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Capitolo III

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Academic year: 2021

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Capitolo III

Effetti di intensificazione del vento legati

alla morfologia del territorio

3.1 – Introduzione al problema

Le caratteristiche di ventosità di un sito variano a seconda della posizione geografica che si prende in esame. Se per esempio facciamo un confronto tra due zone del mondo conosciute dalla quasi totalità delle persone come la Danimarca e l’India, vediamo che nella prima zona i venti sono di intensità costante ed hanno un’elevata frequenza nel corso dell’anno; l’altra nazione invece è diventata famosa per i fenomeni atmosferici, conosciuti come monsoni, che, a causa della forte intensità con cui spirano i venti mettono in serio pericolo la popolazione. Queste zone prese in esame si possono classificare come macroaree in quanto il territorio è molto vasto.

Alle nostre latitudini, a parte alcuni giorni l’anno caratterizzati dalla provenienza di venti che soffiano da nord (bora) o correnti calde da sud o da sud – ovest (scirocco e libeccio), l’Italia può essere collocata all’interno di una macroarea in cui i venti sono presenti per buona parte dell’anno con un’intensità non troppo elevata.

Oltre agli spostamenti di masse d’aria notevoli sulla superficie del pianeta, che creano l’individuazione di queste macroaree, esistono anche fenomeni di

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intensificazione del vento locali. Questi fenomeni sono dovuti alla combinazione tra le caratteristiche atmosferiche e la morfologia stessa del territorio. Per comprendere come si può calcolare il vento in quota, come influisce l’orografia del terreno e cosa significa effetto speed up su una collina, eseguiamo in primo luogo una panoramica generale sulle caratteristiche dell’atmosfera a partire dalle caratteristiche di moto delle particelle fino a giungere a capire come può essere suddiviso lo strato atmosferico che circonda la Terra e cosa rappresenta lo strato limite superficiale.

3.2 – L’atmosfera turbolenta.

Fin dai primi decenni del Novecento molti scienziati e ricercatori hanno concentrato i loro studi e la loro attenzione sui moti delle masse d’aria presenti nell’atmosfera. La motivazione che ha spinto queste persone a focalizzare l’attenzione su questo argomento è stato il fatto che il moto delle masse d’aria può:

 imprimere forze a volte di notevole importanza sulle strutture (edifici, strade, ponti) in cui l’uomo passa gran parte della sua vita,

 essere sfruttato per il moto di alcuni mezzi di trasporto (aeroplani) la cui industria stava sviluppandosi in quel periodo,

 creare variazioni spaziali e temporali dell’indice di rifrazione portando allo scattering delle radiazioni elettromagnetiche e acustiche (diffusione della radio e in seguito della televisione),

 creare flussi e rimescolamenti di quantità importanti di masse d’aria in modo da trasportare alcune particelle lontano dal punto iniziale di campionamento o osservazione (studi su trasporto inquinanti, problema molto sentito oggigiorno),

 dare la possibilità di ipotizzare le condizioni meteorologiche nei giorni successivi (meteorologia).

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Il primo passo allo studio dell’atmosfera è stato quello di stabilire che i moti di queste masse d’aria che avvengono nell’atmosfera sono di tipo turbolento.

Come ben sappiamo nella turbolenza possiamo individuare grandezze che si riferiscono alla grande scala del moto (vortici grandi che ricevono energia dal moto medio del fluido alle scale di lunghezza macroscopiche) ed altre che fanno riferimento a scale del moto sempre più piccole (piccoli vortici responsabili della dissipazione dell’energia). Nella turbolenza classica questo passaggio di energia dalle grandi alle piccole scale della turbolenza è spiegato con la “teoria dell’equilibrio universale” del moto turbolento di Kolmogorov (1941). Egli individua le due grandezze coinvolte nei fenomeni di turbolenza che governano il moto alle piccole scale: la dissipazione di energia cinetica turbolenta per unità di tempo

[

m2 s3

]

dt dk = ε e la viscosità cinematica

[

m2 s

]

ν

. Combinando dimensionalmente le due quantità è possibile determinare le corrispondenti scale di lunghezza η, tempo

τ

e velocità

υ

dette scale di Kolmogorov.

Immediatamente venne messo in risalto il fatto che la turbolenza atmosferica differisce da quella “classica” per il moto dei fluidi studiato in laboratorio. I due motivi principali responsabili di questa difformità risiedono nel fatto che nello strato atmosferico è presente un calore convettivo che coesiste con la turbolenza stessa e il moto rotazionale della Terra attorno al proprio asse influisce sulla direzione delle masse d’aria.

In analogia con la turbolenza classica le variabili che devono essere prese in esame per studiare lo stato dell’atmosfera sono sette:

• p pressione • ρ densità • T temperatura • q umidità specifica

• w vettore velocità dell’aria scomponibile secondo le tre componenti.

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Per studi riguardanti la dispersione degli inquinanti in atmosfera a queste variabili se ne aggiungono altre che riguardano in particolar modo la composizione chimica di questi ultimi.

Se rimandiamo ad altri studi la presenza degli inquinanti nell’atmosfera, le sette variabili elencate in precedenza possono essere inserite all’interno di altrettante equazioni. Troviamo in questo modo le sette equazioni caratterizzanti i moti delle masse d’aria negli strati atmosferici: l’equazione di stato dei gas perfetti, quella di continuità, un’equazione di continuità per l’umidità relativa, la prima legge della termodinamica e le tre equazioni del moto di Navier Stokes (secondo le tre direzioni principali (x,y,z)).

Le equazioni di Navier – Stokes per la turbolenza classica sono formulate per la loro applicazione alle piccole scale del moto, solitamente dell’ordine di 1 mm. Nel caso atmosferico queste equazioni vengono applicate su larga scala in modo da trovare soluzioni per le variabili di riferimento che diano indicazioni riguardo a valori medi orari o su distanze orizzontali dello spazio di poche centinaia di chilometri. Le equazioni base sono mediate nello spazio e nel tempo in maniera tale da avere equazioni con variabili che possono essere riferite anche alle grandi scale. Quindi ciascuna variabile è suddivisa in una componente per la larga scale ed una per la piccola scala. A causa della non linearità delle equazioni del trasporto in alcuni termini delle equazioni, alcuni termini appartenenti alle piccole scale compaiono anche nelle equazioni riferite alle grandi scale. Possono sorgere comunque dei problemi nel caso in cui si voglia separare i problemi riferiti alle grandi scale da quelli appartenenti alle piccole scale. Per ovviare a questo problema è stata fatta un’ipotesi molto importante che permette di semplificare le equazioni su larga scala del moto atmosferico: il moto alle grandi scale non è correlato in alcuna maniera con quello alle piccole scale.

Con questa ipotesi le sette equazioni del moto riferite ai problemi di tipo meteorologico sono le seguenti [6]:

l’equazione di stato dei gas perfetti p=ρRT

(

1+0.61q

)

Eq. (3. 1)

l’equazione di continuità =0 ∂ ∂ + ∂ ∂ + ∂ ∂ z w y v x u Eq. (3. 2)

(5)

un’equazione di continuità per l’umidità relativa Sq z q w dt dq + ∂ ′ ′ ∂ − = Eq. (3. 3)

la prima legge della termodinamica d SR SL z T w w dt T d + + ∂ ′ ′ ∂ − − = γ Eq. (3. 4)

le equazioni del moto di Navier Stokes

asse x z w u x p v f dt u d ∂ ′ ′ ∂ − ∂ ∂ − =

ρ

1 Eq. (3. 5) asse y z w v y p u f dt v d ∂ ′ ′ ∂ − ∂ ∂ − =

ρ

1 Eq. (3. 6) asse z z p g dt w d ∂ ∂ − − = ρ 1 Eq. (3. 7)

Come si può notare dalle equazioni scritte sopra l’equazione del moto di Navier – Stokes è stata separata nelle tre componenti della velocità, secondo i tre assi di riferimento di un sistema cartesiano. Ciò è stato fatto perché per ciascuna direzione del moto vengono fatte delle approssimazioni diverse. Infatti le componenti delle forze applicate lungo l’asse z presentano solitamente una intensità maggiore rispetto alle componenti nelle altre direzioni. In queste equazioni si nota che vi è la presenza di un termine indicato con la lettera f . Questo è il parametro che indica la forza di Coriolis esprimibile come: 2Ωsinφ, dove Ω rappresenta la velocità angolare della Terra e φ la latitudine. Il termine indicato come γd è il gradiente termico adiabatico riferito ad un’atmosfera secca ed il suo valore è circa 9.8°C km; R rappresenta la costante dei gas perfetti; gli effetti sulla variazione della temperatura sono indicati con SR, SL e S . Il q primo descrive l’effetto della radiazione elettromagnetica incidente, il secondo indica l’effetto del calore latente, mentre il terzo descrive l’effetto dovuto all’evaporazione ed alla condensazione delle particelle d’acqua presenti nell’atmosfera.

Nel caso in cui il gradiente di velocità lungo la verticale risulti essere molto maggiore rispetto all’orizzontale, queste equazioni possono essere considerate un buon modello di descrizione del fenomeno turbolento atmosferico.

(6)

L’equazione termodinamica e quelle del moto, espresse in termini di variabili mediate nel tempo, riferite alle grandi scale o al flusso medio, contengono alcuni termini che esprimono la variazione media delle componenti fluttuanti sia per velocità che per temperatura:

k k i x u u ∂ ′ ′ ∂ k i x T u ∂ ′ ′ ∂

Per eliminare questi termini dalle equazioni un modo sarebbe quello di derivare rispetto al tempo la media dei due termini turbolenti, ma si arriverebbe ad avere termini di ordine maggiore con la conseguenza di una complicazione aggiuntiva al problema, anziché una semplificazione. Questo problema, conosciuto anche con il nome di problema di chiusura delle equazioni, è risolto mediante l’utilizzo di alcuni modelli algebrici di chiusura. Questi possono essere distinti in tre tipologie:

• Modelli algebrici (o a zero equazioni) • Modelli ad una equazione

• Modelli a due equazioni

La complessità di questi modelli varia a seconda del numero di equazioni differenziali aggiuntive che devono essere inserite rispetto a quelle mediate già presenti in quanto devono essere risolte.

3.2.1 – Modello di chiusura ad una equazione: il coefficiente di mescolamento.

Se analizziamo un classico problema termodinamico turbolento vediamo che nell’equazione mediata del bilancio di energia espressa in termini di temperatura il vettore che rappresenta il contributo turbolento allo scambio termico può essere sostituito con un’espressione che al posto della media del prodotto tra le componenti turbolente della velocità e della temperatura, pone il gradiente di temperatura per un coefficiente K chiamato diffusività termica turbolenta:

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{ }

i p i p x T K c T u c ∂ ∂ − = ′ ′ ρ ρ Eq. (3. 8)

Dove ρ rappresenta la densità, c il calore specifico a pressione costante. K p che rappresenta il coefficiente di diffusività termica turbolento è espressa come il prodotto di una velocità per una lunghezza, quindi

[

m2 s

]

.

In analogia con quanto appena scritto, il secondo termine a destra presente nella prima legge della termodinamica può essere modificato inserendo un coefficiente legato alla diffusività turbolenta. Esso descrive la diffusività termica turbolenta nelle equazioni meteorologiche. Il termine è quindi modificato nella seguente maniera:

(

)

z T K z z T w ∂ ∂ ∂ ∂ = ∂ ′ ′ ∂ − Eq. (3. 9)

Grazie a questa modifica la prima equazione della termodinamica è stata utilizzata per relazionare tutti i flussi causati dal moto alle piccole scale alle variabili rappresentanti le grandi scale.

Ovviamente tutte le variabili delle equazioni atmosferiche sono tridimensionali. Di conseguenza alcuni coefficienti di scambio diventano tensori. Se per esempio prendiamo in esame un generico flusso A nella j-esima direzione, si può definire come:

i ij j x a K F ∂ ∂ − = ρ

In cui a rappresenta la concentrazione per unità di massa ed x è la coordinata. i Nello strato limite planetario di solito si ipotizza che esista una direzione predominate per i flussi e per le variazioni legate al gradiente: quella verticale. In questo modo, solo in questo strato, le componenti legati alle altre direzioni vengono trascurate:

z a K Fz ∂ ∂ − = ρ Eq. (3. 10)

(8)

K rappresenta quindi il coefficiente di scambio turbolento lungo la verticale. La sua intensità dipende dalle fluttuazioni della componente verticale della velocità. Si possono distinguere tre diversi coefficienti di scambio turbolento: quello per il calore

h

K , quello per il momento K e quello legato al trasporto del vapore acqueo m K . Tutti q e tre i coefficienti hanno solitamente lo stesso ordine di grandezza, ma non ugual valore.

In meteorologia, questo modello con un’equazione di chiusura è il più utilizzato e diffuso per tutti gli studi che riguardano lo strato superficiale più vicini alla superficie terrestre. Viene anche chiamato teoria K per indicare proprio che si basa sull’inserimento della variabile K che denota la turbolenza. Nel caso del trasporto del calore i primi due termini a secondo membro dell’equazione della prima legge della termodinamica vengono perciò modificati nella seguente maniera:

z K c z T K c H T w cp p d p ∂ ∂ ⋅ − =       + ∂ ∂ ⋅ − = = ′ ′ ⋅ ⋅

ρ

γ

ρ

θ

ρ

Eq. (3. 11)

Come si nota è stato inserito un termine aggiuntivo γd rappresentante il gradiente termico adiabatico riferito ad un’atmosfera secca. L’inserimento è dovuto al fatto che durante il mescolamento che avviene lungo la direzione verticale, la temperatura delle particelle non rimane costante, ma aumenta o diminuisce isoentropicamente a seconda che la particella si trovi a far parte della corrente calda (sale verso l’alto) o della corrente fredda (scende). In questo modo il flusso di calore è nullo nel momento in cui il gradiente di temperatura è esattamente uguale al gradiente termico isoentropica. Questo accade quando

θ

è costante con l’altezza.

Vicino alla superficie, l’intensità del vento aumenta salendo con la quota. Le forze derivanti dal moto turbolento sono trasferite agli strati sottostanti generando sulla superficie delle tesioni di taglio. Si possono definire i momenti lungo x e lungo y mediante le seguenti formulazioni:

w u

x =−

ρ

′ ′

τ

τy =−ρv′w′

Questi flussi di forze sono diretti verso la crosta terrestre ed hanno dimensioni di una forza su un’area. Si può assimilare ad una forza di taglio e perciò i flussi diretti

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verso il basso che presentano termini legati alle componenti orizzontali delle velocità sono detti forze di taglio di Reynolds e la loro formulazione matematica è la seguente:

z u Km x ∂ =ρ τ z v Km y ∂ =ρ τ

Esaminate le principali equazioni del moto, si passa adesso alla spiegazione della suddivisione degli strati atmosferici.

3.3 – Il profilo verticale dell’atmosfera

Salendo in verticale dal suolo, l’atmosfera presenta caratteristiche differenti di temperatura, densità, pressione e composizione. Alcuni di questi parametri presentano una variazione costante con la quota, altri, come la temperatura e la composizione chimica presentano una variazione irregolare. In base proprio alla variazione di questi elementi si possono distinguere quattro strati o sfere (corone sferiche), divisi fra loro da fasce di passaggio chiamate pause.

La parte dell’atmosfera in cui avvengono i fenomeni ventosi è la zona più vicina alla crosta terrestre. Questa fascia è chiamata troposfera e si estende per un’altezza variabile da 5−6 km sopra i poli, fino a circa 18 km sopra l’equatore. È la regione più densa dell’atmosfera in cui sono concentrati circa i tre quarti dell’intera massa gassosa (si stima l’80% del totale) e quasi tutto il vapore acqueo (circa il 99%). Questo strato finisce con una zona che presenta condizioni di temperatura costanti. È la tropopausa che ha la temperatura media di circa − 55°C(− 46°Cse siamo sopra i poli e

C °

− 80 sopra l’equatore).

Dopo la transizione della tropopausa, si passa nella stratosfera, la quale è caratterizzata da una temperatura che aumenta con la quota fino a giungere a 0° C. si parla infatti per questo strato di strato di inversione termica per differenziarlo dal precedente il quale presenta una diminuzione di temperatura con la quota. Poiché la forza di gravità ha un’influenza sempre più ridotta all’aumentare della quota, i gas in

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questo strato sono sempre più rarefatti, al punto che la densità ha valori di circa 1/100 rispetto a quelli che si trovano nell’aria a contatto con la superficie terrestre. Questo strato si estende per un’altezza media di 50 km. A partire dalla seconda metà, e per un’estensione di circa 5 km, è presente una fascia chiamata ozonosfera: si ha un notevole aumento della concentrazione di ozono, originato per effetto della radiazione solare sull’ossigeno molecolare. Sebbene la concentrazione non sia elevata, tuttavia questo strato ha la funzione di schermare i raggi ultravioletti della radiazione solare. Alla fine di questo strato troviamo la stratopausa, caratterizzata dal fatto di avere una temperatura costante intorno a +3° Cche lega la stratosfera alla mesosfera.

La mesosfera si estende per ulteriori 90 km di altezza. Poiché l’atmosfera non subisce più l’influsso della gravità terrestre, è costante in tutte le latitudini, non si trovano più venti né correnti ascensionali: l’aria è in uno stato di quiete. Sotto queste condizioni i gas si stratificano per diffusione, e la composizione chimica media dell’aria comincia a variare con la quota. I gas più diffusi in questo strato sono quelli più leggeri come l’elio e l’idrogeno. Poiché l’effetto riscaldante dell’ozono non è avvertito, la temperatura, all’allontanarsi dalla stratosfera, diminuisce nuovamente con la quota, passando dai +3° Call’inizio dello strato ai −93° Calla fine.

Passata la mesopausa caratterizzata da una temperatura costante di −93° C, si ha nuovamente un aumento della temperatura che può raggiungere valori di circa

C

1700° . Lo strato è conosciuto con il nome di termosfera e la sua estensione copre uno strato che va da 85 km fino a 600 km dal suolo, dove si trova la termopausa. La densità è scarsissima e gli atomi presenti sono ionizzati a causa dell’impatto delle radiazioni solari X, ultraviolette e dei raggi cosmici. Questo strato, assieme alla parte finale della mesosfera, nel quale si manifesta questa ionizzazione è anche conosciuto come ionosfera. Al di sopra delle regioni polari, osservando di notte la ionosfera si può vedere l’effetto che le radiazioni producono impattando contro gli ioni: raggi luminosi riflessi conosciuti con il nome di aurore boreali.

L’esosfera è la parte più esterna dell’atmosfera terrestre. In essa la composizione chimica cambia radicalmente: oltre ai gas più leggeri come elio ed idrogeno, lo strato è composto principalmente da particelle costituenti il vento solare catturate dalla magnetosfera terrestre. Il suo studio avviene tramite metodi di osservazione indiretti. Si stima che la temperatura in questa zona aumenti fino a

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raggiungere i 2000° . L’esosfera viene anche chiamata magnetosfera per indicare che C da questo strato le particelle nello spazio circostante cominciano a risentire del campo magnetico terrestre. La sua forma non è sferoidale, ma è deformata a causa della presenza del vento solare: dalla parte rivolta verso il sole la magnetosfera si stima che abbia uno spessore di circa 60000 km, mentre dalla parte opposta lo spessore, non risentendo dell’effetto schiacciamento dovuto al vento solare, ha uno spessore più ampio (stimato intorno ai 4 milioni di chilometri).

Figura 3. 1 – Struttura verticale dell’atmosfera terrestre

3.3.1 – La troposfera

Essendo a contatto con la crosta terrestre, la porzione di atmosfera che risente maggiormente dell’attrazione gravitazionale e nella quale si sviluppano anche i principali fenomeni meteorologici, è la troposfera; per questo motivo essa risulta essere lo strato maggiormente analizzato e studiato sotto molteplici punti di vista.

(12)

In particolar modo la particelle che costituiscono questo strato sono sottoposte a cicli di riscaldamento – raffreddamento in base alla zona in cui si trovano. Lo spostamento di queste particelle non è circoscritto ad un numero limitato di queste, ma ad un numero molto elevato. Si parla perciò di masse d’aria che si spostano da zone di alta pressione verso zone di bassa pressione. Il movimento di queste masse d’aria che può interessare regioni più o meno vaste del globo terrestre è più semplicemente conosciuto sotto il nome di vento.

Il vento è caratterizzato dall’avere diverse intensità e diverse direzioni. Fin dall’antichità è stato sfruttato ampiamente per il movimento di mezzi di trasporto come le barche a vela e, più recentemente, per il moto di aeroplani e di macchine eoliche.

Proprio a causa dello sviluppo recente di filoni riguardanti lo studio del moto di mezzi di trasporto aerei, lo studio della dispersione degli inquinanti atmosferici prodotti da processi industriali e lo studio della frequenza dei venti in un sito per una possibile installazione di macchine eoliche per catturare l’energia posseduta dal vento stesso per convertirla in energia elettrica, la parte di atmosfera più vicina alla crosta terrestre è stata oggetto di indagine in molti settori sotto vari aspetti.

Molti di questi studi sono giunti alla conclusione che la troposfera può essere a sua stessa volta suddivisa in ulteriori strati che variano per altezza a seconda delle ore giornaliere e delle condizioni di temperatura e pressione che vi sono al suo interno.

3.3.2 – Lo strato limite planetario

In linea di massima possiamo individuare due zone principali che costituiscono la troposfera: lo strato limite planetario (planetary boundary layer o PBL) e l’atmosfera libera (free atmosphere).

Lo strato limite planetario è la zona più analizzata in particolar modo per studi legati alle dispersioni in atmosfera degli inquinanti ed a quelli legati alla produzione di energia eolica.

Questa zona è quella a stretto contatto con la superficie terrestre e si estende per un’altezza che può variare da 1 a 2 km. Se idealmente si tracciasse una linea di separazione tra la parte di atmosfera a stretto contatto con la superficie terrestre e la

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zona soprastante, questa linea verrebbe chiamata confine dello strato limite atmosferico o entrainment layer.

L’atmosfera libera è la parte di troposfera compresa tra questa linea immaginaria e la tropopausa. In questa zona, in assenza di aree di bassa od alta pressione, la velocità del vento e la sua direzione dipendono soltanto dal gradiente di pressione orizzontale e dalla forza di Coriolis (solitamente indicata con la lettera f ).

Si considera che il confine dello strato limite planetario avvenga ad una quota variabile a seconda del caso, ma comunque si manifesti nel momento in cui la pressione atmosferica risulti essere pari a 850 mbar. A partire dalla quota corrispondente, si può ragionevolmente ipotizzare che i fenomeni atmosferici che vi avvengono non risentano della presenza del suolo. In questa zona di atmosfera libera le masse d’aria che si spostano sono sottoposte alla legge geostrofica, la quale deriva da un bilancio tra la forza dovuta al gradiente di pressione e la forza di Coriolis. Questo bilancio può essere derivato considerando una condizione atmosferica ideale nella quale vale l’ipotesi di stazionarietà, omogeneità e barotropia (il gradiente di pressione deve essere costante dal limite inferiore dello strato di atmosfera libera, fino alla superficie terrestre).

Il risultato di questo bilancio si presenta proprio sotto la nota definizione di vento geostrofico: 2 2 0 * * ln A B z f u k u G +      −       ⋅ ⋅ = Eq. (3. 12)

In questa formula A e B sono due costanti e, se ci troviamo in condizioni neutre, valgono 1.8 e 4.5 rispettivamente; k è la costante di Von Karman e vale 0.4;

*

u è la velocità di attrito sulla superficie. L’attrito porta due rilevanti effetti sul vento geostrofico: il primo consiste in un progressivo rallentamento del vento fino al suo annullamento sulla superficie terrestre, il secondo è una deviazione della sua direzione. Mediamente la deviazione della direzione che il vento geostrofico subisce prima di arrivare sulla superficie terrestre è di circa 20°. In ogni caso la formula che permette il calcolo preciso di questa deviazione è

(14)

G k u B ⋅ ⋅ − = * sinα Eq. (3. 13)

In cui

α

rappresenta appunto l’angolo che la direzione del vento di gradiente in quota forma con la direzione del vento a terra.

Figura 3. 2 – Deviazione della direzione subita dal vento di gradiente rispetto alla direzione del vento sulla superficie terrestre.

La legge del vento geostrofico può essere estesa anche per condizioni di atmosfera non stabile. In queste condizioni le due costanti A e B diventano funzioni di un altro parametro: la stabilità atmosferica definito come:

L f u k ⋅ ⋅ = * µ Eq. (3. 14)

dove L è una grandezza caratteristica della turbolenza detta di Monin – Obukhov e sarà analizzata più nello specifico successivamente.

(15)

Nel corso di un giorno solare questo strato atmosferico presenta un’altezza variabile. Lo scambio di calore tra l’atmosfera ed il terreno comincia a manifestarsi circa mezz’ora dopo il sorgere del sole provocando una crescita in altezza dello strato. Questa crescita è dovuta al fatto che i raggi solari iniziano a scaldare la superficie terrestre e l’aria a stretto contatto con essa. Si formano quindi dei flussi di calore sensibile che riscaldano l’aria circostante e di calore latente, sottoforma di vapore, derivante dall’evaporazione dell’acqua contenuta nel suolo o sulla superficie. Si sviluppa in questo modo uno strato convettivo turbolento in prossimità del suolo dovuto al moto ascensionale di aria calda soggetta ad una forza ascensionale positiva. Salendo, queste micro colonne iniziali di aria calda si uniscono aumentando di dimensioni e raggiungendo velocità verticali di 2−5m s. Questo è il motivo per cui lo strato limite planetario è anche chiamato strato limite convettivo. La forza di galleggiamento (o buoyancy) è il meccanismo dominante per la turbolenza del PBL, la quale non è completamente casuale, ma è organizzata in strutture coerenti (correnti ascensionali e celle convettive). Sopra il PBL troviamo l’entrainment layer. Questa fascia di atmosfera di transizione con l’atmosfera libera è caratterizzata del fatto che, per le sue caratteristiche, non risente delle condizioni sottostanti. Per questo motivo le colonne d’aria calda ascendenti (updrafts) nel CBL quando arrivano alla sommità, si scontrano con questo strato compatto e subiscono una deviazione laterale, prendendo il posto delle masse d’aria più fredda le quali vengono spinte ed inflesse verso il basso. Si vengono in questo modo a creare delle celle convettive dominate dalla turbolenza.

(16)

Si può evidenziare che per il moto turbolento, studiato per il caso della lastra piana, si individuano delle grandezze di scala turbolente dette di Kolmogorov: lunghezza η, tempo

τ

e velocità

ν

. In assonanza, si può individuare un tempo convettivo di scala anche per queste celle convettive di aria che si spostano dalla crosta terrestre fino al limite del CBL e quantificarlo nell’ordine di 10 – 20 minuti [7].

L’altezza del PBL varia enormemente nel corso della stessa giornata: 1−2 kmè la massima altezza che lo strato può raggiungere nel tardo pomeriggio di giornate soleggiate, mentre nelle notti con vento debole, lo spessore può non arrivare ai 100 m. La presenza delle nubi nello strato limite planetario può avere una notevole influenza sullo spessore dello strato limite. Infatti la presenza delle nubi causa una riduzione dell’insolazione del terreno, riducendo in questo modo l’altezza dello strato.

Figura 3. 4 – Possibili sottodivisioni del PBL nel corso delle ore giornaliere.

3.3.2.1 - L’altezza di rimescolamento (spessore dello strato limite atmosferico)

In questa visione generale si evidenzia che il meccanismo predominante del PBL è il moto convettivo turbolento delle masse d’aria. Abbiamo già sottolineato che la sua altezza è altamente variabile. In ogni caso si può stimare, con una prima approssimazione, questa quantità. Possiamo indicare con la lettera δ l’altezza dello

(17)

strato limite turbolento convettivo. Con la lettera z si indica invece l’altezza dello i strato di inversione (altezza dal suolo alla quale troviamo la prima inversione di temperatura in atmosfera).

Per una situazione in cui le condizioni atmosferiche sono stabili, le due grandezze δ e z coincidono. Se esaminiamo questo caso, l’altezza i z individua un i preciso punto dello spazio. Infatti, possiamo individuare sopra uno stato influenzato dalla radiazione infrarossa, l’andamento della temperatura fino al confine dello strato limite atmosferico. Fino a che non si raggiungono le condizioni di pressione 850 mbar presenti nella zona dove spira il vento geostrofico, la temperatura diminuisce salendo con la quota. Il punto dello spazio individuato dall’altezzaz è quel punto caratterizzato i dall’avere il più basso valore di temperatura. Infatti, al di sopra del confine dello strato limite, la temperatura tende ad aumentare (nella fascia chiamata entrainment layer) creando un’inversione. Questo sottile strato durante le ore diurne tende ad alzarsi a causa dell’ingresso (entrainment) di aria dall’atmosfera libera nel PBL. Il punto dello spazio analizzato rappresenta perciò il punto di inversione atmosferica; successivamente si avrà un’altra inversione tra l’entrainment layer e lo strato di atmosfera libera, strato nel quale la temperatura subirà una nuova inversione (la temperatura nell’atmosfera libera diminuisce ulteriormente fino ad arrivare alla tropopausa).

In realtà l’altezza dello strato limite turbolento δ è maggiore di un 10% rispetto all’altezza della zona di inversione, perché le parti più estreme dello strato sono sempre turbolente: in basso a causa del contatto con la superficie terrestre ed in alto a causa dei moti turbolenti che si trascinano all’interno della zona di inversione stessa.

Durante le ore notturne si può avere un fenomeno di inversione anche al suolo: la radiazione infrarossa emessa dal terreno scalda i primi strati di atmosfera in maniera molto più veloce rispetto alla dispersione che avviene negli strati di atmosfera soprastanti. Se il vento è elevato la turbolenza meccanica tende a dissipare il calore emesso dal suolo e non c’è presenza di questa prima regione di inversione; lo strato risulta essere altamente rimescolato. Nel caso in cui il vento presenta una debole intensità, l’altezza dello strato limite turbolento δ si riduce alla parte più bassa dello strato limite atmosferico, cioè quella a contatto con il terreno. La parte superiore

(18)

raffredda mediante la divergenza del flusso radiativo senza la presenza della turbolenza. In quest’ultimo caso si ha che l’altezza dello strato limite turbolento atmosferico δ è molto piccola rispetto a z . i

3.3.2.2 – L’altezza del PBL in condizioni neutre.

Le condizioni di neutralità atmosferica si verificano in presenza di nubi dense che coprono interamente la parte più elevata del PBL sia durante le ore notturne che diurne o in condizioni di vento forte. In presenza di queste condizioni si considera che tutta l’altezza dello strato limite planetario sia dominata da fenomeni turbolenti e che il livello di turbolenza sia omogeneo in ogni parte dello strato.

Sebbene queste condizioni meteorologiche siano effettivamente rare, si può ipotizzare che l’altezza δ dello strato turbolento sia proporzionale alla velocità di attrito superficiale.

Questa velocità di attrito superficiale si trova espressa come nel seguente modo:

ρ

τ

*

u Eq. (3. 15 )

Nella quale si indica con

τ

la tensione di taglio superficiale e con ρ la densità dell’aria. δ però risulta anche essere inversamente proporzionale alla forza di Coriolis definito come: φ sin 2⋅Ω⋅ = f Eq. (3. 16)

in cui Ω rappresenta la velocità di rotazione della Terra (=7.29 10-5 s-1) e φ rappresenta la latitudine, in quanto la rotazione terrestre influenza la componente verticale della velocità del vento e di conseguenza produce effetti anche sull’intensità della turbolenza.

La legge di proporzionalità è stimata essere lineare e la costante di proporzionalità presa in un valore variabile da 0.15 a 0.25. solitamente vale 0.20. In questo modo

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f u* 20 . 0 ⋅ ≅ δ Eq. (3. 17)

In presenza di condizioni di atmosfera neutrali la velocità di attrito può anche essere definita mediante la seguente formula:

(

0

)

* ln z z v k u = a⋅ Eq. (3. 18)

Dove v rappresenta il valore della velocità del vento all’altezza di rilevazione z, z0è un indice di rugosità del terreno e ka rappresenta la costante di Von Karman.

3.3.3 – Lo strato superficiale

La parte più bassa dello strato limite planetario è chiamata strato limite superficiale. In questo strato si può pensare che le caratteristiche medie delle variabili (velocità, calore, attriti) e della turbolenza stessa varino in modo semplice. Questa variazione solitamente presenta un legame con le caratteristiche del terreno.

Non esiste una definizione precisa di strato limite superficiale, ma con tale denominazione si intende quella parte di planetary boundary layer a stretto contatto con la superficie terrestre, caratterizzato dal fatto solo in questa zona le variazioni verticali dei flussi di quantità di moto, calore e umidità possono essere trascurate, quindi queste grandezze sono trattate come costanti all’interno di questo strato.

Come detto in precedenza, lo spessore dello strato limite planetario varia a seconda dell’ora e delle condizioni di nuvolosità. Viene spesso ipotizzato che tutte le grandezze prese in esame al suo interno varino linearmente con l’altezza, aumentando o diminuendo il loro valore fino al confine più alto: l’entrainment layer. In questa maniera si afferma che, se la temperatura cala progressivamente di valore fino alla zona dove avviene la prima inversione, si può ipotizzare che tale diminuzione presenti un andamento lineare: se il PBL avesse un’altezza di 1000 m, ogni 100 m si avrebbe una diminuzione delle grandezze del 10%.

Si può allora ipotizzare che le varie grandezze subiscano una variazione non superiore al 10% nel 10% di spessore inferiore del PBL. Una variazione massima del

(20)

10% è compatibile con l’ipotesi di grandezze costanti: pertanto Panofsky propone di assumere per il surface layer uno spessore pari al 10% del PBL.

Questa regione dello spazio è talvolta chiamata anche strato dello sforzo costante: infatti è ragionevole pensare che in questo primo strato, come in generale nello strato limite, la tensione di taglio possa essere considerata approssimativamente come costante1.

Nella realtà accade che la profondità del PBL varia enormemente al variare dell’ora giornaliera presa a riferimento; di conseguenza anche lo spessore dello strato limite superficiale varia al variare dell’ora giornaliera in relazione al valore dell’altezza del PBL.

Nelle giornate caratterizzate dalla presenza di vento forte, solo nei primi 100 m di altezza dell’atmosfera dalla superficie terrestre si può pensare vi sia una costanza delle grandezze esaminate; mentre, nelle notti, con cielo limpido e vento molto debole, la costanza di alcune grandezze esiste solo, al massimo, nei primi 10 m di atmosfera.

La semplificazione maggiore che viene fatta, solo per questo strato, deriva dalla considerazione che la tensione di taglio e quindi la velocità di attrito non cambia al variare dell’altezza, conseguentemente si ipotizza che anche la direzione del vento non subisca variazioni all’aumentare dell’altezza. Si può perciò affermare che l’influenza della rotazione terrestre, la quale provoca una deflessione delle correnti d’aria in movimento in questo strato è trascurabile e la direzione del vento è costante. Allo stesso modo di come facciamo per il problema turbolento in una lastra piana, si ipotizza che le velocità siano solo funzioni dipendenti dall’altezza: v

( )

z ; in questo modo il problema delle variabili medie sopra un terreno omogeneo può essere ricondotto ad un problema monodimensionale in cui tutte le grandezze sono solo funzioni dell’altezza z .

Nello strato superficiale agiscono forze sia di natura meccanica che termica. Queste forze influenzano le componenti turbolente ed i valori medi delle variabili dello strato. Nel 1954 due ricercatori Monin e Obukhov svilupparono la loro Teoria della

1

Nello strato limite vale l’equazione τ

ρ y y v v x v v x y x x ∂ = ∂ ∂ + ∂ ∂ 1

per cui, vicino alla superficie dove i

termini convettivi (a sinistra) sono bassi, si può affermare che ≅0

∂ ∂

τ

(21)

Similarità. Questa consisteva nel sovrapporre gli effetti di questi due tipi di forze introducendo dei numeri caratteristici (adimensionali come il numero di Reynolds), per cui, grazie alla loro conservazione, è assicurata la consistenza dei risultati ottenuti sul modello e la possibilità di dedurre da questo delle leggi valide in natura. Infatti a partire da alcuni parametri fondamentali è possibile ricavare delle leggi fisiche per gli andamenti delle quantità medie e turbolente.

Monin e Obukhov introdussero quindi due grandezze caratteristiche del surface layer: la velocità di attrito u* e la lunghezza caratteristica L .

La lunghezza di scala L è calcolata a partire dall’espressione analitica adimensionale della velocità di attrito

z u u z k S a ∂ ∂ ⋅ ⋅ = * Eq. (3. 19)

la quale presenta un valore unitario nel caso in cui il meccanismo prevalente sia la turbolenza di tipo meccanico e si abbia un profilo di velocità logaritmico [6]. Nel caso in cui esistano tutti e due i meccanismi di turbolenza (meccanica e convettiva) la velocità di attrito adimensionale è fatta dipendere dal numero di flusso di Richardson. Questo numero, come quello di Reynolds, è un numero caratteristico della fluidodinamica e è definito come il rapporto di due quantità: quella a numeratore rappresenta il grado di distruzione della turbolenza in condizioni di stratificazione atmosferica stabile; il denominatore indica il grado di creazione della turbolenza a causa degli attriti. Matematicamente può essere indicato con la seguente formula:

      ∂ ∂ ′ ′ −       ∂ ∂ ′ ′ −       ′ ′ − = z v w v z u w u T T w g Rf Eq. (3. 20)

Nella realtà al posto di utilizzare il numero Richardson legato al flusso si utilizza, in quanto è possibile misurarlo, il gradiente del numero di Richardson relazionabile con Rf come segue [6]:

(22)

(

)

      + ⋅       ∂ ∂ +       ∂ ∂ − ⋅ = = B z v z u T g Rf K K Ri d h m 1 0.07 2 2 γ γ Eq. (3. 21)

dove B è la frazione di Bowen, ovvero il rapporto tra il calore sensibile su quello latente sulla superficie e γ e γd rappresentano il gradiente termico ed il gradiente termico adiabatico per un’atmosfera asciutta rispettivamente. La velocità di attrito adimensionale può essere espressa come:

      ⋅ = S Rf S F S

Elaborando tale formulazione matematica con le condizioni al contorno che si possono avere per il surface layer si giunge a poter scrivere un’espressione analitica per

L :

(

B

)

H g k T c u L p 07 . 0 1 3 * + ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ − =

ρ

Eq. (3. 22)

dove c è il calore specifico a pressione costante, p

ρ

indica la densità dell’aria, H è il flusso di calore verticale, g è la forza di gravità, T rappresenta la temperatura superficiale, k indica la costante di Von Karman mentre B rappresenta il numero di Bowen.

Monin e Obukov presero a riferimento nella loro teoria il rapporto −z L, come indice dell’importanza relativa tra turbolenza dovuta allo scambio convettivo e turbolenza di tipo meccanico nelle ore giornaliere. Durante le ore notturne questo rapporto caratteristico descrive l’annullamento del contributo meccanico alla turbolenza dovuto alla stratificazione. La Teoria della Similarità di Monin – Obukhov emerge adesso: il comportamento del rapporto caratteristico z L al variare delle ore giornaliere, è assimilabile a quello del gradiente del numero di Richardson nello stesso arco temporale. L’unica differenza risiede nel fatto che Ri può raggiungere un limite

(23)

indicato con Ricrit, mentre il limite a cui può arrivare L è zero. Quando questo evento accade, la turbolenza di natura meccanica scompare.

L è numericamente piccolo (dell’ordine di −10 m) quando le giornate sono fortemente convettive, raggiunge i valori di −100 m nelle giornate ventose poco soleggiate, mentre i suoi valori si avvicinano all’infinito quando il meccanismo prevalente è quello di turbolenza meccanica.

Oltre alle due grandezze di scala legate alla velocità ed all’altezza u*e L , può essere definita anche una temperatura adimensionale tipica dello strato indipendente dall’altezza: * * u c H T p⋅ ⋅ − =

ρ

Eq. (3. 23) 3.3.4 – Lo strato turbolento

Il restante 90% di PBL durante le ore diurne è costituito da uno strato turbolento nel quale domina il fenomeno della turbolenza convettiva. Il tipo di turbolenza meccanica presente nel primo sottostrato del PBL in questa seconda parte scompare (l’altezza dello strato supera i valori di − ), perché le grandezze caratteristiche L dell’atmosfera non risentono più del profilo del terreno sottostante.

Come variabile di scala per il surface layer è stata presa in considerazione la velocità di attrito u*. In questa seconda fascia di troposfera la variabile di attrito che viene presa in esame è la velocità convettiva di scala w*. Dato che questa seconda parte di atmosfera dipende dall’altezza del punto di inversione z , si assume tale altezza i come altezza di scala. Perciò la velocità convettiva di scala dipenderà da questa lunghezza e da altre grandezze che sono: calore specifico a pressione costante c , la p densità dell’aria

ρ

, il flusso termico verticale H (si ipotizza che la componente dominante del flusso dovuto ai raggi solari che attraversano la troposfera per raggiungere la superficie terrestre sia solo quella verticale), la forza di gravità g e la

(24)

temperatura superficiale T . In questo modo la velocità convettiva di scala risulta 0 essere: 3 1 0 *        ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ = T c z H g w p i

ρ

Eq. (3. 24)

mediante questa definizione si può definire per questo strato anche la temperatura di scala che è

* * w c H p⋅ ⋅ − =

ρ

θ

Eq. (3. 25)

Le variazioni della velocità media verticale del vento, della direzione del vento e della temperatura potenziale molto piccole. Questo permette di affermare che la struttura di questo strato è molto semplice e, grazie alla costanza dei venti con l’altezza ed alla loro intensità potrebbe essere buono per installazioni eoliche. Tuttavia le macchine eoliche oggi presenti sul mercato non sono capaci di arrivare a tali altezze e di conseguenza si analizza lo strato rimescolato con un occhio al futuro: catturare l’energia delle masse d’aria presenti nel mixed layer solo con macchine eoliche che possono raggiungere queste altezze.

3.3.5 – Lo strato stabile

Con il tramonto del sole e l’avanzare della notte, la porzione inferiore del PBL viene trasformata in uno strato stabile a causa del raffreddamento della superficie terrestre, che cede calore all’atmosfera per irraggiamento. Si forma così lo strato limite stabile (stable boundary layer o SBL) detto anche nocturnal boundary layer dato che la sua presenza è riscontrata solo nello ore notturne. Questo strato è caratterizzato da una inversione di temperatura con base al suolo. Infatti lo strato limite stabile è a diretto contatto con il terreno e la sua formazione inizia già poco prima del tramonto. Con il progredire della notte, la sua profondità aumenta dal suolo verso l’alto, andando a

(25)

diminuire l’altezza dello strato atmosferico superiore a causa dell’avanzare del processo di raffreddamento dello strato d’aria a più diretto contatto con il terreno.

In queste condizioni si genera perciò uno strato d’inversione al suolo ed i moti verticali dell’aria tendono ad essere soppressi. La condizione di stabilità presente in questo strato ha un’influenza diretta sul moto delle particelle d’aria appartenenti allo strato stesso: se la particella si muove verso l’alto, questa viene a trovarsi, a causa dell’espansione adiabatica, in una zona atmosferica caratterizzata dall’avere una temperatura dell’aria maggiore rispetto a quella posseduta dalla particella; se la stessa particella alla sua quota si muovesse verso il basso si troverebbe in una zona atmosferica avente temperatura minore rispetto alla propria. In entrambi i casi, la particella tende a ritornare alla sua posizione iniziale. Lo SBL è quindi caratterizzato da stratificazione stabile con gradiente termico subadiabatico.

Ad una altezza media di 100 – 500 m da terra che può arrivare anche fino a 1000 m dal suolo, finisce lo strato limite stabile. La sua fine non è ben definita, ma si dissolve con continuità nello strato atmosferico superiore. Lo strato limite stabile è anche definito strato di inversione in quanto vede, all’aumentare dell’altezza una progressiva diminuzione di temperatura. Questa diminuzione inizia subito dopo il tramonto del sole in quanto la superficie terrestre che ha raggiunto la sua temperatura massima nel tardo pomeriggio, al calare del sole comincia ad emanare, per mezzo della radiazione infrarossa il calore accumulato durante le ore giornaliere. Inizia in questo modo il processo di stratificazione atmosferica che parte con dagli strati atmosferici a stretto contatto con la superficie terrestre per poi estendersi anche agli strati superiori. Infatti l’altezza dell’SBL è massima poco prima che inizi l’alba in quanto la superficie terrestre per tutta la notte ha emanato calore agli strati atmosferici soprastanti.

Questa stabilità presente nello strato limite stabile fa si che il tipo principale di turbolenza presente nello strato sia solo di tipo meccanico (la turbolenza convettiva è nulla) e sia presente negli strati atmosferici inferiori a contatto con la superficie terrestre (l’irregolarità stessa della superficie è la causa della turbolenza).

Su terreni che presentano una morfologia complessa, durante le ore notturne può generarsi il vento catabatico: nella notte le montagne hanno un raffreddamento più veloce rispetto alla pianura (sono paragonabili alle alette di un radiatore). Questo raffreddamento si ripercuote sulla massa d’aria che le circonda. Questa massa d’aria

(26)

conseguentemente tende a muoversi dalle montagne verso la pianura generando dei venti di lieve intensità

(

≈1m s

)

detti catabatici [8] e [9]. All’aumentare della quota, al confine dello strato stabile, la velocità del vento può superare, nei valori di intensità, il vento geostrofico. Questi vento sono detti nocturnal jet e possono raggiungere intensità di 30m s. L’attrito di questi venti in quota con gli strati atmosferici stabili sottostanti può portare alla formazione di turbolenza in quota e le correnti turbolente possono penetrare come raffiche turbolente di vento all’interno dello strato limite stabile causando un rimescolamento atmosferico all’interno dello strato che può in seguito dissolversi portando ad una nuova condizione di stabilità o creare una zona persistente di turbolenza.

Lo strato situato immediatamente al di sopra nel quale tende a dissolversi lo strato limite stabile è chiamato strato residuo (residual layer). Anche questo strato tende a formarsi subito dopo il calare del sole, però la sua formazione inizia dal confine superiore del surface layer: alla progressiva riduzione dell’irraggiamento solare, gli strati superiori atmosferici non risentono più dell’effetto riscaldante, iniziando a raffreddarsi progressivamente. La turbolenza in questo strato ha una debole intensità, è isotropa ed è solo di tipo meccanico. Questo strato distingue le condizioni atmosferiche notturne per gli strati superiori del surface layer in quanto sancisce il graduale passaggio dalle condizioni instabili, tipiche delle ore pomeridiane, a condizioni neutre, tipiche delle ore notturne.

3.4 – I profili del vento

La teoria K , cioè il modello che utilizza il tensore di viscosità turbolenta per chiudere le equazioni del moto nei problemi di turbolenza atmosferica, risulta essere quella più utilizzata nei problemi di meteorologia, in particolar modo per quelli legati allo strato più basso dell’atmosfera: il surface layer. Per tale strato possono essere fatte delle ipotesi forti ma allo stesso tempo molto rispondenti alla realtà. Infatti, facendo riferimento ad un terreno omogeneo si può affermare che la struttura dello strato atmosferico a diretto contatto con la superficie terrestre presenta una crescita od una diminuzione lineare delle variabili che lo caratterizzano. Le tensioni turbolente (Reynolds stress) possono essere ritenute costanti sebbene il loro valore diminuisca

(27)

lievemente all’aumentare della quota. Inoltre il vento geostrofico dall’atmosfera libera fino al terreno diminuisce progressivamente di valore e cambiando la sua direzione. Si può supporre che la direzione del vento nell’ultimo tratto sia costante.

Dato che lo strato superficiale è stato ampiamente studiato nei campi più disparati (dall’agricoltura alla meteorologia, dall’oceanografia all’ingegneria), si sono sviluppati nel tempo diversi profili di velocità del vento. Tutti questi andamenti partono dalla considerazione che i moti presenti all’interno dello strato sono di tipo turbolento e la turbolenza è di natura prevalentemente meccanica, in quanto si ipotizza che l’intervallo sia quasi adiabatico, la stratificazione avviene in condizioni idrostaticamente neutrali ed il fenomeno della convezione è di conseguenza trascurabile.

A seguito di queste ipotesi per descrivere l’andamento della velocità del vento si utilizzano due tipi di profili del vento:

 una legge di potenza

 un profilo logaritmico

 un profilo diabatico.

3.4.1 – La legge di potenza per il profilo del vento

Per applicazioni ingegneristiche che richiedono valutazioni del vento e calcoli del vento massimo che si può avere ad una certa quota si utilizza di solito una legge di potenza per approssimare l’andamento del vento. Questo è dovuto al fatto che nel campo dell’ingegneria strutturale nel momento in cui vengono fatte delle stime per la possibile velocità del vento massima, si è soliti sovrastimare i dati in via cautelativa.

La legge di potenza è definita come:

p R R z z u u       ⋅ = Eq. (3. 26)

(28)

In essa compare il termine uR che indica la velocità del vento nota ad una altezza dal suolo zR, mentre u rappresenta la velocità che vogliamo stimare alla quota

z dal terreno.

Suddividendo l’altezza dal suolo in intervalli, l’esponente p viene considerato di valore costante all’interno di ciascun intervallo; quindi avremo diversi valori dell’esponente per diversi intervalli di altezza. Il valore dell’esponente p può essere in ogni caso calcolato a seconda della situazione che si presenta; esso varia in base al tipo di terreno ed alla displacement lenght d che rappresenta l’altezza degli ostacoli sopra la quale la velocità del vento può essere considerata costante.

Se il valore della displacement lenght d è piccolo p viene valutato con una legge logaritmica:

(

0

)

ln 1 z z p= Eq. (3. 27)

Se il valore dell’altezza degli ostacoli non risulta essere trascurabile ai fini del calcolo, la formulazione matematica dell’esponente è più complessa:

(

z d

) (

ln

[

z d

)

z0

]

z p − − = Eq. (3. 28)

Per calcoli di ingegneria strutturale, in via cautelativa, viene utilizzata questa formulazione per stimare la velocità del vento ad una certa quota, la quale tende a sovrastimare il valore della velocità. Per condizioni atmosferiche caratterizzate da terreno uniforme e turbolenza solo di tipo meccanico, questa legge sovrastima troppo i valori, poiché nella realtà queste condizioni atmosferiche sono rare, questa legge è valida e coincide con il profilo del vento espresso mediante la legge logaritmica solo per altezze dal terreno non troppo elevate.

(29)

3.4.2 – Il profilo logaritmico del vento per atmosfera neutrale

In tutti i campi in cui si richiede la stima del profilo del vento all’aumentare della quota, se tale dato non deve essere sovrastimato in via cautelativa, solitamente si ricorre alla rappresentazione del profilo del vento conosciuto come “profilo del vento per condizioni atmosferiche neutrali” o “profilo neutrale del vento”. Questo profilo del vento è la caratteristica predominante del surface layer. In questo strato, come già visto precedentemente, il meccanismo turbolento predominate è quello di tipo meccanico: la turbolenza di tipo convettivo risulta essere trascurabile, il gradiente termico è vicino alle condizioni di adiabaticità e la stratificazione avviene in condizioni idrostatiche quasi neutrali.

Il profilo logaritmico del vento deriva dalla teoria K .

Questa teoria esprime le tensioni turbolente nella seguente maniera:

z u Km x ∂ = =

τ

ρ

τ

Eq. (3. 29) m

K rappresenta il coefficiente di viscosità turbolento.

Per un terreno omogeneo possiamo definire un’altra variabile: la velocità di attrito u*. L’espressione matematica con cui viene definita questa grandezza è la seguente:

ρ

τ

= * u Eq. (3. 30)

Ipotizzando che la velocità turbolenta sia proporzionale alla velocità di frizione

*

u e che la lunghezza turbolenta sia proporzionale all’altezza, possiamo fornire un’altra espressione per il coefficiente di viscosità turbolenta:

z u k

Km = a Eq. (3. 31)

(30)

Se la superficie del terreno non è regolare, esiste un momento delle forze trasferito proprio sopra la superficie attraverso la rugosità degli elementi per mezzo di una differenza di pressione.

Pertanto, il coefficiente di viscosità turbolento non si annulla a contatto con la superficie. Questo porta alla necessità di definire un livello al di sopra del terreno e sopra gli elementi che causano la rugosità stessa del terreno, in modo tale da poterci riferire a questa altezza come quota di riferimento. Questa quota sarà caratterizzata dall’annullamento della velocità dipendente dall’asse z

(

u

( )

z0 =0

)

. L’altezza a cui troviamo questo punto verrà chiamata z . Tutte le velocità al di sotto di 0 z risulteranno 0 essere trascurabili

(

u≅0

)

e verranno prese in considerazione solo quote maggiori (al di sopra di z>z0). Considerando la grandezza z come un parametro che è indice della 0 lunghezza dei vortici al terreno causati dagli elementi appartenenti al terreno stesso, possiamo riscrivere il coefficiente di viscosità turbolento come:

0 * z

u k

Km = a⋅ ⋅ Eq. (3. 32)

Si evince facilmente che più il terreno è frastagliato più alto sarà il livello di turbolenza. z rappresenta perciò un indice della irregolarità del terreno e di 0 conseguenza viene chiamato: lunghezza di rugosità (roughness lenght).

Figura 3. 5 – figura che mostra il significato della roughness lenght.

Questo parametro può variare non solo con le caratteristiche della superficie, ma può subire variazioni anche in base alla velocità del vento, se gli elementi appartenenti

(31)

al terreno che vanno ad influire sulla rugosità vengono influenzati dal vento (ad esempio campi di grano o di cereali ) o può variare in base alla direzione del vento. Per non creare troppa confusione in merito all’attribuzione di una valore a z che potrebbe 0 variare a seconda degli infiniti casi che possono trovarsi sulla terra di direzione ed intensità del vento, i valori del parametro sono stati tabellati e messi in relazione alle tipologie di terreno esistenti. Si passa perciò da valori di z pari a 0.00001 cm se il 0 vento spira sopra zone antartiche o sopra la superficie del mare fino ad arrivare a raggiungere il valore 5 se il vento spira al di sopra delle città o sopra i boschi.

Figura 3. 6 - Range di definizione del parametro indice delle grandezza dei vortici al suolo per ogni tipologia di terreno.

(32)

Figura 3. 7 - Profilo logaritmico del vento per tre diversi valori della roughness lenght

Sempre nella definizione del coefficiente di turbolenza troviamo un altro parametro: k . Questo rappresenta la costante di Von Karman. Molte misure compiute a nei tunnel del vento e nell’atmosfera reale hanno evidenziato che i valori di questa costante variano tra 0.35 e 0.43. In ogni caso, tutte le trattazioni che parlano di questo argomento fanno riferimento al valore della costante di Von Karman pari a 40. .

Combinando tra loro le equazioni sopra scritte e tenendo presente la definizione della velocità di attrito, si ricava la variazione della velocità in base all’altezza:

       = ⋅ ⋅ = ∂ ∂ ⋅ ⋅ =

ρ

τ

ρ

τ

2 * 0 * u z u k K z u K a m m z k u z u a ⋅ = ∂ ∂ * Eq. (3. 33)

Andando ad integrare l’espressione 3.33 dal livello del suolo (rialzato a z ), 0 troviamo il valore della velocità all’altezza che vogliamo, imponendo che questa variazione di altezza non incida sul velocità di attrito:

(33)

      = 0 * ln z z k u u a Eq. (3. 34)

Questa legge per rappresentare il profilo del vento è una approssimazione molto valida. Nel caso in cui ci si riferisca a terreno di caratteristiche omogenee tale approssimazione permette di calcolare il vento fino a 150 m sopra il livello del suolo e anche nel caso in cui il vento sia di forte intensità. Graficamente l’andamento è il seguente:

Figura 3. 8 - Andamento del profilo logaritmico del vento

Sopra terreni non omogenei il problema diventa più complesso: il profilo logaritmico appena ricavato non risulta più essere una buona approssimazione della realtà. Questo deriva dal fatto che la velocità di attrito che per terreno omogeneo è considerata costante, per terreno con forti irregolarità varia invece in base all’altezza. La conferma di questo fatto proviene dal fatto che l’ultimo termine nell’equazione del moto lungo l’asse x di Navier – Stokes non può essere trascurato:

z u x p v f dt u d ∂ ∂ − ∂ ∂ − = 2 * 1

ρ

Eq. (3. 35)

Per il caso di terreno omogeneo la componente ∂u*2 ∂z risulta essere il membro di ordine maggiore all’interno dell’equazione. Poiché il suo valore si attesta sull’ordine di 10−3

[

m s2

]

, si giunge alla conclusione che questo e tutti gli altri termini dell’equazione possono essere trascurati. Invece, nel caso di terreno irregolare tutti i

(34)

membri dell’equazione di Navier – Stokes lungo l’asse x hanno un ordine molto maggiore rispetto al caso precedente. La velocità di attrito può di conseguenza variare di valore al variare dell’altezza; proprio per questo motivo per terreno non omogeneo questa equazione non può essere trascurata.

Per terreno omogeneo il profilo logaritmico della velocità può essere modificato ulteriormente. Infatti il valore preso a riferimento della lunghezza turbolenta è un valore che si riferisce alle principali caratteristiche del terreno. Come detto in precedenza, il profilo delle velocità può essere innalzato dalla superficie terrestre ad una quota z . 0 Questa quota individua di conseguenza una superficie di riferimento dalla quale parte idealmente il profilo di velocità del vento. Questo valore z in ogni caso viene riferito a 0 caratteristiche generali del terreno. Può capitare che la presenza della vegetazione (alberi) o delle case concentrati in una zona del terreno per cui era stato preso a riferimento un valore di z , crei la necessità di traslare verticalmente il punto di 0 partenza della superficie terrestre in quanto anche la corrente di vento che impatta contro questo gruppo compatto di elementi è come sospinta al di sopra di essi. Da questa nuova altezza che può essere presa in esame ed indicata con d viene perciò computata l’altezza della rugosità del terreno generale (il valore del parametro z è 0 assunto uguale a quello del terreno circostante alla zone in esame che non presenta questo raggruppamento fitto di elementi).

Questa altezza è conosciuta con il nome di displacement lenght d ed il suo valore è pari a circa 70 – 80 % l’altezza media di questi nuovi ostacoli. La quota sul terreno da cui parte il profilo del vento è spostata a:

0

z d z= +

(35)

Figura 3. 9 – Influenza della displacement lenght

La legge logaritmica del profilo del vento a fronte di questo nuovo problema è modificata come segue:

      − = 0 * ln z d z k u u a Eq. (3. 36)

Se l’altezza degli elementi appartenenti alla superficie che causano questo innalzamento del livello del terreno, è ridotta, se paragonata alla quota da terra alla quale si vuole effettuare la misurazione (basta che la quota in esame sia maggiore di 2 volte l’altezza degli oggetti sul terreno), si può pensare di trascurare questa altezza ed ipotizzare di essere nel caso di in cui il profilo di velocità è sollevato dal terreno di una quota pari solamente a z . 0

Per ricavare il valore della velocità ad una determinata altezza da terra si possono utilizzare due tecniche: quella grafica e quella analitica.

La prima consiste nel disegnare l’andamento della velocità in base all’andamento assunto dalla funzione logaritmica considerando ka u* la pendenza di una retta, ln

( )

z il termine noto, 0 u la variabile nota e ln

( )

z l’incognita da determinare.

(36)

La via analitica, molto più utilizzata e conosciuta, viene sfruttata nel momento in essendo noto il valore dell’intensità del vento ad una altezza, si vuole calcolare la velocità del vento ad un’altra altezza. Utilizzando l’equazione che definisce il profilo logaritmico del vento, la velocità alla quota z da terra si ricava nel seguente modo:

(

)

(

0

)

0 ln ln z z z z u u R R = Eq. (3. 37)

Con la lettera R sono state indicate le grandezze di riferimento, cioè quelle conosciute. Infatti, di tale equazione, sono noti il valore della velocità u ad una determinata quota z e la lunghezza dei vortici turbolenti al suolo z . 0

3.4.3 – Il profilo diabatico del vento.

Per condizioni atmosferiche stabili o instabili vengono effettuate delle modifiche alla formula del profilo logaritmico del vento in maniera tale da adattare il profilo neutrale del vento a queste nuove condizioni atmosferiche. Nella spiegazione dello strato limite superficiale abbiamo introdotto la velocità di attrito normalizzata S . Tale velocità può essere anche definita nella seguente maniera:

     = L z S

φ

m dove m

φ

rappresenta la velocità normalizzata di attrito. In condizioni atmosferiche neutrali 1

S : è per questo motivo che tale termine non compare nell’espressione del profilo logaritmico della velocità. Ad un aumento della turbolenza aumenta il mescolamento delle particelle nell’aria e, conseguentemente, diminuisce il valore dell’attrito: 

     L z m

φ

risulta essere minore del valore unitario in condizioni di instabilità atmosferica

(

z L<0

)

. Ad una diminuzione della turbolenza, che si può manifestare nel caso in cui si abbia stabilità atmosferica, il valore del parametro

     L z m

φ

raggiunge valori superiori all’unità.

(37)

3.4.3.1 – Condizioni di instabilità atmosferica.

Sono state fornite diverse formulazioni per legare il parametro normalizzato

m

φ

al rapporto caratteristico di Monin – Obukhov z L. Le tre formulazioni più utilizzate sono: 4 1 16 1 −       − = L z m

φ

Eq. (3. 38) 3 1 15 1 −       − = L z m

φ

Eq. (3. 39) 1 15 3 4 = m m L z

φ

φ

Eq. (3. 40)

La prima formulazione risulta comunque quella più utilizzata ed è chiamata la formula di Businger – Dyer, grazie a coloro che l’hanno formulata. È valida soprattutto nel seguente range di valori: 0≥z L≥−2. Dato che

φ

m coincide con la velocità di attrito adimensionale S , si può ottenere l’espressione del profilo del vento diabatico integrando una delle tre espressioni o elaborando l’espressione analitica della velocità d’attrito. Eseguendo proprio questa opzione, si scrive innanzitutto l’espressione analitica della velocità d’attrito:

      = ∂ ∂ ⋅ ⋅ = L z z u u z k S a

φ

m *

Sommando e sottraendo al membro di destra dell’equazione il valore 1 ed integrando dall’altezza pari a z dove abbiamo 0 u=0 fino ad una quota z da terra, si ottiene la seguente espressione matematica:

(38)

            −       ⋅ = L z z z k u u m a

ψ

0 * ln Eq. (3. 41)

Dove la funzione

ψ

m è esprimibile come:

( )

[

]

− =       zL L z m m d L z 0 1

ζ

ζ

ζ

φ

ψ

Eq. (3. 42)

3.4.3.2 – Condizioni di stabilità atmosferica.

Per questa condizione atmosferica l’espressione della velocità di attrito può essere espressa come:

      + = L z m 1 5

φ

Eq. (3. 43)

Ipotizzando che la costante abbia un intervallo di variazione compreso tra 4.7 e 5.2, l’espressione della funzione

ψ

m sarà data da:

L z

m =−5

ψ

Eq. (3. 44)

Ed andrà inserita all’interno dell’espressione del profilo diabatico del vento sottostante:             −       ⋅ = L z z z k u u

ψ

m 0 * ln Eq. (3. 45)

Figura

Figura 3.  1 – Struttura verticale dell’atmosfera terrestre
Figura 3.  2 – Deviazione della direzione subita dal vento di gradiente rispetto alla direzione del  vento sulla superficie terrestre
Figura 3.  3 – Percorso delle celle convettive nello strato limite atmosferico.
Figura 3.  4 – Possibili sottodivisioni del PBL nel corso delle ore giornaliere.
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Riferimenti

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