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Ufficio, fa’ il tuo lavoro

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Academic year: 2021

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Ufficio, fa’ il tuo lavoro

Ho mutilato il mio capo. Cioè, insomma, nei documenti vari gli sbirri, gli avvocati e compagnia bella dicono “colpi e ferite volontari”. È un modo di vedere le cose. Ma io lo so che cosa ho fatto: l’ho pinzato. Così. Ciak ciak ciak. Niente male come suono, eh? Quando mi dico che ho fatto una cazzata, vengo al tavolo e lo faccio. Ciak ciak ciak. Mi basta sentire questo suono che mi perdono tutto. Ciak ciak ciak.

È stato il mio avvocato che mi ha trovato questo lavoro all’uscita di prigione. Nel ramo dei libri ci avevo già lavorato in galera: mettevo dei segnalibri pubblicitari negli annuari medici. Come dire che io, i libri, li conosco a menadito. Ero il più veloce. Nel giro di una mattinata, potevo fare trenta casse da quaranta. Milleduecento segnalibri incollati e applicati. Ero il migliore.

Allora, quando sono uscito, l’avvocato mi ha detto che c’era lavoro da un editore, per imballare dei libri.

- Bisogna incollare? gli ho chiesto io.

- Sì, ha risposto, incollare, e piegare, legare, bollare. Tranquillo, vedrai che imparerai il mestiere.

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Imparare! A me?! Ma se sono io che avrei potuto spiegargli ogni cosa a quelli là!

Ciak ciak ciak.

Forse non avrei dovuto arrabbiarmi così velocemente. Ciak ciak ciak.

Fin dal primo giorno, ho notato un tipo con una camicia bianca e una faccia che proprio non mi piaceva. La sfiga vuole che fosse il capo del servizio spedizioni, ed è lui che mi ha spiegato come funzionava tutto, la timbratrice, il rotolo di cartone ondulato, il modulo d’ordine e i vari accessori per fare i pacchi.

- Attenzione a togliere le dita dalla pressa ogni volta che plastifica un pacco, mi ha precisato, se no rischia di ritrovarsi con le dita incastrate.

- Dove? ho chiesto io.

Mi ha mostrato il luogo in cui non bisognava ficcare le zampe, e io ho schiacciato il pulsante verde.

Crunch.

Il tipo ha strillato come un pazzo squartato vivo e io mi sono fatto una risata. Era infuriato, quell’imbecille. Eppure era roba da pivelli, in cella l’avevamo fatto tutti ai nuovi arrivati con le macchine della prigione: la taglierina, la calandra, i ferri a vapore, ci si passa tutti una volta e poi si sta sul chi vive. E lì a farsi fregare da un novellino era proprio il tipo che doveva spiegarmi come funziona! Mica buono per l’immagine della ditta, anzi!

Per di più, se l’è presa a male. Quando ho premuto il pulsante rosso per sbloccare il ferro, quello ha iniziato a dimenarsi sul posto dicendomene di tutti i colori. Voleva a tutti i costi andare dal capo.

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- Almeno prima cambiati la camicia, gli ho detto. Hai delle chiazze di sudore sotto le ascelle e delle macchie di sangue più in basso. Non ha voluto ascoltarmi, e così ci siamo ritrovati tutti e due davanti al capo. Era niente male, lo studio del boss. Poltrone in cuoio, dipinti appesi al muro, moquette e via dicendo. Lui invece era un vero cafone. Due metri o quasi, degli occhialetti tondi e una faccia da coglione da superare ogni immaginazione.

- Che c’è, ragazzi? fa lui, con il tono di quello che vuole fare il compagnone, del genere “ehi ragazzi qui siamo tutti amici”, solo che lui scorreggia nel cuoio mentre noi ci facciamo il culo sotto i neon e nelle correnti d’aria.

- C’è che il suo caporeparto non è in grado di utilizzare una pressa termica come si deve, gli ho spiegato. Se non ci fossi stato io, sarebbe ancora incastrato. Guardi com’è conciata la sua mano.

Il capo del servizio spedizioni era talmente sconcertato che non ha saputo cosa rispondere. La mia faccia da culo l’aveva lasciato a bocca aperta. A giudicare dai suoi occhi sbarrati, doveva essersi reso conto che aveva a che fare con uno più forte di lui.

Ho spiegato che conoscevo bene la macchina e che bisognava stabilire delle norme di sicurezza. Il capo mi ha risposto che ne avremmo riparlato più tardi, e che il caposervizio doveva correre all’ospedale e io riprendere al più presto il mio posto, visto che c’era una sottoscrizione che doveva partire in giornata.

Ciak ciak ciak.

Cosa fosse una sottoscrizione l’avevo capito.

Erano centinaia di tizi che comprano un libro prima che sia uscito e lo ricevono direttamente per posta, senza dover passare dalla libreria.

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Semplice. Avevo i moduli d’ordine– ce n’erano parecchie centinaia – e le pile dei libri. Era della poesia erotica.

- Wow, mi sono detto, finalmente un po’ di novità dopo tutti gli annuali farmaceutici.

Così mi sono seduto in un angolo e ho guardato che roba fosse.

Non avevo mai letto nulla del genere. In confronto, anche il regolamento interno della prigione meritava il Nobel. Nel giro di venti minuti, avevo letto tutto. E dire che io sono lento. Ma c’erano tutt’al più cinque righe per pagina. E due illustrazioni in bianco e nero che non avrebbero fatto colpo neanche su un maniaco dei culi. Quando ho visto il prezzo fatturato sulle bolle, mi sono detto che stavo sognando. Trentacinque euro per sessanta pagine tagliate male e una carta che si sgretola sui bordi. Ho pensato di andare dal capo e chiedergli se non c’era stato un errore nel prezzo o dal tipografo, ma non ne ho avuto il tempo: era già accanto a me.

- È vero quello che mi ha detto Vandenbosche?

- Beh, dipende. Chi è questo Vandebosche? gli ho chiesto. - Non faccia l’idiota, è il suo caposervizio, quello a cui ha

maciullato una mano!

- Oh oh, ecco che si passa alle insinuazioni… Io non ho fatto proprio un bel niente, è la prima volta che vedo un tizio così imbranato.

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- Ha una faccia tosta incredibile lei, mi fa il capo.

Ero contento che l’avesse notato così presto. Se continuavo a distinguermi così, può darsi che mi avrebbe affidato un posto dove i miei talenti sarebbe stati sfruttati meglio, un posto da commerciale, per esempio.

Ma no, non era quel genere di capo. Era buono soltanto a farti dei rimproveri e a impedirti di lavorare. Un capo come tutti gli altri: incapace di distinguere le vere competenze.

Ciak ciak ciak.

Buono soltanto a farsi pinzare come tutti gli altri. Quanto ero ingenuo!

Gli ho detto, senza giri di parole:

- Senta, mi sa che c’è un problema con il suo libro.

- Ah sì?, mi risponde, con l’aria di uno che sa tutto lui. - Dia un’occhiata…

Ha preso in mano un esemplare, l’ha sfogliato e poi l’ha riposato sulla pila.

- Io non ci vedo il minimo problema, mi ha risposto. Mentre invece mi sembra di vedere che non ha ancora fatto neanche un pacco... In mezz’ora!

- Oh oh! Non si preoccupi, capo, sono il più veloce. In un’ora sarà tutto imballato, se mi dice che è il libro giusto. Ma per questo deve lasciarmi lavorare tranquillo.

Ho preso il primo libro della pila: con un solo movimento agile, ho piegato in due la bolla, l’ho fatta scivolare sotto la copertina, ho avvolto il libro nel cartone ondulato, l’ho tagliato, misurato, legato e per finire ci ho incollato su l’etichetta. Il capo era a bocca aperta, con delle monete da due euro al posto degli occhi.

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- È il mio primo pacco. Ma non si preoccupi, sarò più veloce con i prossimi.

Mi ha lasciato lavorare. Sapevo di aver segnato un punto. Appena ha richiuso la porta dell’ufficio, mi sono seduto a riflettere. Di certo non avrei permesso a quel tipo di vendere della merda a degli innocenti. Loro il libro non l’avevano letto, mica potevano sapere che non diceva nulla e che non succedeva un tubo di niente. Non un omicidio, non una storia d’amore. Persino nella colonna dei fatti di cronaca del peggior quotidiano c’è più azione che in questo libro tutto intero. Chiunque avrebbe potuto fare di meglio, non c’erano dubbi.

Chiunque? Così mi è venuta un’idea.

Mi ci è voluto tutto il pomeriggio, ma quando ho finito il lavoro ero fiero di me. E lo era anche il capo. Mi ha detto che avrei dovuto stare in guardia, ma che se continuavo a lavorare così veloce avevo il posto assicurato. Mi ha persino stretto la mano. Una zampaccia grassa e umida. Mi sarei dovuto lavare le mani una volta rientrato nel mio monolocale. Non si sa mai che la stupidità sia contagiosa.

Ciak ciak ciak.

Il giorno dopo, Valdenbosche era di ritorno, con una grossa fasciatura alla mano. Mi ha preso da parte e mi ha detto che se facevo ancora un’altra stronzata mi sbatteva fuori. Lui stesso. Mi ha chiesto di scusarmi. L’ho fatto volentieri. Non avevo agito con cattiveria, era solo per ridere. Mi ha detto che non aveva un gran senso dell’umorismo, al che gli ho risposto che l’avevo notato.

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Gli ho proposto di andare a mangiare insieme a mezzogiorno e lui ha accettato.

Ho passato tutta la mattina a imballare dei cataloghi. Milletrecento, tutti da imbustare. Non era esattamente la fine del mondo. La fine del mondo, quella vera, è arrivata a mezzogiorno, con una superba Chimay blu. Vandenbosche non la conosceva. Gli ho detto che era leggera, e così ne ha bevute tre. Era da anni che non bevevo quella birra e mi ha fatto un bene della madonna. Ma poi ho dovuto sorreggere Vandenbosche per salire al servizio spedizioni. Gli ho consigliato un caffè per riprendersi, ha accettato e ha vomitato tutto sul cartone ondulato.

Il capo non era contento. Ho scusato il mio caposervizio, dicendo che dovevano essere i postumi dell’ustione al dito. Lui è potuto tornare a casa e io ho passato il pomeriggio a piegare bollettini di sottoscrizione. Si lavorava sodo in ufficio. La sera ero stanco morto, così mi sono servito una Pils e sono filato dritto a letto. Ho l’impressione di avere continuato a piegare volantini per tutta la notte. Mi riposa piegare. Questione d’ebitudine.

Le vere rotture di coglioni sono iniziate il giorno dopo. Vandenbosche e il capo mi stavano aspettando a muso duro. Mi hanno dato una lavata di capo in piena regola: non se ne parlava più di bere nella pausa pranzo. L’alcool e le macchine non vanno d’accordo. Come se non lo sapessi!

Ciak ciak ciak.

Mi sono scusato, con gli occhi di un cane bastonato che giura che non piscerà più sulle poltrone, e sono tornato al mio tavolo.

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Mi hanno fatto classificare delle fatture, dovevo assicurarmi che i numeri si seguissero nell’ordine e poi pinzarle a gruppi di cento. Ciak. Facile.

Ciak.

Verso le dieci c’è stata la prima chiamata. Un cliente scontento, che aveva appena ricevuto il suo esemplare della raccolta di poesie e si lamentava. Qualcuno aveva scribacchiato su tutte le pagine. E con la Bic, per di più, aveva precisato!

Nella vita una cosa utile l’ho imparata: che tu sia innocente o colpevole, di’ sempre che non sei stato tu. Se non sei stato tu, tanto meglio, non fai che dire la verità. E se sei stato tu, pazienza, vorrà dire che devono trovare un altro modo per fregarti. Perché tu hai intenzione di venderla cara la pelle.

- Con la Bic? ho fatto io. Chi è così coglione da scrivere con la Bic su un libro?

- Allora non è stato lei, mi fa il capo.

- Mica sono pazzo, ho risposto. Sono appena stato assunto, non intendo certo darmi la zappa sui piedi.

Il capo era furioso. Ha promesso al cliente di fargli pervenire un altro esemplare e gli ha presentato le sue scuse. Ma voleva trovare un colpevole. Quando ha chiamato il secondo cliente, ci è mancato poco che gli venisse un colpo. Così, alla settima chiamata, ha riunito tutta la squadra nel suo ufficio.

Ciak ciak ciak.

C’erano il contabile (un tipo con gli occhiali che avevo già incrociato sulle scale), la squadra di produzione (due della computer grafica, una segretaria e un impiegato tutto grigio con una camicia sporca) e il servizio spedizioni, cioè Vandenbosche e il sottoscritto.

Il capo ha esposto il problema. Qualcuno aveva scribacchiato con la Bic su tutti i libri,

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dove degli insulti, dove dei pensieri aberranti, spesso degli aneddoti sordidi, pieni di violenza e di odio.

- Ho passato tutta la mattina al telefono con i clienti e mi hanno letto dei pezzi. È qualcosa di veramente ripugnante.

Ciak ciak ciak.

Se non gli piaceva, ho pensato, non aveva che da riattaccare. E comunque non erano aneddoti sordidi, ma storie vere. Non avevo inventato nulla, io.

- Si potrebbe vederne un esemplare? ha proposto l’impiegato grigio nella sua camicia sporca. Forse potremmo riconoscere la scrittura.

- Non ce n’è bisogno, ho detto io. Sarò anche l’ultimo arrivato, ma non sono mica cieco, anzi. Io lo so chi l’ha fatto. Anche perché il tizio in questione mi ha offerto cento euro perché tenessi la bocca chiusa e spedissi i libri così com’erano.

Seguì un silenzio di morte. Un bel silenzio di quelli spessi, come quando in classe il prof si arrabbia.

Il capo mi guardava con degli occhi da pesce lesso. Non c’è che dire, il ruolo dell’idiota gli calzava a pennello.

- Su, ci dica di chi si tratta.

- Sono mille euro cash, ho risposto io.

Nessuno se lo aspettava. Men che mai il capo. Si è avvicinato a me, tutto tremante dall’alto dei suoi due metri. Si vedeva che aveva voglia di mollarmi una sberla ma che non osava.

- Mi sta prendendo per il culo? Lei, qui, è impiegato Se sa qualcosa, le ordino di dirlo.

- Mille euro, ho ripetuto, o dico a tutti che è stato lei.

Gli altri hanno cominciato a sorridere. Tutti eccetto il capo, che stava diventando grigio anche lui.

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- Millecinquecento? Ciak ciak ciak.

Il contabile è scoppiato a ridere, seguito dalla segretaria. Il capo no, lui mi ha afferrato per il collo.

- Le ordino di dirci chi è stato, mi ha urlato nell’orecchio.

Allora è stato una specie di riflesso. Ciak ciak ciak, gli ho piantato tre punti in ogni mano. Sono il più veloce, lo so. Non ha neanche fatto in tempo a gridare che il sangue gli colava giù per le maniche. Ha mollato la presa e si è messo a piangere come un ragazzino.

- Non è stato lui, ho fatto io, lui non avrebbe mai avuto il fegato di fare una cosa simile.

E sono rientrato con calma a casa, con la voglia di farmi una bella birra.

E di rileggere tutte le cazzate che avevo scritto in quei libri. Troppo tardi, erano già partiti per posta.

Vabbè, se ai lettori non piace vorrà dire che la prossima volta scriverò a matita.

Ma in quella casa editrice schifosa non ci metto più piede. Se il direttore non ha il fegato di incassare senza piangere tre punti di pinzatrice, chissà di cosa potranno mai essere capaci i suoi autori. Ciak ciak ciak.

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