II
Parmenide tra la dea e gli uomini
1 L’ispirazione divina nell’epos tradizionale: il precedente esiodeo
Il poema parmenideo, secondo quello che è un uso tradizionale dell’epica greca arcaica, è preceduto da un proemio in cui l’autore rende manifesto il rapporto privilegiato con il divino grazie a cui accede al sapere che, a sua volta, trasmette con il canto.Omero e parte degli Inni Omerici ci testimoniano il modo più comune di rappresentare, all’inizio di un’opera poetica, il complesso rapporto tra l’autore, la divinità e l’oggetto del canto: alla Musa divina viene richiesto di sviluppare un tema presumibilmente conosciuto, in linee generali, dall’autore e dal suo pubblico.1 La capacità dell’aedo di cantare gli eventi del passato mitico, infatti, dipende totalmente dal rapporto di philía che lo lega alle Muse divine grazie alla cui benevolenza apprende l’oggetto del suo canto2.
Il fatto che l’opera parmenidea inizi senza alcuna invocazione alla Musa, o a un’altra divinità, ma con l’immagine dell’autore del poema trasportato su di un carro guidato dalle Eliadi e trainato da cavalle immortali sembra costituire, quindi, una forte rottura rispetto agli usi dell’epos omerico. Il proemio si presenta, infatti, come l’unica sezione narrativa dell’intera opera e vede come protagonista proprio il suo autore, coinvolto – come si è avuto modo di vedere – in un viaggio straordinario che lo porta ad attraversare una soglia, dal forte valore simbolico ed evocativo, oltre la quale avviene l’incontro con una dea. Sarà poi la dea stessa a prendere la parola per enunciare i temi principali del poema e per svilupparli – da ciò che si può dedurre dallo stato frammentario del testo – fino alla fine.
1 Cfr. e.g. gli incipit di Il. mh§nin a[eide, qeav, Phlhi>avdew jAcilh§o~, / oujlomevnhn, h} muriv∆ jAcaioi§~
a[lge j e[qhke..., Od . [Andra moi e[nnepe, Mou§sa, poluvtropon, o{~ mavla polla; / plavgcqh, ejpei; Troivh~ iJero;n ptoliveqron e[perse ..., h. Ven.. Mou§sav moi e[nnepe e[rga polucruvsou jAfrodivth~ / Kuvprido~, h{ te qeoi§sin ejpi; gluku;n i{meron w\rse ...
2 Alcuni classici passi omerici in cui viene esplicitato il rapporto di dipendenza che lega l’aedo alle
Muse – o al divino in generale – nell’ accesso al sapere che costituisce l’oggetto del suo canto sono e.g.
Il. II 484-92, Od. VIII 487-91, XXII 347. Sul rapporto tra aedo, divinità e contenuto della sua
esecuzione poetica si vedano tra i numerosi contributi Di Donato (1999) in particolare pp. 139-65 e Brillante (2006) in particolare pp. 31-42, con la bibliografia cui rimandano.
Una narrazione analoga, in cui venga raccontata l’esperienza personale dell’autore nel momento del suo incontro con una o più divinità da cui derivano le sue facoltà di aedo, si trova nella sezione proemiale della Teogonia di Esiodo3.
Come è stato osservato già da parecchi decenni, il proemio della Teogonia è formato da un testo che presenta tutti i caratteri di un inno alle Muse, rievocate nella loro funzione di abitanti e protettrici del monte Elicona, il loro centro di culto più importante in Beozia, la regione dove, non a caso, Esiodo dichiara di essere nato e vissuto4. All’interno di questo inno si inserisce, però, in maniera piuttosto straordinaria, la narrazione dell’incontro con l’autore dell’opera. Il poema inizia, infatti, secondo i moduli innodici tradizionali, con l’enunciazione dell’intento di incominciare a cantare le Muse Eliconie, rappresentate nelle loro azioni tipiche di canto e ballo sui luoghi caratteristici di questo monte. Questa scena, come si è visto, precede e prepara quella dell’incontro delle Muse con Esiodo che pascola le greggi alle pendici dell’Elicona. L’evocazione delle Muse Eliconie all’inizio dell’opera deve avere, infatti, anch’essa contribuito a dare al canto quella specificità locale che la avvicina alla biografia dell’autore.
In maniera piuttosto peculiare, del resto, in una forma come quella dell’inno, che prevedeva il racconto di alcune delle vicende tipiche che coinvolgevano la divinità a cui era dedicato, viene subito inserito il racconto di un evento che, più che essere importante per la definizione di queste dee, diventa rilevante per la presentazione e la distinzione dell’autore dell’opera. Il passaggio dai moduli tradizionali dell’inno al racconto di un episodio autobiografico viene messo in evidenza dal fatto che Esiodo, dopo avere inserito il suo nome ed essersi così presentato come uno dei personaggi coinvolti in una vicenda che ha per protagoniste le Muse, abbia poi scelto di passare dalla terza alla prima persona, facendo assumere
3 La forte affinità tra l’opera parmenidea e quella di Esiodo, con particolare attenzione alla relazione
con il poema teogonico e con il suo proemio, è stata oggetto di alcuni contributi, tra cui Dolin (1962), Schwabl (1963) e Pellikaan-Engel (1978). Interessanti osservazioni, basate sul confronto tra la scena dell’incontro di Esiodo con le Muse e quello di Parmenide con la dea, si trovano in Sassi (2009a) pp. 220-3.
4 Cfr. Op. 633-42. A sostenere per primo la natura innica di questo proemio è stato Friedländer (1912).
A partire da tale assunto trova spiegazione l’edizione di Pucci (2007) del solo proemio della Teogonia sotto il titolo di Inno alle Muse. Sul culto delle Muse sull’Elicona e sull’ipotesi che i primi versi della
Teogonia (1-25) possano essere stati composti in vista dell’esecuzione del poema proprio in quell’area
al racconto l’aspetto di un ricordo personale5. Non a caso, Esiodo conclude la narrazione di questo episodio con la frase “ma perché mi stanno a cuore queste cose sulla quercia o sulla pietra?” (ajlla; tivh moi tau§ta peri; dru§n h} peri; pevtrhn… Th. 35) che, seppur di controversa interpretazione, segnala chiaramente il desiderio dell’autore di concludere questa digressione e di riprendere le fila dell’inno, secondo moduli più tradizionali6. A questo racconto, infatti, seguirà la rappresentazione delle Muse che rallegrano il padre Zeus con il loro canto sull’Olimpo, la narrazione della loro nascita e l’enunciazione del loro rapporto con determinate categorie di uomini come i re e gli aedi. Il proemio si conclude, infine, con il tradizionale congedo dalle dee, accompagnato dalla richiesta del dono del canto, seguito dall’invito a cantare quelli che poi saranno gli argomenti principali del poema: la nascita dei primi dèi, la ripartizione delle loro prerogative e la loro occupazione del monte Olimpo (Th. 36-115).
Anche sulla base delle analogie osservate nel capitolo precedente, si può dunque ragionevolmente supporre che il pubblico parmenideo, posto, ex abrupto, di fronte al peculiare incipit del poema, abbia ripensato al proemio della Teogonia e, soprattutto, alla sua sezione maggiormente distintiva, quella in cui l’autore fa il suo sorprendente ingresso nella struttura narrativa di carattere tradizionale dell’inno. Nel racconto di Esiodo, infatti, il pubblico parmenideo trovava un precedente, all’interno della poesia epica arcaica, in cui il tradizionale rapporto tra l’aedo, la divinità e l’oggetto del canto, prendeva le forme di una narrazione che assumeva gli aspetti di una sorta di iniziazione individuale. Attraverso una complessa azione rituale che coinvolge parole e azioni, pertanto, le Muse insegnano a Esiodo il canto divinamente ispirato e trasformano, in questo modo, il pastore beota in colui che è in grado di cantare le origini del cosmo divino (Th. 22 –34). Il racconto esiodeo dell’incontro con le Muse divine costituisce, quindi, un’immagine di riferimento per il pubblico parmenideo, anche perché, in esso, l’accesso ad una forma di conoscenza che supera i
5 Si noti il passaggio dal v. 22 ai{ nuv poq j JHsivodon kalh;n ejdivdaxan ajoidhvn al v. 24 tovnde dev me
prwvtista qeai; pro;~ mu§qon e[eipon. Si vedano, a questo proposito Calame (1986) pp. 91-2, Rudhardt (1996) pp. 28-9.
6 Per l’uso di un’espressione molto simile a questa, usata probabilmente con analogo significato si
veda Il. XXII 126 in cui Ettore pone così fine ai dubbi che lo prendono prima di affrontare per l’ultima volta Achille. Per una discussione di questa espressione si vedano in particolare West (1966) e Pucci (2007) nei loro commenti ad loc. In linea con la nostra interpretazione appare anche quanto osserva Rudhardt (1996) p. 32.
limiti umani implica una trasformazione nell’identità dell’autore, che conferisce alle sue parole straordinaria autorità.
2 L’accoglienza della dea: immagini tradizionali a confronto
2.1 Immagini omeriche di accoglienza
Pur considerando l’incipit della Teogonia come un importante precedente, non si può peraltro negare che la narrazione che occupa il proemio di Parmenide abbia tratti fortemente innovativi, anche nella rappresentazione del rapporto dell’autore con il divino e con il contenuto della sua opera. Mentre nel poema esiodeo, infatti, le Muse ed Esiodo si incontrano in una zona familiare a entrambi, che poteva facilmente costituire un punto di contatto – le pendici del monte Elicona in cui il pastore beota usava pascolare i suoi armenti e dove le dee esercitavano il loro potere divino, facendovi visita e praticandovi le loro tipiche attività – nel proemio dell’eleate l’autore, fin da subito guidato da potenze divine – le Eliadi e le cavalle – deve compiere un viaggio per un percorso tutt’altro che familiare, per incontrare la dea nel luogo in cui questa sembra risiedere, oltre una soglia normalmente non valicabile da parte degli uomini. Parmenide, attraverso il suo straordinario viaggio al di là dei limiti dell’area in cui l’uomo agisce e conosce giunge, infatti, proprio a casa della dea, che lo accoglie nel modo in cui veniva tradizionalmente data accoglienza all’ospite appena giunto alle porte di una dimora sconosciuta. Tale situazione è rappresentata, pertanto, attraverso formule tradizionali che rievocano immagini analoghe a noi note, soprattutto, dai poemi omerici.
A questo repertorio riconduce l’espressione con cui è definito l’atteggiamento ben disposto della dea nei confronti del nuovo arrivato: kai; me qea; provfrwn uJpedevxato (“e la Dea, ben disposta, mi accolse” v. 22), infatti, richiama la formula oJ de; me provfrwn uJpevdekto, che, con piccole varianti sintattiche, viene impiegata quattro volte, nei poemi omerici, per indicare la maniera in cui il padrone di casa accoglie l’ospite che si presenta alla sua soglia7. Con formule tradizionali viene anche rappresentata la dea nel momento in cui, seguendo la ritualità dell’accoglienza
7
ospitale, prende per mano l’autore (cei§ra de; ceiri; / dexitevrhn e{len8) e lo saluta,
facendo riferimento alla sua venuta nella casa (w\ kour j ... iJkavnwn hjmevteron dw§ / cai§r j). 9
Sembra dunque plausibile che il pubblico parmenideo – posto di fronte alla rappresentazione di questa immagine, attraverso l’associazione con altre a lui note, se non altro, dalla tradizione epica – abbia inquadrato l’accoglienza che la dea riserva a Parmenide all’interno della sfera delle pratiche tradizionali dell’ospitalità.
L’immagine di una dea che riceve un uomo nella propria casa appare, peraltro, molto singolare e, in linea con questa anomalia, sono anche le parole con cui la divinità accoglie il forestiero. Al tradizionale momento in cui il padrone di casa interroga l’ospite sulla sua identità e sulle ragioni della sua venuta, si sostituisce, infatti, un discorso in cui è la dea stessa a descrivere chi si presenta alla sua soglia e a rivelargli il carattere del suo viaggio.
È vero, peraltro, che anche Odisseo, nel corso delle peregrinazioni che precedono il suo ritorno a casa, viene accolto da due ninfe divine, Circe e Calipso. Solo nel primo dei due episodi, del resto, viene descritta la scena di accoglienza che la dea riserva ai forestieri, perché è proprio nel mettere in atto le pratiche di ospitalità che la dea li sottopone, con l’inganno, ai suoi incantesimi. Circe, peraltro, non riconosce l’eroe di Itaca fino a che questi non resiste all’effetto dei farmaci malefici che ella aveva versato di nascosto nella bevanda che aveva offerto a lui e, in precedenza, ai suoi compagni. Dopo il riconoscimento, tra l’eroe e la ninfa si stabilisce quindi un rapporto privilegiato, presentato in maniera molto simile a quello in cui viene descritta la relazione tra Odisseo e Calipso. Entrambe le ninfe hanno, infatti, un ruolo essenziale nel dare all’itacese indicazioni per il suo ritorno.
Il pubblico parmenideo, nel vedere l’immagine della dea che accoglie benevolmente il forestiero e gli dà consigli per il suo viaggio di conoscenza, può avere pertanto riconosciuto – anche grazie all’uso di simili formule espressive – un
8 Cfr. Od. I 121- 2, II 302, III 36-7. Per un’analisi delle formule impiegate da Parmenide al v. 22 e nel
primo emistichio del v. 23, che spinge ad associare questa immagine ad altre tradizionali in cui si verifica un incontro e un dialogo tra un uomo e una divinità cfr. Cerri (1999) ad loc.
9 Tra le immagini tramandate all’interno dell’epica omerica in cui compaiono insieme uno o più
elementi relativi al rito di accoglienza ospitale con cui viene descritta l’immagine dell’incontro di Parmenide con la dea, si considerino oltre alle scene già citate nelle note precedenti: l’accoglienza di Metanira nei confronti di Demetra nell’Inno Omerico dedicato a questa divinità (vv. 213-23), la scena in cui prima Charis e poi Efesto accolgono Teti nella loro casa (Il. XVIII 384-6 = 423-6), il momento in cui Achille accoglie nella sua tenda Odisseo e Fenice (Il. IX 196-8), l’accoglienza di Anchise che incontra, vicino alle sue capanne, la dea Afrodite (h. Ven. 92-3)
atteggiamento, in una certa misura, analogo a quello con cui queste ninfe si rivolgono a Odisseo e gli suggeriscono come arrivare incolume alla sua casa10. Del tutto
peculiare alla rappresentazione dell’accoglienza che la dea parmenidea riserva al giovane, resta comunque il fatto che sia questa divinità a presentare l’identità del suo interlocutore e a informarlo sulla natura e le finalità della sua visita, dicendo “o giovane, che giungi alla nostra casa, compagno di aurighe immortali e di cavalle che ti portano ” (w\ kou§r j ajqanavth/si sunhvoro~ hjniovcoisin / i{ppoi~ q j, ai{ se fevrousin, iJkanwvn hJmevteron dw§).
Attraverso un’espressione che presenta la medesima struttura sintattica, peraltro, in due passi iliadici in cui sono rappresentate scene di ospitalità, chi accoglie mostra di riconoscere le persone che si presentano alla sua dimora. Nella prima, nel IX canto, Achille saluta benevolmente gli ambasciatori, giunti alla sua tenda, prima di accoglierli secondo le pratiche dell’ospitalità. Attraverso l’espressione che accompagna, in funzione predicativa, il verbo di movimento (fivloi a[ndre~ iJkavneton Il. IX 197), appare chiaro che il Pelide, riconoscendo i capi dell’ambasceria, sottolinea, nel salutarli, il legame di philía che li lega a lui.
Nel XVIII canto dell’Iliade, sia Charis che Efesto, non appena vedono Teti giungere nella loro dimora, le chiedono, secondo una procedura tradizionale, le ragioni della sua venuta sottolineando, anche in questo caso, come la dea che si presenta al loro cospetto sia degna di rispetto e di sentimenti di philía (iJkavnei~ hJmetevron dw§ / aijdoivh te fivlh te Il. XVIII 385 –6 = 424 –5).
In entrambe queste immagini iliadiche, quindi, l’ospite, nel riconoscere chi arriva alla sua dimora, lo / li saluta, evidenziando il legame di amichevole reciprocità che lo unisce a loro. La dea del proemio di Parmenide, di contro, nel riconoscere e salutare il forestiero appena giunto alla sua dimora, non esplicita direttamente quale rapporto la leghi al giovane, pur sottolineando lo stretto legame che lo unisce alle realtà divine che lo hanno condotto fin lì: le aurighe e le cavalle immortali (ajqanavth/si sunhvoro~ hjniovcoisin / i{ppoi~ B 1.22-3).
10 Cfr. Od. X 229- 43, 310-35 per le scene di accoglienza di Circe e Od. V 143-44 per vedere le
analogie tra il modo in cui è descritto l’atteggiamento di Calipso nel dare consigli a Odisseo e quello della dea parmenidea nell’accogliere il forestiero. Si noti, in particolare, l’uso della formula aujtavr oiJ provfrwn uJpoqhvsomai al v. 143 nella stessa posizione metrica prima della dieresi bucolica che occupa la formula kaiv me qea; provfrwn uJpedevxato in Parmenide (B 1.22). Per un’analisi della figura di Circe nell’Odissea, anche nella sua relazione con altre figure divine femminili, cfr. Marinatos (1995).
2.2 L’incontro con le divinità infere nelle tavolette auree
Il racconto di questo viaggio che – come si è visto – si presenta, sotto certi aspetti, come un percorso che conduce nel regno degli inferi, oltre la soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, sembra peraltro riferirsi a un immaginario comune a quello espresso nelle istruzioni per i defunti incise su tavolette auree ritrovate in alcune tombe, in diverse aree del mondo ellenico, tra cui anche la Magna Grecia nelle località di Hipponion, Petelia e Thuri11. Anche in queste lamine, infatti, appare centrale la scena dell’incontro con alcune figure divine residenti nell’oltretomba. Il merito di avere proposto con forza l’ipotesi di un rapporto tra una
parte delle tavolette e il poema parmenideo va a Giovanni Pugliese Carratelli (Pugliese Carratelli 1988) e a Maria Michela Sassi (Sassi 1988a), i quali, peraltro, insistendo forse troppo nella ricerca di corrispondenze, arrivano a ipotizzare una possibile identificazione della dea con Mnemosyne, sulla base dell’importanza centrale che tale divinità ricopre in alcune delle lamine12.
Quel che qui si vuole sostenere non è certo una diretta relazione tra il testo inciso sulle tavolette e il proemio parmenideo. Si tratterebbe, infatti, di un’ipotesi non sostenibile se solo si considera che la più antica tra le lamine rinvenute – quella ritrovata a Hipponion, nei pressi dell’attuale Vibo Valentia – risale a circa un secolo dopo rispetto al periodo in cui Parmenide era attivo13. Qualora, però, si presti attenzione al fatto che alcune particolarità testuali delle lamine spingono a credere che questi testi – molti dei quali scritti in esametri – presuppongano una non breve
11 Le tavole hanno iniziato a essere ritrovate in diverse tombe dell’ecumene greca a partire dal 1836,
ma con una grande intensificazione dalla metà del secolo scorso. Oltre che in Magna Grecia, altre lamine risalenti alla fine del IV secolo sono state rinvenute in Tessaglia (Pharsalos, Pherae, Pélinna), una ad Entella in Sicilia (III sec. a.c.), diverse nell’isola di Creta (III-II sec. a.c.), una – di epoca molto più tarda – a Roma (III sec. d.c.), e altre dalla Macedonia. Dal loro ritrovamento si è avviata una discussione – ancora accesa – relativa alla loro funzione, all’opportunità di considerarle testimonianze dirette delle tradizioni orfiche e si sono inoltre ipotizzate possibili relazioni di alcune di esse con la cultura pitagorica, con i misteri bacchici e con quelli eleusinii. Questa discussione ha portato a diversi criteri di classificazione delle tavole, a seconda delle divinità nominate, delle formule rituali utilizzate e delle loro diverse rappresentazioni dell’oltretomba. Tra l’ampia e sempre in crescita bibliografia sull’argomento, si vedano, in particolare Zuntz (1971), Pugliese Carratelli (2001), Tortorelli Ghidini (2006), Graf-Johnston (2007), Bernabé-Iménez San Cristóbal (2008). La più aggiornata messa a punto sulla questione si trova in Edmonds (2011) pp. 3-14 e si veda anche la bibliografia nell’ultima sezione di questo volume.
12 Sassi è peraltro tornata sulla questione negli ultimi anni (cfr. Sassi (2009a) pp. 225-26) considerando
la possibilità che l’identità della dea sia volutamente indefinita, mostrandosi peraltro propensa ad accogliere la proposta di Cerri e di Kingsley di identificarla con Persefone, per cui cfr. infra cap. 4 pp. 227-32.
tradizione orale, e che l’area di ritrovamento delle più antiche di esse corrisponde al territorio magnogreco in cui Parmenide è vissuto, non appare del tutto insensato pensare a un patrimonio mitico tradizionale comune fra i testi delle tavole e il poema dell’ eleate14. Che le lamine e il poema parmenideo possano considerarsi parte di una medesima tradizione “coloniale” appare inoltre avvalorato dall’uso, mai attestato altrove, di alcune forme di infinito presente tematico con desinenza -nai – tipica delle forme atematiche – in Parmenide, nella tavoletta di Hipponion e in uno skyphos del primo quarto del V sec. a.c. trovato nell’entroterra di Leontinoi15.
Le prescrizioni incise su queste tavole sembrano infatti presupporre il racconto mitico di un viaggio in un regno oltremondano in cui l’anima del defunto, grazie alla conoscenza di indicazioni che gli altri ignorano, è in grado di percorrere un tragitto diverso, distinguendosi così dalla massa delle altre, e ottenendo il diritto – sembra – a un particolare destino dopo la morte16. Momento decisivo di questo viaggio appare, inoltre, l’incontro con dei sorveglianti o con delle divinità infere – tra cui spicca Persefone – il cui atteggiamento ben disposto sembra essere decisivo, in vista di una condizione post mortem privilegiata17. Sia negli esametri incisi sulle tavolette, che in
quelli del proemio parmenideo, si fa riferimento a un viaggio che attraversa la dimensione oltremondana, in cui il protagonista della narrazione – sia esso l’autore di un poema o l’anima di un defunto – si distingue dai “molti” per il fatto di percorrere
14 Sull’ipotesi che il testo delle lamine dipenda da una tradizione orale più antica, sulla base dell’analisi
degli errori, delle omissioni e delle confusioni nell’uso delle formule e nel rispetto dell’esametro presenti nelle tavolette cfr. Janko (1984), Edmonds (2004) p. 32, Ferrari (2007) pp. 120-1.
15 Si confronti la forma pelevnai in Parmenide B 8.11 e B 8.44-5 - all’interno della stessa espressione
formulare, nella medesima posizione metrica –, con pievnai al v. 7 della tavoletta di Hipponion e kleptevnai dello skyphos di Leontinoi. Per l’analisi di queste corrispondenze linguistiche cfr. Cassio (1996) e Ferrari (2005) pp. 115-17 che conclude il suo articolo (p.128) ipotizzando l’esistenza di una variante “italica” della tradizione epico-didattica arcaica di cui le opere di Senofane, di Parmenide, di Empedocle e le lamine misteriche gravitanti su Mnemosyne costituirebbero gli esempi a noi noti. La tradizionale definizione di una filosofia “italica” accomunata da un stretto legame tra “misticismo e pensiero filosofico-scientifico” viene ridiscussa, a partire da una riflessione sulla storia degli studi dei rapporti tra Pitagora, Parmenide e l’orfismo in Magna Grecia in Sassi (1989). Su questi aspetti si veda anche Battezzato (2005) pp. 90-5.
16 Riferimenti al particolare tragitto che deve seguire l’iniziato nell’oltretomba per arrivare a una meta
diversa dalle altre anime si trovano in L 1 (2-7), L 3 (1-5), L 8 (2, 5), L 4 (1-5), L 2 (4-9), L 5a-f (2). Cfr. infra cap. 3 pp. 134-38, pp. 152-55.
17 In L 1-4 l’anima dell’iniziato incontra dei sorveglianti (fuvlake~), sottoposti ai sovrani dell’Ade,
davanti al lago di Mnemosyne, cui deve rispondere in modo tale che essi le permettano di bere a quella fonte e di procedere oltre, per un cammino che sembra portarla ad un destino ultraterreno migliore rispetto a quello delle altre anime. In un altro gruppo di lamine, invece, l’anima sembra rivolgersi direttamente a delle vere e proprie divinità infere: alla regina degli inferi, a Eucle, a Eubuleo e agli altri dèi in LL 9–10a-b, L 11 (senza riferimento agli altri dèi); a Plutone e Persefone in L 14–15.
un tragitto riservato a pochi privilegiati, che si differenziano dagli altri – a quanto pare – anche per il possesso di particolari conoscenze.
A uno sfondo tradizionale comune sembra ricondurre anche l’immagine dell’incontro decisivo con divinità che risiedono negli inferi. Si ricordi, oltretutto, che nella narrazione parmenidea, l’incontro con la dea è preceduto da quello con la sorvegliante divina della soglia dei percorsi di Giorno e di Notte, Dike che viene persuasa, grazie ai suadenti discorsi delle Eliadi, ad aprire le porte e lasciare passare il carro18. Le anime dei defunti rappresentate nei testi delle lamine, del resto, per riuscire a ben disporre nei loro confronti le divinità che incontrano negli inferi, devono presentarsi e, in qualche caso, anche spiegare in che modo siano giunte fin lì. E, proprio grazie al loro far riferimento all’origine divina che le accomuna alle divinità infere, sembrano ottenere il loro favore.
L’intero processo è reso esplicito in alcune delle tavolette in cui compaiono i custodi del lago da cui l’anima dell’iniziato vuole attingere l’acqua, per avere così accesso ad uno speciale destino ultramondano19. I sorveglianti, infatti, chiedono all’anima di spiegare le ragioni del suo viaggio (L 1–2, L 4), o di rendere manifesta la sua identità e provenienza (L 5a-f–6, L 6a). Rispondendo a tali domande, l’anima dell’iniziato dichiara di essere figlia della Terra e del Cielo stellato (Gh§~ pai§~ eijmi kai; Oujranou§ ajsterovento~ ) e ottiene così l’acqua richiesta20.
In un altro gruppo di tavole è riportato, senza descrizioni preliminari, un discorso diretto, grazie a cui l’anima dell’iniziato, dichiarando l’identità divina che la accomuna ai suoi interlocutori (L 9–10a-b) e spiegando la natura del suo viaggio, spera di ottenere dalle divinità infere cui si rivolge lo speciale destino cui sembra
18 Per cui cfr. B 1.14-20 e infra cap. 2 pp. 72-88.
19 Si noti come l’accortezza sembri essere una qualità importante nel dialogo tra chi sopraggiunge e le
divinità che sorvegliano le regioni infere. In L 1–2 si dice infatti che i sorveglianti interrogheranno l’anima che si presenta a loro “con mente accorta” (frasi; peukalivmhsi), mentre, nel proemio parmenideo (B1.16) le Eliadi sono dette persuadere “accortamente” (ejpifradevw~) Dike ad aprire la porta dei cammini di Giorno e di Notte.
20 Si veda, a questo proposito, quanto osserva Tortorelli Ghidini (2006) p. 52 a commento
dell’espressione ajlhqeivhn katalevxai al v. 7 della tavoletta di Farsalo che precede la risposta dell’anima dell’iniziato alla richiesta dei guardiani di indicare il motivo della sua venuta: “La formula, non diversamente da quella omerica di cui è calco, presuppone la domanda di identità (chi sei?) ma risolve il racconto di verità omerico nella dichiarazione di una memoria totale che conduce alla salvezza. «Tutta la verità» che l’anima deve riferire ai custodi consiste infatti nel recitare la propria genealogia mistica: Gh§~ pai§~ eijmi kai; Oujranou§ ajstãerovento~Ô. Cfr. anche Tortorelli Ghidini (2006) p. 138.
avere diritto21. In due tavolette turiine (L 10a-b) viene oltretutto specificato che l’anima si è presentata al cospetto di Persefone, dichiarando la sua identità e la natura del suo viaggio, proprio affinché la dea la mandi, “ben disposta”, (provfrwn) nelle sedi dei puri.
Se si ipotizza che già all’epoca di Parmenide fosse in qualche misura diffusa – nonostante il suo carattere evidentemente iniziatico, dalle forti implicazioni escatologiche – una mitologia di questo tipo, l’incontro del giovane con la dea deve essere apparso sorprendente e significativo22.Nel proemio dell’eleate, infatti, la dea è già ben disposta (provfrwn v. 22) e, invece di chiedere a quale titolo e in quali condizioni sia giunto il forestiero che si presenta al suo cospetto, spiega essa stessa al suo disorientato interlocutore le ragioni del suo viaggio.
Se in alcune tavolette, infatti, l’anima dell’iniziato si presenta agli dèi inferi annunciando la sua venuta, in ragione della sua speciale identità ( “io vengo pura tra i puri” e[rcomai ejk kaqarw§n kaqarav), nel proemio parmenideo è la dea a proclamare, dalla sua prospettiva, le eccezionali caratteristiche della persona che giunge al suo cospetto. In entrambi i casi, del resto, si trova lo stesso costrutto – sintatticamente corrispondente a quello che abbiamo individuato nelle espressioni iliadiche analizzate poco sopra – con il verbo di movimento (e[rcomai / iJkanwvn) a cui vengono riferiti, in funzione predicativa, gli attributi che definiscono la speciale identità di chi è sopraggiunto (ejk kaqarw§n kaqarav / ajqanavth/si sunhvoro~ hjniovcoisin i{ppoi~)23.
21 La formula di riconoscimento utilizzata in questo gruppo di lamine “Io vengo pura tra i puri …
giacché anche io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe beata” (e[rcomai ejk kaqarw§n kaqarav ... kai; ga;r ejgw;n uJmw§n gevno~ eu[comai o[lbion ei\nai) è attestata invece in terza persona in L 11 (e[rcetai ejk kaqarw§n kaqarav). La natura e le ragioni del viaggio, invece, non sono presentate sempre alla stessa maniera. In molte tra le tavolette in cui compaiono Persefone e le altre divinità infere, l’anima fa riferimento alla sua morte attraversol’icastica formula Moi§ra ejdamavsse e al fatto di essere stata fulminata da un dio (L9–10a-b). In alcune, poi, si allude all’avvenuto pagamento per azioni non giuste (L10a-b) e alla liberazione dal ciclo delle rinascite, sancito dall’immersione nel grembo della regina ctonia (L 9).
22 Sul confronto tra l’immagine del bivio cui si allude nelle indicazioni ai defunti tracciati in alcune
delle lamine e quella che si presenta all’interno del poema parmenideo Cfr. infra cap. 3 pp. 134-38, pp. 152-55.
23 Si noti che Edmonds (2004) cap. 2, ripreso in forma riassunta in Edmonds (2009), sottolinea
l’importanza centrale del momento in cui l’anima del defunto dichiara la propria eccezionale identità di fronte ai guardiani o ai sovrani dell’oltretomba, anche nella prospettiva di un’indagine sulla tradizione culturale di cui questi misteriosi manufatti sono espressione. Su questo aspetto si veda inoltre Betz (2011) e, nello stesso volume, Herrero de Járegui (2011) che analizza le analogie strutturali tra questi dialoghi nell’oltretomba e quelli che talvolta precedono gli scontri tra due eroi nell’Iliade.
3 Polivalenza di significati nell’uso del termine kouros
Per capire il modo in cui la dea inquadra la relazione che intercorre tra lei e la persona appena sopraggiunta al suo cospetto, peraltro, appare importante analizzare il significato dell’apostrofe con cui le si rivolge, non appena la vede.
Invece di chiamarlo straniero, ospite, amico, o in qualsiasi altro modo, la divinità, prima ancora di dare un’immagine del suo interlocutore, o di indicare che tipo di percorso lo abbia condotto fin là e quale sia la natura del suo viaggio, lo saluta, chiamandolo kouros. Come è noto, questo termine sembra avere goduto di particolare fortuna proprio in età arcaica, periodo in cui è stato impiegato, a seconda dei contesti, con diverse sfumature di significato24.
Nel caso del poema parmenideo, bisogna considerare innanzi tutto che, con questo appellativo, una dea si rivolge a un mortale nell’accoglierlo nella sua dimora, lontana dal luogo in cui gli uomini vivono e agiscono nella realtà. In secondo luogo, è importante tenere presente che questa divinità chiama il forestiero kouros nel momento in cui ne sottolinea il profondo legame che lo unisce alle cavalle e alle aurighe che lo hanno condotto fin lì.
3.1 Associazione con l’immagine dell’eroe sul carro
In questo senso appare significativo il fatto che la rappresentazione che la dea fa del forestiero corrisponda, sostanzialmente, con la descrizione che l’autore dà di sé ai primi versi del proemio. Prima spia di questa corrispondenza appare l’impiego della formula ai{ se fevrousin (v. 25) che, nella prospettiva della dea, riprende – nella stessa posizione dell’esametro e sempre in riferimento diretto al termine i{ppoi(~) a inizio verso – il taiv me fevrousin del v.1 con cui l’autore descriveva l’avvio del suo viaggio.
E, dalle parole della dea, appare chiaro che il giovane giunge (iJkavnwn v. 25) alla sua dimora, proprio in quanto compagno (sunhvoro~) di aurighe immortali e di quelle cavalle che, secondo quanto recita il primo verso del proemio, lo portano
24 Come si legge nel LSJ s.v. kovro~ Ion. kou§ro~ il suo primo significato è proprio quello di boy, lad e
con gen. di persona son. Per diverse analisi delle sfumature di significato de termine cfr. Jeanmaire (1939), Harrison (1912) pp. 11-12 della seconda edizione (Cambridge 19272), Nilsson (1927)p. 547
della seconda edizione (Lund 19502). Sulla diffusione e sul valore delle statue di kouroi in età arcaica
“quanto l’animo giunga” (o{son t jejpi; qumo;~ iJkavnoi v.1) 25. La forza trainante delle
cavalle, strettamente dipendente dai movimenti del suo qumov~ conduce quindi il protagonista del proemio alla soglia della dimora della divinità26. Sembra, dunque, che l’immagine del giovane sul carro, guidato da cavalle e da aurighe divine sottolinei, in tutto il suo complesso, l’eccezionale individualità dell’autore, sia secondo la prospettiva della dea, che sulla base della sua autorappresentazione iniziale.
Tale estensione della definizione della propria individualità al carro e alle cavalle non deve del resto essere risultato del tutto sorprendente al pubblico parmenideo. Da alcuni passi dell’epica eroica in cui vengono usate espressioni simili a quella che definisce le giumente del proemio di Parmenide risulta evidente, infatti, come la personalità dell’eroe possa essere definita anche dal valore dei suoi cavalli. Nel II canto dell’Iliade, infatti, dopo avere elencato i capi dei Danai e definito i loro contingenti, il poeta chiede alla Musa di dirgli chi, tra coloro che seguivano gli Atridi fosse, di gran lunga, il migliore non solo tra i comandanti, ma anche tra i cavalli (tiv~ t ja]r tw§n o[c ja[risto~ e[hn, suv moi e[nnepe, Mou§sa, / aujtw§n hjd j i{ppwn, oi} a{m∆ jAtrei?dh/sin e{ponto Il. II 761 –2). Questa richiesta che Kirk, nel suo commento ad loc., considera un’aggiunta gratuita e bizzarra, si spiega se si considera che, nel mondo dell’epos omerico, lo statuto eroico del guerriero era definito anche dal valore del suo cavallo, sia che lo si intenda come geras – cioè quella parte d’onore attribuita al singolo eroe dalla comunità dei capi combattenti attraverso l’assegnazione di una parte della preda di guerra – sia che lo si consideri nel suo ruolo attivo all’interno dell’azione bellica che conferisce gloria all’aristeus27. E, coerentemente con questa visione della realtà, i migliori cavalli sono quelli che portavano il perfetto Pelide, il
25 sunhvoro~ ha come primo significato quello di linked with, wedded to (LSJ). Il sostantivo è peraltro
ricondotto al verbo sunaeivrw che indica anche l’azione di aggiogare insieme due cavalli, per cui considera la comune origine del termine latino coniunx (it. coniuge) < cum + rad. JUG da cui JUNGO “unisco” e JUGUM “giogo”. L’unica occorrenza nell’epica arcaica, riconduce all’ambito della poesia dell’aedo. In Od. VIII 99 Alcinoo definisce la cetra “compagna del banchetto fiorente” (fovrmiggo~ q j, h} daiti; sunhvorov~ ejsti qaleivh/, a cui allude poi Pindaro in Nem. 4.5 eujlogiva fovrmiggi sunhvoro~.
26 Cerri (1999) nel suo Commento ad loc. osserva che, attraverso la relativa riferita alle cavalle, “il v.1
fornisce così all’uditorio e al pubblico dei futuri lettori una spiegazione preventiva della funzione metaforica delle cavalle e del carro”. Lo statuto di questa immagine metaforica appare peraltro di difficile comprensione, avendo lasciato il campo aperto, fin dall’antichità, a diverse interpretazioni in chiave allegorica. Si veda, a questo proposito, l’interpretazione allegorica di matrice stoica che Sesto Empirico riporta a commento dei primi trenta versi del proemio parmenideo (28 B 1 = Sext. VII 111 seg.).
27 Per uno studio – ricco anche di utili riferimenti bibliografici – sulla pratica dell’aristeuein e
sull’importanza del possesso del geras nella definizione dello statuto antropologico del guerriero omerico si veda Di Donato (2006) e, in particolare, le pp. 34-64.
più forte, di gran lunga, dell’armata achea (oJ ga;r polu; fevrtato~ h\en / i{ppoi q ,j oi} foreveskon ajmuvmona Phlei?wna Il. II 769-70). La natura di questi cavalli è del resto piuttosto eccezionale. Essi, infatti, proprio come le cavalle che guidano il protagonista del proemio di Parmenide, sono divini – essendo figli di Zefiro e dell’arpia Podarge28 – ma si trovano a condurre sul carro degli esseri mortali. Sono stati infatti dati in dono a Peleo e, nel conflitto troiano, sono i cavalli che portano Achille. Sul carro condotto da loro, al fianco dell’auriga Automedonte, Patroclo – come viene narrato nel XVI canto dell’ Iliade – va incontro alla morte per mano di Ettore. E, proprio nel rivolgersi a loro che piangono e rimangono pietrificati dal dolore dopo la morte dell’eroe, Zeus sottolinea la loro particolare condizione di esseri immortali, costretti a condividere le tragiche vicende che caratterizzano l’esistenza degli uomini mortali29. Nel XIX canto, inoltre, nel momento in cui Achille torna in guerra dopo la morte del compagno risalendo sullo stesso carro che ha condotto Patroclo in battaglia per l’ultima volta, Era dà a Xanto, uno dei cavalli divini, la possibilità di rispondere con un discorso alle accuse di Achille – che aveva appena invitato i destrieri a darsi da fare per riportarlo vivo tra i Greci una volta che fossero sazi di guerra, diversamente da come avevano fatto con Patroclo – dandogli così l’occasione di vaticinare la morte imminente dell’eroe30.
Interessante, a questo proposito, appare anche il fatto che una formula simile a quella che definisce i cavalli di Achille nel II canto iliadico – e a quella che descrive le giumente che guidano il kouros parmenideo – si accompagni al nome di uno dei capi che combattono a fianco del contingente troiano, in due passi significativi nella narrazione delle sue gesta. Asio Irtacide è infatti “colui che conducevano da Arisbe i grandi e focosi cavalli, dalle rive del fiume Selleenta” (... o}n jArivsbhqen fevron i{ppoi / ai[qwne~ megavloi, potamou§ a[po Sellhvento~ Il. II 838-9 = XII 96-7 ). Questo eroe viene così definito sia nel II canto dell’Iliade, laddove viene descritta la composizione dell’esercito troiano, sia nell’episodio decisivo in cui Asio si trova a capo di uno dei gruppi di combattenti preposti all’assalto del muro che protegge le navi e il bottino degli Achei. L’Irtacide, infatti, è l’unico che, non tenendo conto del consiglio di
28 Cfr. Il. XVI 149-51.
29 Cfr. Il. XVII 443-8. Per l’intera scena in cui viene descritto il cordoglio dei cavalli per la morte di
Patroclo cfr. Il. XVII 426-59.
30 Si veda, per questo episodio Il. XIX 392-424. I commentatori, generalmente, mettono in relazione
l’epiteto di nuovo conio poluvfrastoi con cui Parmenide qualifica le cavalle (B 1.4) con l’invito a pensare di salvare il loro auriga (fravzesqe sawsevmen hJnioch§a XIX 401) che Achille, in questo passo iliadico, rivolge ai suoi cavalli divini.
Polidamante, non abbandonerà il carro e i cavalli prima di attraversare il fosso che si trova davanti al muro e, proprio per questa ragione, andrà incontro al suo fatale destino. Troverà così la morte al fianco dei fedeli compagni – i destrieri e l’auriga – da cui non aveva voluto in nessun modo separarsi31.
A inserire l’immagine del protagonista del proemio parmenideo all’interno di questo immaginario tradizionale in cui l’individualità dell’eroe può essere definita anche sulla base del valore dei suoi cavalli sembra appunto contribuire anche l’apostrofe con cui la dea accoglie il forestiero, nel momento del suo arrivo. Il sostantivo kouros, infatti – come ha brillantemente dimostrato in uno studio ormai classico Jeanmaire32 – all’interno del mondo rappresentato nei poemi omerici, pur assumendo a seconda del contesto diverse sfumature, definiva non soltanto una classe di età, quanto, soprattutto, una categoria di uomini che, per il fatto di essere giovani e di origine aristocratica, avevano come occupazione principale l’attività guerriera, mentre venivano esclusi dalle più importanti attività decisionali, riservate ai gérontes, i loro padri33.
In questo modo, la dea che saluta il forestiero dicendogli “o kouros che giungi alla nostra casa, compagno di aurighe e di cavalle immortali che ti portano”, può richiamare l’immagine del giovane eroe omerico, nel momento in cui esercita la sua principale attività, quella di primeggiare nell’azione guerriera, sul suo carro, condotto dal fedele auriga e dai suoi cavalli che appaiono talvolta decisivi nel determinare le sue sorti e la gloria che ne deriva.
Se si ipotizza che il pubblico parmenideo abbia potuto ricollocare la rappresentazione del kouros in questo contesto simbolico, è chiaro che l’immagine più vicina a quella del proemio è proprio quella di Achille, nel momento in cui rientra in battaglia dopo la morte dell’amico Patroclo. L’eroe, montato sul carro, guidato dai cavalli immortali del padre, nella nuova sfavillante armatura costruita da Efesto, viene infatti paragonato allo splendente Iperione (Il. XIX 398-99), richiamando, a sua volta,
31 Per questo episodio cfr. Il. XII 37 e seg. La fine di Asio, nelle circostanze di cui viene avviata la
narrazione nel dodicesimo canto, viene raccontata poi, nel momento del contrattacco greco, in Il. XIII 384-98 in cui la sua morte è subito seguita da quella del suo auriga. Gli ultimi versi dedicati all’Irtacide, inoltre, lo rappresentano icasticamente disteso rantolante, in fin di vita, davanti ai suoi cavalli e al suo carro, mentre stringe la polvere insanguinata (w}~ oJ provsq j i{ppwn kai; divfrou kei§to tanusqei§~, / bebrucwv~, kovnio~ dedragmevno~ aiJmatoevssh~ 392-3)
32 Cfr. Jeanmaire (1939), in particolare il primo capitolo dedicato alla chevalerie homérique (pp.
11-111)
33 Si vedano le considerazioni di Jeanmaire (1939) pp. 11-43 a partire dall’analisi di espressioni come
la rappresentazione del carro del Sole, lo stesso su cui sembra viaggiare il protagonista del proemio di Parmenide34. La rappresentazione di Achille, splendente
di luce, che viene condotto dai cavalli divini di Peleo nel luogo dove questi lo portavano normalmente a manifestare le sue straordinarie qualità eroiche, cioè il campo di battaglia, può forse – insieme a quelle di altri eroi dell’epos – avere aiutato a capire l’immagine che Parmenide dà di sé nel racconto mitico del proemio.
A questo proposito può essere utile prendere di nuovo in considerazione il passo della VI Olimpica in cui Pindaro esorta l’auriga del carro che ha portato alla vittoria Hagesías – cui l’ode è dedicata – ad aggiogare le mule, per condurre il poeta stesso, per un percorso non contaminato, là dove egli possa conoscere l’origine della stirpe del laudando che vuole celebrare35. Il poeta, infatti, vuole salire su quel carro perché trainato da chi meglio di tutti può fare da guida per quel percorso: le mule che, insieme ad Hagesías, ricevettero le corone a Olimpia, dotate delle stesse facoltà di conoscenza e di pensiero che caratterizzano le giumente del proemio di Parmenide e i cavalli che guidano il carro di Achille nell’Iliade. Sanno, infatti, meglio di tutte le altre, fare da guida per la strada che Pindaro vuole percorrere (… kei§nai ga;r ejx ajlla§n oJdo;n aJgemoneu§sai / tauvtan ejpivstantai Ol. VI 25-26).È evidente come qui Pindaro intenda sovrapporsi all’immagine del giovane nobile che ha ottenuto la vittoria, appropriandosi del carro e delle mule grazie a cui Hagesías è risultato vincitore. Ma l’esperienza e le capacità delle mule che hanno portato il laudando a vincere la gara vuole essere impiegata dall’autore per il diverso fine di attingere al contenuto della lode. Grazie allo sfruttamento di questa immagine, quindi, l’eccezionalità della vittoria sul carro ottenuta dal laudando e la composizione del canto da parte del poeta vengono presentati allo stesso modo, assumendo così simile valore36.
Si può quindi ipotizzare che, in modo analogo, anche Parmenide, nel proemio del suo poema, abbia costruito un’immagine di sé che, attraverso l’uso delle espressioni che stiamo qui analizzando, rievochi la rappresentazione del giovane eroe omerico e del suo statuto antropologico. Il pubblico parmenideo si trova infatti ad
34 Per cui cfr. supra cap. 1 pp. 1-18.
35 Pindaro Ol. VI 22-7 per cui cfr. supra cap. 1 pp. 2-3, dove si rimanda anche a D’Alessio (1995) che
costituisce un ottimo punto di riferimento per chi voglia studiare non solo il rapporto tra questa ode pindarica e il poema parmenideo, ma, in generale, il rapporto tra questi due autori nel presentare se stessi e lo statuto della loro attività poetica. Cfr. Durante (1976) p. 131 e seg.
36 Sulle corrispondenze in Pindaro tra status aristocratico, successo agonale e composizione di poesia
ascoltare un poema scritto nella stessa lingua e nello stesso metro dell’epica omerica, che inizia con la rappresentazione di un kouros su di un carro guidato da cavalle e da aurighe immortali. Le giumente divine, peraltro, guidano questo giovane non nel campo di battaglia a primeggiare sugli altri combattenti – come ci si aspetterebbe da un eroe omerico – ma, attraverso un percorso lontano dal tracciato degli uomini, fin dove il suo animo riesce a giungere: al di là dei confini del cosmo conosciuto, presso la dimora di una dea che gli permetterà di avere accesso a una nuova forma di sapere. In questo modo, proprio come Pindaro nella VI Olimpica costruisce un’immagine di se stesso al posto del vincitore di cui sta tessendo le lodi, così l’autore del poema parmenideo si appropria di alcuni dei più importanti elementi che definiscono il guerriero omerico – il carro, le aurighe e le cavalle – per dare alla rappresentazione del suo accesso alla conoscenza il valore delle imprese eroiche rappresentate nella tradizione epica precedente.
3.2 La tradizionale opposizione kouoroi/gérontes
Non va peraltro dimenticato che la dea saluta il forestiero che vede sopraggiungere sul carro guidato da cavalle e aurighe immortali, chiamandolo kouros. Come si è avuto modo di considerare, nell’epopea omerica, all’interno della comunità dell’esercito si contrappongono, ricoprendo funzioni diverse e complementari, due grandi categorie di eroi: i kouroi e i gérontes.
E, se è vero che il termine kou§ro~ in associazione con il carro e con i cavalli può rievocare l’immagine dell’eroe omerico, bisogna anche considerare che questo termine – specialmente se usato in un’apostrofe al singolare – non è perfettamente equivalente al sostantivo ajristeuv~, nonostante i due termini – o altri a questi strettamente collegati come a[risto~ – vengano spesso impiegati insieme per definire lo stesso individuo37. Se, infatti, l’attività principale del kouros è combattere, non si deve peraltro dimenticare che questi giovani, mentre vengono esclusi dalle principali attività decisionali dell’esercito, eseguono delle attività al servizio della comunità che
37 “All’interno dell’epopea omerica l’aristeus è colui che compie, ma forse meglio, colui che ha
compiuto ed è in grado di compiere ancora l’azione eroica … e quindi l’azione di guerra, il duello individuale, isolato o in rapida sequenza, come nel narrato iliadico, che finisce per risemantizzare il sostantivo, come si dice, per antonomasia” (Di Donato 2006 p. 39). Cfr. Jeanmaire (1939) p. 36 + n. 1 per gli esempi. Papadopoulou (2008) pp. 213-222, ritiene che l’uso del termine kouros all’interno del proemio parmenideo si spieghi come il tentativo di identificare il protagonista della narrazione con il giovane della tradizione omerica, che sia avvia ad acquisire lo statuto eroico.
li pongono su di un piano diverso e in qualche modo subalterno nei confronti di chi è più anziano di loro38. Dall’analisi dei passi presi in considerazione da Jeanmaire,
appare che i kouroi, infatti, possono esercitare diverse funzioni come l’organizzazione dei banchetti, l’esecuzione dei sacrifici, oltre che comparire come danzatori o come equipaggio di una nave39.
Se, quindi, l’uso di espressioni formulari che rievocano l’immagine dell’eroe omerico sul carro ci rimanda al mondo dei guerrieri degli eserciti che si fronteggiano nell’Iliade, bisogna anche considerare che l’uso da parte della dea di Parmenide dell’apostrofe kou§re, sembra definire al suo interno la categoria dei figli, distinta e complementare a quella dei padri.
3.2.1 Il discorso di Nestore ad Antiloco
Se lo si considera da questa prospettiva, il discorso della dea parmenidea, anche grazie alla sua apostrofe incipitaria, può avere evocato il famoso discorso che Nestore – il saggio gevrwn per eccellenza dell’Iliade – rivolge a suo figlio – una delle individualità più distinte tra i kouroi del campo acheo – nel momento che precede la competizione sui carri che costituisce una delle prove nei giochi funebri in onore di Patroclo40. Come vedremo meglio in seguito, infatti, la dea parmenidea, nel dare indicazioni al suo interlocutore sulle vie da seguire, usa alcune espressioni riprese dalla tecnica della guida del carro ponendosi, talvolta, anche in una prospettiva
38 Jeanmaire (1939) pp. 29-30, nell’assimilare il ruolo dei kouroi omerici a quello del damoiseu del
Medioevo francese, osserva come tratto comune a entrambi il fatto di non limitarsi a esercitare le attività propriamente militari, ma anche delle “fonctions de domesticité noble”.
39 Si veda a questo proposito quanto osserva Jeanmaire (1939): “les couroi semblent les figurants
obligés de tout ce qui comporte une parade ou une certaine mise en scéne”. Per il contributo dei kouroi all’allestimento del banchetto cfr. e.g. Il. I 465, 470, IX 175; Od. I 148, III 339, XXI 271, per il loro ruolo nella pratica del sacrificio si veda l’articolata descrizione della cerimonia di riconciliazione con Apollo che la spedizione guidata da Odisseo svolge nel momento in cui Criseide viene ricondotta a Crisa in Il. I 430-487. Per l’immagine dei kouroi come danzatori cfr. Od. VIII 262-64. Si consideri, inoltre, che dei kouroi, scelti tra i suoi coetanei, costituiscono la flotta della nave a bordo della quale Telemaco parte per andare alla ricerca di informazioni sul padre (cfr. in particolare Od. III 364-5 e IV 642-44). Si osservi come è marcata la divisione di ruoli all’inizio del IX canto dell’Iliade, quando Nestore ordina ai kouroi di esercitare il ruolo di sentinelle presso il muro (kouvroisin me;n tau§t j ejpitevllomai v. 68), mentre gli anziani si riuniscono per deliberare sul da farsi nella tenda di Agamennone (cfr. Il. IX 53-78).
40 Cfr. Il. XXIII vv. 301-50. Passi in cui Antiloco figura come uno dei kou§roi o kouvrhte~ sono Il. XIII
93-95, XIX 237-51, 248. Spesso, all’interno dell’epica omerica, uno dei figli di Nestore si presenta nella categoria dei kouroi per cui si veda, a titolo di esempio, Il. IX 79-86, Od. XV 151-3. Cfr. per questi riferimenti anche Jeanmaire (1939) pp. 26-43.
agonale41. In questo senso, il suo ruolo può apparire assimilabile a quello che Nestore esercita nei confronti del figlio, prima della competizione che costituisce uno degli episodi più importanti all’interno del ventitreesimo libro dell’Iliade. Dalle parole dell’eroe gerenio, infatti, siamo informati che Antiloco, pur essendo giovane, sa bene come condurre il carro, grazie al particolare rapporto di philía che lo lega a Zeus e Poseidone che lo hanno personalmente istruito in quest’arte (Il. XXIII 306-7). I consigli del padre, peraltro, sono necessari perché – in questo caso eccezionale – le straordinarie qualità di Antiloco non si estendono ai suoi cavalli, che sono infatti più lenti di quelli degli altri eroi che partecipano alla gara (Il. XXIII 309-11).
Questa situazione, che sembra mal adattarsi a un sistema di valori in cui l’identità dell’eroe è definita anche dal valore dei suoi cavalli, si presenta come la giusta premessa all’elogio di una qualità, la mètis – l’intelligenza astuta, flessibile, pronta a fronteggiare l’imprevisto – che si pone spesso come alternativa alla forza fisica che qualifica tradizionalmente il guerriero omerico42. Antiloco, infatti, secondo quanto dice il padre, può far fronte a una situazione di partenza svantaggiosa – la particolare lentezza dei suoi cavalli – sia perché superiore agli altri concorrenti nell’esercizio della mètis43, che grazie alle astute indicazioni paterne.
Rimandando a pagine successive la riflessione sulla relazione tra la mètis e la forma di pensiero e conoscenza proposta da Parmenide44, cerchiamo ora di soffermarci sul modo in cui la rievocazione di questo discorso del géron Nestore al kouros Antiloco possa aver aiutato a comprendere il modo in cui Parmenide, attraverso il discorso della dea, definisce il suo rapporto con la divinità da un lato, e con gli altri uomini dall’altro. L’immagine di Nestore che dà ad Antiloco specifiche istruzioni di comportamento nella gara a cui il figlio si accinge a partecipare
41 Vedi infra cap. 2 pp. 58-60. Sull’uso dell’immagine della gara equestre o su carro per rappresentare
simbolicamente l’agone poetico, soprattutto all’interno della letteratura vedica cfr. Durante (1976) pp. 129-30.
42 Si veda, a questo proposito, la definizione che di mètis danno Detienne e Vernant nell’introduzione
alla loro raccolta di saggi intorno a questo tema: “La mètis est bien une forme d’intelligence et de pensée, un mode du connaître; elle implique un ensemble complexe, mais très cohérent, d’attitudes mentales, de comportements intellectuels qui combinent le flair, la sagacité, la prévision, la souplesse d’esprit, la finte, la débrouillardise, l’attention vigilante, le sens de l’opportunité, des habilités diverses, une expérience longuement acquise; elle s’applique à des réalités fugaces, mouvantes, décourcentantes et ambiguës, qui ne se prêtent ni à la mesure précise, ni au calcul exact, ni au raisonnement rigoureux” (Detienne-Vernant 1974, pp. 9-10).
43 … oujde; me;n aujtoi; pleivona i[sasin sevqen aujtou§ mhtivsasqai (né essi sono più capaci nell’esercizio
del’intelligenza astuta”) dice infatti Nestore al figlio, riferendosi agli altri concorrenti nella gara (XXIII 311-12).
presuppone certo un sistema di valori condiviso, secondo cui l’anziano è nella posizione più adatta a istruire il giovane. Il fatto che Nestore dichiari che non è troppo necessario istruire il figlio (tw§ kaiv se didaskevmen ou[ ti mavla crewv) dal momento che Zeus e Poseidone gli hanno già insegnato ogni genere di tecnica relativa all’arte equestre (... kai; iJpposuvna~ ejdivdaxan / pantoiva~), infatti, indica chiaramente che il padre si pone come didavskalo~ nei confronti del figlio (cfr. Il. XXIII 306-8).
3.2.2 Il vecchio e il giovane di fronte alla conoscenza
Se da un lato, il fatto che una persona più matura impartisca insegnamenti ad una più giovane e quindi meno esperta può sembrare ai nostri occhi un’ovvietà, bisogna peraltro considerare che, nella cultura greca arcaica, tale concezione della relazione tra vecchi e giovani in rapporto alla conoscenza si basa su principi di carattere generale, chiari e condivisi.
Questo appare evidente, ad esempio, nel momento in cui, nel III libro dell’Iliade, Menelao chiede che sia Priamo a sancire il giuramento tra l’esercito greco e quello troiano, in occasione del suo duello con Paride. La richiesta del re di Sparta, infatti, prende le mosse da un’accusa mirata ai figli di Priamo, da lui definiti “prepotenti e non degni di fede” (uJperfivaloi kai; a[pistoi v. 106), ma si conclude con una constatazione di carattere generale piuttosto significativa: Priamo va convocato perché, in quanto anziano (gevrwn), è dotato di una prospettiva che si estende allo stesso tempo, in avanti e all’indietro, nelle due dimensioni temporali del passato e del futuro ( … a{ma provssw kai; ojpivssw / leuvssei vv. 109-110) in modo tale da comprendere quali siano le condizioni migliori per entrambi gli schieramenti (o{pw~ o[c ja[rista met jajmfotevroisi gevnhtai v. 110). La presenza dell’anziano in questo frangente, inoltre, è necessaria per controllare la mente svolazzante dei più giovani (aijei; d∆ oJplotevrwn ajndrw§n frevne~ hjerevqontai / oi|~ oJ gevrwn metevh/sin... vv. 108-9)45. Al contrario, secondo quanto sostiene Achille – e verrà poi confermato dai
fatti nel seguito della narrazione iliadica – la prospettiva limitata di Agamennone, incapace di proiettarsi in avanti o all’indietro (a{ma provssw kai; ojpivssw), ha scatenato
45 Per tutto il discorso di Menelao cfr. Il. III 95-110. Per un’analisi comparativa dell’espressione
provssw kai; ojpivssw che analizzi la relazione che questa stabilisce tra la dimensione spaziale e quella temporale cfr. Dunkel (1982-83).
la sua ira e quindi il suo ritiro dalla guerra, e ha messo, così, gravemente in pericolo l’esercito acheo, invece di farlo combattere al sicuro presso le navi46.
La concezione generalmente diffusa all’interno della cultura greca arcaica secondo cui alla condizione di giovinezza si accompagna una limitatezza di vedute che porta facilmente all’errore, appare evidente anche dal campo semantico cui il termine nhvpio~ – particolarmente diffuso nell’epica tradizionale – fa riferimento.
Molto comune è infatti, soprattutto nella lingua dell’epos, l’uso del termine nhvpio~, non solo nel suo significato letterale di “bambino” o – più raramente – “cucciolo”, ma anche per riferirsi a colui che, non essendo in grado di formarsi una chiara idea della situazione in cui si trova, agisce in maniera tale da andare incontro a conseguenze disastrose47. Tale visione del giovane, unita all’idea che il suo animo sia leggero e quindi, poco costante, soggetto a movimento caotico facilmente deviabile, rende chiara la necessità della guida di una persona più anziana, che, avendo una mente salda e una prospettiva conoscitiva non limitata solo a ciò che si presenta in quel momento davanti agli occhi, ma estesa in avanti e all’indietro, possa dare al ragazzo le giuste coordinate per non perdersi e non abbandonarsi ad uno stato di completa confusione48.
Tale sistema di valori sta dunque alla base della rappresentazione di Nestore che dà indicazioni a suo figlio – peraltro già abile ed esperto – sul modo di controllare in modo fermo i suoi pur lenti cavalli e sulla maniera di aggirare rapidamente da vicino la meta in modo da non essere più raggiungibile dai concorrenti che lo inseguono. Le parole dell’anziano padre al figlio assumono, infatti, le movenze di un discorso a chiaro intento didascalico che una persona più esperta rivolge al suo
46 Cfr. Il. I 343-44.
47 Cfr. Griffin (1986) p. 40 in uno studio che mira alla ricerca di differenze stilistiche, all’interno
dell’epica omerica, tra la lingua delle sezioni narrative e quella dei discorsi dei personaggi, osserva che il termine nhvpio~ viene spesso usato dal narratore come commento relativo al comportamento di un personaggio che verrà deluso. Kirk (1985) nel suo commento a Il. II 38 osserva come nhvpio~ venga spesso usato solo per indicare la mancanza di una conoscenza completa. Contro l’idea che il termine sia connesso etimologicamente con (Û)evpo~ e abbia come senso originario “colui che non sa parlare” si veda DELG s.v. nhvpio~, ma si veda anche Detienne (1967) p. 25 della traduzione italiana (Roma-Bari 2008).
48 Per questa concezione dell’animo dei giovani si confronti, a titolo di esempio, l’appena considerato
Il. III 108 e Theogn. 629-30 “La giovinezza e lo spirito giovanile rendono leggera la mente dell’uomo;
/ spingono l’animo di molti all’errore” ( {Hbh kai; neovth~ ejpikoufivzei novon ajndro;~, / pollw§n d j ejxaivrei qumo;n ej~ ajmplakivhn). Per una trasposizione in una dimensione erotica dell’idea secondo cui al giovane stanno a cuore solo le cose che gli si presentano in quel momento, cfr. Teogn. 1267-70. Cfr. anche Detienne-Vernant (1974) p. 9 e, in particolare, n. 25. Per l’analogia tra il modo in cui viene rappresentato il rapporto vecchio-giovane di fronte alla conoscenza e quello che definisce la relazione tra l’uomo ephemeros e il dio cfr. infra cap. 2 pp. 68-70.
interlocutore. All’esortazione iniziale di mettersi ogni sorta di astuzie nell’animo (ajll∆ a[ge dh; suv, fivlo~, mh§tin ejmbavlleo qumw§/ / pantoivhn49 ... Il. XXIII 313-14),
segue la rappresentazione di colui che, affidandosi ciecamente ai cavalli e al carro, senza usare la testa (ajll j o}~ mevn q j i{ppoisi kai; a[rmasin oi\si pepoiqw;~ / ajfradevw~ vv. 319-20), non riesce a mantenerne il controllo (oujde; kativscei v. 321) e si fa vorticosamente trascinare di qua e di là lungo la pista (ejpi; pollo;n eJlivssetai e[nqa kai; e[nqa, / i{ppoi de; planovwntai ajna; drovmon vv. 320-21). A questo modello negativo viene poi contrapposto quello di colui che, pur avendo come Antiloco dei cavalli più deboli, conosce ogni genere di accortezza (o}~ dev ke kevrdea eijdh/§ ejlauvnwn h{ssona~ i{ppou~ vv. 323) e, tenendo sempre lo sguardo fisso alla meta (aijei; tevrm j oJrovwn v. 324), la aggira da vicino, mantenendo una salda presa sul carro e sui cavalli (ajll j e[cei ajsfalevw~ v. 325). Se Antiloco seguirà tale esempio – a detta del padre – non vi è chi, tra gli inseguitori, possa raggiungerlo o sorpassarlo (oujk e[sq j o{~ kev s∆e{lh/si metavlmeno~ oujde; parevlqh/ v. 345).
Se si considera che, all’interno del discorso di Nestore al figlio, si iscrive un elogio – non strettamente legato al contesto – della mètis nella sua applicazione anche ad altre attività tecniche come il taglio della legna e il comando della nave50, si può
supporre che, nella rappresentazione di questi due modelli contrapposti, si nascondano degli insegnamenti non semplicemente limitati alla guida del carro, ma volti a suggerire, più in generale, una certa condotta di vita. La polivalenza del discorso di Nestore può quindi forse aiutare a comprendere in che modo un pensatore come Parmenide, attraverso un’operazione che potremmo definire inversa a quella iliadica, utilizzi alcune espressioni che rimandano all’ambito della guida del carro, per aiutare il pubblico a comprendere un discorso teorico e astratto come quello che la dea usa – nel seguito del poema – per indicare al giovane cui si rivolge il vero percorso conoscitivo. Per rappresentare la condizione dei mortali “che nulla sanno”, infatti, utilizzando forme come plavzontai (B 6.5) e ejn w/| peplanhmevnoi eijsivn (B 8.54), la dea sembra alludere all’immagine del cattivo auriga che, non sapendo controllare il suo carro, viene trascinato fuori pista, seguendo un movimento caotico
49 Per l’uso di formule di questo genere nella tradizione epica didascalica cfr. infra cap. 2 p. 66 n. 68. 50 “Con la mètis, piuttosto che con la forza il taglialegna risulta di gran lunga più bravo; con la mètis, a
sua volta, il nocchiero, sul mare color del vino, dirige la nave veloce, spezzata dai venti; con la mètis l’auriga è superiore all’auriga (mhvti toi drutovmo~ mevg j ajmeivnwn hje; bivhfi: / mhvti d au\te kubernhvth~ ejni; oi[nopi povntw/ / nh§a qoh;n ijquvnei ejrecqomevnhn ajnevmoisi: / mhvti d j hJnivoco~ perigivgnetai hJniovcoio XXIII 315-18), in cui l’anafora mhvti sottolinea l’oggetto della lode.
che gli impedisce di raggiungere il suo obiettivo. Allo stesso modo, la divinità introduce la seconda parte del suo insegnamento come se stesse presentando – allo stesso modo di Nestore nel XXIII dell’Iliade – delle indicazioni affinché nessun mortale sorpassi (gnwvmh/ parelavssh/), in questo caso in giudizio, il suo giovane interlocutore (B 8. 6151). L’immagine del controllo del carro appare inoltre rievocata in uno dei momenti più complessi del discorso della dea, quando l’impossibilità che “le cose che non sono” siano, viene asserita dicendo che una tale affermazione non può essere in nessun modo domata in modo da ricondurla sotto il controllo del retto giudizio (ouj ga;r mhv pote tou§to damh§/, ei\nai mh; ejovnta B 7. 1)52.
4 Il rapporto tra il poeta e il suo destinatario nella tradizione
didascalica
Sul rapporto tra l’anziano e il giovane di fronte alla conoscenza sembra peraltro modellata la relazione che intercorre, all’interno della tradizione didascalica, tra il poeta e il suo interlocutore. Il primo, infatti, tende a presentarsi come colui che, essendo in possesso di una forma superiore di conoscenza, voglia condividerla - almeno in parte - con le persone cui si rivolge, aiutandole così in un loro miglioramento.
4.1 Il rapporto Esiodo/Perse e alcuni esempi dal Corpus Theognideum
Questo sembra implicito anche nella maniera bendisposta – ma non priva di una certa vena polemica – in cui Esiodo si rivolge al suo primo destinatario, il fratello Perse, nelle Opere e i Giorni.
In tre delle quattro occorrenze in cui il poeta di Ascra, apostrofando il fratello in forma diretta, inserisce il suo nome in una formula che comprende anche un
51 Che parelauvnw indichi di solito l’atto del superare non in senso generale, ma all’interno di una
competizione che coinvolge la guida di un carro, di una nave o di un cavallo è ribadito anche da Coxon (1986) nel suo commento al v. 61. Il riferimento all’immagine del superamento in una gara col carro rimane valido anche qualora si accolga il testo tradito con gnwvmh al nominativo, nel senso di “affinché nessun giudizio dei mortali ti sorpassi” (wJ~ ouj mhv potev tiv~ se brotw§n gnwvmh parelavssh/ DK). Cfr. anche Papadopoulou (2008) p. 220.
52 Già O’Brien nel suo commento ad loc. in Aubenque I (1987) I e Cerri (1999) ad loc. hanno
ricondotto questa espressione all’immagine di un cavallo che non si riesce a domare. Un’accurata analisi del modo in cui Parmenide fa uso, nel suo poema, di un linguaggio tecnico legato alla guida del carro si trova in Lesher (1984) pp. 21-30.