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of the world’, that is, life’s transience

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Academic year: 2021

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3. “Hardy’s Grotesque Realism”

Per prendere in prestito un verso del poeta cumbriano Norman Nicholson (che a sua volta allude al più celebre verso di William Blake), Hardy era un poeta capace di vedere “hell in a grain of sand”.1 In un certo senso, volendo agganciare questa singolare virtù all’idea di meliorism, ci rendiamo conto che, come ha potuto notare James Gibson:

Hardy’s universality results from a combination of qualities of which the most important are:

a. His passionate concern with truth, with which is associated a complete honesty and integrity.[…]

b. His courage in his search for truth in that he refused to shut his eyes to what was unwelcome, hypocritical, cruel and false. […]

c. His sensitivity to what he called the ‘on-going […] of the world’, that is, life’s transience. 2

Gibson individua nella scrittura hardiana la capacità di agganciare alla sua uneventful life la pluralità dell’esistenza umana in generale. Il critico sintetizza queste tre qualità in un’unica e onnicomprensiva virtù intellettuale:

Compassion, and it was until the twentieth century nearly always regarded as an indispensable component of great writing. […] Sympathy is a powerfully felt emotion in many of his poems.3

Il tema della compassione spicca soprattutto nella vicenda più autobiografica, recuperabile nei suoi versi, vale a dire il suo amore per Emma.

Le sue poesie d’amore non si fermano, infatti, al resoconto del loro rapporto. Anche considerando solamente il ciclo “Poems of 1912-13”, registriamo un momento nel quale, dall’iniziale considerazione concernente la scomparsa della moglie Hardy raggiunge un senso dell’universalità più vasto, nel quale il dolore personale si unisce a quello generale.

Come ci spiega Levine, il mondo vittoriano aveva assunto una consistenza quasi ineffabile, tanta era la varietà che conteneva; questa incorreggibile pluralità, per parafrasare un verso di Louis MacNiece,4 era

1 N. Nicholson, “Windscale” in A Local Habitation, cit., p. 31.

2 J. Gibson, “‘The Characteristics of all Great Poetry – The General Perfectly Reduced in the Particular’: Thomas Hardy”, New Perspectives on Thomas Hardy, cit., pp. 4-5.

3 Ibidem, p. 6.

4 “World is crazier and more of it than we think, / Incorrigibly plural”, Louis MacNiece, “Snow”, Poems Selected, edited by Michael Longley, London, Faber and Faber, 2001, p. 18.

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soprattutto dovuta allo scardinamento del concetto di mondo creato da un disegno divino, operato dalla scienza, in favore di una più vasta e democratica visione dell’esistenza:

Darwin’s universe, too, is superfecund, almost incomprehensibly various. But the effect of his rhetoric is to move in the opposite direction from that of the natural theologians, even though, in his commitment to law, plenitude, and particularity, he takes very similar positions. What Darwin includes […] is the unique, the individual, the aberrant, the grotesque. […] The experience of Darwin’s prose raises the question of how it is possible to believe that this entangled, abundant, aberration- filled world is “designed”. Plenitude, so crucial to Darwin’s theory of Natural Selection, implies not an all-provident creator, but waste, loss, trial and error, the absence of design.5

Dunque, avendo ormai ceduto alla verità del disegno assente, Darwin non lasciò l’uomo da solo a fare i conti con la lotta per la sopravvivenza, ma introdusse (soprattutto nel già citato quarto capitolo di The Descent of Man) la questione della simpatia umana come un istinto sociale basilare.

Come riconosce Levine:

“The war of nature” does conclude the Origin, but Darwin’s theory is also anti-struggle, anti-individualist. Darwinian organicism became a biological justification of the moral predominance of altruism, that term borrowed from Comte’s positivism, but extended by G. H. Lewes and George Eliot.6

Questo è un aspetto sostanziale, peraltro molto affascinante, dell’evolutionary meliorism. Mostra inoltre quanto la visione teologica e quella scientifica si scontrino su una questione difficilmente risolvibile sul piano religioso, dato riscontrabile anche nei nostri giorni. Era la religione che, presumibilmente, avrebbe dovuto fornire le basi per l’altruismo, invece fu un’opera scientifica che la mise in luce così chiaramente. Tanto è vero, che il concetto di altruismo permea la scrittura di Charles Darwin, anche a mo’ di costante protezione alle accuse che sarebbero comunque insorte dopo le sue pubblicazioni da parte delle istituzioni religiose.

Hardy stesso approfondì il legame fra l’evoluzione e la compassione, quando leggiamo nell’autobiografia:

‘The discovery of the law of evolution, which revealed that all organic creatures are of one family, shifted the centre of altruism from humanity to the whole conscious world collectively.7

5 G. Levine, Darwin and the Novelists, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1988, pp. 42-43.

6 Ibidem, p. 102.

7 Life, p. 346 (corsivi miei).

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L’umanità scopre, grazie a Darwin, la necessità di coltivare un altruismo collettivo, non più individuabile nella sola filantropia, ma, appunto, in un mondo che si mostri cosciente della propria indistinguibile e preziosa varietà. Non è un caso che sia Darwin che Hardy disprezzassero la schiavitù e che avessero a cuore la questione del maltrattamento degli animali.

In una lettera a Florence Henniker, Hardy manifesta il suo disgusto per la condizione a cui erano soggetti gli animali, non solo quelli utilizzati nei laboratori, ma tutti quelli allevati in cattività a scopo lavorativo o alimentare:

I think more cruelties are perpetrated on animals by butchers, drovers, & cab- people, than by vivisectors. I wish you & I could work together some day for the prevention of such barbarities.8

Il poeta approfondisce lo stesso argomento in una lettera a Frederic Harrison, nella quale riferisce il problema anche in campo religioso:

The question, indeed, of the treatment of animals is a tremendous one. As long as Christian & other theologies were really credited, & non-human animal was regarded as a creature distinct from man, there was a consistency in treating “brutes”

brutally. “Arise Peter, kill & eat”, was a natural command to a man with a soul concerning animals without one. But now that this view of difference is exploded, a tremendous responsibility is thrust upon us – an impossibility almost, of doing right according to our new lights: & this, as I say, prevents my taking such a hopeful look forward as you do.9

La “tremendous responsibility” che sentì Hardy era un effetto della sua presa di coscienza nei riguardi della collettività; il poeta si poneva

“simpaticamente” in relazione a tutti gli esseri viventi, non percependo nessuna significativa distinzione fra l’uomo e l’animale grazie a “our new lights”.

Come scrisse, in una recensione sulla poesia di Hardy, il poeta Edward Thomas:

Mr Hardy must have discovered the blindness of Fate, the indifference of Nature, and the irony of Life, before he met them in books. They have been brooded over in solitude, until they afflict him as the wickedness of man afflicts a Puritan.10

L’aspetto morale, che viene fuori anche da questo ritratto di Edward Thomas, non poteva non avere delle ripercussioni anche nell’opera di Hardy. Il senso della morale cristiana, oltretutto, non era più

8 The Collected Letters of Thomas Hardy (Vol Two), cit., p. 47 (corsivi miei).

9 Ibidem, (Vol. Three), p. 231.

10 E. Thomas, “Three Wessex Poets” (In Pursuit of Spring), A language not to be betrayed. Selected Prose of Edward Thomas, cit., p. 73.

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sufficiente per affrontare le questioni che affliggevano l’umanità. Fu forse questa la ragione per cui il nostro poeta, predisposto a ricercare l’eco di antiche tradizioni in scenari post-darwiniani, si dedicò a

“infinitesimal lives against the stupendous background of the stellar universe, […] to impart to readers the sentiment that of these contrasting magnitudes the smaller might be the greater to them as men”.11

Tuttavia, “these high aims of the author”12 furono sottovalutati dalla critica, occupata invece in una lettura che ambiva a “protesting against his impropriety and his satire on the Church of England”.13

Mentre Hardy si preoccupava di mostrare un’opposizione ben più ampia e generale, i critici e i lettori vittoriani si “accontentavano” di diffidare della sua satira laica, giudicandola appunto impropria.

In “The Blinded Bird” (CP 375) più che engagement, vediamo predominare la consapevolezza e il sentimento di pietas verso ogni forma di vita. L’uccello della poesia, accecato con uno spillo, canta nella sua gabbia armoniosamente nonostante la sua pena; ma il suo canto non riecheggia dolci e oniriche atmosfere keatsiane o shelleyane, al contrario sembra simboleggiare uno strazio infinito procurato all’animale per il puro piacere dell’uomo.

Il poeta, tuttavia, ci descrive un canto dolce che “thy grievous pain forgot”, “resenting not such wrong”, evidenziando quasi una divina superiorità dell’animale. Nella carrellata finale di domande che il poeta fa implicitamente ai suoi simili, si dispiega la sua indignazione nei riguardi di un’umanità cristiana che si dimostra incivile e disumana (“all this indignity, / With God’s consent”).

Who hath thy charity? This bird.

Who suffereth long and is kind, Is not provoked, though blind And alive ensepulchred?

Who hopeth, endureth all things?

Who thinketh no evil but sings?

Who is divine? This bird.

Il suo partecipare a quel dolore, senza nessuna implicazione religiosa, senza nessuna scusa ideologica se non quella di sentire amore verso ogni creatura della terra, trae vigore e significato proprio da quel canto senza rancore, in cui Hardy riconosce tracce della sua stessa celestiale “umanità”. Il poeta instaura un rapporto strettissimo con l’uccello, non solo sentendo pietà, ma anche riconoscendo all’animale delle qualità “cristiane”, dunque in qualche modo generalmente attribuite

11 T. Hardy, Preface, Two on a Tower, cit., p. v.

12 Ibidem.

13 E. Blunden, Thomas Hardy, London, Macmillan, 1942, pp. 50-51.

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solo agli uomini. Così facendo, dimostra piuttosto che esse riguardano la sfera collettiva di tutti gli esseri viventi.

È interessante, inoltre, notare che questa ultima stanza è in realtà la parafrasi di una lettera di San Paolo ai Corinzi; pertanto, Hardy rafforza la sua idea su una convenzione interpretata in modo incompleto, perché, sembra dire: se bisogna diffondere l’amore, bisogna farlo indiscriminatamente. La scelta di parafrasare un testo cristiano appare qui, oltre che leggermente ironica, anche strategica, e rinvigorisce lo stile di una poesia intrisa di compassione e sofferenza.

Ormai si è appreso che lo stile hardiano sia spesso composto dalla necessità di coniugare lo stile alle intenzioni intellettuali; infatti, non è un caso che Leslie Stephen, indicando le ragioni della rivoluzione letteraria apportata da Henry Fielding, scrisse:

Realism, taken in what I should call the right sense, is not properly opposed to 'idealism'; it points to one of the two poles towards which all literary art should be directed. The artist is a realist so far as he deals with the actual life and the genuine beliefs of his time; but he is an idealist so far as he sees the most essential facts and utters the deepest and most permanent truths in his own dialect. His work should be true to life and give the essence of actual human nature, and also express emotions and thoughts common to the men of all times. Now that is the weak side of the fiction of this period. We may read Clarissa Harlowe and Tom Jones with unstinted admiration; but we feel that we are in a confined atmosphere. There are regions of thought and feeling which seem to lie altogether beyond their province.14

Il realismo, interpretato nel giusto senso, non si oppone all’idealismo, ma oscilla da un polo all’altro, seguendo coerentemente la necessità di aderire quando all’“actual life” e quando alle “emotions and thoughts”.

Stephen sembra toccare questi due argomenti evidenziandone le potenzialità, apparentemente nascoste nel loro usuale utilizzo come poli opposti. Hardy, amante delle coincidentia oppositorum, assunse la validità dell’unione stepheniana real/ideal, e probabilmente la assimilò anche nella sua capacità di agganciare la sfera personale a quella universale, così come spesso accade di leggere nei suoi versi.

Nella poesia “In a Waiting-Room” (CP 470) Hardy riesce in questa delicata operazione. Infatti, crea un ponte fra una sua osservazione privata e mentale, nata in un luogo comune, come sono le sale d’attesa delle stazioni, e la condizione umana che si affaccia ironicamente in quella scena, grazie alle parole autentiche e ingenue di un bambino.

Mentre il poeta ragiona sulla presenza di una copia della Bibbia sul tavolino della stanza, e dunque la sfoglia e si inoltra in cammini

14 L. Stephen, English Literature and Society in the Eighteenth Century (1904), London, Duckworth, 1947, pp. 167-168. Si ricorda a questo proposito che Thomas Hardy teneva in grande considerazione l’influenza dell’opera di Fielding (“Fieldingism”); nell’autobiografia lo esplicita, connotando l’affinità anche geograficamente: “[I] have felt akin locally to Fielding”, Life, p. 273.

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allegorici e immagini sacre, tende anche lo sguardo e l’orecchio alle vite degli uomini e delle donne presenti insieme in quel luogo di attesa. Così percepisce le loro storie, “from a casual word”, partecipando silenziosamente ai loro crocevia; ad un certo punto, all’improvviso, irrompono nella stanza due bambini accompagnati dalla madre, e il paesaggio repentinamente cambia:

But next there came Like the eastern flame

Of some high altar, children – a pair – Who laughed at the fly-blown pictures there.

‘Here are the lovely ships that we, Mother, are by and by going to see!

When we get there it’s ‘most sure to be fine, And the band will play, and the sun will shine!’

It rained on the skylight with a din As we waited and still no train came in;

But the words of the child in the squalid room Had spread a glory through the gloom.

Questo finale lirico ci aiuta a comprendere quando per Hardy contassero le piccole sinfonie che catturano le grandi verità dell’esistenza. Il poeta, grazie al bambino che descrive con la sua immaginazione incontaminata il viaggio che stanno per compiere, intrappola la sua voce in uno scenario nel quale è impossibile non cogliere una grazia quasi più sacra di quella contenuta nelle pagine del Vangelo di San Giovanni, che giace sul tavolino, senza confortare nessuno.

Anche in questa poesia, Hardy avvicina due punti di vista, quello teleologico e quello darwiniano (qui forse in modo specifico riguardo ad una pura combinazione), ma quando ne vede la convergenza assume come compagna un’ironia amara, che rende il motivo della sua discussione trasparente e improvvisamente ridicola, come appunto accade in “In a Waiting-Room”.

In fondo, questa poesia è un’amara considerazione dell’amore, che si svela “from a casual word” in una sala d’aspetto semideserta, dove una Bibbia è lasciata sul tavolo come una rivista qualsiasi. Il testo sacro non cattura l’attenzione di nessuno, ad eccezione di Hardy, che lo sfoglia e lo richiude di fronte all’arrivo di un bambino.

L’ironia appunto s’inserisce quando Hardy sposta l’attenzione dal

“sacro” (ritenuto universale), al particolare casuale e vitale, dimostrando che il rapporto fra il mondo e l’uomo è costruito secondo delle leggi casuali e improvvise, assolutamente non dipendenti solamente dal volere umano. Tuttavia, Hardy coglie anche l’occasione per dimostrare che si

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può e si deve estendere la nostra attenzione “from a casual word” fino alla compenetrazione fra esseri viventi (“through the gloom”).

Darwin nell’Origine delle specie, introduce il concetto di “puro caso” con la parola “accident”, nel trattare gli “istinti domestici”, subentrati a quelli “naturali”:

Hence, we may conclude, that domestic insticts have been acquired and natural instricts have been lost partly by habit, and partly by man selecting and accumulatine during successive generations, peculiar mental habitus and actions, which at first appeared from what we must in our ignorance call an accident.15

Ciò che dice Darwin è interessante, a nostro parere nel caso di Hardy, solo se teniamo anche conto del concetto bergsoniano di “effort mental” affiancato al “mécanisme de l’association”. Queste due forze sono, per Bergson, diverse nell’intensità e nella direzione, ed è un compito dell’uomo quello di saper dare più importanza all’una o all’altra.16 Darwin ci parla di comportamenti legati all’abitudine che hanno soppiantato quelli naturali, e ciò è avvenuto accidentalmente, ciò nondimeno è Bergson che approfondisce questa dipartita, appunto spiegando che è soprattutto dovuta all’evoluzione dello sforzo mentale a discapito di quello puramente associativo.

Hardy non vuole perdere né l’uno né l’altro, e forse senza saperlo, segue la linea di Bergson, quando alterna l’attenzione, prima ironicamente sul caso particolare, poi profondamente sulla condizione di attesa collettiva.

In questi significativi frangenti, Hardy sembra cinico – filosoficamente il cinismo era una scuola di ispirazione socratica che propugnava la drastica riduzione dei bisogni, l’indifferenza verso i beni esteriori e il rifiuto di ogni convenzione sociale, fra le quali quella della differenza fra uomini liberi e schiavi. Ma il suo cinismo non è vissuto come una negazione, bensì come una laica consapevolezza delle leggi naturali.

La solitudine storica dell’uomo moderno sfiora l’idea del gesto assurdo (il suicidio) di cui parlerà Albert Camus nel Mito di Sisifo; in Hardy più che l’assurdo esistenziale, si presenta l’idea di sorte ironica e cosciente, tipico assunto degli intellettuali agnostici vittoriani.

Leslie Stephen, motivato da una forte influenza darwiniana, aveva scritto:

The language will follow as a natural result when intellectual power is developed; and the use of the words is merely noticeable as a symptom of the existence of the power. But we can discover the presence of intellect by other marks

15 C. Darwin, L’Origine delle specie, cit., p. 216 (corsivi miei).

16 H. Bergson, “L’effort intellectuel”, in Oeuvres, cit., pp. 958-959.

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than the use of vocal signs. […] Observation alone can determine a question of concrete fact.17

Inoltrandosi nel suo discorso, Stephen sostituisce il suo sarcasmo scientifico con una presa di coscienza più profonda, laica, e informata dei rischi del progresso scientifico:

When a new doctrine cuts away some of our old dogmas, we fancy that it must destroy the vital beliefs to which they served as scaffolding. Doubtless it has that effect for a time in those minds with whom the association has become indissoluble. That is the penalty we pay for progress.18

La circostanza della poesia sopra citata è ironica, prima di tutto perché nasce da un’osservazione presa e tesa fino alla caricatura, non dei personaggi della sala d’aspetto, quanto della personificazione di quella sala stessa che diventa emblema della solitudine umana, “squalid room”.

È anche tristemente ironica perché ci parla di un’umanità che non trova nessuna consolazione oltre l’attesa, nonostante l’avvenuta messa a nudo scientifica delle “verità rivelate”.

Allo stesso tempo è una poesia riguardo a un’attesa che significa partenza, divisione, allontanamento, perciò di nuovo solitudine, “the penalty we pay for progress”, come direbbe Stephen.

L’uomo scopre di essere solo quando la vita diventa più amara, triste, e per esasperare questa détresse, Hardy spesso prende in prestito le parole dei morti, di coloro che sanno cos’è la verità e non ne possono più trarre vantaggio, come nel caso di “Spectres that Grieve” (CP 268), nella quale “the speakers, sundry phantoms of the gone” confermano:

‘It is not death that harrows us,’ they lipped,

‘The soundless cell is in itself relief,

For life is an unfenced flower, benumbed and nipped At unawares, and at its best but brief.’

A volte il poeta sembra essere tormentato, ma più spesso si capisce che è lui a tormentare questo mondo fatto di passato, di vecchi legami (riscontrabili nella lingua e nei ritmi) e di vecchie conoscenze. Ma Hardy non vuole essere spaventato dal vecchio mondo, né vuole soccombere o arrendersi ad esso. Il suo sforzo intellettuale è rivolto al passato, perché, come insegna Bersgon:

[S]i une perception rappelle un souvenir, c’est afin que les circostances qui ont précédé, accompagné et suivi la situation passée jettent quelque lumière sur la situation actuelle et montrent par où en sortir.19

17 L. Stephen, “Darwinism and Divinity”, in Essay on Freethinking and Plainspeaking, cit., pp. 81, 86.

18 Ibidem, p. 109.

19 H. Bersgon, “La fausse reconnaissance” (1908), in Oeuvres, cit., p. 924.

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Per questa ragione il poeta chiede ai fantasmi “Why, having slipped life, hark you back distressed?”, e questi rispondono:

‘We are among the few death sets no free, The hurt, misrepresented names, who come At each year’s brink, and cry to History To do them justice, or go past them dumb.

‘We are stript of rights; our shames lie unredressed, Our deeds in full anatomy are not shown,

Our words in morsels merely are expressed

On the scriptured page, our motives blurred, unknown.’

Una volta che questi “shaken slighted visitants sped / Into the vague”, Hardy resta solo a interrogarsi sul passato.

È stato già osservato che la predilezione di rivolgersi a figure come quelle dei fantasmi, impalpabili e inquietanti, favorisce l’atmosfera surreale e onirica, peraltro tipica compagna delle visions hardiane.

Bergson, citando Paul Bourget, definisce la dinamica dell’effetto

“shadowy”:

L’illusion s’accompagne « d’une espèce de sentiment inanalysable que la réalité est un rêve », dit M. Paul Bourget. Dans une auto-observation rédigée en anglais, qui me fut remise il y a quelques années, je trouve l’epithète « shadowy » appliquée à l’ensemble du phénomene ; on ajoute que le phénomène se présente plus tard, quand on se le remémore, comme « the half forgotten relic of a dream ».20

“The half forgotten relic of a dream” è una definizione che sarebbe certamente piaciuta a Thomas Hardy che, come abbiamo precedentemente visto, nei suoi taccuini insisteva spesso sul valore fondante della reliquia sopravvissuta ai cambiamenti del tempo.

Anche i personaggi dei suoi romanzi (tutti dannati e risospinti verso un passato ostile) sono attratti da un futuro totalmente ignoto, figlio del passato e concausa delle loro pene. Pressoché reliquie essi stessi, sfuggono al passato solo per arrivare a conquistare una misera metà del loro futuro.

Come si legge all’inizio di Jude the Obscure, quando l’autore ci presenta “[the] hamlet of Marygreen”:

It was as old-fashioned as it was small, and it rested in the lap of an undulating upland adjoining the North Wessex downs. Old as it was, however, the well-shaft was probably the only relic of the local history that remained absolutely unchanged.

Many of the thatched and dormered dwelling-houses had been pulled down of late years, and many trees felled on the green. Above all, the original church, hamp-

20 Henri Bergson, “La fausse reconnaissance”, in op. cit., p. 927.

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backed, wood-turreted, and quaintly hipped, had been taken down, and either cracked up into heaps of road-metal in the lane, or utilized as pig-sty walls, garden seats, guard-stones to fences, and rockeries in the flower-beds of the neighbourhood. In place of it a tall new building of modern Gothic design, unfamiliar to English eyes, had been erected on a new piece of ground by a certain obliterator of historic records who had run down from London and back in a day. The site whereon so long had stood the ancient temple to the Christian divinities was not even recorded on the green and level grass-plot that had immemorialy been the churchyard, the obliterated graves being commemorated by eighteenpenny cast-iron crosses warranted to last five years.21

Ci sarebbero moltissime cose da dire su questa densa narrazione, ma ci limiteremo a dire che Marygreen, il borgo natale di Jude, si presenta in questa maniera dimessa e quasi spettrale perché la sua storia e le sue origini non sono state rispettate, né tanto meno ricordate. Tutto ciò che formava l’identità del villaggio, che si specchiava un tempo perfettamente nel paesaggio, è stato sostituito da un disegno gotico moderno e dalla cristianità che ha soffocato le tracce dell’antico splendore pagano inglese.

Hardy fa partire da qui la narrazione di Jude, e forse si potrebbe già intuire che la vita del protagonista ha delle notevoli corrispondenze con questo spazio carico di un significato (“substance of life”) che ha dovuto nascondersi per sopravvivere nei ricordi. Hardy qui non sta solo denunciando la poca attenzione verso il passato, ma soprattutto la sconsiderata dominazione cristiana che in questo passaggio sembra solo aver sfigurato l’immagine di un’innocenza perduta, già incarnata nella figura del piccolo Jude.

Il meglio della sua visione anti-teleologica, rispetto al tema del caso, è però in quelle poesie che richiamano l’attenzione sul passato in una maniera più distaccata, facendoci percepire una sorta di raffreddamento interiore, una lucidità nata dopo una lunga riflessione. Il cambiamento che si osserva è frutto dell’epoca, così come cambia l’urbanizzazione così l’uomo si adatta ad una nuova vita; tuttavia, nel cambiamento, il passato non si elimina, non si “distrugge”, e torna a presentarsi puntualmente come per riscuotere una tassa sulla vita.

The doctrines of Darwin require readjusting largely; for instance, the survival of the fittest of the struggle for life. There is an altruism and coalescence between cells as well as an antagonism. Certain cells destroy certain cells; but other assist and combine.22

Anche in questo Hardy è di orientamento darwiniano, dato che non elimina nulla del consorzio umano e lascia che le figure più deboli siano sostituite da figure “più adatte”, del cui passato spesso non sappiamo

21 T. Hardy, Jude the Obscure, cit., p. 7 (corsivi miei).

22 Life, p. 259.

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nulla. Tuttavia, non si basa sulla forza per orientare la scelta del più adatto, ma semplicemente sulle circostanze. L’esempio più esplicito è quello del confronto fra Farfrae e Henchard, in The Life and Death of the Mayor of Casterbridge, romanzo nel quale il protagonista (Henchard) perirà in solitudine e Farfrae prenderà il suo posto dopo essersi impossessato del suo passato.

Hillis Miller descrive Hardy in una costante condizione di

“imprisonment” che si presenta “all the more painful for being intangible”.23 È il passato che segna la linea intangibile e impossibile da recidere con ciò che precede la vita. Hillis Miller scrive di Hardy: “to be conscious is to be separated. The mind has a native clarity and distinctness which detaches it from everything it registers”.24

Il poeta Thomas Hardy ha ricevuto molta attenzione negli ultimi quarant’anni, attenzione dimostratagli anche da parte di eccellenti filosofi. Jacques Derrida e Gilles Deleuze hanno studiato le strategie letterarie di Hardy e vi hanno ritrovato temi molto cari alla filosofia, fra tutti la tensione umana verso il soprannaturale e le implicazioni letterarie dovute a quest’atteggiamento.25

Per Hardy la tensione verso la dimensione psicologica fu una sorta di strada parallela a quella della scrittura; in virtù della sua totale rinuncia alla fede religiosa, le sue poesie invogliano all’osservazione e alla costruzione di un pensiero moderno, originale e innovatore, che qualifichi l’uomo dell’era post-Darwin. Chiaramente, in un’epoca che desiderava solo conferma della natura superiore dell’uomo, che si opponeva spesso al cambiamento, pur di mantenere una struttura, che potremmo definire senza sbagliare, oligarchica, i romanzi di Hardy generarono lunghi e complessi dibattiti

La sua costante percezione di essere un artista non amato dalla società creò un sottile e tenace allontanamento da Londra, come abbiamo visto. Forse, in parte, ciò era anche dovuto alla sua estraneità a una scrittura contingente e accondiscendente nei riguardi della società:

‘[He was] up against’ the position of having to carry on his life not as an emotion, but as a scientific game; that he was committed by circumstances to novel- writing as a regular trade, as much as he had formerly been to architecture; and that hence he would, he deemed, have to look for material in manners – in ordinary social and fashionable life as other novelists did.26

23 J. Hillis Miller, Thomas Hardy. Distance and Desire, cit., p. 2.

24 Ibidem.

25 Questi legami possono esseri approfonditi nei seguenti testi: J. Derrida, “This Strange Institution Called Literature”, Acts of Literature, London & New York, Routledge, 1992; J. Hillis Miller,

“Derrida’s Topographies”, South Atlantic Review, vol. 59, no. 1 (Jan. 1994), pp. 1-25; Alternative Hardy, ed. Lance St. John Butler, London, Macmillan, 1989.

26 Life, p. 104.

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Infatti “he took no interest in manners, but in the substance of life only”,27 e evitando i circoli e i salotti culturali londinesi si assicurò “a solitary living”,28 che favorì enormente la sua produzione poetica.

Non è un caso che dopo aver trascritto queste riflessioni, Hardy inserì nell’autobiografia anche una lettera di Coventry Patmore, il quale, durante la lettura di A Pair of Blue Eyes, scrisse che aveva rimpianto “at almost every page that such unequalled beauty and power should not have assure themselves the immortality which would have been impressed upon them by the form of verse”.29

John Fowles ha notato che il rifiuto di Thomas Hardy di piacere alla società, e conseguentemente la scelta di schierarsi apertamente in dissidio con la prudery vittoriana, manifesta una “dissatisfaction with reality.”30 Malgrado sia un parere eminente, ci sembra più appropriato affrontare la questione della realtà cercando di tenere presente che nell’opera di Hardy non c’è traccia di allontanamento dalla realtà, in quanto realtà e società sono due cose molto diverse nella sua visione del mondo. Come ci spiega Levine:

The lay model for understanding the natural and human world before Darwinism was natural theology in any of its various forms, the Darwinism could indeed be seen as a radical dislocater of the culture’s understanding of nature of the self.31

Fra gli esempi scrittura darwiniano che Levine riporta, c’è la condizione che maggiormente esprime l’atteggiamento culturale e sociologico dell’opera di Thomas Hardy, in quanto cosciente di Darwin:

“Seeing clearly depends upon repression of desire, and refusal of engagement with the world”.32

Un’altra condizione suona ancora più pertinente se legata all’opera di Hardy, soprattutto del poeta:

The rationality of the world is manifest in the clarity with which language can denote and define; language that obscures not only obstructs accurate observation but in sanctioning disorder implies moral weakness. It is dangerous enough to need perfunctory dismissal.33

Qui Levine concettualizza molto bene l’istinto hardiano a mantenere una conoscenza molto tentacolare, potremmo dire, dei suoi interessi. La sua personale contestazione dell’uomo contro la società

27 Life, p. 104.

28 Ibidem.

29 Life, pp. 104-105.

30 J. Fowles, “Hardy and the Hag”, in Thomas Hardy after Fifty Years, cit., p. 32.

31 G. Levine, Darwin and the Novelists, cit., p. 16 (corsivi miei).

32 Ibidem, p. 70.

33 G. Levine, Darwin and the Novelists, cit., p. 70.

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(così come dell’uomo a contatto con la natura) appare molto nutrito: i taccuini letterari riportano un’estrema varietà di interessi. In questo suo lato del carattere, attraverso quest’abitudine quasi da amanuense, che tanto ci lascia detto della mente di Hardy, possiamo permetterci di lanciare un ponte verso ciò che quest’aspetto significa in termini di ricezione darwiniana. È il linguaggio, è la lingua che definisce il mondo, come diceva Pascal, e come abbiamo letto nelle pagine di Stephen; in più la chiarezza si avvale di un’altra grande qualità: l’evidenza dei fatti.

Quasi si può vedere come una posizione incompatibile nei riguardi dell’agonizzante Romanticismo inglese, che ancora pulsava debolmente nelle vene pre-raffaellite.

La moralità (“in sanctioning disorder implies moral weakness”) era già stata abbattuta dalla seconda generazione dei romantici; ma ciò che l’aveva più indebolita era stato lo spirito del dandy, nato anche e soprattutto sull’onda del romanzo francese (in particolare Flaubert, del quale Oscar Wilde amava praticamente ogni opera). Il linguaggio oscuro (per esempio il simbolismo della Salomè) ha in sé il seme della debolezza morale. Non è questo il luogo per approfondire la denuncia di Wilde nei confronti di una società, la cui diagnosi viene fatta da Freud nei suoi tre saggi più “politici”. 34 Tuttavia, resta il dubbio che l’urgenza di rinvigorire il linguaggio non nasceva solo da un’esigenza linguistica ma soprattutto morale.

In fin dei conti, la lingua del naturalista era un canale più adeguato, e metaforicamente aveva sostituito il prologo con la catalogazione, e l’epilogo con un articolato riassunto del “tangled bank”, ma, se non altro, garantiva un grado molto più alto di veridicità. ‘The counterintuitive quality of his [Darwin’s] world is connected with his obsession with

“facts”’,35 dice Levine, e questo non può che autenticare la vena darwinista nell’imperativo etico-letterario di Hardy.

Per questo motivo il linguaggio oscuro viene facilmente sostituito con quello “darwiniano”; infatti, è lampante che nel caso di Hardy vi fosse una motivazione morale alla base di ciò che lui chiama “interest […] in the substance of life only”.

Hardy più che dell’etichetta di moralista (paradossalmente lottò per allontanare da sé quella di “immorale”), si preoccupava di un aspetto che parrebbe aver ereditato da Jane Austen, se si pensa a quanto Levine scrive della scrittura austeniana: “Yet the prose implies a moral authenticity that the measure of the ironies”.36

34 S. Freud, “La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno” (1908), “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), “Il disagio della civiltà” (1929), in Il disagio della civiltà e altri saggi (1971), Torino, Bollati Boringhieri, 2006.

35 G. Levine, Darwin and the Novelists, cit., p. 106.

36 Ibidem, p. 72.

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Questo bisogno di intessere le trame, e le vite dei personaggi, con l’ironia (le ironie della vita o le satire di circostanza), è forse ciò che in Jane Austen si sviluppò insieme al bisogno di autenticità morale.

Come aveva intuito Edward Thomas, Hardy “discovered the blindness of Fate, the indifference of Nature, and the irony of Life, before he met them in books”.37

Se la Austen rifiutava l’ideale romantico del “naturale”,38 era perché aveva già anche teorizzato e sbeffeggiato l’idea che la famiglia fosse un’istituzione naturale (”Natural parents do not by virtue of their

‘naturalness’ inspire or deserve affection”);39 tuttavia, era ancora legata ad una visione teologica della vita sulla terra.

All’opposto, Hardy si discosta precocemente da questa visione, e dà alla divisione fra “manners” e “substance” un senso sociale, riscontrabile nella sua costante aderenza alla realtà. D’altronde questo è il tratto, a nostro parere, che maggiormente lo connota come darwiniano e che rendono la sua produzione come una delle forme più riuscite di

“Darwin’s plot”.

3.1 Memoria: “clear gaze” e “substance of life”

Tra le pagine di The Literary Notebooks, troviamo uno stralcio di un articolo del Times Literary Supplement, molto pertinente al carattere di Thomas Hardy:

Beauty beyond all other beauty, horror beyond all other horror, still lie hidden about us, waiting for some one to see them. The thing that really matters, that makes a writer a true writer, and his work permanent, is that he should really see.40

Ciò che finora abbiamo osservato, infatti, ci conduce alla conclusione che l’interesse hardiano per “the truth”, “the substance of life”, “the exact truth”, nascondeva uno scopo ambivalente, così come conferma il passo sopra citato. Come in seguito Hardy formulò: “to find beauty in ugliness is the province of the poet”.41

Hardy, accettando le verità scientifiche, e conseguentemente apprendendo a osservare la vita con maggiore e dettagliata attenzione, ha certamente trovato nel principio della verità (“that he should really see”) un caposaldo della sua formazione intellettuale, nonché della sua morale

37 E. Thomas, “Three Wessex Poets”, cit., p. 73.

38 Ibidem, p. 74.

39 Ibidem.

40 The Literary Notebooks of Thomas Hardy (vol. II), cit., p. 210 (corsivi miei).

41 Life, p. 213.

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artistica. Allo stesso tempo, però non ha dimenticato le origini alla base della sua esistenza individuale, quelle che T. S. Eliot chiamava “primitive faiths”,42 e che Hardy riconosce nelle qualità dei rustics, e che, in un certo senso, sono comprese nel Wessex, così come le mostra nella presentazione sfigurata di Marygreen.

Non è un punto di vista inaudito quello di Hardy; infatti, Abrams notava, in The Mirror and the Lamp, che questo modo di vedere era già presente nella poesia di Wordsworth:

Only in his poetry, not in his criticism, does Wordsworth make the transition from the eighteenth-century view of man and nature to the concept that the mind is creative in perception, and an integral part of an organically inter-related universe.43

Del resto Wordsworth aveva scritto nel suo saggio sulla dizione poetica:

The earliest poets of all nations generally wrote from passions excited by real events; they wrote naturally, and as men: feeling powerfully as they did, their language was daring, and figurative.44

Come sintetizza Abrams: “Poetry originated in primitive utterances of passion which, through organic causes were naturally rhythmic and figurative”.45 La stretta relazione fra esistenza individuale e verità universale ha creato nell’ispirazione di Thomas Hardy una fusione delle due prospettive in un’unica visione, riassumibili nella combinazione di

“beauty” e “ugliness”, così come quella di un mondo cristiano e pagano.

Come dice Bailey:

Hardy was even more rationalistic than Arnold, who had tried to support some elements of dogma by tracing the hardening of Hebrew concepts of eternal principle, righteousness, etc. into terms for a personal God. He defined God as a Power not ourselves that makes for righteousness.46

Bailey riconosce ad Hardy la facoltà di non escludere l’umanità dall’evoluzione storica, ma di renderla unica e vera protagonista della scena esistenziale. In questa fondamentale differenza con Matthew Arnold, Hardy va al cuore della condizione umana, liberandola dai dogmi e avvicinandola a se stessa, assumendosi così tutto il rischio di una poetica che verrà spesso liquidata come “pessimista”.

42 T. S. Eliot, Notes towards the Definition of Culture, cit., p. 31.

43 M. H. Abrams, The Mirror and the Lamp (1953), Oxford, Oxford UP, 1971, pp. 103-104.

44 W. Wordsworth, “Appendix Poetic Diction”, in The Prose Works of William Wordsworth, eds. W. J.

B. Owen e J. Worthington Smyser, Oxford, Clarendon Press, 1974, p. 161.

45 M. H. Abrams, The Mirror and the Lamp, cit., p. 101.

46 J. O. Bailey, The Poetry of Thomas Hardy. A Handbook and Commentary, cit., p. 430.

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La sua osservazione, infatti, era costantemente modulata da coincidentia oppositorum, peraltro sempre riconosciute dall’autore stesso. Il suo punto di partenza resta il principio della conservazione, che Hardy riesce interamente a contenere nella sua idea di restauro, “which is usually the obliteration of the successive modifications in the features of a building that give continuity to its history”.47

La necessità di inserirsi nel flusso del tempo attraverso la materia è lo stesso processo che è alla base della spinta memoriale di Hardy:

conservare il ricordo, lasciare intatta l’emozione, e ritornare ad esso

“ritoccando” solo la descrizione dell’evento. Già nella early life, per il poeta era fondamentale:

[I]nfusing emotion into the baldest external objects either by the presence of a human figure among them, or by mark of some human connection with them.48

Il compito dell’artista (qui Hardy era colpito dal metodo Boldini) è immettere l’emozione nell’oggetto, favorendo così un circuito di attrazione e compartecipazione, rendendo la connessione vitale e immediata.

Questa è anche la ragione per la quale a volte le poesie di Hardy posseggono un innegabile retrogusto romantico, come dice William Buckler:

What Hardy was trying to reconcile men to was the fact that they had an imperious compulsion to make myths, that myth-making was an obsession of the human mind, but that there was little necessary connection between the myths they made and the lives they hoped to live by them or between the lives they lives and the

“reality” (measured relatively by their inadequate myths) of the world around them.

The excitement in Hardy’s work is generated, not by reconciliation, but by discrepancy, and his “truth” is that illusion recognized helps us to avoid disillusion by reconciling us only to discrepancy. Reconciliation is a coincidence of harmony just as imaginable as coincidences of discord, and they happen in life as well as in letters;

and to measure Hardy’s ultimate purposes as a writer by their infrequent occurrence in his work is to strip him of his highest imaginative courage and to make him, in however small degree, just another Romantic.49

Ma ciò che dice Buckler è vero solo fino a un certo punto. Tenendo conto anche della tendenza hardiana a riconoscere al mondo un autonomo spessore psicologico, si può comprendere la vastità e la modernità del suo approccio artistico.

47 The Collected Letters of Thomas Hardy (vol. Five), cit., p. 296.

48 Life, p. 120.

49 W. Buckler, The Victorian Imagination. Essays in Aesthetic Exploration, Brighton, The Harvester Press, 1980, p. 355.

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In “the obliteration of the successive modifications in the features […] that give continuity to its history”, Hardy temeva di perdere la virtù individuale per eccellenza: l’autonomia della coscienza.

Grazie alla scienza l’uomo scopre il suo inconscio, ma non si mostra preparato ad affacciarsi sulla sua vastità. Paradossalmente la scienza, nella sua visione universale e universalmente applicabile, aveva sottratto all’umanità un certo grado di autonomia, dunque in un certo senso anche di responsabilità.

Per Hardy era chiaro che questo grado doveva essere restituito attraverso l’arte. Infatti, ammirava Swinburne per essere riuscito a rendere il suo criterio letterario totalmente “cerebrale”. Gli scandali provocati dalle perversioni contenute nelle opere del poeta vittoriano più indecente non erano altro che rappresentazioni delle sue fantasticherie più estreme, messe in scena per provocare e destare un pubblico ormai irreversibilmente di massa.

Con Jude the Obscure, a sua volta, Hardy squarciò il sipario della cultura vittoriana, e mostrò in un romanzo le contraddizioni di un’epoca ormai quasi terminata, colpita da un’inarrestabile decadenza, che non era stata capace di rispettare il suo passato. Dopo le amarezze generate dallo scandalo e dalla censura, Hardy abbracciò la poesia come il Refugium peccatorum; divenuta il veicolo della sua libertà dalla morale ossessiva vittoriana, la scrittura lirica non poteva che caricarsi di osservazioni, riflessioni e memorie.

Prendendo come esempio le parabole ascendenti e discendenti di Sue e Jude, potremmo, infatti, riconoscere l’attualità dell’ordine hardiano. Cockshut riesce a riassumere le vite di queste figure in relazione al contesto vittoriano:

Hardy’s really revolutionary point is this. Arabella not only represents the bestiality of the flesh, as seen by the pure-minded, but she represents marriage and convention as well. Sue, the pure intellectual, the delicate maiden, represents the new forces of rebellion, irreligion and scorn for the respectable. But it was a revolution that had been long and carefully prepared by the agnostic tendency to place true morality in opposition to religion. When Sue says of an early hero of hers that he was the most irreligious man she ever knew, and the most moral, she is speaking with the authentic voice of Mill and Spencer and Huxley. Her own strange development of sexual morality follows on logically from these agreed premised. The rejection of Christianity as superstitious, and obsessed with physical facts and rituals, prepared the way for a more general denial of the claims of the body. In true high-Victorian agnostic style, Hardy chose as the epigraph of his book “The letter killeth.” But Sue, at least, finds in the end that the spirit without the body does not give life.50

50 A. O. J. Cockshut, The Unbelievers. English Agnostic Thought 1840-1890, London, Collins, 1964, pp. 165-166.

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È molto interessante che sia Sue a riscoprire la sua cristianità per sfuggire alla follia conseguita alla morte dei bambini. Mentre Jude anche se mai apparentemente ostile alla religione, se ne allontana del tutto, scegliendo coraggiosamente la solitudine. Come ha scritto Irving Howe:

Jude the Obscure is Hardy’s most distinctly ‘modern’ work, for it rests upon a cluster of assumptions central to modernist literature: that in our time men wishing to be more than dumb clods must live in permanent doubt and intellectual crisis; that for such men, to whom traditional beliefs are no longer available, life has become inherently problematic […] and that courage, if it is to be found at all, consists in readiness to accept pain while refusing the comforts of certainty.51

Jude reagisce con l’isolamento, mentre Sue si piega al conformismo. La scelta di Sue denota quello che Cockshut chiama

“unbelief [..] as varied and confusing in its manifestations as belief”.52

“Modern nerves” e “primitive feeling” sono le componenti essenziali di questa varia e confusa “ideologia religiosa”. In sostanza l’alternanza di fede e scetticismo mostra un’irregolarità di fondo fra ciò che l’uomo scopre di avere e ciò che ha sempre posseduto inconsciamente.

Il poeta ha conciliato queste due tendenze nella sua visione della vita e del mondo, al fine di testimoniare l’impossibilità di cancellare dalla memoria le origini e per manifestare il disagio che la modernità andava mano a mano introducendo nella società vittoriana.

D. H. Lawrence, in seguito, ha creato delle situazioni ancora più definite di questo contrasto, che in ogni caso rimane insoluto. Anche nel secondo romanzo di Virginia Woolf, Night and Day (1919), l’irrazionalità dell’amore si scontra con il bisogno di una vita pianificata.

Nella poesia “The Place on the Map” (CP 263) Hardy sembra riprendere la stessa amara considerazione, la stessa impossibilità di far conciliare il naturale con il riformato ordine sociale.

For the wonder and the wormwood of the whole

Was that what in realms of reason would have joined our double soul Wore a torrid tragic light

Under order-keeping’s rigorous control.

Questo componimento, spesso ritenuto una rivisitazione della decisione di Hardy di sposarsi, o anche un ricordo della supposta gravidanza della cugina Tryphena, è in realtà una delle punte più critiche che Hardy raggiunge nei suoi versi. La “torrid tragic light” toccava infatti le vicende di molte persone che non avevano scelta se non quella di aderire al rigore vittoriano.

51 I. Howe, Thomas Hardy, New York, Macmillan, 1967, p. 134.

52 A. O. J. Cockshut, “Faith and Doubt in the Victorian Age”, in The Victorians, cit., p. 43.

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Il bisogno di adeguarsi agli schemi e la necessità di evaderli si ritrova in poesie come quella appena citata, senza però acuire lo stato di sofferenza che generava tale contrasto. Tuttavia, è nei romanzi che Hardy esprime meglio la natura di un dramma che risiedeva proprio nella scelta da operare. La poesia è un momento di riflessione, e deve perciò fare riflettere. Forse è per questa ragione che le riflessioni più commoventi avvengono grazie alle voci ironiche dei morti, che tornano a vivere per testimoniare la brevità e l’insignificanza della vita umana, se paragonata alla vastità della vita sulla terra. Questo è il caso di versi come quelli contenuti in “Something Tapped” (CP 396):

Something tapped on the pane of my room When there was never a trace

Of wind or rain, and I saw in the gloom My weary Belovèd’d face.

‘O I am tired of waiting,’ she said,

‘Night, morn, noon, afternoon;

So cold it is in my lonely bed,

And I thought you would join me soon!’

I rose and neared the window-glass, But vanished thence had she:

Only a pallid moth, alas, Tapped at the pane for me.

Emma appare nella notte e attira a sé il marito, che una volta fuori dal letto, vicino alla finestra dove aveva sentito battere la moglie, scopre che è solo una lucciola. I morti tornano nella memoria dei vivi e spesso portano con sé dei messaggi di unione ultraterrena.

La medesima situazione si ripete nei versi vibranti di “A Night in November” (CP 542), quando “Dead leaves blew into my room, / And alighted upon my bed, / And a tree declared to the gloom / Its sorrow that they were shed”. Ma questa quartina centrale è, in realtà, l’introduzione all’apparizione di Emma:

One leaf of them touched my hand, And I thought that it was you There stood as you used to stand, And saying at last you knew!

“And I thought it was you” è un verso molto significativo e ancora una volta, autonomo, in quanto mostra la realtà psicologica che regola quella materiale. Questa potere della poesia fa parte di una preziosa eredità che Hardy accrebbe leggendo la poesia di Shelley, soprattutto se pensiamo ai versi di Alastor; or, the Spirit of Solitude (1815).

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Il poeta romantico inglese scriveva del suo incontro con una

“veiled maid” durante il sonno, in una visione così fisica da provocare nell’animo di Shelley una “irresistible joy”. Al suo risveglio il poeta è in trance, cerca di ritrovare le immagini oniriche, illudendosi di poter abbracciare ancora “her dissolving arms”. La grande differenza, però, è che se per Shelley la visione è stata mandata dallo “Spirit of sweet Human Love”, per Hardy l’estasi momentanea di quel tocco sovrannaturale è tutta immagazzinata e sprigionata dal suo pensiero:

“And I thought it was you” sancisce un traguardo impensabile e probabilmente fuori luogo in età romantica.

La memoria è un’arma razionale e psicologica, per un poeta come Hardy che non aveva più bisogno di spiriti per raffigurare “sweet Human Love”. Il nostro poeta si era lasciato alle spalle un bagaglio prezioso che non trascura ma di cui non vuole essere vittima, il Romanticismo nei versi di Hardy è evoluto e accresciuto con un vigore che trae la sua veridicità dalle infinte pieghe del nostro inconscio.

Questa memoria irrinunciabile, che nel caso di Hardy è spesso incarnata, potremmo dire pretestuosamente, nella figura di Emma, è il punto di partenza per creare nelle discordie esistenziali delle armonie vitali. Per questa ragione, i dissidi sociali non possono che infastidire, inasprire le vite dei personaggi dei romanzi di Hardy.

Tess, Jude, nella loro naturale lotta per la sopravvivenza, non reggono l’ulteriore confronto con il rifiuto che la società crudelmente infligge alle loro “simboliche” ma reali e concrete scelte di vita. Tess, in maniera particolare, con la sua smisurata tenerezza e umanità, appare sempre più simile al “blinded bird” della poesia. La donna canta una dolcezza inspiegabile in confronto al dolore che le viene ingiustamente inflitto, anche e soprattutto da Angel Clare, l’uomo che lei ama ma da cui non riceve che un amore tormentato e mortificato dai pregiudizi, anche intellettuali.

Le vecchie pulsioni, i malcelati costumi umani restano costanti e immutati nella vita dell’uomo; quest’ultimo, che conosce ormai la verità di Darwin e l’accetta come Sisifo, non lascia al caso l’ultima risposta, ma deve comunque rendere conto al caso della propria sorte.

Si può ritrovare nei versi di Leopardi la stessa geniale diffidenza nei riguardi del romanticismo, e allo stesso tempo, la sua umana comprensione della nostra incoerente esistenza. Alcuni aspetti del pastore di Leopardi in “Alla Luna”, sono rintracciabili nel Gabriel Oak rassegnato che percorre la strada verso la collina dove scoprirà che il suo gregge è morto per una fatale disattenzione; o nel Giles Winterborne sfuggito all’amore involontariamente spietato, fatto di “modern nerves” e ambizioni letali.

Il suo realismo, quello che nasceva probabilmente anche dalla fascinazione per le idee di Leslie Stephen, è compreso in “the principle of

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