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L’ UOMO , IL PENSIERO , LA STORIA NEI LUOGHI DELLA NON - DOMANDA

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Academic year: 2021

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53 Capitolo secondo

L O SGUARDO DELLA FILOSOFIA .

L’ UOMO , IL PENSIERO , LA STORIA NEI LUOGHI DELLA NON - DOMANDA

«Ah oui c’est bien vrai/ Que c’était pas comme ça/ De mon temps de ton temps/ On respectait les vieux/ On marchait sur trottoir/ On la tournait sa langue/ Disette fois dans sa bouche/ Avant d’oser causer/ Et les gauloiz coûtaient/ Dix centimes-deux sous/ Mais ils ont tout changé/ On n’a plus de respect/ Pour les vieux pour les vieux/ On fait l’amour avec/

Des sinjenpantalons/ On roule dans des voitures/ Qui marche-t-au pétrole/ Et puis et puis surtout/ Ah merde merde merde/ On est vieux, on est vieux!»

1

.

B

ORIS

V

IAN

, Cantilènes en gelée - Les instanfataux

«Omero era semplice. Cristo era semplice. Sempre i grandi spiriti ritornano ai principi semplici, anzi — bisogna avere il coraggio di dirlo — ai luoghi comuni morali, e tutto sommato per nessuno come per le anime veramente libere, è difficile andare contro le usanze […]».

R

OBERT

M

USIL

, L’uomo senza qualità

«Quelli che mi parevano trovarsi sull’altra riva erano ormai sulla sponda dove mi trovavo io».

Y

UKIO

M

ISHIMA

, Taiy ō to tetsu, Sole e Acciaio

1. Il punto di partenza: che cos’è la cultura

Per tracciare i confini del luogo comune sulla mappa del mondo attraverso lo sguardo della filosofia e per comprendere quanto c’è ad affollare le terre dentro le

1 Dedicata a Raymond Queneau, che Boris Vian chiama Raymond-le-Chien, per la sua opera in versi Chêne et Chien (Denoël, Paris 1937), 1946: “Ah sì, è proprio vero/ non era affatto così/ ai miei tempi ai tuoi tempi/si rispettavano i vecchi/ si camminava sul marciapiede/ la si girava la lingua/

diciassette volte in bocca/ prima di osar ribattere/ e le gauloise costavano/ dieci centesimi e due soldi/ ma oggi è tutto cambiato/ non si ha più rispetto / per i vecchi per i vecchi/ e si fa l’amore con/

dei sacrosanti preservativi/ e si corre nelle auto/ che vanno a petrolio/ e poi e poi soprattutto/ ah merda merda merda/ siamo vecchi siamo invecchi”.

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sue ‘mura’, si dovrebbe partire da un punto preciso. Il luogo comune è uno dei tanti luoghi che popolano il grande universo della cultura, un luogo che tutti conoscono e

nel quale chiunque ha soggiornato almeno una volta nei suoi spostamenti. Ma che cosa è la cultura? E, quindi, che tipo di rapporto sussiste tra cultura e luogo comune?

Spesso la cultura viene intesa come un sistema omnicomprensivo di significati, di valori e di norme, omogeneamente condiviso e distribuito nella società, oppure, più soggettivamente, costituisce il “bagaglio” che ognuno di noi si porta appresso ad ogni passo dopo che ci è stato trasmesso e che continuiamo a riempire con ognuna delle esperienze che viviamo.

In questo modo, aldilà delle nostre inclinazioni e dei nostri occhi, possiamo essere indotti a seguire modelli solo per il fatto di averli appresi. Così inteso, però, il culturale sarebbe sostanzialmente distinto dal naturale, opposto. Le disposizioni naturali di un individuo costituirebbero una base sulla quale si innestano e agiscono gli apprendimenti culturali.

Che in questa contrapposizione dicotomica “natura-cultura” sia la cultura l’elemento di corruzione che deteriora l’innocenza primigenia dell’individuo, uccidendo il buon selvaggio, oppure sia, invece, una condizione necessaria per la libertà umana poiché con essa è possibile controllare gli istinti e trascendere i vincoli stabiliti dalla natura, è una questione che non si può affrontare in questa sede

2

. Quello che è importante ai

2 Per queste concezioni della cultura come corruzione o come strumento per la libertà umana, cfr.

Rousseau J. J., Du contrat social ou principes du droit politique, Amsterdam, 1762; tr. it. di Gerratana V., Il contratto sociale, Torino, Einaudi, 1975; Kant I., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, 1785; tr. it. di Gonnelli F., Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1997; e in particolare per la concezione della cultura come liberazione dal sé naturale e come formazione, cioè acquisizione e assunzione della prospettiva altrui, Hegel G. W. F., Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. di De Negri E., Fenomenologia

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fini di questo lavoro è spiegare perchè il luogo comune è, secondo me, simbolo dell’unitarietà dell’esperienza umana in cui natura e cultura non sono “separate” ma sono dimensioni integrate tra loro.

Il primo passo che vorrei fare è quindi stabilire che cosa sia la cultura e quindi riuscire a comprendere come il luogo comune possa esserne figlio legittimo. Il secondo passo consiste nell’individuare quale sia la parte che la cultura e la natura hanno nel determinare il “risultato” della loro somma; in generale, nel determinare la dimensione dell’individuo e specificamente dell’esistenza del luogo comune. Si può capire quale dei due “addendi” consente maggiormente al luogo comune di formarsi ed eventualmente di dominare il nostro modo di guardare, pensare e vivere?

Non è semplice fornire una definizione esaustiva di cultura, ma per non perdersi in un discorso che meriterebbe, come è già stato fatto, ormai, interi trattati, affronterò la questione in vista dell’obiettivo di capire il perché dei luoghi comuni.

La cultura è un processo continuo di diversi fattori. La cultura è, prima di tutto, conoscenza del mondo, non soltanto conoscenza di certi fatti ma anche condivisione di modelli di pensiero e modi di interpretare il mondo, di fare inferenze e previsioni.

Non consiste nell’elementare somma di informazioni, di persone e di comportamenti. Ma è l’organizzazione di tutto questo, è la forma che di ogni cosa abbiamo in mente, l’insieme dei nostri modi di percepire e di interpretare i fatti. È effettivamente una realtà che sta all’interno della mente dell’individuo e all’esterno

dello spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1974, Lo spirito che si è reso estraneo a sé. La cultura, in Lo Spirito, vol. II, VI, B, p. 42.

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nell’ambiente. Se c’è cultura c’è condivisione di schemi mentali, di categorie interpretative e concettuali. Il cosa e il come si conosce formano un sistema di credenze abbastanza omogeneo al proprio interno che ci può guidare di fronte ai vari aspetti della vita e della società. Esso è comunque regolato da principi di base che rendono il sistema in grado di difendersi contro prevedibili destabilizzazioni.

Ho detto che la conoscenza culturale non è circoscritta alla nostra mente ma è socialmente distribuita tra noi, gli altri, le istituzioni e l’ambiente. La cultura vive in noi come vive nei mezzi che usiamo, negli incontri che facciamo, nell’ambiente che frequentiamo. Questo naturalmente non significa condividere la medesima conoscenza in modo uniforme. Potremmo avere credenze diverse per interpretare la realtà persino dai nostri fratelli. Tra la complessità della società, ognuno è portavoce di una sottocultura spesso non essendo consapevole della sua diversità. E gli imprevisti o la nascita di nuove situazioni possono farla evolvere continuamente.

Vista in questo modo la cultura ha come essenza la diversità. Condividere la stessa cultura non significa pensarla allo stesso modo, ma riconoscere insieme i differenti sguardi e il fatto che possano convivere. Dalle differenze si produce il senso delle cose. Le differenze creano cultura e la cultura poi consente a sua volta di leggere i molteplici sensi della realtà. Come in un fluido circolo. E non solo.

Gli uomini, in genere, a queste differenze e molteplicità, attribuiscono un valore.

L’esigenza di esprimerli e i valori stessi possono solidificarsi in un insieme che va al

di là delle specifiche situazioni e divenirne guida. Così, le persone si trovano di

fronte ad obiettivi, direzioni, ragioni, interpretazioni, ruoli da poter far propri. In

ragione della conoscenza e dei valori che le sono propri, la cultura rappresenta

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un’importantissima mediazione tra noi esseri umani. In primo luogo con la comunicazione. In secondo luogo con la condivisione di un ambiente che, proprio perché siamo anche homines fabri

3

, trasformiamo di continuo attraverso attività e tramandiamo fra generazioni.

In Essere e tempo, l’esserci heideggeriano appare situato nell’ambiente circostante e agisce come un operaio nella sua officina, ma non ha solamente a che fare con mezzi e cose, non è isolato rispetto agli altri. Il mondo in cui l’esserci è, risulta da sempre un mondo condiviso, abitato da enti che anch’essi «ci sono» e «ci sono con altri»

4

. Non solo.

Se si guarda alle condizioni che rendono possibili i rapporti tra gli esseri, se si fa riferimento ancora all’esserci, al suo essere-nel-mondo e alla sua apertura, si può pensare, secondo me, ad un’altra peculiarità della cultura

5.

Le azioni dell’uomo spesso non sono solo semplicemente dettate da necessità materiali, né sono sempre il

3 Sul fatto che siamo prima di tutto homo faber, cfr. Bergson H., Èvolution créatrice, 1907; tr. it. di Ferrarino L., L’evoluzione creatrice (Estratti), Bari, Laterza, 1949, Cap. II, p. 141 e sgg.; e cfr. anche Ferrarin A., Artificio, desiderio, considerazione di sé. Hobbes e i fondamenti antropologici della politica, Cap. I, par. I, L’animale incompiuto, pp. 29-34.

4 Cfr. Heidegger M., Sein und Zeit, Tübingen, 1927; tr. it. a cura di Chiodi P., Essere e Tempo Torino, Utet, 1978; Sez. I, cap. IV “L’essere-nel-mondo come con-essere ed essere-se-stesso. Il «si»”, par. 26, pp. 203- 214.

5 Ivi, cap. V “L’in-essere come tale”; Heidegger per riferirsi a quelle condizioni parla di ‘apertura’

Erschlossenheit di ogni rapporto dell’esserci, nel senso di una situazione, di una condizione in cui già da sempre l’esserci si trova e che gli consente di rapportarsi ad ogni ente in quanto tale. Nella sez A,

“La costituzione esistenziale del Ci”, al par. 29, p. 221, tra le determinazioni di fondo in cui si articola quell’apertura, H. prende in esame la Befindlichkeit, il «sentirsi-situato» in cui Befindlichkeit è il modo in cui l’esserci si trova aperto nei confronti del puro e semplice fatto di esistere, è la fatticità dell’esserci che non solo percepisce, ma avverte anche lo stesso percepire. Ma c’è un altro carattere di fondo dell’apertura, cooriginario che è il comprendere; ai prgg. 31, 32, 33, la Verstehen, è il comprendere per cui l’esserci ha il potere di realizzare delle possibilità, cioè è sempre più di una semplice presenza, è sempre già nel mondo del non-ancora. In questo sfondo, per l’esserci risulta già delineato un complesso di strutture di un possibile appagamento per rapportarsi a sé, cioè l’esserci è da sempre in uno stato di apertura comprendente. Il progetto è il modo in cui attua la comprensione, e si realizza concretamente con l’interpretazione, Auslegen, che può darsi solo se è presupposto qualcosa di già compreso, che guida e orienta la mia comprensione. A questo punto, colgo l’occasione per ringraziare il professor Adriano Fabris dei suoi preziosi insegnamenti e per avermi introdotto ad Heidegger, durante l’anno accademico 2000/2001.

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frutto della consapevolezza. Vi sono disposizioni, storicamente determinate, assunte come seconda natura, continuazione del passato, che ci conducono nella vita e nell’azione. In termini generali anche questo è da considerarsi cultura.

Questa caratterizzazione con la quale chiudo la rapida analisi del concetto di cultura, può invece già far intravedere una delle porte principali che tenterò di aprire per accedere alla ‘fortezza’ del luogo comune. Ma non voglio fare salti troppo lunghi e riparto dal principio.

2. Il ramo secco e lo scandalo

Il luogo comune fa parte della cultura. Anzi, il luogo comune è cultura, e lo è esattamente in ogni forma che si è cercato di mettere a fuoco. Non sarebbe inappropriato o, meglio ancora, fuori luogo, secondo me, aggiungere alle molteplici spiegazioni del concetto di cultura (anche in quelle presenti, ad esempio, in un vocabolario o in un manuale) che essa è custodita e si rivela anche attraverso i luoghi comuni. Nondimeno è indispensabile precisare in che modo può esserlo.

In ognuna delle sue conformazioni, il luogo comune è il ramo secco

6

della cultura.

Un ramo privo di freschezza ma che, tuttavia, non si stacca dall’albero e ne resta fortemente ancorato nonostante tutto, nonostante le stagioni, i venti, il sole che illumina, la tempesta che lo scalfisce. Il luogo comune è un modo di conoscere il

6 La metafora richiama quella della foglia secca che Emanuele Severino ha utilizzato per parlare della presenza del cristianesimo nella società contemporanea, in occasione del dibattito “Forme del monoteismo”, nelle giornate dell’evento “Crema del pensiero”, tenutosi il 20 maggio 2006 presso il Teatro S. Domenico di Crema.

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mondo e di interpretarlo, di fare inferenze e previsioni, ma la secchezza che gli è propria sta nel conoscere e nell’interpretare, a livello cognitivo ed affettivo, attraverso generalizzazioni ed esagerazioni dei fatti. La cultura nella forma del luogo comune favorisce la polarizzazione dei giudizi e una perdita di quelle sfumature che più d’ogni altra cosa formano la realtà che vediamo e viviamo. Dato che siamo inevitabilmente autori, attivi o passivi, di una dinamica in cui da un lato esperiamo e dall’altro elaboriamo quanto esperito, il luogo comune, più propriamente, agisce sul controllo che segue all’assimilazione delle conoscenze, si inserisce nel rapporto tra questi movimenti. A causa di questo filtro, potremmo avere a che fare con surrogati di realtà di cui non vedremo mai l’originale

7

.

Il luogo comune, le predisposizioni genetiche ereditarie, le immagini e le abitudini apprese, le memorie che abbiamo preservato, le relazioni con gli altri, e quindi la cultura, si combinano tra loro per rendere le cose così come le vediamo. Il luogo comune costituisce uno degli elementi in una reazione a catena di ciò che vediamo, viviamo e siamo. È un filtro che, in quanto culturale, sta all’interno della mente dell’individuo e all’esterno, nell’ambiente, come modo di vivere, essere e relazionarsi

8

. È insieme uno schema mentale ed un habitus. Frutto della storia, dei tempi, di vite, e interiorizzato, è la continuazione attiva di un passato che si offre nel presente monco di qualcosa. Si tratta di stabilire cos’è questa mancanza e se è sempre qualcosa di sfavorevole.

7 Il riferimento è alle ombre che il prigioniero della caverna di Platone considera come realtà; cfr, Platone, La Repubblica, tr. it. di Sartori F., note di Centrone B., Roma-Bari, 2001; in part. Libro Settimo, I 514a- 516d, II 515e-517a.

8 Ritorna l’ambivalenza affrontata nel capitolo precedente al par. 4.

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Se penso a quanto Bourdieu ha detto sulle pratiche culturali, si riesce ad inquadrare questa mancanza: le pratiche culturali oscillano fra processi di riproduzione e processi di produzione

9

. In funzione dei primi riproduciamo azioni e discorsi, ripercorriamo strade già tracciate e ci muoviamo nella routine, siamo abituali. Ma questa riproduzione non è un semplice determinismo, perché ci sono i cambiamenti e nel fare e nel dire non siamo interamente vincolati e determinati dal passato e dalla consuetudine. Si deviano percorsi in vista di situazioni che non sono prevedibili o affrontabili con i vecchi schemi. Talvolta essi appaiono arrugginiti per far fronte a potenziali novità. Cosa si ricava da tutto questo?

Un ulteriore aspetto dei luoghi comuni: mi sembra che, a differenza dei normali processi di riproduzione, essi non si limitino ad orientare il presente ma a vincolarlo.

E sono capaci di difendersi nonostante le destabilizzanti spinte di novità proprie dell’incontro fra gli esseri umani tra loro e dell’imprevedibilità dei giorni. Perché tutta questa resistenza? E dove nasce e si alimenta la loro forza di garantire omogeneità?

Uso omogeneità o uniformità perché i luoghi comuni sono anche le eccezioni della conoscenza culturale. È molto difficile affermare per essi quanto sottolineato più sopra e cioè che ogni individuo è rappresentante di una diversa sottocultura. Nel caso di un luogo comune, la differenziazione ritorna ad essere un’eccezione piuttosto che la norma.

9 Cfr. Bourdieu P., Le sense pratique, Paris, Minuit, 1980; ed. it., Ragioni Pratiche, Bologna, Il Mulino, 1995.

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Ecco allora il rovesciamento: l’unica forte differenziazione che si crea è tra i confini invalicabili dei luoghi comuni e il processo di produzione/creatività, e, aspetto più importante, essi dettano, paradossalmente, non più un’organizzazione delle diversità, bensì un’estensione dell’uniformità. Ma questo tipo di processo del pensare, questi confini, questi filtri o talvolta anche bende anti-produttive, nascono con la nascita degli uomini e muoiono con essi? Influenzano ogni aspetto della nostra vita o sono dinamiche che scattano e poi cessano a seconda di qualcosa di noi e della storia di cui siamo fatti?

Ci sono parecchie domande a cui rispondere, non c’è dubbio. Ma non è un caso. Di fronte ai luoghi comuni credo sia questo il modo giusto di procedere, perché la domanda è filosofia. Eppure c’è un’altra ragione legata, indirettamente, proprio a

coloro che vivono con i luoghi comuni o da luogo comune, per i quali il punto interrogativo non è altro che è un optional: il luogo comune è una non-domanda. Non dobbiamo con ciò confondere la differenziazione propria dei luoghi comuni e quella che costituisce il carattere, la specificità e quindi il senso delle singole cose. La prima è rigida, eternamente stabile seppur imprecisa, più propriamente una discriminazione, l’altra è l’essenza della cultura e del mondo, che si modella, s’aggiorna col tempo e i cambiamenti della storia. Certamente, il primo tipo di differenziazione non è totalmente altro rispetto al secondo, bensì ne è sottoinsieme ed entrambe ritraggono l’umanità

10

. Ho anche detto che cultura è mediazione tra gli esseri umani. Pure il luogo comune è una mediazione. Esso si comunica, si condivide

10 Il punto di vista potrebbe essere quello del luogo comune stesso: “il mondo è bello perché è vario”.

Nonostante ciò, il più adatto, come si vedrà, rimane quello della filosofia.

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e, come dice il termine stesso, si comunica e si condivide in un ambiente comune.

Però, quando si vive in questo territorio, si sente inevitabilmente la mancanza di qualcosa, dacché è messo in discussione l’homo faber.

È una definizione che risulta inappropriata e parziale per chi abita i luoghi comuni.

È certo che compiamo attività e inevitabilmente trasformiamo attorno a noi stessi l’ambiente, tuttavia lo facciamo seguendo istruzioni per l’uso, calpestando sentieri assodati, privi della capacità di rinnovamento. Manchiamo di quella propensione alla messa in discussione di cose e valori, obiettivo a cui questo lavoro si è proposto di erigersi o che almeno cerca di proporre come dimensione principale della nostra vita. Per cui, se viviamo da o di luoghi comuni, la strada che media noi e gli altri, noi e l’ambiente, noi e il passato, è una strada liscia.

Il problema paradossalmente è costituito proprio dalla superficie levigata di queste strade. Anche se gli ostacoli fanno paura, anche se inciampare ci imbarazza e, talvolta, ci fa perdere tempo, anche se amiamo di più avere il controllo delle situazioni, è fondamentale scandalizzarci

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, inciampare nel sasso che non avevamo visto e sconvolgerci. Naturalmente lo scandalo, inteso nel senso strettamente etimologico, comporterà un effetto di potenziamento, dal momento che apre a nuove possibilità e opportunità di conoscenza e azione; il fatto che si deve riconoscere, però, è che non bisogna escludere la comparsa di nuovi limiti, nuovi vincoli e dipendenze.

11 Scandalo: dal greco, Skàndalon, significa trappola, inciampo, e fig. molestia; dalla radice Skôlon, impedimento.

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L’importante è sapere che questo accade, l’importante è interrogarsi sul senso del nostro inciampo, non come sbadataggine, ma come richiamo d’attenzione e vigilanza sui passi che, per abitudine, educazione e distrazione, davamo per scontati. Comprensibilmente, questo non può verificarsi ad ogni passo. Quello a cui aspiro non è tanto il fatto che ogni uomo faccia davvero dei passi, cioè proceda concretamente, si fermi a riflettere o abbia davvero sottocontrollo ogni situazione — ciò è impossibile — quanto almeno che ognuno riuscisse a riservare uno spazio per potenziali ripensamenti o domande, anche sulle sue abitudini.

Ritengo che nei luoghi comuni non vi sia spazio per questo spazio. È come se non vi sia traccia di quell’ansia fondamentale, esperienza di base di ogni uomo, che fonderebbe, secondo Alfred Schutz, il sistema d’attribuzione di importanza che regola quell’atteggiamento naturale caratterizzato dal dare per scontati il mondo e i suoi oggetti

12

.

“Finché lo schema di riferimento una volta stabilito, il sistema delle esperienze garantite nostre e di altri, funziona, finché le azioni e le operazioni eseguite sotto la sua guida conducono ai risultati desiderati, noi abbiamo fiducia in queste esperienze. Non abbiamo interesse ad individuare se questo mondo esiste davvero o se è meramente un sistema coerente di apparenze consistenti. Non abbiamo alcuna ragione di mettere in qualche modo in dubbio le nostre esperienze garantite che, come crediamo, ci danno le cose così come sono. Ci vuole un motivo speciale, come l’irrompere di un’esperienza “strana” non riconducibile all’insieme di conoscenze a

12 Schutz A., Collected Papers, Martinus Nijhoff, The Hague, 1971; tr. it. a cura di Izzo A., Saggi Sociologici, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1979, Sulle realtà multiple, cap. I, par. 7, p. 201.

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disposizione o incoerente con esso, per farci modificare le nostre precedenti convinzioni”

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.

Questo motivo speciale è lo scandalo, ciò che la fenomenologia ha chiamato epoché, che Schutz chiama trauma, vale a dire la sospensione della fede nella realtà del mondo come espediente per superare l’atteggiamento naturale. Ma subito dopo continua con un’osservazione importante che aiuta a gettar luce sulla potenza di un luogo comune. Egli azzarda a suggerire che “l’uomo anche nell’atteggiamento naturale si serve di una specifica e diversa epoché, per cui non sospende la fede nel mondo esterno e nei suoi oggetti, ma, al contrario, sospende il dubbio circa la loro esistenza. Egli mette tra parentesi il dubbio che il mondo e i suoi oggetti possono essere diversi da come appaiono a lui”

14

. Ecco perché ho voluto studiare i luoghi comuni: essi riassumono grandi temi che riguardano l’uomo e la sua esistenza.

Riagganciandomi ad Heidegger e al ruolo che l’abitudine ha nella storicità dell’essere umano e della sua esperienza, si amplia ulteriormente la comprensione.

Ho detto che le azioni non possono solo essere dettate da necessità materiali né possono essere sempre il frutto della consapevolezza, ma vi sono disposizioni storicamente definite, figlie del passato e interiorizzate, che ci orientano come una seconda natura e rendono autonomi i nostri passi rispetto al presente contingente.

Così, tra nuovi dubbi, si giunge ad un’altra delle questioni che vorrei risolvere.

Perché i luoghi comuni, come accade per le abitudini, possono riservare questa funzione di orientamento per noi individui e quindi meritare di non essere

13 Ivi, p. 202.

14 Ibidem.

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definitivamente condannati ad aspetti negativi e sterili della mente e dell’esperienza umana? È questa la ragione per cui il ramo secco rimane attaccato all’albero nonostante i venti e le stagioni? Come dobbiamo comportarci se, così per puro caso, inciampiamo e ci rendiamo conto, nel profondo, che la strada che stavamo percorrendo era una strada troppo affollata per noi

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? A quale punto, siamo in grado di spogliarci dei nostri vecchi e stretti vestiti e indossarne di nuovi e su misura per noi? Cosa fa scattare l’eventualità? Che tipo di sensazione, allora, proviamo?

Domande e ancora domande. Forse sono il vero attacco al luogo comune. Forse sono solo le sue eterne vicine di casa. Entrambe però rappresentano il ‘come’ si conosce.

Da un lato conservatrici, dall’altro rivoluzionarie.

3. La rabbia, gli abissi, l’ironia: i luoghi comuni riguardano tutti

Per dissolvere la nebbia e vederci limpidamente, dovrei spingermi fino alle radici dell’albero da cui il luogo comune si dirama e su cui piovono tempeste di punti interrogativi. Prima di iniziare a scavare, però, debbo fare un’ulteriore precisazione sull’atteggiamento che sto tenendo di fronte ad essi. Certamente non quello di entrepreneur de démolitions

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, anche se la scelta di affrontare il soggetto di questo

15 Ribadisco ancora che nonostante l’inciampo, ciò potrebbe non rappresentare affatto un problema.

Mi riferisco, per esempio, al pellegrinaggio di molte famiglie che entusiasticamente raggiungono grandi centri commerciali o grandi centri acquatici pullulanti di gente e sono il regno del caos, spinti ad ammucchiarsi proprio dall’affollamento stesso. “Gente chiama gente” sarebbe il luogo comune più adatto per discutere di uno dei meccanismi che scattano in questi recenti luoghi di comunione. Spero di non aver esagerato con i sottili doppi sensi a cui l’argomento può dare luogo (d’oh!*). (*Una delle più alte espressioni di Homer Simpson).

16 Così amava firmare gli articoli Léon Bloy (cfr. nota seguente).

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lavoro, prima di ogni opportuna domanda, fu dettata da un simile immaturo sentimento di condanna: “Gli affari sono affari: tra tutti i luoghi comuni, […] credo che questo sia il più serio e il più angusto. È l’umbilico dei luoghi comuni, la frase corrente del secolo. Però bisogna capirlo e questo non è indistintamente di tutti. I poeti, per esempio, o gli artisti lo comprendono male. Quelli che arcaicamente vengono chiamati eroi o santi non lo capiscono affatto. L’affare della salvezza, gli affari spirituali, gli affari d’onore, gli affari di stato, anche gli affari civili, sono affari che potrebbero essere chissà che altra cosa, ma non sono gli affari senza aggettivi e senza apposizioni. Stare negli affari significa stare nell’assoluto. Un vero uomo d’affari è uno stilista che non discende mai dalla sua colonna. Non deve avere sentimenti, occhi, orecchie, naso, gusto, tatto, stomaco se non per gli affari. L’uomo d’affari non conosce né padre né madre, né bellezza né bruttezza, né convenienza né indecenza, né caldo né freddo, né Dio né diavolo. Ignora completamente le lettere, le arti, le scienze, la storia, le leggi. […] A Parigi avete la Sainte-Chapelle e il museo del Louvre. Va bene; però noi, a Chicago, uccidiamo ottantamila maiali al giorno! Chi parla così è veramente un uomo d’affari. […] Gli affari sono la divinità misteriosa, qualcosa come l’Iside dei furfanti che sorpassa tutte le altre divinità. Parlando qui o altrove, di danaro, di gioco, d’ambizione ecc., non riusciremo a strapparne il Velo.

Gli affari sono affari, come Dio è Dio, vale a dire al di fuori di tutto. Sono

l’Inesplicabile, l’Indimostrabile, l’Incircoscritto, a tal punto che basta pronunziare

questo luogo comune per troncare tutto, per mettere la museruola alla

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disapprovazione, al lamento […]. Quando si sono pronunziate queste parole si è risposto a tutto e non c’è da sperare altra Rivelazione”

17

.

L’Exégèse des Lieux communs, come il Disctionnaire flaubertiano, è un inventario critico, una denuncia sociale dominata dall’ossessione. Léon Bloy, con un intento analogo a quello di Flaubert, credeva di poter distruggere la figura del borghese e deprivarne l’intera classe di ogni tipo di identità attraverso lo smantellamento dei luoghi comuni più adoperati perchè erano proprio i luoghi comuni a caratterizzare la razza spuria della borghesia. Bloy voleva metterla a tacere per mezzo e con l’ascesa della parola di Dio. Si sentiva fustigatore e profeta mistico di redenzione. Il Borghese da un lato e Dio dall’altro, entrambe in grado di preparare catastrofi. Il metaforico linguaggio delle Sacre Scritture e la materialità della lingua borghese.

“E adesso, che faremo del nostro povero borghese e dei suoi luoghi comuni da cui ci siamo così allontanati? […] Gli angeli e i ministri della Grazia che sono i nostri custodi acconsentiranno a riprenderlo? Chi potrebbe ottenere dal Dio vivo il permesso di accompagnarci? Supposto che fosse possibile portarlo in questo crepuscolo divino nel quale fremiamo d’amore, il Borghese non tornerebbe a chiederci la sua cara immondizia insudiciandoci con la sua sporca saggezza? Ci direbbe, in un modo o nell’altro, che il Paradiso terrestre è lui stesso e non consiglia a nessun ladro di introdurvisi, perché le porte della sua intelligenza e del suo cuore sono mirabilmente chiuse. Ci direbbe che gli basta la sua luce personale […] tu sarai l’abisso di Giobbe che dice “la saggezza non è in me”. Tu sarai l’abisso che invoca

17 Bloy Léon, Exégèse des Lieux communs, Lagny, 1901-1902, 1913; tr. it, a cura di Gianolio V. Esegesi dei luoghi comuni, Genova, il melangolo, 1993. Cap. XII, pp. 44, 45.

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l’abisso, invano! […] Ci devi pensare, povero imbecille, e pensandoci smetterla un po’ di continuare a essere stupido. Perché tu ed io, siamo degli abissi, nient’altro che abissi”

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.

Non si può provare una simile rabbia. Come già ricordato e come lo stesso Bloy urla, contraddicendosi e congedandosi definitivamente dalla sua esegesi, siamo degli abissi, nient’altro che abissi.

Non ci si può permettere di esprimere giudizi così pesanti per il semplice fatto che tutti, in qualche modo o in qualche momento, abbiamo abitato luoghi comuni.

Nessuno escluso, nemmeno Bloy, che cade nell’errore di adottare la generalizzazione, l’omogeneizzazione, le grandi linee per presentare ogni borghese come essere sterile, accumulatore di denaro a discapito degli indifesi, destinato a sprofondare nella voragine del nulla, ma che, proprio per questo, si iscrive egli stesso nella serie dei luoghi comuni.

Questo è ciò che fin da principio si è presentato come un grande ostacolo e che ho temuto per ogni pagina di questo lavoro. Le mie parole non possono essere piene di veleno. Non solo per la consapevolezza di essere sempre vicina al rischio della contraddizione e del fatto che ognuno di noi è stato o ha fatto uso di un luogo comune (“non tutti morivano, ma tutti ne erano colpiti”)

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; non solo, ad esempio, per il fatto che restano sempre esperienze da vivere e non ci è dato conoscere il mondo intero e tutte le sue infinite sfumature, ma anche perché non è possibile non

18 Ivi, pp. 361, 362.

19 De La Fontaine J., Fables, contes et nouvelles, édition stabile, présentée et annotée par Jean Pierre Collinet, Paris, Gallimard 1991; tr. it. di De Marchi E., Favole, racconti e novelle, Roma, New Compton, 1994; Libro VII, Gli animali malati di peste.

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riconoscere la validità esemplificativa dei luoghi comuni. Insomma, condannarli è sbagliato e in seguito si comprenderanno ancora meglio le ragioni.

In certi casi e in un certo senso, la stupidità, la semplicità di certi discorsi, le convenzioni, l’ignoranza, i luoghi comuni potrebbero persino farci sorridere. Il problema è l’ignoranza voluta e vagheggiata. Flaubert criticava un’intera cultura ma si riferiva in particolare alla letteratura e alla morte dell’arte a causa dell’affollamento. Non nascondo la preoccupazione per i risvolti più gravi di un simile potere. Sono ansiosa di capire perché si creano idee, dialoghi, modi ed esperienze come guide dei nostri passi, o dalle quali vorremmo tenerci lontani. Ma a differenza della disperazione e dell’indignazione di Bloy, si potrebbe affrontare l’impresa anche con un velo di ironia come suggerisce Flaubert, un’arma efficace per porre i luoghi comuni anche sotto gli occhi di coloro che non ne percepiscono la forza o la presenza perché ne sono delle serene vittime, con la speranza, un giorno, di riuscire a vivificare maggiormente il linguaggio e ampliare gli orizzonti.

4. Barthes, le topiche e l’interprete-ricettore

Poiché si devierebbe dallo scopo, non è il caso di stilare un elenco come l’Esegesi e il Dizionario, i quali lasciano il dubbio della loro incompletezza e sembrano intendere i luoghi comuni esclusivamente come modi di dire

20

.

20 Tuttavia quegli elenchi hanno il merito di evidenziarci la loro trasversalità nei secoli. Vedi le voci dell’Exégèse: La salute innanzi tutto (CXXXV), Non tutto è roseo nella vita (CLVIII), Si fa quel che si può (CLXXVI), Il latino è una lingua morta (LIII), Gettarsi nel fuoco per qualcuno (LXIV), Fate come se foste a casa vostra (XXX), Però la religione consola (XLIV), ecc.

(18)

70

È invece il caso di puntare alla costruzione di una visione più complessa di quella che avevamo fino ad oggi, quindi anche più problematica; studiare e capire significa andare oltre il rivelato, significa, anche, evitare contraddizioni e tormenti

21

. Se, ad esempio, inserissi nel Catalogo delle idee chic flaubertiano la voce luogo comune, vacillerebbe il valore critico dell’opera, poiché parlare in quel modo del luogo comune diventerebbe a sua volta luogo comune. Un doppio tormento quindi: il tormento di non cascare nel già detto o, lo ribadisco, nel già fatto; ma in più, di non fare di questo tormento un ulteriore già detto o già fatto. Mi spiego meglio.

Anche ammettendo che l’uomo non possa divincolarsi totalmente dai luoghi comuni, ciò che ‘tormenta’ questo lavoro è riuscire a rigettare almeno il luogo comune per eccellenza, cioè il parlarne ripiombandoci dentro. Fino a dove questa indagine può spingersi ed essere construens prima di diventare destruens e con questo farsi luogo comune dell’approfondimento sui luoghi comuni? Antropologicamente, lo sguardo filosofico dev’essere come uno sguardo da lontano

22

: non per condannare spietatamente ma per problematizzare coscientemente.

L’attacco e la distruzione sono mezzi troppo comuni per affrontare le cose. Persino Madame Bovary ripiomba in ciò che disprezza

23

: i suoi sogni esprimono la contestazione all’ottusità borghese, ai discorsi che parlano di niente. La sua

21 Un esempio di contraddizione è il credo dei relativisti per cui “tutto è relativo”, affermazione che ha la pretesa di essere assoluta ma che contraddice se stessa con il suo contenuto.

22 Il riferimento è a Lévi-Strauss, Le regard éloigné, Paris, Plan, 1983; tr. it. di Primo Levi, Lo sguardo da lontano, Torino, Einaudi editore, 1984.

23 Flaubert G., Madame Bovary, 1856-1857; tr. it. di Carifi R., Milano, Feltrinelli, 1996. Lo stesso romanzo, a conferma di quanto si sta dicendo, è ricco di luoghi comuni (ad es. la figura del marito Charles); e nel 1910 Jüle De Gaultier, scriverà un saggio dal titolo Bovarism in cui teorizzerà per primo il bovarismo ideologico per comprendere la psicologia del singolo nello scarto tra sogno e realtà. La debolezza della personalità è comune a tutti i personaggi del romanzo.

(19)

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insofferenza e la sua noia fanno affiorare la negatività di quel mondo buio e vuoto.

Emma crede di possedere una sensibilità elevata rispetto alla grossolanità della gente comune. Ma in realtà questa sensibilità è degradata a livello piccolo-borghese. Anche Emma è partecipe di quel mondo che l’ha generata, facendola agire, parlare e pensare per luoghi comuni e banali. Per guardare da lontano, problematizzare veramente e tentare di costruire un’indagine seria sui luoghi comuni, credo sia inevitabile cominciare dalla retorica antica e farlo proprio attraverso l’aiuto di colui che fu costantemente ossessionato dai luoghi comuni: Roland Barthes

24

.

Non solo per la voce «luogo comune» che egli compilò con Jean-Louis Bouttes nell’Enciclopedia Einaudi del 1979

25

. Egli tenne un seminario a Parigi nel 1964-1965 all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, nel quale si domandava che cosa poteva dirci oggi l’antica pratica del linguaggio letterario in relazione all’avanzata dello strutturalismo e della semiotica

26

. È esattamente quando si dedica all’Inventio che si intravedono i luoghi comuni.

“L’inventio rinvia non tanto ad una invenzione (degli argomenti) quanto ad una scoperta: tutto esiste già, bisogna solo ritrovarlo: è una nozione più ‘estrattiva’ che

‘creativa’. Il che è corroborato dalla designazione di un luogo (la topica), da cui si possono estrarre gli argomenti e da cui essi vanno ripresi: l’inventio è una via

24 Cfr. Marrone G., Il telo di Panglos. Linguaggio, lingue, testi, Palermo, Nunzio la Fauci ed., l’epos, 1994, in particolare, Luoghi Comuni. Un’ipotesi semiotica. Marrone Gianfranco è uno studioso di Roland Barthes e soprattutto del ruolo del clichè nel testo poetico e letterario. Cfr anche Il sistema di Barthes, Milano, Bompiani, 1994.

25 Enciclopedia Einaudi, a cura di Ruggero Romano, 1979, VIII volume (Labirinto-Memoria), XI-1109, pp. 578-579.

26 Barthes, R., L’ancienne rhétorique, in Communications, 16, 1970; tr. it. di Fabbri P., La retorica antica, Milano, NuovoPortico Bompiani, 1972. Il suo aiuto si offre sottoforma di descrizione sintetica di un argomento che richiederebbe immenso spazio.

(20)

72

argomentorum. […] Dall’inventio partono due grandi vie, una logica, l’altra

psicologica: convincere e commuovere, fidem facere et animos impellere”

27

.

Barthes fa ovviamente riferimento ai Toπικα′ di Aristotele che, da raccolta di luoghi comuni della dialettica, ne ha fatto un metodo che ci pone nella condizione, su di un qualunque soggetto proposto, di fornire delle conclusioni tratte da ragioni verosimili.

Quindi mezzi semplici per trovare di che dire anche su argomenti interamente sconosciuti.

Il secondo senso è “quello di un reticolo di forme a cui viene sottoposta la materia che si vuole trasformare in discorso persuasivo. […] Per trovare degli argomenti, l’oratore, accompagna il suo soggetto lungo una griglia di forme vuote : dal contatto tra il soggetto e ogni riquadro (ogni luogo) della Topica sorge un’idea possibile. […] È chiaro quale è la portata della griglia topica: le metafore che indicano il luogo, non lo indicano a sufficienza; gli argomenti si nascondono, stanno tappati dentro ragioni, profondità, assise da cui bisogna richiamarli, risvegliarli: la Topica partorisce del latente. Produce frammenti di senso”

28

.

Una topica è divenuta, infine, una sorta di riserva illimitata di argomenti possibili da piazzare nel trattamento di ogni soggetto, di ‘temi consacrati’. Da qui altre definizioni storiche dei loci communes: si tratta di forme vuote, comuni a tutti gli argomenti (più sono vuote più sono comuni); sono delle proposizioni ripetitive.

27 Ivi, p. 59.

28 Ivi, pp. 76-78.

(21)

73

La Topica propriamente detta, cioè quella oratoria, aristotelica, comprende due parti

29

: si distinguono i luoghi comuni dai luoghi comuni speciali (o propri): se questi ultimi sono enucleabili a partire da soggetti discorsivi predeterminati e sono accettati da tutti, i luoghi comuni sono invece (a differenza dell’accezione moderna del termine) dei luoghi formali, generali, delle “forme prive di senso ma che servivano a trovare senso”, comuni a tutti i soggetti. Secondo Aristotele, i veri e propri luoghi comuni sono essenzialmente tre: il possibile/impossibile, l’esistente/non-esistente, il più/meno. Consisterebbero, cioè, in una specie di criteri per produrre dei ragionamenti dove agiscono proporzioni, si ottengono verosimiglianze, si vedono correlazioni, quindi un quadro che associa attraverso criteri diversi di attinenza, argomenti, idee, concetti, in nome del bisogno di ordine che può convincere o commuovere un pubblico di ‘incompetenti’. “I luoghi non sono dunque degli argomenti in sé ma gli scomparti nei quali vengono disposti”

30

. Se da un lato costituiscono un ausilio di base alla tecnica oratoria, dall’altro paiono essere degli strumenti destinati a regolare delle argomentazioni.

Nel suo seminario, Roland Barthes non manca di sfiorare le varie forme di topiche che si sono date storicamente. Prima fra tutte, anche nel tempo, quella del potere di affermazione. Si trattava di schierare una raccolta di questioni a favore o contro ogni determinato argomento servendosi di tecniche che rapivano l’ascoltatore e tendevano a scomporre le passioni umane e a classificarle. Pensiamo ai sofisti o ai latini. Poi la topica, definibile a grezze linee, come ‘logica del discorso’, una ‘trappola

29 Cfr. direttamente Aristotele, Topica, tr. it. di Colli G., Topici, in Opere, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1973.

30 Barthes R., La retorica antica, op. cit., p. 75.

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per i significanti’. Il modello di questo genere di topiche, presente in parte già nei dialoghi platonici, è quello aristotelico, dove cioè la retorica rimanda implicitamente sia alla tavola delle categorie che ai grandi generi dell’essere metafisico. Si tratta di una topica ancora antagonistica, come quella precedente, ma sofisticata: essa tende a comparare almeno due predicati e a metterli l’uno contro l’altro. Barthes poi continua con il terzo genere di topiche che si presenta invece nelle codificazioni della tarda antichità e del medioevo, quando l’oratoria antica cede il passo all’eloquenza fine a se stessa, al discorso ornato di figure — insomma, alla letteratura.

Una volta chiuso il capitolo sull’inventio, ossia quella tecnica che favorisce il reperimento e la memorizzazione degli argomenti oratori, ecco emergere in primo piano l’elocutio. Così, i topoi tendono a confondersi con i tropi figurali: sorge una topica intesa come riserva o ‘deposito’ memoriale di frammenti di discorso, di immagini, argomenti, stili, linguaggi precostituiti, utilizzabili all’interno di un’orazione al fine esclusivo di abbellirla, di renderla riconoscibile come appartenente ad un genere poetico o ad una tradizione consolidata che sia lo scrittore sia il lettore devono in ogni caso tener presente. Ecco allora apparire gli interminabili elenchi dei medioevali riordinati da Curtius e dai suoi allievi, vere e proprie liste di soggetti, di personaggi, di immagini o di ambientazioni pronti ad essere inseriti nei testi letterari.

Con questa topica medioevale delle imagines, memoria caotica di ‘schegge’

linguistiche codificate dalla tradizione, deposito di micro-testi distribuiti per l’auctor

e il lector, siamo già alle soglie dell’età moderna; anzi, nell’exemplum e nell’imago

medioevali, si scorgono molti aspetti di ciò che oggi viene chiamato luogo comune:

(23)

75

“in entrambi i casi, ieri e oggi, si tratta di un piccolo brano di linguaggio, la cui caratteristica generale è di essere stato già proferito, inteso, pronto ad essere riconosciuto e che il locatore ripete ed assume su di sé”

31

. È però il valore di questa ripetizione che assume diversa connotazione.

Nel medioevo, utilizzare uno o più luoghi comuni non solo era assolutamente accettato, ma addirittura auspicabile. Di contro, nella modernità si esalta invece la ricerca dell’originalità, la negazione, se non addirittura la ripugnanza del luogo comune, per far posto, nell’ambito del discorso, a sempre nuove immagini e mescolanze di immagini. In tal modo, nei confronti del luogo comune si è venuta a creare una sorta di sbigottimento, di avversione di carattere etico oltre che estetico:

“l’uomo colto considera la ripetizione come un segno di incultura: nessun autore saprebbe riprodurre ‘ciò che è stato detto’ senza avere un certo senso di colpa”

32

. Il già-detto, il già-fatto conseguono quelle peculiarità negative che ancora custodiscono, e possono essere sì utilizzate nel discorso, ma soltanto se vengono circoscritte da virgolette che indicano allo stesso tempo il distacco, l’origine e la proprietà di chi li ha creati.

Da ciò Barthes collega il ribaltamento complessivo di valori che si realizza con la querelle tra gli antichi e i moderni, che nasconde scelte epistemologiche forti, come la

distinzione radicale tra scienza e letteratura, tra verità e menzogna, tra il mondo e la sua rappresentazione. Il destino del luogo comune non è quello di essere un episodio marginale, ma quello di elevarsi a testimone e a protagonista di una spaccatura

31 Enciclopedia, op. cit., p. 578.

32 Ibidem

(24)

76

storicamente determinata e in un certo senso resta come segnale di tendenze e di problemi non ancora attutiti, o meglio, in nuova e inaspettata rinascita.

Sembrerebbe impossibile fornire una definizione del termine luogo comune: c’è sempre il rischio di venire coinvolti da esso. Definirlo, comprenderlo, potrebbe essere una lotta per sfuggire dal luogo comune stesso, un faticoso tentativo di parlare lontano dalla sua potenziale contaminazione.

Ma l’esistenza del luogo comune è anche soggettiva? Dipende dall’ascolto o dalla

‘vista’ del singolo che, a seconda del suo bagaglio, lo riconosce oppure no? “In una comunità che non comprenderà il luogo comune, esso non esisterà più”

33

.

Anche se Barthes si concentra sulla dimensione dei parlanti e del linguaggio, emerge un altro interessante spunto: il luogo comune è una spia di divisione sociale. Non è facile isolare e definire qualcosa come un luogo comune, però se si analizza un discorso o un atteggiamento, si individua il luogo comune come un ‘incidente’, le cui regole presentano una certa ricorrenza e prevedibilità. Nell’opposizione tra comune e nuovo, banale e originale, stupidità e intelligenza, ripetizione e unicità, Barthes sposta l’attenzione dal lato del ricettore-interprete. È l’interprete, infatti, che mette in opera determinati criteri di ricezione e di valutazione di ciò che ha visto, vissuto, sentito. Se il ricettore possiede determinati criteri, per esempio quelli da luogo comune, come opposizioni rigide, definizioni stantie, ecc., garantirà il respiro e la permanenza del luogo comune.

Secondo Barthes, il vero dilemma alla base della permanenza di un luogo comune, non risiede nello scontro tra emittente e ricettore, ma è intrinseco nell’interprete.

33 Ivi, p. 579.

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77

Barthes mostra un altro punto di vista da cui poter far luce sui luoghi comuni: ci porta dalla parte del ricettore, dell’ascoltatore, dell’osservatore di luoghi comuni.

Ma senza di esso, davvero non esisterebbero? Questo non contrasta forse con l’idea che essi fanno parte di noi e con noi resteranno sempre?

Flaubert è un ricettore-interprete che, con la classificazione delle sciocchezze di una certa cultura del secondo impero, dà rigenerazione ai luoghi comuni e fa sì che essi costituiscano un problema contro cui l’intellettuale, l’artista, lo scrittore, il filosofo debbono scagliarsi. Qui non si tratta di riconoscere il luogo comune o chi lo enuncia, quanto piuttosto di comprendere chi e perché lo riconosce come tale.

A questo punto si delinea un circolo sottile ma inevitabile, che alimenta costantemente l’avida bocca dei luoghi comuni. Se non avessi già accennato al loro valore positivo e all’utilità, dovrei sentirmi profondamente in colpa e responsabile del loro dominio, poiché questo lavoro è segno di una ricezione dei luoghi comuni che esclude certamente la loro fine. Tuttavia annientarli non rientra negli obiettivi di questa indagine e perpetrare la loro esistenza, se li si comprende a pieno e si tenta di individuare le loro peculiarità, non può costituire un reato, anzi, talvolta è persino un merito.

Attraverso i luoghi comuni si osserva l’uomo e il suo rapporto con gli altri e col

mondo.

(26)

78 5. Il metabolismo storico

Il luogo comune viene riconosciuto per essere un qualcosa di già detto, già sentito e già fatto, appartenente ad un passato che sembra aver perduto le sue origini e acquisito il valore di un codice. Ma questo codice precostituito non è sempre percettibile. Viene spesso mitigato, nel discorso e nei fatti, da un’apparente libertà combinatoria. Anzi, è meglio dire che quella libertà soggettiva di fare o di parlare è una libertà vigilata da questo stesso codice che è in grado di rimanere nascosto di fronte a chi parla, chi vede, chi fa, chi ascolta. Si intravede già uno di quegli aspetti fondanti del luogo comune: l’ambivalenza della ripetizione che, da un lato, può apparire come una schiavitù, perché effettivamente riduce il concepimento di qualcosa di nuovo che si dà attraverso la differente combinazione delle frasi o dei gesti; dall’altro, “come la ripetizione di un segno è ciò che fonda la lingua, così la ripetizione delle frasi, e quindi dei luoghi comuni, permette a molti di tenere un discorso”

34

. Potrei estendere la spiegazione anche ai fatti, alla vita quotidiana. Il luogo comune riesce ad imporsi, a farsi largo tra le pieghe della mente, proprio perché gode del potere di rendere possibile la parola e limitare l’imbarazzo; il potere di dare (paradossalmente!) un accenno di personalità, non originale, a una moltitudine di soggetti apatici, poveri di mezzi. Se l’importante non fosse esprimersi, ma solo comunicare o sentirsi parte delle situazioni, allora il luogo comune sarebbe perfetto per questo.

34 Ivi, pp. 579-580.

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« Mio padre e zio Giuseppe fumavano in silenzio i loro sigari. La morte, per queste persone, era il mistero supremo; e le donne si rassegnavano fervorose alla volontà dell’Onnipotente. Gli uomini invece si aggrappavano a quei vecchi luoghi comuni, vecchi come la mente umana. Siccome non era figlio loro, il trapasso di quel ragazzino non li commuoveva più di tanto. Gli dispiaceva che fosse morto, ma soltanto perchè dispiacersi era proprio la cosa che bisognava fare in certe circostanze;

la loro mestizia, insomma, era un fatto di superficie, non li toccava nel cuore.

— Così è, — disse mio padre. — Prima o poi tutti quanti ce ne dovremo andare.

La testa nera e la bocca storta di zio Giuseppe assentirono gravemente.

— Che brutta cosa, — disse, — che brutta cosa.

— Ma era così giovane! — disse la mamma.

Con aria solenne, le replicò mio padre: — Forse è meglio così.

— Chi, Guido? Come puoi dire certe cose? Come pensi che si senta la sua povera mamma? E il povero Frank?

— Gli uomini non pensano mai a quello che c’è nel cuore delle donne, — disse zia Cristina. — Che ne sanno? Sono troppo egoisti.

Mio padre e lo zio posarono i loro sguardi sui sigari, con aria mesta e confusa.

— Va bene, — disse mio padre. — Io so soltanto che tutti dovremo andarcene, prima o poi.

Zio Giuseppe cercava stoicamente di apparire addolorato. Chiuse gli occhi e disse: — È così. E chi può dire quando? Domani? Stanotte? Il mese prossimo? Chi può dirlo?

— Povera Carlotta, — disse mia madre.

— Povera donna, — disse zia Cristina.

— Per Frank sarà dura, — disse mio padre. — Quel ragazzo gli mancherà.

[…] Gli sarebbe piaciuto dire qualcosa di nuovo sul tema della morte, ma non gli veniva in mente proprio nulla.

— Se ne vanno sempre i migliori, — azzardò.

— Com’è vero, — disse mio zio»

35

.

Anche la storicità è un’altra proprietà del luogo comune. Si pensi alla nozione

‘estrattiva’ dell’inventio come reperimento, oppure, come suggerisce l’Enciclopedia, alla disputa sugli antichi e i moderni sviluppatasi in Francia nel XVIII secolo, con la quale si creò una profonda spaccatura. “D’un tratto, il nuovo, il mai-visto o il mai- sentito, è apparso come preferibile all’antico, al ripetuto”

36

. Dalla querelle prese ad affermarsi il valore dell’originalità e tutto ciò che puzzava di muffa o era logorato dall’uso, diventava sintomo di degrado culturale, di sterilità, di stupidità.

35

John Fante, The wine of youth, 1940, raccolta di racconti tra i quali, Uno di Noi, tr. it. di Durante F., Dago Red, Torino, Einaudi, 2006, pp. 150-167.

36 Enciclopedia, op. cit., p. 580.

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80

Certamente il ricorso al luogo comune diventò sintomo di degrado culturale, di mancanza di idee, di stupidità. Tuttavia la sua storicità sta proprio nell’essere rappresentante delle credenze codificate in una determinata epoca storica, dei suoi punti di riferimento obbligati per il discorso e il fare sociale.

Non è difficile notare come in un luogo comune possano essere proiettate le paure, le ossessioni, gli entusiasmi degli uomini: «Una volta i cibi erano più sani; I veri amici sono quelli dell’infanzia; I negozianti sono tutti evasori; Con questo clima non si sa più come vestirsi; La mamma è sempre la mamma», ma ancora più facilmente lo si constata nei luoghi comuni come modi di vivere e possibilità di pensare.

Nel Nuovo dizionario dei luoghi comuni dell’occidente di John Ralston Saul, si coglie quella proiezione storica, quella memoria di cui sto parlando: la corsa agli armamenti, per esempio, “utilissimi per combattere le guerre, un peso per l’economia civile, un bene di consumo che se ne sta o sullo scaffale come un rossetto che non viene usato se non nelle occasioni speciali o viene usato per distruggere altre armi e persone”; il buddismo tibetano, “la forma di buddismo più popolare in Occidente perché è quella

che ha il contenuto minimo di buddismo. […] I monaci scoprirono che gli occidentali

abbastanza disgustati dalla loro vita da accostarsi a un maestro buddista, erano però

ben attaccati ai loro soldi e ai loro averi”; il big mac, “l’ostia santa del consumo. Non è

vero cibo ma promessa di cibo, insieme con la Coca Cola è uno degli oggetti sacri

della più importante scuola filosofica del tardo ventesimo secolo: le relazioni

pubbliche, scuola che propone un contenuto teorico (così come per il sesso, i

(29)

81

divertimenti, l’individualismo, la raffinatezza, il rifiuto della raffinatezza) al posto del contenuto fattuale (carne tritata di mediocre qualità e additivi vari)”

37

.

Un altro aspetto della storicità del luogo comune ha a che fare con gli eventi, con il succedersi rapidissimo delle mode

38

, che marcia racchiudendo in sé una complessa ma interessante contraddizione: ricerchiamo costantemente una nostra individuale originalità, vogliamo stare al passo con la moda, ma questa ricerca e questa volontà sono, infatti, allo stesso tempo, la ricerca e la volontà di tutti, allo stesso modo, nello stesso periodo, di contro a quella precedente o immediatamente successiva. Per cui da parte della moda — luogo comune temporaneamente in voga — può verificarsi un distaccamento dal passato e, ciò nondimeno, accompagnarsi un nuovo attaccamento o una nuova dipendenza da colui o da ciò che ha dato l’input all’indipendenza.

Queste dinamiche contraddittorie segnano l’essenza del luogo comune, della loro presenza conflittuale nel discorso e nei rapporti con gli altri uomini e il mondo:

prima sono percepiti come ripetizioni, frutti sterili di una determinata mentalità, poi vengono messi di fronte a dei non luoghi comuni, i quali, poi, prontamente, sostituiscono i primi e diventano a loro volta luoghi comuni, e così via all’infinito, come un processo digestivo: “aver fame, mangiare (del nuovo), digerire, espellere (ciò che è diventato vecchio)”

39

. La metafora del metabolismo rende bene l’inevitabilità di ciò che accade. In un luogo comune si assume conformandosi e si

37 Saul, Ralston J., The Doubter’s companion. A Dictionary of aggressive Common Sense, 1994; tr. it. di Napolitani P. D., Il sistema del dubbio: nuovo dizionario dei luoghi comuni dell’Occidente, Milano, Bompiani, 1997, pp. 29, 41, 46.

38 Per non dimenticare il senso che questa analisi dà alla moda, rimando al capitolo primo, par. 3.

39 Enciclopedia, op. cit, p. 581.

(30)

82

rigetta conformandosi. Il luogo comune richiama l’anti-luogo comune o il non-luogo comune, che a sua volta rischia di diventare rapidamente un rinnovato luogo comune.

C’è una tragicità di fondo, che viene o meno percepita come tale, e cioè l’impressione che sia impossibile sfuggire alla sua forza.

Anche questo lavoro metabolizza luoghi comuni creandone di nuovi? Come dovrei sentirmi se fosse così?

Dipende dal punto di vista e dagli obiettivi: si può esserne affranti per il paradosso, in guerra contro di essi o serenamente consapevoli della loro forza. Vi sono, ad esempio, coloro che li producono o lo sono ma non li percepiscono, ovvero coloro che li percepiscono, li producono e li usano ma senza esserlo.

Da che parte stiamo? E c’è una parte in cui precisamente ci si muove?

In realtà, le suddivisioni appaiono molto sfumate sia per le ragioni che ho esposto

circa la ripetizione, sia perché, soprattutto oggi, la cultura è legata alla diffusione

capillare di messaggi che superano le distinzioni di ceto economico e culturale. Ma

questo non esaurisce sufficientemente la risposta. Occorre spostare lo sguardo

dall’origine al perché della loro stabilizzazione per individuare un principio

caratteristico di ogni potere: la naturalizzazione.

(31)

83 6. La naturalizzazione e i miti quotidiani

Accogliere ogni cosa, ogni evento, ogni gesto come se fosse ovvio, come se tutto restasse sempre immutabile, il dare per scontato quanto accade nel mondo e quanto noi possiamo rappresentare per esso, il credere che esista solo un modo di guardare o vivere le cose, è il prodotto della naturalizzazione.

Perché schemi, percorsi, convenzioni, luoghi comuni si stabilizzano?

Perché essi penetrano la mente ancorandosi a qualcosa che non può essere messo in discussione. La naturalizzazione impedisce di considerare la vera origine e la formazione di un luogo comune e lo giustifica mediante un’analogia col mondo fisico o soprannaturale. Un artificio i cui meccanismi restano nascosti agli uomini. Iacono descrive la naturalizzazione come una sorta di trompe-l’oeil, cioè di illusione, che, sebbene non debba essere contrapposta alla verità, o equiparata all’inganno poiché ha una sua funzione costruttiva, fondamentalmente ci riduce alla dipendenza e, crogiolandoci in essa, rischiamo di abbandonare ogni domanda, ogni riflessione, rischiamo di perdere di vista ogni possibilità di mutamento.

La naturalizzazione è la proiezione di differenze storiche e sociali appartenenti alla

mente degli uomini su altri uomini o sul mondo e l’esser travolti in un’amnesia

dell’origine. La naturalizzazione “realizza la nostra tendenza banalizzante a

concepire le relazioni, i contesti, i passaggi, i prodotti della nostra stessa attività

simbolica, come naturali ed eterni e a dimenticarne invece la storicità e

(32)

84

l’artificialità”

40

. La naturalizzazione è un principio dei luoghi comuni. Di conseguenza, riuscire ad epurare lo sguardo da questi schemi naturalizzanti e intercettare i luoghi comuni, nelle pieghe intrecciate del potere, nelle interpretazioni delle cose e degli eventi, nelle regole, è impresa ardua, poiché riescono ad affermarsi anche quando si crede di aggirarli e a mimetizzarsi quando li si cerca. Proprio come il potere.

Da ciò, ancora una volta, si capisce che il rigetto del luogo comune è una falsa soluzione, una lotta più apparente che reale, un conflitto destinato a perdersi nel brodo indistinto dell’uniformità, della ripetizione, del non giudizio, dell’improduttività, della carenza di soluzioni veramente alternative. L’unica soluzione è riconoscere la loro vita e la loro forza, come per la naturalizzazione. Un luogo comune è un’arma a doppio taglio.

L’ampio respiro di cui godono non risiede solamente nel dono che essi ci fanno, ossia la rilevante, oggi più che mai, possibilità di comunicare (e talvolta, come si vedrà, pure l’illusione più grande di riuscire a vivere). Essi, al contrario e al contempo, ci vincolano agli strumenti di potere e consacrano differenze, divisioni, generalizzazioni, prodotti scaduti, massificazioni.

Forse non è questione di sapere se il gioco vale la candela. Forse non è questo il punto.

Il luogo comune ha le sue ragioni per essere. La questione è invece sapere quanto siamo influenzati dal valore dell’originalità, oppure quanto siamo mentalmente in grado di collocarci nella prospettiva degli antichi, dei retori classici, quanto siamo

40 Iacono, A. M., Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia del guardare con altri occhi, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 86.

(33)

85

aristotelici e decifriamo il perché dei luoghi comuni nell’aiuto che ci permette di esprimerci su qualunque soggetto proposto, anche se interamente sconosciuto. In questa ottica, il luogo comune perderebbe ogni carattere demoniaco, tragico, sfuggente. Se fossimo coinvolti nella querelle sugli antichi e i moderni e sentissimo la necessità di apporti originali alla nostra vita e nei nostri discorsi, allora percepiremmo un rigetto per i luoghi comuni.

Ciò nonostante, creare rotture con il passato, riuscire a prendere posizioni diverse dai più, invertire le rotte, è davvero una questione complicata. Non impossibile, ma difficile. Così come è altrettanto difficile ammettere la positività di un luogo comune, del ricorso ai topoi in determinate situazioni, e soprattutto ammettere di essere senza certezze. È un travaglio concettuale enorme, complesso, variabile, indeterminato e inconcluso .

La stupidità cancella definitivamente la propria condizione di produttore di pensiero? È questa la paura? Si cerca a tutti i costi di essere anti-stereotipi?

L’impressione, potrei dire anche la realtà, è che, a volte, questo tipo di interrogazioni

non sia nemmeno presente, che il luogo comune non sia qualcosa di fronte a cui porsi

problematicamente. Ma visto che le domande in questo lavoro sono state poste,

vorrei considerare la condizione nella quale esiste effettivamente quella paura o,

meno tragicamente, quel tentativo di essere non comuni, procedendo dialetticamente

tra un lavoro che spieghi i meccanismi dei luoghi comuni e una spiegazione che non

si sottometta ad essi. Sarebbe una sconfitta incappare in questa trappola, ma è un

rischio di chi intraprende questo compito.

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