I.
Interpretazione e commento di Rvf
129(F. Petrarca)
Di pensier in pensier, di monte in montemi guida Amor, ch'ogni segnato calle provo contrario a la tranquilla vita.
Se 'n solitaria piaggia, rivo o fonte, se 'nfra duo poggi siede ombrosa valle, ivi s'acqueta l'alma sbigottita;
et come Amor l'envita,
or ride, or piange, or teme, or s'assecura;
e 'l volto che lei segue ov'ella il mena si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vita experto diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.
Per alti monti et per selve aspre trovo qualche riposo: ogni habitato loco è nemico mortai degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo de la mia donna, che sovente in gioco gira 'l tormento ch'i' porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro, ch'i' dico: Forse anchor ti serva Amore ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se' caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?
Ove porge ombra un pino alto od un colle talor m'arresto, e pur nel primo sasso disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch'a me torno, trovo il petto molle de la pie tate, et al or dico: Ahi lasso, dove se' giunto, et onde se' diviso!
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga, et mirar lei, ed obliar me stesso, sento Amor si da presso
che del suo proprio errar l'alma s'appaga:
in tante parti et sì bella la veggio
che, se l'error durasse, altro non cheggio.
I' l'ò piu volte (or chi fia che mi 'I creda?) ne l'acqua chiara et sopra l'erba verde veduto viva, et nel tronchon d'un faggio e 'n bianca nube, si fatta che Leda avria ben detto che sua figlia perde, come stella che 'l sol copre col raggio;
et quanto in piu selvaggio
loco mi trovo e 'n piu deserto lido, tanto piu bella il mio pensier l'adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce errar, pur li medesmo assido me freddo, pietra morta in pietra viva, in guisa d'uom che pensi et pianga et scriva.
Ove d'altra montagna ombra non tocchi, verso 'l maggiore e 'l piu expedito giogo tirar mi suol un desiderio intenso;
indi i miei danni a misurar con gli occhi comincio (e 'ntanto lagrimando sfogo di dolorosa nebbia il cor condenso) al or ch'i' miro et penso
quanta aria dal bel viso mi diparte, che sempre m'è si presso et si lontano.
Poscia fra me pian piano:
Che sai tu, lasso? forse in quella parte or di tua lontananza si sospira;
et in questo penser_ l'alma respira.
Canzone, altra quell'alpe,
là dove il ciel è piu sereno et lieto, mi rivedrai sovr'un ruscel corrente, ove l'aura si sente
d'un fresco et odorifero laureto.
Ivi è 'I mio cor, et quella che 'l m'invola;
qui veder poi l'imagine mia sola.
[F. Petrarca, Il canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996]
2.
La rappresentazione della follia nell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto.
3. Interpretazione e commento del seguente brano de Il fu Mattia Pascal, tratto dal capitolo Il, intitolato Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa.
[ ... ] Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un
fildi sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po ' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro.
E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita, e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
[L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Id., Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, Milano, Mondador~ '19907
, vol. I, pp. 323-325]