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Estratto. 30.dianoia. Rivista di filosofia anno XXV, giugno mucchi Editore

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30. dianoia

30. dianoia Saggi

Bruno Centrone

Il piacere intellettuale in Platone: apprendimento o “contemplazione”?

riCCardo Fedriga

Il tempo e la misura dell’eternità. Tommaso d’Aquino tra uso e interpretazione del realismo

dimitri d’andrea

Curiosità, linguaggio e ansia. L’uomo del Leviatano tra differenza antropologica e forme di soggettività

FranCesCo Cerrato

Le paure della ragione. Gestione delle passioni e rapporto con il potere in Descartes

mariaFranCa spallanzani

Descartes, filosofia cartesiana, cartesianismo. Una storia francese tra Settecento e Ottocento

Charles t. WolFe

L’erreur vitale : antimathématisme et monstruosité chez Diderot

niCola zamBon

Sull’esercizio della virtù. Un commento alla Tugendlehre di Immanuel Kant

FranCesCo Cattaneo

L’essere, il divino, la forma. Su alcuni motivi in Walter F. Otto e Martin Heidegger

alBerto destasio

Agire e temporalità nello Schelling di Heidegger

luCa guidetti

Il Platone di Enzo Melandri

donato sperduto

Verità, necessità e la sfida etica di Emanuele Severino

raFFaella Campaner

I meccanismi della malattia mentale: promesse e limiti

Note Recensioni

mucchi Editore

issn 1125-1514

30.dianoia

Rivista di filosofia anno XXV, giugno 2020

Estratto

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30.dianoia

Rivista di filosofia

del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna

Mucchi Editore

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dianoia

Rivista di filosofia del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna fondata da Antonio Santucci † Direttrice Mariafranca Spallanzani

Vicedirettrice Marina Lalatta Costerbosa

Comitato di direzione Alberto Burgio, Francesco Cerrato, Vittorio d’Anna, Franco Farinelli, Ric- cardo Fedriga, Carlo Gentili, Gennaro Imbriano, Manlio Iofrida, Marina Lalatta Costerbosa, Mariafranca Spallanzani.

Comitato scientifico Francisco Javier Ansuátegui Roig (Universidad Carlos III de Madrid), Carlo Borghero (Università di Roma “La Sapienza”), Dino Buzzetti (Alma Mater Studiorum - Uni- versità di Bologna), Giuseppe Cambiano (Scuola Normale Superiore di Pisa), Pietro Capitani (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), Claudio Cesa † (Scuola Normale Superio- re di Pisa), Raffaele Ciafardone (Università degli studi di Chieti e Pescara), Michele Ciliber- to (Scuola Normale Superiore di Pisa), Giambattista Gori (Università degli Studi di Milano La Statale), Lucian Hölscher (Ruhr-Universität Bochum), Giorgio Lanaro † (Università degli Studi di Milano La Statale), Catherine Larrère (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne), Ernst Müller (Humboldt-Universität zu Berlin), Paola Marrati (Johns Hopkins University - Balti- more), Gianni Paganini (Università del Piemonte Orientale), Johannes Rohbeck (Technische Universität Dresden), Ricardo Salles (Universidade Federal do Rio de Janeiro), Falko Schmie- der (Leibniz-Zentrum für Literatur- und Kulturforschung Berlin), Maria Emanuela Scribano (Università Ca’ Foscari di Venezia), Giovanni Semeraro (Universidade Federal Fluminense), Stefano Simonetta (Università degli Studi di Milano La Statale), Alexander Stewart (Lanca- ster University), Walter Tega (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), Luc Vincenti (Université Paul Valéry Montpellier 3), John P. Wright (Central Michigan University), Günter Zöller (Ludwig-Maximilians-Universität München).

Comitato di redazione Alessandro Chiessi, Diego Donna, Roberto Formisano, Gennaro Imbriano (coordinatore), Gabriele Scardovi, Piero Schiavo.

Direzione e redazione Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, Via Zamboni, 38 - 40126 Bologna info@dianoia.it

I manoscritti devono essere inviati per posta elettronica alla redazione della rivista. La loro accettazione è subordinata al parere favorevole di due referee anonimi. Le norme tipografi- che e le modalità d’invio dei contributi sono scaricabili dalla pagina web della rivista:

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La fruizione del contenuto digitale avviene tramite la piattaforma www.torrossa.it Registrazione del Tribunale di Modena n. 13 del 15/06/2015

ISSN 1125-1514 - ISSN digitale 1826-7173 ISBN 978-88-7000-830-2

Grafica e impaginazione STEM Mucchi (MO), stampa Geca (MI). Finito di stampare nel mese di giugno 2020

© STEM Mucchi Editore - Via Emilia est, 1741 - 41122 Modena - Tel. 059374094 info@mucchieditore.it www.mucchieditore.it

facebook.com/mucchieditore twitter.com/mucchieditore instagram.com/mucchi_editore La legge 22 aprile 1941 sulla protezione del diritto d’Autore, modificata dalla legge 18 agosto 2000, tutela la proprietà intellettuale e i diritti connessi al suo esercizio. Senza autorizzazione sono vietate la riproduzione e l’archiviazione, anche parziali, e per uso didattico, con qualsiasi mezzo, del contenuto di quest’opera nella forma editoriale con la quale essa è pubblicata. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nel limite del 15% di ciascun volume o fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del com- penso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall’editore o dagli aventi diritto.

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30. dianoia

Saggi

7 Bruno Centrone, Il piacere intellettuale in Platone:

apprendimento o “contemplazione”?

23 Riccardo Fedriga, Il tempo e la misura dell’eternità.

Tommaso d’Aquino tra uso e interpretazione del realismo 45 Dimitri D’Andrea, Curiosità, linguaggio e ansia. L’uomo del

Leviatano tra differenza antropologica e forme di soggettività 67 Francesco Cerrato, Le paure della ragione. Gestione delle passioni

e rapporto con il potere in Descartes

81 Mariafranca Spallanzani, Descartes, filosofia cartesiana, cartesianismo. Una storia francese tra Settecento e Ottocento 115 Charles T. Wolfe, L’erreur vitale : antimathématisme et

monstruosité chez Diderot

127 Nicola Zambon, Sull’esercizio della virtù. Un commento alla Tugendlehre di Immanuel Kant

145 Francesco Cattaneo, L’essere, il divino, la forma. Su alcuni motivi in Walter F. Otto e Martin Heidegger

167 Alberto Destasio, Agire e temporalità nello Schelling di Heidegger 185 Luca Guidetti, Il Platone di Enzo Melandri

207 Donato Sperduto, Verità, necessità e la sfida etica di Emanuele Severino

225 Raffaella Campaner, I meccanismi della malattia mentale:

promesse e limiti

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Note

247 Mariafranca Spallanzani, André Pessel tra gli scettici del Seicento. Note di lettura

261 Laura Moretti, Libertas Philosophandi. Freedom of Expression, Conscience and Thought in Modern Philosophy

269 Recensioni

293 Gli autori

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Recensioni

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e cioè l’avversione, che fu di Schmitt e fu di Arendt (come fu di Koselleck), per gli -ismi della filosofia della storia, oltre che per il bolscevismo.

Da questo punto di vista, in effetti, l’individuazione di un comune nemi- co rende plausibile sul piano storio- grafico – sul piano di una storiogra- fia dei discorsi e dei concetti politici concretamente connotata – ciò che in prima battuta sembrerebbe irricevibi- le sul piano di un’astratta storia del- le idee, e cioè la convergenza obietti- va, che a metà degli anni Cinquanta è ampiamente comprensibile sul pia- no contestuale, tra la posizione del- la Arendt e quella di Schmitt – pure su tutto il resto divergenti – nella bat- taglia ideologica anticomunista. Una convergenza che trova un fondamen- to teorico e una legittimazione nel- la tesi – che fu di Arendt, come fu di Schmitt – secondo cui il bolscevismo fu in definitiva l’esito inevitabile (an- corché indesiderabile) dell’originario portato liberticida immanente alla fi- losofia della storia e alle ideologie.

Lo stesso Huhnholz, del resto, riporta un emblematico passaggio della Lau- datio koselleckiana a Furet (p. 118), nel quale Koselleck scrive che il me- rito delle Origini fu proprio quello di avere mostrato «analiticamente, pas- so dopo passo», il processo che «dal nazionalismo conduceva, attraver- so l’imperialismo, al bolscevismo e al fascismo e al nazionalsocialismo, per mettere in evidenza l’assoluta in- sensatezza del genocidio degli ebrei – e degli altri popoli» (Laudatio, cit., p. 297). Se così stanno le cose, allo- ra, i conti tornano, e dunque si può assumere la convergenza tra Kosel- leck e la Arendt sul punto specifico (l’impiego ideologico della catego- ria di totalitarismo, utile a equipara-

re il comunismo al nazismo) senza per questo negare che la logica argo- mentativa del testo koselleckiano re- sti, nella sua costituzione essenziale, propriamente schmittiana, pur con significativi influssi provenienti dal- la teoria löwithiana sull’utopia come secolarizzazione delle attese escatolo- giche, funzionale anch’essa, del resto, alla critica del pensiero rivoluziona- rio mediante la sua riduzione a sco- ria teologica e moralismo totalitario.

Valentina Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofo- be, Milano, Bompiani, 2020, 240 pp.

di Roberto Limonta

Dietro a un titolo che rischia di ap- piattirlo sulla stretta attualità (I guar- diani della memoria e il ritorno del- le destre xenofobe, Milano, Bompiani, 2020), il volume di Valentina Pisan- ty segna invece un passaggio impor- tante in una ricerca pluriennale che, a partire dal caso della storiografia (se così può dirsi) negazionista, si è dedi- cata allo studio di quella particolare forma di narratività che è il discorso storico. Senza nulla togliere all’im- portanza degli aspetti storici del re- visionismo e dei corto circuiti del- la memoria, quest’ultimo lavoro, che raccoglie un quinquennio di riflessio- ni (2015-2019), tematizza nella ma- niera più esplicita il leitmotiv di quel- le ricerche: la consapevolezza cioè che l’indagine storiografica non tro- va il proprio oggetto semplicemente in natura o in un rapporto ingenua- mente descrittivo con i fatti della re- altà, ma lo costruisce nella relazione, di volta in volta ricalibrata, tra fatto e oggetto storiografico, tra gli even-

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ti del passato e i modi sotto i quali li rappresentiamo.

Pisanty procede così a un’analisi se- miotica rigorosa che si appoggia su una più generale teoria della narra- tività storica e dello storytelling, nella consapevolezza tuttavia che fare se- miotica dei fatti storici (e storiografi- ci) non significa irrigidirne la varietà e particolarità in uno schema deter- minato a priori, ma cercare al contra- rio di comprendere la logica variabi- le dei rapporti che di volta in volta si costituiscono tra i fatti stessi e i dispo- sitivi semiotici con cui cerchiamo di descriverli. «Decostruire la retorica della memoria», da questo punto di vista, significherà riportare il «bub- bone del nazionalismo xenofobo» (p.

8), che segna oggi il panorama poli- tico, al contesto da cui trae alimen- to. Un contesto che ha certamente na- tura sociale, politica e culturale, ma che l’analisi riconduce a una specifi- ca pratica del linguaggio, quella re- torica della narrazione storica che sembra aver soppiantato, nel dibat- tito politico contemporaneo, l’ambi- zione illuminista di descrivere la sto- ria e al contempo educare tramite di essa la società. A partire da L’irritan- te questione delle camere a gas: logica del negazionismo (Milano, Bompiani, 1998 e 2014 in edizione rivista e ampliata) e poi dal più recente Abusi di memo- ria. Negare, sacralizzare, banalizzare la Shoah (Milano, Bruno Mondadori, 2012) Pisanty ha fatto del negazioni- smo, da case study su usi e abusi del linguaggio storiografico, l’occasione di un confronto filosofico serrato sul tema del rapporto tra i linguaggi del discorso storico, gli eventi del passa- to e le questioni (memoria, oblio, te- stimonianza) che vi si legano.

Il primo capitolo (Il dovere della me- moria) mette a fuoco il tema della me- moria nei termini del dibattito sul- la Shoah, ma soprattutto fissa i punti di riferimento per l’analisi semioti- ca della questione. Dopo la fine delle utopie rivoluzionarie del Novecento (le “grandi narrazioni” di Lyotard), la memoria dell’olocausto nazista ha costituito il riferimento cui ci si è ap- pellati per individuare un valore con- diviso che fungesse da bandiera per i valori del liberalismo europeo. Pi- santy orienta la riflessione, con fe- lice intuito, dall’ambito di un con- tenuto ad alto fattore di retorica ed emotività (la solidarietà dei popoli, la condanna del razzismo, i genoci- di della storia), a quello delle forme narrative sotto le quali quegli eventi sono stati rappresentati. Lo schema è quello di una dicotomia tra vitti- me e carnefici, che possiede la «capa- cità di affermarsi come paradigma o schema narrativo con cui chiunque si può identificare» (p. 21) e attraverso il quale chiunque può essere classifi- cato; il meccanismo funziona univer- salmente, a prescindere dai sogget- ti che di volta in volta sono chiamati a rappresentare i due poli della dia- lettica, e viene quindi utilizzato per descrivere lo sterminio nazista degli ebrei come la guerra tra serbi e croati, il genocidio armeno come il conflitto israelo-palestinese. È evidente, sotto- linea Pisanty, che una simile ipertro- fia semantica non soltanto finisce per risolversi in una classe tipologica che non comprende nulla proprio perché comprende tutto, ma rischia anche di nascondere alla valutazione dello storico le differenze e le peculiarità contingenti che distinguono una se- rie di eventi dall’altra e permettono una ricostruzione non ideologica dei

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fatti del passato. Il mito della Shoah vive insomma sulla contraddizione di un valore universale utilizzato nel contesto di una scienza del particola- re («il legno storto dell’umanità», se- condo l’espressione kantiana ripre- sa da Isaiah Berlin) come la storia. È

«un impasto inedito di universalismo e particolarismo» (p. 21), «uno strano ircocervo» dove vige la regola «questo l’ho vissuto solo io e quindi vale per tut- ti» (p. 23).

La retorica della memoria non distin- gue tra negazionisti e testimoni della Shoah. L’appello reazionario alle pro- prie origini, che evoca il Blut und Bo- den nazista ed è fatto proprio dai mo- derni movimenti xenofobi, è lo stesso che, invertito di segno, sorregge la re- torica dei guardiani della memoria. Se il richiamo a miti fondativi è ciò che lo storytelling di questi ultimi mutua dal discorso negazionista, dall’altra par- te l’universalismo artificiale del mito della Shoah, appiattendo ogni parti- colarità storica, rischia di fare il gio- co dei propri avversari abolendo altri valori simbolo del liberalismo, come la pluralità e il rispetto della diversi- tà. Lo schema del discorso – e il fat- to stesso che l’argomentazione, nella struttura della narrazione, lasci il po- sto alla retorica – non cambia; tuttavia è l’analisi semiotica a rivelare come tale schema non sia da intendere sol- tanto come paratesto neutro della ri- costruzione storica, ma costituisca un utile indicatore, nei modi con i quali di volta in volta viene articolato, per svelarne le premesse ideologiche.

C’è un presupposto che non è mai te- matizzato ma che sorregge tutte que- ste narrazioni della memoria: la com- prensione del passato – e l’onore di custodirlo e tramandarlo – è possibile solo a patto di una completa empatia

con le vittime, quindi soltanto facen- dosi carico, più che dell’evento, della memoria individuale di quell’even- to, dell’esperienza del trauma, che in realtà è soggettiva e irripetibile. Non è una semplice sfumatura: al contra- rio, essa segnala – commenta Pisan- ty – come sia in atto una transizio- ne dalla memoria alla testimonianza, tramite la quale esperienza e memo- ria individuale diventano modelli per la proiezione di quella singolarità in una memoria collettiva e condivi- sa; la quale a sua volta si alimenta del mito di un contatto diretto, e privo di mediazioni culturali, con la realtà. I testimoni della Shoah, insomma, fun- gono da garanti epistemici del rac- conto storico ma anche da responsa- bili di un «continuo acting out dello shock originario» (p. 47), con un’e- vidente commistione tra argomen- tazione scientifica e afflato emotivo, acribia e partecipazione, descrizione e drammatizzazione; per non parla- re del cortocircuito tra il piano delle fonti (testimonianza) e quello storio- grafico della loro analisi, valutazione e ricostruzione.

Nel secondo capitolo (Il discorso del- la storia) il tema della memoria si con- giunge a quello della testimonian- za e pone in questione i fondamenti, spesso impliciti, del ruolo epistemico del testimone e il significato della te- stimonianza stessa nell’apparato del racconto storico. Pisanty parla di «era del post testimone» (p. 56); in effetti, in un’epoca di postverità e di crisi del consenso sociale ai modelli scientifici di rappresentazione della realtà, l’a- nalisi dei fondamenti epistemologi- ci della testimonianza e della repu- tazione – si pensi, ad esempio, alle ricerche di Nicla Vassallo (Per sentito dire, Milano, Feltrinelli, 2011) e Gloria

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Origgi (La réputation, Paris, Presses Universitaires de France, 2015), per non parlare della nutrita bibliografia sulla postverità – risulta cruciale per discutere i criteri di legittimità delle narrazioni storiche e per sorvegliare abusi e distorsioni che le riguardano.

La logica del discorso testimoniale si appoggia, nel caso della Shoah, su un feticismo della testimonianza, a sua volta alimentato dal mito del da- to emotivo e autoptico e dalla demo- nizzazione di ogni forma di media- zione. Una logica efficace e un mito durevole, fa notare Pisanty, se nep- pure il progressivo venir meno dei testimoni diretti dell’olocausto sem- bra scalfirlo: la forza epistemica del discorso delle vittime è fatto proprio dai guardiani della memoria in quan- to testimoni dei testimoni, in una «te- stimonianza elevata a potenza», per così dire, che non perde forza legitti- mante nel passaggio di livello. L’era del post testimone, che si viene così delineando, presenta tre conseguen- ze epistemiche rilevanti: i) la testimo- nianza non rimanda alla realtà dei fatti ma alla loro esperienza sogget- tiva, oggetto esclusivo del discorso storico; ii) il metodo scientifico è de- legittimato a favore di un “principio di autorità” (p. 63) che alle procedu- re di verifica sostituisce come criterio l’alternativa tra credere o non crede- re, mentre viene gradualmente meno la consapevolezza della complessi- tà dell’atto linguistico della testimo- nianza (è quello che Pisanty definisce come passaggio dalla funzione rap- presentativa del linguaggio alla sua dimensione performativa, p. 73); iii) l’imporsi del valore dell’immediatez- za del dato, in cui parola e cosa si so- vrappongono senza fratture e il di-

scorso storico diventa segno non più convenzionale ma naturale.

Il passaggio dalla memoria alla testi- monianza segna anche una transizio- ne dal piano individuale del ricordo a quello collettivo della narrazione sto- rica, oggetto del terzo capitolo (Me- morie collettive). Se la memoria è sem- pre memoria di qualcuno, osserva Pisanty, la storia è invece pubblica e corre sempre il rischio di fagocitare la prima in una narrazione dominante, nel mainstream di un paradigma so- stenuto dal consenso di una comu- nità che vuole riconoscersi in esso, e che per farlo distorce o sacrifica le narrazioni idiosincratiche refrattarie all’assimilazione. Per questo il con- cetto di memoria collettivo è un «con- cetto elusivo», fondato com’è sul pre- supposto, tutto da verificare, che sia possibile estendere i meccanismi del- la memoria individuale a livello so- vraindividuale (p. 77). Il pericolo, in questo caso, è che il suo utilizzo por- ti con sé più problemi di quanti ne ri- solva: se quella collettiva è un calco di quella individuale, chi è il sogget- to di questa memoria? E in nome di quali princípi un gruppo o una co- munità possono attribuirsi lo statuto di soggetto di una simile realtà collet- tiva? Quale significato possiamo at- tribuire all’attributo “collettiva”? Per non dire della questione del control- lo politico di tale memoria, a partire dall’esempio dell’esplosione del fe- nomeno negazionista nel 1979 con il caso Faurisson: se la memoria è col- lettiva appare ragionevole che sia col- lettiva anche la scelta di colui che de- ve custodirla, e dunque a chi saranno affidate le procedure di legittimazio- ne? Alla comunità scientifica, a quel- la politica o ad altre forme di rappre- sentatività sociale?

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I capitoli quarto (Nuovo cinema sul- la Shoah), quinto (Lo spettacolo del ma- le) e sesto (Negare e punire), nella se- conda parte del volume, si incaricano di esplorare ambiti particolari, dove le questioni teoriche e metodologiche delineate nella prima parte possono trovare una verifica. L’analisi è con- dotta soprattutto sul piano dell’im- maginario collettivo e nell’ambito della rappresentazione (l’evoluzione della cinematografia sulla Shoah), e poi su quello politico della legislazio- ne sulla memoria della Shoah. Il rife- rimento, in questo caso, è alle leggi antinegazioniste adottate da diversi stati europei e con le quali afferma- zioni e storiografie negazioniste sono state collocate nell’ambito delle fat- tispecie di reato; ma è anche il caso di interventi come quello del gover- no polacco, che ha stabilito di denun- ciare chiunque definisca “polacchi” i campi di sterminio come Auschwitz, collocati dai nazisti nel territorio dell’attuale repubblica di Polonia.

In breve, la narrazione cinematogra- fica mostra, attraverso le sue trasfor- mazioni, la crisi del “modello olocau- sto” centrato sulla dicotomia rigida tra vittime/carnefici, ormai incapace di interpretare i fenomeni della poli- tica attuale e anzi preda di una scal- tra strumentalizzazione da parte dei nemici della Shoah e di revisioni- sti di ogni genere. Quanto all’idea di una tutela legislativa della memoria, un simile intreccio tra pratiche e pa- rametri normativi, da una parte, e i criteri e finalità della indagine storica dall’altra, si risolve alla fine nella cre- azione di dispositivi politici utili, più che a tutelare le minoranze, a costru- ire una maggioranza (di consensi) at- torno a un bene giuridico inteso e im- posto come inalienabile e assoluto.

L’appendice finale (pp. 199-216), che riprende l’omonimo contributo del 2014 (Per una semiotica della testimo- nianza, in «Rivista Italiana di Filoso- fia del Linguaggio», 2014), si incarica di tirare le fila dell’analisi storica, e lo fa attraverso un’analisi semiotica del- la testimonianza che attinge ai princi- pi del falsificazionismo scientifico co- me anche a elementi di teoria della narrazione (in linea con la formazio- ne semiotica dell’autrice e con i pri- mi lavori sulle strutture del racconto popolare e fiabesco). La testimonian- za, dal punto di vista semiologico, è un genere di simbolo particolare. Ri- prendendo la semiotica di Peirce, Pi- santy lo definisce un indice, cioè un segno portatore di un rapporto diret- to e causale, non puramente conven- zionale, tra parola e cosa, come nel ca- so di un’impronta. Ma anche l’ambito nel quale la testimonianza è qui inda- gata, cioè la storiografia, ha caratteri- stiche peculiari rispetto ad altre forme di ricerca: il «carattere interamente ipotetico» (p. 202), il fatto che suo og- getto è la comprensione del fatto par- ticolare e non delle leggi generali e in- fine «la natura verbale di una parte consistente dei suoi materiali di par- tenza» (p. 203). Ma se «l’unico evento di cui la testimonianza è di per sé sin- tomo o traccia è l’attività mentale del soggetto che la emette» (p. 199), allora essa rimanda, come propria condizio- ne e garanzia epistemica, alla presen- za fisica del testimone a alla sua pros- simità dagli stati di cose che descrive.

Occorre quindi passare di livello, dal- la storia del testimone a quella del- la testimonianza, perché è nel modo in cui essa è stata registrata, prodot- ta in forma linguistica e comunica- ta, che risiede la sua maggiore o mi- nora credibilità e la sua legittimità in

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un contesto storiografico. Così, la ri- costruzione fondata su fonti testimo- niali attiva una «costellazione virtua- le di narrative controfattuali» (p. 212) all’interno delle quali deve muover- si lo storico, scegliendo quella storia o controstoria che risulti più coerente, esaustiva e falsificabile, cioè più ve- rificabile: controfattualità e falsifica- zionismo, teoria della narrazione ed epistemologia concorrono a definire i confini semiotici entro i quali si muo- ve l’indagine dell’autrice.

Tuttavia, la ricerca storiografica non si esaurisce nella scelta di ipotesi in- terpretative e modelli ermeneutici.

«La storiografia produce storie che a loro volta interpretano – ingloba- no, sintetizzano, espandono, discu- tono, correggono – altre storie […]

e dunque narrazione di narrazioni»

(p. 203). Il rischio, sembra dire Pisan- ty, è quello di gettare il bambino con l’acqua sporca: utilizzare i parame- tri della ricerca scientifica per fron- teggiare il pericolo delle derive ne- gazioniste comporta la possibilità di perdersi in un circolo autoreferenzia- le dove l’indagine storica si atrofizza in una continua «interpretazione di interpretazioni», e quindi in una de- riva ermeneutica di segno opposto ma ugualmente pericolosa. In questo senso si può comprendere la scelta di Pisanty di indagare il proprio tema problematizzando – grazie alla pro- spettiva offerta dalla semiotica e con- tro ogni tentazione di semplificazio- ne ideologica – il processo attraverso il quale la ricostruzione storiografi- ca lo istituisce come proprio oggetto:

una ricerca che si muova tra storia e storia delle idee non può non porre a proprio fondamento la tematizza- zione del rapporto con la realtà natu- rale, extrasemiotica, e della relazione

tra segni e cose, indici e fatti, narra- zione ed eventi.

Stefano Marino, La verità del non-vero:

tre studi su Adorno, teoria critica ed este- tica, Milano-Udine, Mimesis, 2019, 162 pp.

di Vittorio Rebora

Il volume di Stefano Marino, edi- to da Mimesis nell’ottobre del 2019, raccoglie i frutti di uno studio di di- versi anni sul problema della veri- tà in Theodor Adorno. Consapevole della vastità tematica dell’argomen- to all’interno dell’opera del pensato- re francofortese e della sua rilevanza nel panorama degli studi contempo- ranei (si contano ben 126 pagine di bibliografia a partire dal 2012), il li- bro si presenta come una trattazione rigorosa, precisa, e ben documenta- ta. In virtù del pensiero tipicamen- te frammentario e ‘‘costellativo’’ di Adorno, conferire omogeneità a una parola che comprende in sé molte- plici campi semantici, i quali, a loro volta, sono legati alla stessa poliedri- cità del filosofo, non è sicuramen- te un’impresa semplice. L’operazio- ne compiuta da Marino nei tre saggi che compongono il volume è quella di offrire un’interpretazione di alcu- ni aspetti del pensiero adorniano in cui si esplica l’idea per cui «fenome- ni, momenti o aspetti della realtà non veri (o, più precisamente, non com- pletamente veri […]) possano cio- nondimeno essere dotati di un con- tenuto di verità; […]» (p. 10). In tal senso, in Adorno si assiste, da un la- to allo scardinamento della dialettica hegeliana, fondata sull’analogia tra la realtà logico-concettuale e quella so-

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