzini di Pesàriis per almeno 3 secoli si tramandarono di padre in figlio il segre- to dei paioli di bronzo a tre piedi. Altri fonditori, sul piano industriale, li imitano e li smerciano, lu- cidi ma senza la forma e la patina che Vigj di Toi, l'ultimo bronzinaro, sapeva infondere ai prodotti della sua paziente creazione. A volte i branzini fu- rono sacrificati per la fusione delle campane, por- tate via o distrutte dagli invasori austriaci, come successe per la campana grande della chiesa di Gor- to, in quel di Ovaro. Da Pesariis di Prato Carnico
Tolmezzo, Museo delle Arti e Tradizioni: cassapanca e serie di bronzini.
Frontone di cassapanca (Museo di Tolmezzo).
vengono i modelli più antichi e aggraziati che si conservano nel Museo carnico.
Fiorente in tutte le valli della Carnia l'indu- stria del battirame, ricevette un colpo mortale con le requisizioni ordinate dal governo fascista nel- l'ultimo periodo della guerra mondiale. Disparve- ro così anche i calderai che spesso operavano come artigiani ambulanti per la stagnatura e accomoda- tura dei recipienti. Il rame rappresentava, con il peltro, la ricchezza della cucina.
Presso il Museo carnico figura l'intera suppel- lettile della bottega artigiana dei fratelli Picottini di Tolmezzo che si era specializzata in questo ge- nere di lavori.
Gli ottoni, oggi quasi scomparsi, non manca- vano in nessuna delle nostre valli al pari dei rami.
Collegata in una qualche misura con l'arte del ferro vi è una originalissima produzione tipica di grandi orologi a Pesariis, dove i fratelli Solari, fi- no dal 1725, gestiscono una delle più importanti fabbriche di orologi. La produzione di oggi alta- mente sofisticata difficilmente fa ricordare i gran- di orologi per campanili, per torri e per stazioni ferroviarie inviati in tutto il mondo, o gli orologi da parete, racchiusi in casse di legno dipinte. Pa- re che i Solari avessero appreso l'arte della costru- zione degli orologi nella vicina Istria e nella con- duzione del lavoro essi adottarono un criterio di alta specializazzione. Le ruote dei vecchi orologi venivano tirate su a fuoco da una barra di ferro.
Da essa si ricavavano tutti i denti, tutti mecca- nismi. La produzione nell'800 si aggirava sui 10-15 orologi da torre all'anno. Essi venivano spediti ol- tre che in Italia, in Dalmazia e in America. Gli e- migranti facevano da collegamento con i mercati stranieri e nello stesso tempo riportavano a Pesa- riis le notizie sulle novità riguardo a macchine, materiali e utensili per l'ammodernamento del la- voro. Nel 1877 ad esempio, gli artieri pesarini avevano attivato a Campobello di Mazzara in Si- cilia, un complicatissimo orologio a grande suone- na con 4 quadranti trasparenti e suoneria di av-
viso per mezzogiorno, mezzanotte e per l'ora di entrata ed uscita dalle scuole. Al giungere della primavera i Solari partivano accoppiati con un car- retto stivato di orologi e di pochi indumenti verso la pianura. Facevano sosta nell'udinese, nel gori- ziano, a Trieste e nell'Istria, alla ricerca di clienti nuovi, per visitare clienti vecchi presso i quali ri- finivano le casse di legno degli orologi montati, di- pingendovi stemmi di famiglia e decorazioni. Ab- bandonata la fabbricazione degli orologi da sala, in quanto il periodo neoclassico li aveva sostituiti con orologi da mobile di fattura molto più delica- ta e che ebbero in Gorizia un notevole sviluppo, i Solari si diedero alla fabbricazione di orologi da torre di varie dimensioni. Nel 1920 accanto agli impianti comuni per la lavorazione degli orologi da torre, vennero installati impianti moderni e ra- zionali per la lavorazione di qualsiasi tipo di oro- logio, compreso quello elettrico e di controllo, com- preso l'orologio universale noto sotto il nome di fuso orario d'Ambrosia che segnava l'ora legale insieme con l'ora media di ogni meridiano. Su- perfluo parlare dell'attuale prestigio della Solari.
A Pesariis nel 18° secolo operarono pure gli o- rologiai Cappellari, che eseguirono interessanti la- vori nella contea goriziana. Preziosi esemplari u- scirono anche dalle mani degli orologiai Timeus di Ovasta e dei Pus tetto di Ravascletto.
L'attività moli tori a connessa con l'industria a- limentare è stata molto diffusa in tutta la Carnia e localizzata ovviamente sui corsi d'acqua. Il Gor- tani ricorda i molini a cilindro di Tolmezzo, Soc- chieve e Moggio e i 200 molini mossi dall'acqua sparsi in tutta la zona. A Tolmezzo operava un grande panificio meccanico e una fabbrica di pa- sta alimentare. La produzione di biscotti era ri- nomata a Paluzza e Comèglians.
Acque gasate venivano prodotte in più luoghi, ghiaccio a Tolmezzo ed Ampezzo, liquori a Villa Santina e Cabia: vi erano infine cartiere ad Ova- ro e Villa Santina, concerie di pelli a Tolmezzo e Rigolato, tipografie a Tolmezzo e Ampezzo, pic-
Arrotino (1940)
cole fabbriche di scarpetti a Enemonzo, Verzegnis e Paluzza.
Di una cartiera abbiamo notizie a Ovaro, quel- la fondata da Anna Erker specializzata nella pro- duzione di cartoni. Ma il centro principale fu ed è Tolmezzo, con un'industria ancor oggi fiorente.
La cartiera, fondata nel 1928, raggiunse i 250 operai.
Alla mancanza di materie prime è da imputare il non florido sviluppo di un artigianato della ce- ramica in Carnia, dove ricordiamo due sole fab- briche utilizzanti minuscoli depositi di argilla pres- so Cercivento e presso Ovaro. Nel canale di Gorto i tetti sono coperti di tegolè smaltate di verde, sfornate fino a qualche decennio fa dalla fabbri- ca fondata nel '700 a Cella di Ovaro da France- sco Felice. La fabbrica di ceramiche di Cercivento, nel secolo 18°, di Daniele Morassi, è quella che ha lasciato maggiori tracce. Essa era orientata ver- so le stoviglie di uso familiare comune: embrici, piani e vasi di varia foggia, ciottole e catini ver- di ed ornati in verde e giallo, simili a quelli di Ovaro, boccali di varia forma e grandezza ma spes- so recanti il profilo di un uccello azzurro con la testa protesa in avanti, cornici di terra cotta con disegni eleganti, piccole acquesantiere ecc. La fa- miglia Morassi si era inoltre specializzata, dalla prima metà del '700 alla fine dell'800, alla produ- zione di figure religiose popolari, boccali per por- tare l'acqua nei campi, vasi, mentre a Cella di O- varo si producevano planèlis, tegole piatte, scu- gielis e pladinis, dipinte all'interno o in tinta uni- ca verde o giallina, con verso il bordo foglioline o cuori.
Un altro servizio artigianale, oggi scomparso in Carnia, era quello della diligenza, vale a dire del- la corriera che collegava i vari paesi della Carnia;
certo De Antoni di Comèglians gestiva il serVlZlO delle diligenze da Comèglians a Tolmezzo. Portava soprattutto gli emigranti quando partivano e li riportava ai loro piccoli paesi quando ritornavano.
La diligenza di Paluzza era una specie di carro lungo e stretto con due o tre panche.
Vi erano poi gli altri artigiani « senza insegna », quelli che operavano lungo le strade dei villaggi e lavoravano nei cortili: erano gli arrotini, gli sta- gnini, che battevano piazze fisse dove alloggiavano e si rifornivano, come gli arrotini di Tausia o di Ligosullo. Più spesso avevano un carretto a ma- no, o una specie di carriola, la cui unica ruota serviva tanto per mordere la strada quanto, capo- volto il veicolo, per affilare forbici e coltelli. A volte ancora si trattava di biciclette ingegnosamen- te trasformate. Generalmente lo stagnino, 'come quelli resiani, era anche aggiustatore di ombrelli e cjalzumit.
Diffusa in Carnia era l'opera dei liutai che co- struivano strumenti, sorretti da una passione per la musica pari alla loro conoscenza dei legni impie- gati: è il caso di Remo Di Giorgio e dell'intaglia- tore Brusconi.
Da segnalare ancora i tagliapietra di Verzegnis, di Forni Avoltri e di Rigolato che facevano rim- bombare nelle cave di calcare il loro intercalare:
Pière e jè pière no cjàcares!
Ricordiamo ancora gli instancabili raccoglitori di resina di Treppo Carnico, i sarti di Enemonzo, Oltris, Preone Fielis, alcuni dei quali giunsero per- fino a servire la corte dell'Imperatore d'Austria.
La crescente densità della popolazione rispetto alla superficie del terreno coltivabile e la mancanza di grandi industrie costrinsero in sempre maggior misura gli uomini validi alla ormai secolare emigra- zione nei paesi dell'Europa e d'oltre mare.
Donne ingaggiate per trasporto di corda da teleferica (Paularo - 1930).
Teleferica a Ravinis (1935).
La "cavatele CUI boscad6rs" sul Orteglàs (Paularo - 1935).
La "lisse" sul Orteglàs (Paularo - 1935).
La lisse cuI tasson das tajes in da Turiea (Paularo - 1935).
Stazione fluviale di legname sul Chiarsò (Cedarchis).