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Capitolo terzo Conflitto e pacificazione: Platone e il dialogo nell’anima

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Capitolo terzo

Conflitto e pacificazione:

Platone e il dialogo nell’anima

All’inizio del capitolo precedente ci siamo domandati se, effettivamente, la figura di Socrate potesse essere considerata marcare una svolta nello sviluppo del pen-siero greco.1 Se da un lato un tale giudizio è parso riduttivo rispetto a un

panora-ma complesso e variegato come quello della cultura preplatonica, dall’altro è ap-parso condivisibile per ciò che concerne specificamente il concetto di anima: e-splicitando e formulando teoreticamente cosa si intendesse per psyché, Socrate ha fatto ordine nell’insieme delle molteplici accezioni attribuite precedentemente al termine contribuendo in maniera decisiva a stabilizzarne il significato. Significato che, identificando il principio psichico come determinante tanto per la specifica attività conoscitiva dell’uomo quanto per la sua vita morale, si è di fatto imposto nella storia del pensiero occidentale.2

L’analisi del pensiero di Platone sull’anima e sul dialogo interiore, perciò, non può che prendere le mosse dall’insegnamento socratico che tanto lo impressionò e influenzò. Ma una qualsiasi ricerca in tal senso si scontra da subito con il ben noto problema riguardante la scelta operata da Socrate di non dare forma scritta al pro-prio pensiero e con la conseguente difficoltà di doversi districare in un insieme di testimonianze indirette, in primis gli stessi dialoghi platonici, nelle quali è spesso molto arduo distinguere l’effettiva lezione del maestro dalle opinioni e intenzioni dei suoi interpreti. Il problema affonda le sue radici, stando a due passi

dell’Apo-logia di Platone, nell’ambito stesso in cui operò il filosofo ateniese: Socrate,

infat-ti, racconta che molti giovani lo imitano volentieri esaminando altra gente, la qua-le finisce per adirarsi con lui considerandolo un essere diabolico e un abbindolato-re (23c-d); poi profetizza che dopo la sua morte molti verranno allo scoperto per

1 Cfr. sopra, pp. 107-108.

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portare avanti la sua opera di critica e di moralizzazione (39c-d). Il tentativo d’i-mitare il maestro e la volontà di portarne avanti l’insegnamento, quindi, avrebbero animato le intenzioni dei discepoli di Socrate fin dall’inizio, e si può presumere che i loro propositi si siano andati rinforzando nel contesto del processo e della successiva morte del maestro, anche per il particolare atteggiamento da lui tenuto. La nascita della cosiddetta “questione socratica” va insomma cercata già nella cer-chia degli allievi del filosofo ateniese, “che nella difficoltà di fissare il contenuto di un messaggio in realtà non pienamente afferrabile, nella forma aporetica in cui veniva trasmesso, finirono per forgiarsene ciascuno un’immagine particolare, ten-denzialmente parziale, naturalmente contraddittoria con le altre. Di qui, anche, la notevole divaricazione presentata dai sistemi delle scuole socratiche, così forte da essere già perfettamente chiara, e ben compresa nelle sue motivazioni, nell’anti-chità”.3

Del resto, alle testimonianze nate nel solco socratico, diversificate fra loro ma so-stanzialmente orientate in direzione apologetica, si è ben presto affiancata una let-teratura tendente a screditare la vicenda e gli insegnamenti del filosofo ateniese.4

E al di là dei tentativi volti a combinare tali scritti o delle preferenze in favore de-gli uni piuttosto che dede-gli altri, è possibile dire che per moltissimo tempo il pro-blema dell’attrito fra le fonti non è stato avvertito come preponderante dagli inter-preti che, così, hanno finito per adattare i tratti della figura di Socrate alle proprie esigenze, espressione del particolare contesto culturale di cui facevano parte. Tale situazione è venuta a cambiare radicalmente solo alle soglie del XIX secolo e grazie all’opera di Schleiermacher, il primo ad aver sollevato la questione e ad a-ver anche fornito un metodo in base al quale ricostruire il Socrate filosofo combi-nando le indicazioni senofontee con quelle platoniche.5 Al di là della validità di

ta-le criterio interpretativo, al lavoro dello studioso tedesco si deve comunque il sor-gere di una maggiore consapevolezza tanto della contraddittorietà del materiale a disposizione, quanto delle posizioni filosofiche di partenza alla base di ogni proce-dimento interpretativo.

3 Sassi M. M., (introduzione a) Platone, Apologia di Socrate, Critone, Milano 1993, p. 9.

4 Faccio riferimento ai malevoli pamphlets che avevano cominciato a circolare qualche anno dopo

la morte del filosofo: come, per esempio l’Accusa di Socrate, ad opera del retore Policrate, che tentava di giustificarne la condanna su basi prettamente politiche, dipingendo Socrate come nemi-co della democrazia. A tali scritti polemici, inoltre, può essere affiancata l’opera satirica di Aristo-fane, le Nuvole, in cui veniva effigiato un Socrate dissacratore dei valori tradizionali.

5 Schleiermacher F., Uber den Werth des Sokrates als Philosophen, “Abhandlungen der Kgl.

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Che d’altronde la questione socratica non è un problema meramente filologico,6 è

mostrato dalla stessa peculiarità della figura di Socrate: il fatto che essa si sia pre-stata ad assumere sembianze multiformi e dettate da contesti culturali tanto diver-si, il fatto che essa abbia esercitato un così forte ascendente in epoche storiche di-stanti, trova spiegazione non solo nella mancanza di una registrazione scritta del messaggio socratico,7 ma nelle caratteristiche stesse del personaggio in questione,

in quell’atipicità, in quell’eccentricità, che è anche esemplarità, che senza dubbio lo contraddistingue.8

Questo il punto di partenza per il nostro tentativo di risalire al significato del lasci-to socratico per la riflessione di Plalasci-tone riguardo al dialogo interiore e, prima an-cora, alla nozione di psyché. Avremo così modo di osservare come quest’ultima diventi, con Socrate, più che mai sinonimo di uomo, di individuo, nonché espres-sione di uno stretto connubio fra filosofia e vita. Ma avremo anche la possibilità di valutare la portata di tale rivoluzione culturale in riferimento alle diverse rappre-sentazioni dell’anima emerse nei capitoli precedenti e di evidenziarne gli eventua-li eventua-limiti.

3.1. Fra filosofia e vita: l’anima socratica in assenza di conflitto

La vicenda di Socrate, nato nel 470/469 a.C. dal padre scultore Sofronisco e dalla madre levatrice Fenarete, rispecchia in parte l’alternanza delle sorti spettate alla sua città nel corso del V sec. a.C.:9 Atene, infatti, fu prima teatro dello scontro fra

le sue principali fazioni interne; poi, sotto la guida di Pericle, fu luogo di un tren-tennio di sostanziale stabilità politica che garantì anche le condizioni per una si-tuazione culturale eccezionalmente ricca e vivace; infine, al termine della lunga e disastrosa guerra con Sparta, fu protagonista di una disfatta militare che determinò la completa sottomissione della pólis alle condizioni imposte dalla città rivale. Si

6 Cfr. al riguardo Sassi, Platone, Apologia cit., p.14 sgg.

7 D’altronde, il problema della lacunosità o la frammentarietà delle fonti, con la conseguente

ne-cessità di operare un processo interpretativo fortemente influenzato dalla soggettività, riguarda tut-to l’ambitut-to della filosofia antica.

8 Cfr. Alc. I, 106a; Theaet., 149a; Symp., 215a; Phaedr., 229-230; in cui l’originalità di Socrate

vie-ne descritta mediante i termini ἄτοπος, ἀτοπία, ἀτοπότατος.

9 Delle alterne vicende di Atene abbiamo già avuto modo di parlare trattando dei tre grandi tragici:

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giunse così ad un governo di trenta uomini (404 a.C.), scelti in base al loro orien-tamento antidemocratico e filospartano, il cui compororien-tamento si rivelò ben presto spietato e privo di scrupoli. La reazione alla tirannide da parte dei sopravvissuti sostenitori della democrazia non si fece attendere, e nel 403 a.C. truppe ribelli gui-date dal generale Trasibulo riuscirono a entrare in città e a restaurare la democra-zia. Fu proprio nell’ambito politico della democrazia restaurata che si verificò l’accusa e la successiva condanna a morte del filosofo nel 399 a.C.

Socrate partecipò attivamente alla vita della pólis e incontrò grandi consensi pres-so la gioventù ateniese. Al contempo, però, il suo atteggiamento critico determinò tanto una forma di diffidenza e di sospetto da parte della classe politica, quanto una sorta di autoesclusione dal contesto cittadino, ed entrambi questi aspetti con-corsero al nascere di una forte ostilità nei suoi confronti. Il ritratto caricaturale di Aristofane, riflette chiaramente la disapprovazione con cui una parte dell’opinione pubblica ateniese doveva guardare all’attività del filosofo: nelle Nuvole, rappre-sentate durante le Grandi Dionisie del 423 a.C., l’anomalia socratica viene effigia-ta in un vivido affresco che vede il pensatore in un canestro appeso a mezz’aria intento a perdersi in strampalate e inutili elucubrazioni.10 I versi della commedia

aristofanea fanno inoltre emergere i tratti di un personaggio assimilato a un sofista spregiudicato, dedito al rifiuto della religione tradizionale e alla promulgazione di empie teorie naturalistiche.11 Caratteristiche, queste, che vengono richiamate da

Socrate nelle prime battute dell’Apologia platonica, con esplicito riferimento alla comica commedia di Aristofane come al luogo di origine di calunnie sedimentate da tempo nella cittadinanza ateniese che sono infine sfociate nei capi d’accusa del processo intentatogli da Meleto:

Infatti, ci sono stati molti che mi hanno accusato davanti a voi, già da tempo e per parecchi anni e senza che dicessero niente di vero. E io temo questi accusatori molto più di Anito e dei suoi amici, anche se pure questi sono terribili. Però quelli sono più terribili, o cittadini, ossia quei primi i qua-li, prendendo la maggior parte di voi fin da fanciulqua-li, vi hanno persuaso e hanno rivolto contro di

10 Interrogato da Strepsiade sulla natura della sua attività, Socrate risponde: “Aerostatizzo, e me ne

sto qui a scrutare il sole (ἀεροβατῶ καὶ περιφροωῶ τὸν ἥλιον; 225)”. Precedentemente, un di-scepolo fa riferimento ad alcune delle bizzarre indagini condotte dal filosofo, come il calcolo della lunghezza del salto di una pulce (143-152) o la ricerca sull’origine del ronzio di una zanzara (157- 164). E’ da notare che le Nuvole non furono l’unica commedia in cui Socrate venne preso come bersaglio: nello stesso anno in cui fu rappresentata l’opera comica di Aristofane, infatti, il filosofo fu oggetto di una commedia di Amipsia e nel 421 di una di Eupoli.

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me accuse per niente vere: che c’è un certo Socrate uomo sapiente, che fa indagini sulle cose cele-sti e fa ricerche su tutte le cose che stanno sotto terra, e che rende più forte il ragionamento più de-bole. [...]

Ebbene, che cosa affermavano i miei calunniatori nel calunniarmi?

Dobbiamo leggere il loro atto di accusa, come se fossero accusatori veri e propri: “Socrate com-mette ingiustizia e si dà molto da fare, indagando le cose che stanno sotto terra e quelle celesti, fa-cendo risultare più forte il ragionamento più debole e insegnando queste medesime cose anche agli altri”.

Di questo tipo è l’accusa che mi fanno. E queste cose le avete viste pure nella commedia di Aristo-fane, un certo Socrate che là viene portato attorno, dicendo di camminare nell’aria e dicendo molte altre sciocchezze: tutte cose queste di cui non m’intendo né molto né poco.

(Plat. Apol. 18b-19c)12

Tornando per un attimo al testo delle Nuvole, oltre al ritratto di Socrate è interes-sante notare il nome dato al luogo in cui il filosofo è solito intrattenersi a specula-re con i suoi discepoli: “il pensatoio delle anime sapienti” (ψυχῶν σοφῶν τοῦτ᾽ἐστὶ φροντιστήριον; 94). Il particolare è rilevante in quanto per un verso dà già un’idea della centralità che la psyché doveva ricoprire nella riflessione socrati-ca, e per l’altro connota l’anima dell’attributo della saggezza, presentandola come depositaria dell’attività intellettuale dell’uomo.13 Questa associazione, lo abbiamo

visto, era già variamente emersa sia in Eraclito sia nell’ambito del pensiero orfico-pitagorico.14 Ma a riprova del fatto che l’insegnamento socratico avesse un

carat-tere innovativo e che una parte dei cittadini della pólis lo recepisse nella forma di una diffidenza e di una valutazione negativa dell’attività del filosofo, va notata la particolare descrizione aristofanea dei bizzarri personaggi che affollano il pensa-toio, che ricorda la rappresentazione omerica dell’anima in termini di ombra o di fantasma: gli allievi di Socrate risultano creature dalla consistenza altrettanto va-cua e flebile, sono emaciati, smunti, non possono restare all’aria aperta troppo a lungo e vengono paragonati da Strepsiade agli Spartani fatti prigionieri a Pilo (Nu., 184-199). Secondo Sarri, Aristofane istituisce qui un provocatorio paralogi-smo per cui l’uomo, identificato dal filosofo ateniese con la propria anima, alla

fi-12 Cfr. anche 23d.

13 Questo è il solo passo in cui Aristofane si riferisce all’anima in questi termini. 14 Cfr. sopra, p. 112 sgg., p. 126 sgg.

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ne verrebbe assimilato a un fantasma tal quale la psyché omerica, ovvero al suo

non essere piuttosto che essere.15

Ma per cercare di capire meglio la natura dell’anima socratica e in che modo essa si saldasse profondamente con la particolare accezione di saggezza proposta dal filosofo, è opportuno addentrarsi nell’Apologia di Socrate, che ha il vantaggio, ri-spetto ad altre opere platoniche, di porsi come una testimonianza storica.16

Inizial-mente proporrò una versione condensata della difesa socratica al fine di ottenere un miglior inquadramento generale della vicenda, successivamente tornerò su al-cuni passi di essa, più rilevanti per la tematica qui affrontata, mettendoli anche in relazione con altri luoghi platonici.

La prima parte del discorso di Socrate, come abbiamo accennato poco sopra, risa-le all’origine delrisa-le insinuazioni che da tempo circolano sul suo conto. Egli si di-fende spiegando in che cosa realmente consista la sua attività in modo da mostrare all’uditorio “cosa mai ha prodotto fama e calunnie”:17 se si è guadagnato la

quali-fica di σοφός è stato solo per una certa sua sapienza, ma di che genere di sophía si tratta? Per chiarirlo il filosofo richiama un episodio accaduto all’amico Chere-fonte il quale, interrogato l’oracolo di Delfi sulla possibilità che ci fosse qualcuno più sapiente di Socrate, ottenne dalla Pizia la risposta che non c’era nessuno (20e- 21a). La chiara percezione che il filosofo aveva di sé, quella di non essere sapiente affatto, veniva così a contrastare con la verità oracolare,18 ma proprio tale

appa-rente divergenza segnava l’avvio della riflessione socratica come esigenza di in-terpretazione dell’enigma divino:

15 “Il procedimento di Aristofane si basa su un paralogismo che lascia intuire i meccanismi del

mico. Socrate - ragiona il poeta - sostiene che il vero uomo sia la sua anima; ma, se l’anima è, co-me tutti sanno, un fantasma, allora il vero uomo non è altro che un fantasma, un corpo scavato e dematerializzato come la psyché omerica”. Sarri F., Socrate e la nascita del concetto occidentale

di anima, Milano 1997, p. 163.

16 Sassi fa notare che il sospetto che la descrizione platonica di atti e di parole del maestro

costitui-sca un’interpretazione personale verosimilmente orientata in direzione idealizzante, appare più giustificato per il Critone che non per l’Apologia: il primo, infatti, è la rappresentazione di un col-loquio privato avvenuto nel chiuso di un carcere, mentre la seconda, pur non rappresentando la ve-rità puntuale di come andarono i fatti nel 399 a.C., fa da contraltare a un minimo di controllo pre-vedibilmente esercitato dal numeroso pubblico che aveva assistito al processo. Cfr. (introduzione a) Platone Apologia cit., pp. 6-7. La questione è comunque controversa.

17 Apol., 20d. La traduzione qui riportata è quella proposta da Sassi che, a differenza di quella di

Reale (“che cos’è che ha dato origine a questa cattiva fama e a questa calunnia”), rende bene l’i-dea della duplice accoglienza riservata dagli ateniesi agli insegnamenti socratici: da un lato succes-so e fama, dall’altro succes-sospetti e false accuse.

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Dopo che ebbi udito il vaticinio feci le seguenti considerazioni: “Che cosa dice il dio e a cosa allu-de per enigma? Infatti, io ho chiara coscienza, per quanto mi riguarda, di non essere sapiente, né molto né poco (ἐγὼ γὰρ δὴ οὔτε μέγα οὔτε σμικρὸν σύνοιδα ἐμαυτῷ σοφὸς ὤν). Allora che cosa intende dire il dio, affermando che sono sapientissimo?”.

(Plat. Apol., 21b)

Nell’intento di comprendere il responso delfico, Socrate racconta di aver sottopo-sto a domande tre diverse categorie di uomini ritenuti sapienti (politici, poeti e ar-tigiani)19 giungendo alla conclusione che nessuno di essi, in realtà, fosse tale. Ne

dedusse così che la sapienza umana era poca cosa e che il dio aveva usato il suo nome solo come esempio (παράδειγμα) di sophía, come per dire: “O uomini, fra di voi è sapientissimo chi, come Socrate, si è reso conto che, per quanto riguarda la sua sapienza, non vale nulla” (23b). Le continue peregrinazioni e interrogazioni del filosofo, quindi, non sono state che l’adempimento di quanto indicato dal dio: andare alla ricerca di chi, fra gli Ateniesi o gli stranieri, potesse esser ritenuto sa-piente, con la conseguenza di portarne allo scoperto la reale insipienza. Pur essen-do andato incontro a povertà, a inimicizie, a profonda ostilità, e a costo di mettere a repentaglio la propria vita, Socrate è sempre rimasto fedele al comando divino e anche adesso, nel momento dell’estremo pericolo, ribadisce la sua ferma intenzio-ne di continuare a far filosofia esortando la gente come di consueto:20

Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Città più grande e più famosa per sa-pienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il più possibile e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e

19 Da notare come la lingua greca non comprendesse una distinzione fra artigiani (come fabbri o

falegnami) e artisti (come pittori o scultori): entrambe le categorie rientravano nell’accezione del termine χειροτέχνης. Il vocabolo téchne, inoltre, ha sempre recato con sé l’idea che il lavoro ma-nuale, benché svalutato socialmente, consistesse nel possesso positivo di un determinato tipo di competenze e di regole. Da qui il riconoscimento che Socrate tributa agli artigiani, quello di avvi-cinarsi di più alla sapienza rispetto ai politici e ai poeti, questi ultimi mossi da un entusiasmo di matrice irrazionale. La sophia, quindi, si configura come una certa ‘abilità pratica’, ovvero “come conoscenza di finalità e di metodi appropriati, perciò ‘sapienza’ con connotazioni di equilibrio ra-zionale e morale e insieme di esattezza scientifica [...]. E’ questa una delle fondamentali lezioni so-cratiche, destinata a farsi filo insistente e inesauribilmente variato nel tessuto dei dialoghi platoni-ci” (Sassi, Apologia di Socrate cit., nota 11, pp. 116-117).

20 Socrate ribadisce la propria intenzione di obbedire al dio filosofando anche nella seconda parte

dell’opera, allorché afferma che “il bene più grande per l’uomo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esa-me esa-me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissu-ta” (38a).

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della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona? (χρημάτων μὲν οὐκ αἰσχύνῃ ἐπιμελούμενος ὅπως σοι ἔσται ὡς πλεῖστα, καὶ δόξης καί τιμῆς, φρονήσεως δὲ καὶ ἀληθείας καί τῆς ψυχῆς ὅπως ὡς βελτίστη ἔσται οὐκ ἐπιμελῇ οὐδὲ φροντίζεις).

E se qualcuno di voi dissentirà su questo e sosterrà di prendersene cura, io non lo lascerò andare immediatamente, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo sottoporrò ad esame e lo confuterò. E se mi risulterà che egli non possegga virtù, se non a parole, io lo biasimerò, in quanto tiene in po-chissimo conto le cose che hanno il maggior valore, e in maggior conto le cose che ne hanno molto poco.

E farò queste cose con chiunque incontrerò, sia con chi è più giovane, sia con chi è più vecchio, sia con uno straniero, sia con un cittadino, ma specialmente con voi cittadini, in quanto mi siete più vicini per stirpe. Infatti queste cose, come sapete bene, me le comanda il dio. E io non ritengo che ci sia per voi, nella Città, un bene maggiore di questo mio servizio al dio.

Infatti, io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile (μήτε σωμάτων ἐπιμελεῖσθαι μήτε χρημάτων πρότερον μηδὲ οὕτω σφόδρα ὡς τῆς ψυχῆς ὅπως ὡς ἀρίστη ἔσται), sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ric-chezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico.

(Plat. Apol., 29d-30b)

Poco oltre Socrate spiega ulteriormente il proprio comportamento individuando la ragione del suo astenersi dallo svolgere la sua attività moralizzatrice in pubblico nella presenza in sé del “segno divino”:

La causa di questo fatto è quello che mi avete sentito dire molte volte e in vario modo, ossia che in me si manifesta qualcosa di divino e di demoniaco (ὅτι μοι θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον γίγνεται [φωνή]), quello che anche Meleto, facendo beffe, ha scritto nell’atto di accusa. Questo che si ma-nifesta in me fin da fanciullo è come una voce che, allorché si mama-nifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa (ἐμοι δὲ τοῦτ’ ἔστιν ἐκ παιδὸς ἀρξάμενον, φωνή τις γιγνομένη, ἣ ὅταν γένηται, ἀεὶ ἀποτρέπει με τοῦτο ὃ ἂν μέλλω πράττειν, προτρέπει δὲ οὔποτε).

(Plat. Apol., 31c-d)

La difesa di Socrate si conclude con il rifiuto della captatio benevolentiae dei giu-dici, usata da chi solo in apparenza si distingue per sapienza e virtù (34c sgg.). La scelta di non indulgere in suppliche lacrimevoli, così, viene a fondarsi sulla parti-colare posizione che il filosofo ha assunto in merito al problema della conoscenza

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intesa come sapere di non sapere: che l’appellativo di sapiente sia giusto o sba-gliato, per lo meno tutti concordano sul fatto che Socrate si distingua in qualcosa dal resto degli uomini (34e-35a).21 Le restanti pagine dell’opera, infine,

consisto-no nella controproposta del filosofo alla richiesta di pena dell’accusa (35e-38b) e nel suo commento alla definitiva sentenza di morte (38c-42a).

Torniamo adesso sui nostri passi. Innanzi tutto, ciò che emerge subito dopo la rie-vocazione del responso delfico è l’ammissione, da parte di Socrate, di aver chiara

coscienza della propria ignoranza. Brancacci ha dedicato un interessante saggio

alla nozione socratica di consapevolezza, attento a distinguerla da una nozione di coscienza morale modernamente intesa, vuoi di matrice cristiana o kantiana o hegeliana, vuoi derivante dal lessico psicologico e psicoanalitico.22 Puntando su

un’indagine del tema semantico di coscienza (in latino conscientia), ossia del so-stantivo συνείδεσις, attestato per la prima volta in Democrito,23 e dei verbi ad

es-so connessi συνειδέναι e συνειδέναι ἑαυτῷ, nonché delle espressioni di signifi-cato equivalente σύννοια, συννοεῖν ἑαυτῷ, συνιστορεῖν, συνγγιγνώσκειν ἑαυτῷ, συνεπίστασθαι ἑαυτῷ, Brancacci fa notare che il significato originario di strutture linguistiche costituite dall’unione di un verbo indicante un’attività co-noscitiva (come εἰδέναι, νοεῖν, γιγνώσκειν, ἱστορεῖν, ἐπίστασθαι) con una pre-posizione indicante concomitanza non rende tanto l’idea di una scissione o dualità interiore,24 quanto quella di “sapere insieme con pochi” che, nel caso estremo reso

dal pronome riflessivo ἑαυτῷ, diverrebbe “sapere solo con se stessi” qualcosa di sconosciuto ad altri. In tal modo colui che sa si distingue rispetto agli ignari per il fatto di essere in una condizione di possesso privato ed esclusivo di un determina-to contenudetermina-to del sapere. Tale interpretazione è confermata dall’uso che dell’e-spressione viene fatto nella letteratura greca del V e IV sec. a.C., nella quale

l’im-21 La consapevolezza della propria diversità era già stata apertamente dichiarata dal filosofo, ed era

già stata messa in relazione alla propria professione d’ignoranza, dicendo: “Io, o cittadini, appunto per questo sono diverso da molti degli uomini (ἐγὼ δ’, ὦ ἄνδρες, τούτῳ καὶ ἐνταῦθα ἴσως διαφέρω τῶν πολλῶν ἀνθρώπων). E se potessi dire di essere più sapiente di qualcuno in qual-che cosa, sarebbe proprio in questo, ossia qual-che, non sapendo a sufficienza per quanto concerne le cose dell’Ade, sono anche convinto di non saperle” (29a).

22 Brancacci A., Socrate e il tema semantico della coscienza, in Giannantoni G. - Narcy M. (a cura

di), Lezioni socratiche, Napoli 1997, pp. 281-301.

23 68 B 297 DK.

24 Idea presente, per Brancacci, non nella struttura semantica di tali costrutti verbali bensì, sul puro

piano logico, in due usi particolari del tema della “coscienza” attestati nell’antichità e tra loro spes-so connessi: “quello della distinzione tra buona e cattiva coscienza e quello della coscienza come tribunale e giudice ultimo di fronte a cui l’uomo risponde delle proprie azioni”. Cfr. op. cit., pp. 282-283 e nota 14 p. 286.

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piego di συνειδέναι e συνειδέναι ἑαυτῷ è attestato nelle opere dei tre grandi tragici, in Aristofane, nei sofisti e in alcuni filosofi e oratori.25 In particolare, l’uso

di tali composti nella Difesa di Palamede di Gorgia, risulta per Brancacci interes-sante se confrontato con l’impiego socratico. Palamede oppone all’accusa di Ulis-se, non veritiera per il fatto di non consistere in un’esperienza diretta dell’accadu-to, la certezza derivante dalla sua stessa coscienza:

Perché, che l’accusatore mi accusi senza sapere nulla di certo, per certo lo so: so per certo (σύνοιδα γὰρ ἐμαυτῶι σαφῶς)26 di non avere compiuto nulla di simile; né so come uno

potreb-be sapere una cosa non avvenuta. (Gorg., Pal. Apol. 5 = 82 B 11a DK)

L’alétheia detenuta da Palamede consiste nella consapevolezza di un’esperienza che egli solo ha vissuto e ciò, nello schema argomentativo dell’opera, porta alla conclusione che tale verità sia incomunicabile ad altri. Qui sta la sostanziale vergenza rispetto all’impianto teorico dell’Apologia platonica in cui Socrate di-chiara a più riprese, e fin dall’inizio della sua difesa, che esporrà all’uditorio “tutta la verità (πᾶσαν τὴν ἀλήθειαν)” con un chiaro intento polemico nei confronti della retorica e della sofistica (cfr. Plat. Apol., 17b7-8; 18a4-5; 20d5-6; 22a2; 24a 7-8). Per illustrare come anche il tema della con-scienza socratica assuma, rispetto a Gorgia, connotati diversi e originali, Brancacci cita Apol. 21b (da cui il nostro discorso ha preso le mosse),27 in cui viene rievocato il responso della Pizia e il

conseguente turbamento del filosofo nell’avvertire la contraddizione fra di esso e la sua chiara coscienza di non essere sapiente. La reazione soggettiva di Socrate alla sentenza divina viene introdotta, in tale brano, dal verbo ἐνθυμέομαι (deri-vante dall’unione di ἐν e θυμός), che per Brancacci indica con precisione la sede interiore della riflessione e dello sconcerto provato dal pensatore. La coniugazione

25 “Il ‘con-sapere’ cui con queste forme verbali ci si riferisce può riguardare una propria azione o

intima condizione, oppure azioni compiute da altri; e può viceversa essere riferito ad azioni altrui che sono ritenute moralmente cattive o, più in generale, designare la valutazione che si esprime su un’azione, propria o altrui, di cui si è ‘con-scienti’: il che può portare a sottolineare ora il significa-to di conoscenza sicura e certa della verità, proprio di συνειδέναι ἑαυτῷ, ora l’elemensignifica-to del giu-dizio, e più specificatamente del giudizio morale, insito in quella valutazione, che fa della ‘co-scienza’ il giudice infallibile della vita morale dell’io”. Cfr. Brancacci, op. cit., p. 287.

26 Per altri passi dell’opera di Gorgia in cui è impiegato il tema del συνειδέναι con un significato

del tutto analogo a quello di συνειδέναι ἑαυτῷ, cfr. Pal. Apol., 11, 15 e 36, e cfr. anche Brancac-ci, op. cit., nota 18 pp. 288-289.

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dello stesso verbo al tempo imperfetto, inoltre, fa pensare che l’esperienza rievo-cata abbia avuto una durata persistente e anche l’uso che ne viene fatto, simmetri-co a quello dell’espressione σύνοιδα ἐμαυτῷ, rileva “la natura tutta interiore, psicologica, riflessiva del mondo di emozioni, considerazioni e ricordi scatenato dall’oracolo”.28

Se poi prendiamo in considerazione il significato precedentemente ricostruito del-la locuzione συνειδέναι ἑαυτῷ come con-sapere solo con se stessi, del-la cui veridi-cità risiede nel possesso esclusivo da parte del soggetto di un certo sapere nasco-sto ad altri, diventa comprensibile come la con-scienza socratica di non essere sa-piente possa essere un elemento atto a mettere in dubbio il significato immediato e apparente del responso pitico, di per sé infallibile. E’ lo status di certezza dell’e-sperienza psicologica del filosofo a consentire di dedurre che il dio deve aver par-lato per enigma. Quindi, “affermando di essere cosciente con se stesso di non es-sere sapiente, Socrate non usava un’espressione enfatica, ma diceva, alla lettera, ciò che lui solo poteva sapere, e che nessuno, per così dire, avrebbe creduto, o po-teva supporre. In questo caso egli si trova esattamente nella situazione di Palame-de, il quale soltanto poteva essere a conoscenza della verità relativamente al fatto imputatogli”.29

Tale significato di συνειδέναι ἑαυτῷ, del resto, è confermato dall’uso che dell’e-spressione viene fatto in un altro brano dell’Apologia platonica, quando Socrate, dopo aver interrogato politici e poeti, si rivolge ai lavoratori manuali nell’intento di sciogliere l’enigma dell’oracolo di Delfi:

Infatti io ero perfettamente consapevole di non sapere nulla di questo (ἐμαυτῷ γὰρ συνῄδη οὐδὲν ἐπισταμένῳ), per dirla in breve, mentre ero convinto che avrei trovato costoro con cono-scenze di molte e belle cose.

(Plat. Apol., 22c-d)

Questo passo è importante anche perché conferma come la posizione di Socrate consista in un con-sapere con se stesso che, essendo un sapere a tutti gli effetti, è un positivo sapere di non sapere. Ma esso attesta anche una distinzione tra il συνειδέναι ἑαυτῷ, che è un con-sapere con se stessi qualcosa che può essere co-nosciuto solo da se stessi, e il semplice εἰδέναι, che consiste in un sapere

qualco-28 Brancacci, op. cit., p. 291. 29 Brancacci, op.cit., p. 295.

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sa che riguarda competenze altrui. “L’uno e l’altro sapere appartengono, se così vuol dirsi, alla coscienza di Socrate: ma solo il primo è pensato in greco come e-spressione della sua con-scientia”.30

Anche nella Difesa di Palamede, nota Brancacci a conclusione del suo studio, il tema del συνειδέναι ἑαυτῷ induceva una distinzione di carattere gnoseologico: ma mentre lì essa consisteva nella tradizionale opposizione fra verità (ἀλήθεια) e opinione (δόξα), nell’opera platonica la distinzione che viene a prodursi è fra un sapere sicuro che genera assoluta certezza e una previsione di conoscenza, desti-nata ad esser controllata dall’esperienza, ben distinta dal mero δοκεῖν.

La con-scienza socratica, a questo punto, si configura come un positivo sapere, so-lo con se stessi, di non sapere: nella solitudine della propria interiorità, il fiso-losofo attinge una verità, sconosciuta ad altri, il cui status è garantito dal privilegiato ed esclusivo possesso di essa da parte del solo soggetto conoscente. Ed è proprio tale consapevolezza ad ergere Socrate a paradigma di sophía per gli altri uomini (23b). Questa stessa consapevolezza, contemporaneamente, attiva nel pensatore una ten-sione al cui fondo sta proprio il senso d’imperfezione e d’incompiutezza derivante dalla presa di coscienza di esser privi di sapienza.31 La sophía socratica, quindi, in

quanto sapere di non sapere e in quanto espressione di un’aspirazione al migliora-mento di sé, non consiste in un sistema concettuale o in un contenuto nozionistico finito e in qualche modo preconfezionato, bensì si struttura come ricerca continua, testimoniata dalla stessa condotta di vita del filosofo, che trae origine e legittima-zione da un comando divino in accordo, nella sua assoluta verità, con l’alétheia che il soggetto pensante ha attinto nella solitudine della propria con-scienza. La missione di Socrate, allora, non consiste nel trasmettere un sapere già compiu-to,32 nel fornire delle risposte, bensì nell’interrogare gli uomini al fine di destarli e

di renderli coscienti dell’unica cosa di cui egli stesso è consapevole: il proprio non-sapere. Risulta evidente la posizione di netta rottura assunta dal filosofo

ate-30 Ibid., p. 300.

31 “Socrate è cosciente di non essere sapiente. Non è σοφός, ma φιλόσοφος, non è sapiente, ma

uno che desidera la sapienza, la σοφία, perché ne è privo. [...] Da questo sentimento di privazione nasce un immenso desiderio. E’ perciò che Socrate il filosofo assumerà, per la coscienza occiden-tale, i tratti di Eros, dell’eterno vagabondo in cerca della vera bellezza”. Hadot, Esercizi spirituali

e filosofia antica cit., pp.100-101.

32 Particolarmente significativo in tal senso risulta l’inizio del Simposio in cui Socrate, arrivato in

ritardo perché intento in meditazione, viene invitato da Agatone a sedergli accanto in modo da po-ter beneficiare della saggezza appena manifestatasi al filosofo. Quest’ultimo risponde: “Sarebbe davvero bello, Agatone, se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci accostiamo l’uno all’altro” (175d).

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niese nei confronti non solo di un’idea tradizionale di sapienza, ma anche di una caratterizzazione del saggio come depositario e trasmettitore di sapere e verità.33

Socrate non cessa mai di esser fonte di interrogativi per i suoi concittadini, ma ri-fiuta nettamente di fornire risposte e di porsi come il detentore di certezze assolu-te. Egli indossa, come dirà Trasimaco nel I libro della Repubblica,34 la ben nota

maschera dell’ironia (εἰρωνεία): tutt’altro che atteggiamento artificiale fine a se stesso, essa consiste in un’attitudine psicologica per cui il filosofo, svalutandosi, si presenta come inferiore a quello che è. Egli si esprime in maniera apparentemente ridicola, “parla di asini da soma e di fabbri e di calzolai e di conciapelle, e sembra che dica sempre le medesime cose con le medesime parole”, sostiene Alcibiade nel Simposio (221e). Ma, se qualcuno ha l’ardire di addentrarsi nei suoi lógoi, trova che essi sono divini e che contengono moltissime virtù: proprio come le sta-tue dei Sileni le quali, una volta aperte, mostrano che dietro le sembianze di Satiri insolenti sono celate effigi di dèi.35

In altre parole, dopo aver fatto proprio il punto di vista dell’interlocutore, Socrate riesce gradatamente a far emergere, e a far ammettere dalla controparte, tutte le implicazioni contraddittorie dell’assunto iniziale. Nel corso della discussione, per-ciò, l’interlocutore non arriva a delle conclusioni certe riguardo a un determinato argomento, bensì perviene al dubbio, all’aporia. Ma ciò, lungi dal costituire un e-sito fallimentare della vicenda, può renderlo consapevole della vanità del proprio sapere, ovvero del proprio non-sapere. E proprio per il fatto stesso di vertere su una nozione di sophía come con-sapere con se stessi di non sapere, connessa con la ricerca di un accordo fra le parti in causa, il dialogo socratico non è mai un puro esercizio teorico, ma piuttosto un procedimento esistenziale:36 facendo in modo

che l’interlocutore inizi a mettere in discussione se stesso - dovendo “render

con-33 Basti pensare a Pitagora o a Empedocle (cfr. sopra, p. 132 sgg.) o agli stessi sofisti.

34 “Eccoci come al solito alle prese con la famosa ironia socratica. Ma già lo sapevo e l’avevo pur

anticipato a questa gente che tu ti saresti rifiutato di rispondere, avresti assunto la maschera dell’i-ronia, facendo di tutto pur di non dare risposte” (337a).

35 La particolarità stessa dei discorsi socratici viene descritta e utilizzata da Alcibiade per

dimo-strare ai commensali l’eccezionalità e l’unicità del filosofo rispetto agli altri uomini (Symp., 221c- 222a).

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to”37 fino in fondo delle proprie convinzioni e prendendo coscienza della propria

reale insipienza -, esso riesce a poco a poco a spostare il baricentro della discus-sione dal sapere all’essere dell’individuo. Alla fine l’interlocutore non ha appreso nulla, anzi, non sa più nulla, ma nel corso di tutto il dialogo ha sperimentato che cosa sia “l’interrogazione, il mettere in questione, il distacco da se stesso, ossia la coscienza, in definitiva”.38

D’altronde Socrate, come dirà all’inizio del Teeteto (149a-151b), svolge lo stesso mestiere di sua madre Fenarete, quello della levatrice: con la sua arte maieutica e-gli fa partorire le anime gravide, aiuta l’altro a generare senza generare ee-gli stesso sapienza, ossia senza trasmettere alcun sapere precostituito. Per questo Hadot ha parlato della filosofia socratica definendola “interamente esercizio spirituale,39

nuovo modo di vita, riflessione attiva, coscienza vivente”,40 tale che la vera posta

in gioco non è tanto quello di cui si parla bensì colui che parla.41

Che il sapere di non sapere del filosofo ateniese abbia a che fare con l’essere stes-so dell’individuo, del resto, viene confermato anche da un passtes-so dell’Apologia in cui Socrate contrappone sapere e non-sapere parlando della morte. Aver paura di essa, infatti, costituisce per il pensatore una forma di non-sapere in quanto equiva-le a ritenere di conoscere ciò che in realtà si ignora. La morte, detto altrimenti, co-stituisce per l’uomo in vita un’esperienza fuori dalla sua portata e, in quanto tale, su di essa è impossibile dire alcunché senza incorrere in una manifestazione d’i-gnoranza (29a-b). Ma proprio su questo punto il filosofo ateniese dichiara di di-stinguersi dai più (ἐγὼ δ’, ὦ ἄνδρες, τούτῳ καὶ ἐνταῦθα ἴσως διαφέρω τῶν πολλῶν ἀνθρώπων): egli è consapevole di non sapere niente dell’Ade, ma sa che

37 Questo motivo, alla fine dell’Apologia, viene evocato da Socrate come la ragione per cui gli

Atniesi lo hanno ritenuto meritevole della pena di morte: così facendo essi hanno sperato di poter e-vitare la resa dei conti delle loro vite anche se in realtà, prevede il filosofo, dopo la sua morte sa-ranno in molti a metterli alla prova (39c-d). Nel Lachete, Nicia fa riferimento allo stesso motivo come a una caratteristica peculiare del modo di dialogare di Socrate: chiunque sia solito trovarsi a parlare con lui “non può evitare di farsi condurre quasi per mano da lui nel discorrere, fintanto che abbia dato ragione di sé, del modo in cui vive e del suo passato” (187e-188a).

38 Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica cit., p. 96.

39 Ricordo che con questa espressione Hadot indica diverse pratiche (d’ordine fisico o discorsivo o

intuitivo) volte a operare una modificazione e una trasformazione nel soggetto che le praticava. “Lo stesso discorso del maestro di filosofia poteva d’altronde assumere la forma di un esercizio spirituale, nella misura in cui questo discorso veniva presentato in una forma tale che il discepolo, quale uditore, lettore o interlocutore, potesse progredire spiritualmente e trasformarsi interiormen-te”. Cfr. Hadot, Che cos’è la filosofia antica cit., p. 7 e sopra, p. 134 sgg.

40 Esercizi spirituali e filosofia antica cit., p. 100. 41 Che cos’è la filosofia antica cit., p. 30.

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commettere ingiustizia e disobbedire a un’autorità superiore, divina o umana che sia, è un male e una cosa vergognosa. Per questo non rifuggirà impaurito di fronte a qualcosa che, come la morte, per quanto ne sa potrebbe essere anche un bene piuttosto che un male certo (29b-c). La consapevolezza socratica, dunque, non ha a che fare con concetti bensì con valori: “Socrate non sa niente del valore da attri-buire alla morte perché essa non è in suo possesso [...]. Tuttavia, sa quale sia il va-lore dell’azione morale e dell’intenzione morale, perché queste dipendono da una sua scelta, da una sua decisione, da un suo impegno; e hanno, dunque, origine dentro se stesso. Ancora una volta il sapere non è un insieme di proposizioni, una teoria astratta, ma la certezza di una scelta, di una decisione, di un’iniziativa”42 la

cui ragion d’essere viene tutta attinta nell’interiorità.

L’istanza della con-scienza socratica, dunque, nelle pieghe dell’Apologia platoni-ca assume i connotati di giudizio personale dell’individuo sul proprio comporta-mento, che dipende da un’opzione solitaria del singolo:43 “non esiste dunque

sape-re se non nella scoperta personale che proviene da dentro se stessi”.44 Anche il

ri-ferimento al daimónion, d’altronde, sottolinea la centralità dell’interiorità in una

sophía così costituita: non più entità decaduta ed errante, congiunta ad un corpo

mortale nella possibilità di riscattare la propria colpa originaria,45 il δαίμων

so-cratico viene totalmente svincolato sia da un contesto iniziatico sia da una pro-spettiva ultramondana46 per divenire parte integrante del soggetto e del suo modo

d’agire. In qualità di una sorta di voce divina che, fin dall’infanzia, si è sempre fatta sentire dentro per distogliere dal fare qualcosa e mai per istigare (31c-d), tale monito interiore è identificato dal filosofo come la fonte di “una personalissima forza spirituale che ha orientato tutta la sua esistenza”.47 E se l’assidua presenza di

tale “segno divino” ha svolto una funzione deterrente per tutta la vita, anche in

42 Ibid., p. 35. Hadot afferma che, in sostanza, il contenuto del sapere socratico verte sul “valore

assoluto dell’intenzione morale”. Espressioni come questa sono estranee - ammette Hadot - al les-sico del filosofo ateniese ma possono essere applicate al messaggio socratico: “si può dire, in effet-ti, che per un uomo un valore sia assoluto quando egli è pronto a morire per questo valore. Ecco precisamente l’atteggiamento di Socrate quando si tratta di ciò “che è migliore”, ossia della giusti-zia, del dovere, della purezza morale. Egli ripete più volte questo concetto nell’Apologia: preferi-sce la morte e il pericolo piuttosto che rinunciare al suo dovere e alla sua missione”. Ibid., p. 36.

43 Cfr. anche Brancacci, op.cit., p. 282.

44 Hadot, Che cos’è la filosofia antica cit., p. 36.

45 Come accadeva nella dottrina demonologica empedoclea, cfr. sopra, p. 140 sgg.

46 Aspetti che, invece, fanno profondamente parte della riflessione orfica ed empedoclea, cfr. sopra,

p. 126 sgg. e p. 140 sgg.

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questioni di poco conto, per contro la sua stessa assenza nel giorno del processo, durante tutto il discorso difensivo e anche successivamente all’emissione della sentenza di morte, non fa che confermare la correttezza etica di Socrate: se l’usua-le “avvertimento profetico” non è intervenuto, vuol dire che quello che per i più potrebbe sembrare il peggiore dei mali, forse si rivelerà un bene (40a-c).

Ad avvalorare il fatto che la con-scienza socratica abbia a che fare con l’interiorità della persona e con una sua consapevole scelta etica, Brancacci cita anche il tema del βέλτιστος λόγος, che a suo avviso prelude a quello del dialogo silenzioso dell’anima con se stessa, rintracciabile nel Critone.48 Seguito coerente dell’Apolo-gia, questo dialogo consiste in un colloquio che si immagina sia avvenuto in

car-cere alla vigilia dell’esecuzione di Socrate. Critone tenta di convincar-cere Socrate a fuggire ma egli si oppone volendo rimanere fedele a ciò che ha sempre sostenuto, e che non ha nessuna intenzione di rinnegare solo perché gli è toccato ora di mori-re. Il motivo del “ragionamento migliore” emerge all’inizio della replica di Socra-te, che afferma la necessità di sottoporre ad esame la proposta di fuga che gli è ap-pena stata fatta:

Del resto non è questa la prima volta, io ho fatto sempre in modo di seguire solo quel ragionamen-to (τῷ λογῷ) che, fra i vari che rimugino dentro di me (τῶν ἐμῶν [...] μοι λογιζομένῳ), dopo ponderata riflessione risultasse il migliore (βέλτιστος φαίνηται).49

(Plat. Crit., 46b)

Il termine lógos qui non indica la “ragione” nel senso di facoltà razionale, come sostiene Reale, bensì il “ragionamento” o l’“argomentazione” o il “discorso” da valutare nel confronto e contrasto con gli altri. Tale accezione, del resto, compare nel testo immediatamente dopo, quando Socrate sostiene di non poter ripudiare o-ra i o-ragionamenti (τοὺς λόγους) che faceva prima. L’espressione tõn emõn, inol-tre, da qualcuno ritenuta maschile sostantivato ed indicante il proposito del filoso-fo di scegliere il migliore fra i discorsi “dei suoi (amici)”,50 si può leggere

piutto-sto come un aggettivo che qualifica direttamente i lógoi, che vengono sì esaminati nel dialogo con altri ma sono anche valutati dal pensatore ateniese in prima

perso-48 Op. cit., p. 284. 49 Traduzione Sassi.

50 Mi riferisco all’interpretazione di Calogero G. (La regola di Socrate, “La Cultura” 1, 1963, pp.

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na, fra sé e sé.51 In questo senso, la ricerca del βέλτιστος λόγος a mio parere

ri-sulta perfettamente coerenze non solo con l’interpretazione della con-scienza so-cratica come giudizio personale attinto nella solitudine di se stessi, ma anche con l’aspirazione al miglioramento di sé che il filosofo esprime esortando vivamente gli Ateniesi a prendersi cura (ἐπιμέλῇ) dell’anima in modo che diventi eccellente il più possibile (τῆς ψυχῆς ὅπως ὡς βελτίστη ἔσται; Apol. 29e). Béltistos lógos e bélstite psyché, in altre parole, sembrano rappresentare il mezzo e il fine di una condotta di vita che in Socrate diviene itinerario individuale, più che mai coerente e mai definitivamente concluso, verso la virtù. Il confronto dialettico con altri, al-lora, sarà fondamentale e funzionale a un tale genere filosofico di vita ma, in ulti-mo, l’etica socratica risulterà scaturire da una scelta individuale, effettuata fra sé e sé. D’altronde, lo abbiamo evinto poco sopra, fin dalle pagine dell’Apologia il dia-logo socratico si era presentato come un procedimento esistenziale in grado di spostare gradualmente l’attenzione dall’oggetto del dialogo al soggetto di esso.52

Vediamo adesso come questa nozione si precisi nell’Apologia anche in relazione al ruolo centrale che in essa riveste la nozione di psyché.

Per far sì che l’interlocutore metta in discussione se stesso, Socrate gli rivolge l’invito assillante a prendersi cura della propria anima, anziché del corpo e dei be-ni materiali, al fine di renderla il più possibile buona (29d-30b): allo stesso modo di un tafano appiccicato dalla divinità a un cavallo di razza pigro e bisognoso di essere spronato e pungolato, Socrate ritiene di essere stato posto dal dio a fianco della pólis per destare, persuadere, rimproverare incessantemente i suoi abitanti ad uno ad uno (30e). Il ricorso alla bizzarra immagine dell’insetto molesto, frequen-temente utilizzata nell’ambito della tragedia come metafora del pungolo della pas-sione,53 connota l’operato del filosofo rendendo bene l’idea di un suo incedere

in-calzante e ostinato. Ostinazione che, del resto, per Socrate corrisponde al fermo proposito di adempiere al comando divino: dovesse anche morire più d’una volta, egli dice, comunque non muterebbe la sua condotta (30b-c).

Un’altra immagine zoologica è rintracciabile nelle pagine del Simposio ove Alci-biade, dopo aver paragonato Socrate ai Sileni,54 descrivere gli effetti prodotti dai lógoi del filosofo: essi provocano in chi li ascolta una sorta di possessione simile a

51 Ibid.

52 Cfr. sopra, p. 169.

53 Cfr. sopra, pp. 48-48 sgg. e 73 sgg. 54 215a-b. Cfr. anche 216c-217a; 221c-222a.

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quella indotta dalle musiche di flauto del satiro Marsia (215c); fanno battere il cuore, suscitano il pianto più che ai Coribanti, turbano talmente l’anima da farla sentire soggiogata (215e-216a); recano un dolore pari a quello del morso di un serpente velenoso nel punto più doloroso in cui si possa esser morsi, vale a dire nel cuore o nell’anima (τὴν καρδίαν γὰρ ἢ ψυχὴν):

Io sono stato colpito e morso dai suoi discorsi di filosofia, i quali si attaccano in modo più brutale della vipera, quando prendono l’anima giovane e non priva di doti, e le fanno fare e dire qualsiasi cosa.

(Plat. Symp., 218b)

Nel trattare la rappresentazione dell’esperienza d’amore nella lirica arcaica, ci sia-mo imbattuti spesso nella descrizione di una vera e propria sintomatologia fisica collegata allo stato emotivo dell’innamoramento:55 Saffo descriveva

un’impos-sibilità di parlare, un fuoco che le correva sotto pelle, occhi che non vedevano e o-recchie che ronzavano (fr. 31 Voigt); Archiloco diceva di esser gettato da Eros in un gelido torrente (fr. 25 Gentili) e di esser trafitto da dolori tremendi alle ossa (fr. 193 West). Anche Alcibiade elenca una serie di manifestazioni fisiche connesse al-la forte emozione provocata dai lógoi socratici: accelerazione dei battiti cardiaci, pianto, forte inquietudine, sensazione di dolore interno. Ma questo non è l’unico aspetto che, a mio parere, può esser accostato alle modalità della rappresentazione poetica della passione amorosa. Come in questa, infatti, la malia dell’eros assume spesso i tratti di una malattia o follia, così i discorsi filosofici di Socrate agiscono sull’interlocutore come una sorta di incanto ammaliatore che provoca un’inquietu-dine e uno smarrimento vigoroso e ineluttabile a tal punto da poter esser compara-to al brutale morso di una vipera. Ma tale morso non va a ledere una zona del cor-po, bensì la parte più nascosta e vulnerabile della persona, ovvero là dove già l’immaginario tragico aveva posto l’azione “mordace” di una passione o di un do-lore fisico proveniente dall’esterno.56 Solo che Alcibiade, pur facendo riferimento

alla kardía, non parla di thymós ma di psyché: il morso da vipera di Socrate colpisce interiormente e, che si voglia dire nel cuore o nell’anima, fatto sta che

es-55 Cfr. sopra, p. 35 sgg.

56 “Emozione e dolore fisico ‘mordono’ thymós, phrên o kardía, come un animale” (Padel, In and out of the mind cit., p. 120; trad. mia). Da notare che il verbo utilizzato più volte da Alcibiade in

ri-ferimento al morso dei discorsi filosofici, δάκνειν, designa spesso in tragedia un assalto emotivo dalle sembianze di cani, insetti, serpenti. Ibid., pp. 119-125. Cfr. sopra, p. 73

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so tocca e agisce sul centro nevralgico dell’individuo inducendo un totale scon-volgimento che, nel caso in cui l’interlocutore accetti di sottomettersi alle esigen-ze del discorso razionale, comporta la completa messa in discussione di se stesso e della propria esistenza.57 Come scrive Hadot, “Socrate agisce su coloro che lo

a-scoltano in modo irrazionale, grazie all’emozione che provoca e all’amore che su-scita”.58 L’interlocutore, così, si trova preso non solo nelle maglie dell’ironia

dia-logica, bensì anche in quelle dell’ironia erotica: come nella prima pare che egli possa comunicare al filosofo un certo sapere per giungere, alla fine, alla presa di coscienza della propria reale insipienza; così nella seconda pare che Socrate lo de-sideri per indurlo, infine, a farsi desiderare. Che cosa poi significhi precisamente innamorarsi del pensatore ateniese, viene chiarito nelle pagine del Simposio.59

Ma ora torniamo al passo 29d-30b dell’Apologia: l’appello del filosofo rivolge ai suoi concittadini verte sulla significativa opposizione fra simboli tradizionali, con-creti di potere e di eccellenza e nuovi valori: da una parte l’accumulo di ricchezze e di guadagni, la ricerca di fama e di onore, dall’altra la saggezza, la verità e la perfezione dell’anima. Al centro di questa dicotomia è l’individuo, o meglio, la

cura (ἐπιμέλεια) che l’individuo manifesta in direzione delle cose di minor valore

o di quelle di maggior pregio, vale a dire della virtù, e che è indice, per Socrate, di una vera e propria scelta di vita. Il filosofo lo ribadisce nel giro di poche righe: la sua missione ha la sola funzione di persuadere giovani e vecchi di non curarsi (ἐπιμελεῖσθαι) del corpo o delle ricchezze più o altrettanto che della perfezione dell’anima, ricordando che i beni materiali non sono il fondamento della virtù bensì che è la virtù a costituire l’origine di ogni bene nella vita pubblica come in quella privata. Ma se saggezza, verità e perfezione dell’anima sono ciò che ha più

57 Lo dice chiaramente Alcibiade: pur essendosi già trovato in presenza di eccellenti oratori, mai

prima di Socrate si era sentito con l’anima così in tumulto e soggiogata da esser ridotto alla condi-zione di schiavo e da ritenere che non valesse la pena vivere continuando a comportarsi come di consueto (Symp., 215e-216b).

58 Che cos’è la filosofia antica cit., p. 32.

59 Nella serie di elogi dell’amore pronunciati a turno dai vari convitati, i discorsi di Socrate e di

Al-cibiade costituiranno il fulcro dell’intero impianto teorico del dialogo. Se il primo non si esprimerà direttamente nel proprio encomio dell’amore, bensì riferirà una conversazione avuta in passato con la sacerdotessa Diotima riguardante la genealogia di Eros da Poros e Penia (201d-212c); il secon-do, invece di pronunciare un elogio di Eros, si esprimerà in un encomio dello stesso Socrate (215a-222c). Ne risulterà una significativa convergenza fra diversi tratti di Eros disegnati dalla sa-cerdotessa di Mantinea e quelli di Socrate tracciati da Alcibiade. Al riguardo cfr. Hadot, Esercizi

spirituali e filosofia antica cit. pp. 101-110. Rimando inoltre all’importante opera di Robin L., La théorie platonicienne de l’Amour, Parigi 1964; trad. it. La teoria platonica dell’amore, Milano

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valore, nonché ciò che costituisce la base di ogni virtù, e se la saggezza è un

con-sapere solo con se stessi di non con-sapere, ovvero è attingere a una verità la cui

ra-gion d’essere sta nel possesso esclusivo di essa da parte del soggetto, allora è la

psyché il fulcro tanto dei valori morali quanto dell’attività intellettuale dell’uomo:

l’anima è infine per Socrate il centro della persona, il fondamento di una soggetti-vità che può individuarsi solo in relazione a se stessa e dentro se stessa.

In questo, che è il momento culminante di un lungo processo di modificazione dell’originario significato di anima in direzione dell’identità individuale, emergo-no diversi degli elementi incontrati nella emergo-nostra trattazione. I simboli di potere e di

areté cui Socrate accenna con chiaro intento dispregiativo, rimandano a

quell’in-sieme di valori e di norme morali risalenti ai poemi omerici che non venivano di-scussi e concepiti a prescindere da un contesto fatto di vincoli sociali, credenze re-ligiose, regole giuridiche e ideologie politiche.60 Erano i valori centrati su

manife-stazioni di forza fisica e di eroicità, sulla concezione tutta concreta di un mondo governato da dèi in cui l’uomo poteva al massimo aspirare all’immortalità della fama poetica.61 Per contro, il richiamo del filosofo alla perfezione dell’anima

cor-risponde a quella caratterizzazione spirituale della psyché, risalente all’ambito di riflessione orfico-pitagorico, in cui il corpo e i suoi bisogni costituivano un impe-dimento al dispiegamento delle potenzialità insite nel principio psicologico.62 E se

a questo stesso insieme di credenze rimanda la congiunzione fra alétheia e

psyché,63 a sua volta la connessione fra phrónesis e psyché richiama

l’identifica-zione dell’anima con l’uomo e con la sua attività cognitiva sancita dagli aforismi di Eraclito.64 Nello stesso tempo, tuttavia, queste concezioni dell’anima non erano

esenti da limiti rispetto all’identificazione dell’anima con la personalità cosciente dell’individuo. Infatti, se il pensiero orfico-pitagorico concepisce l’anima nell’al-dilà come una sorta di continuum rispetto alla personalità di colui che la deteneva in vita e attribuisce un ruolo centrale all’assiduo impegno intellettuale che l’uomo deve compiere al fine di liberarsi dal “doloroso ciclo” delle rinascite, il netto dua-lismo psyché-sõma inibisce d’altronde la comprensione del soggetto in termini di

60 Cfr. Vegetti, L’etica degli antichi cit., p. 3 sgg. 61 Cfr. sopra, pp. 8-33.

62 Cfr. sopra, pp. 126-139.

63 La ritroviamo in alcune delle tavolette d’osso trovate sulle sponde del Mar Nero, risalenti a un

contesto orfico e databili intorno al V sec. a.C.: per esempio, “DION(YSOS) ALETHEIA /.../ PSYCHE” (West 3). Cfr. Vegetti, L’etica degli antichi cit., p.73-83.

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complesso psicosomatico. La riflessione di Eraclito, d’altro canto, se carica la

psyché dello speciale significato di principio unificatore dei processi percettivi e

cognitivi dell'individuo, giungendo perfino alla potente intuizione della coscienza in termini di lógos profondo e illimitato dell’anima, si muove pur sempre in una dimensione materiale che di fatto impedisce al principio psichico di essere conce-pito come costitutivo dell'identità personale. Ora, Socrate supera tali limiti nel momento in cui riesce nell’operazione di saldare e fondere opinioni divergenti sulla psyché in una concezione entro la quale l’anima, vista come il fulcro dei va-lori morali e dell’attività intellettuale dell’uomo, è così identificata con l’identità dell’individuo. Inoltre, portando il tema dell’anima di fronte alla città, Socrate lo astrae da un contesto iniziatico e religioso, proprio dell’orfismo e del pitagorismo, laicizzandolo.

Quanto è detto in maniera concisa nel passo dell’Apologia appena analizzato, vie-ne riproposto per esteso da Platovie-ne vie-nell’Alcibiade I:65 l’opera consiste in un

collo-quio fra Socrate e un giovane di bell’aspetto, promettente e molto ambizioso, Al-cibiade appunto, il quale sta per fare il suo esordio nell’assemblea degli Ateniesi. Per aiutarlo a realizzare i suoi progetti, il filosofo inizia a demolire sistematica-mente tutte le presunte conoscenze di Alcibiade al fine di renderlo consapevole del proprio non-sapere: egli, infatti, pretenderebbe di intraprendere la carriera politica senza conoscere il giusto e l’ingiusto, senza sapere come rendere migliore se stes-so e gli altri. Per diventare migliori, infatti, bistes-sogna mettersi a pensare a se stessi, bisogna “prendersi cura di sé”. Ma cosa vuol dire tale espressione (τί ἐστιν τὸ ἑαυτοῦ ἐπιμελεῖσθαι; 127e)? Per capirlo, il pensatore ateniese attua una distin-zione fra ciò che l’uomo ha e ciò che l’uomo è, evidenziando che “non è la stessa arte, come sembra, quella con cui ci si prende cura di sé e quella con cui ci si oc-cupa di ciò che è proprio” (128e). D’altro canto, egli nota anche che non è possi-bile prendersi cura di qualcosa se non la si conosce: prima di risalire all’arte che ci renda migliori, allora, occorre sapere chi siamo noi stessi, occorre conoscersi

co-65 Sull’autenticità di questo dialogo, i pareri degli interpreti si dividono anche se sembra prevalere

lievemente un giudizio di originalità. Comunque, lo scritto è da ritenersi rappresentativo di conce-zioni socratiche e platoniche. Cfr. Trabattoni F., La dottrina platonica dell’anima. Un percorso, in Bruschi R. (a cura di), Gli irraggiungibili confini. Percorsi della psiche nell’età della Grecia

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me esortava a fare il motto inciso sul tempio di Delfi (128e-129a).66 Socrate fa

quindi nuovamente leva sulla distinzione fra ciò che l’uomo ha - un corpo che usa come strumento (ῷ χρῆται) - e ciò che l’uomo è - colui che utilizza lo strumento (ὁ χρώμενος) -, ed inizia così una significativa discussione su ciò che costituisce l’uomo:

S. Che cos’è, allora, l’uomo? A. Non so che cosa rispondere.

S. Però, sai che è ciò che si serve del corpo. A. Sì.

S. Vi è forse qualcos’altro che se ne serve, al di fuori dell’anima? A. Nient’altro.

S. E se ne serve comandandogli? A. Sì.

S. Penso che anche su tale altra questione nessuno possa avere un parere diverso. A. Quale?

S. Che l’uomo sia almeno una di queste tre cose. A. Quali?

S. O anima, oppure corpo, oppure entrambi insieme, come un tutto unico. A. Senz’altro.

S. Ma non avevamo ammesso che l’uomo è ciò che comanda al corpo? A. Esattamente.

S. Forse il corpo comanda a se stesso? A. Assolutamente no.

S. Difatti, abbiamo detto che viene comandato. A. Sì.

S. Allora, questo non potrebbe essere ciò che cerchiamo? A. Non sembra.

S. Ma forse, sono entrambi insieme a comandare il corpo, e questo è l’uomo? A. E’ probabile.

S. Per nulla affatto: se una delle due parti non partecipa al governo, è impossibile che il loro insie-me comandi.

A. Esatto.

66 Trabattoni fa notare come, in questo caso, Platone forzi abilmente i dati della tradizione in vista

dei suoi fini: il motto delfico, infatti, era soprattutto un invito riconoscere la limitatezza della di-mensione umana. Nell’interpretazione platonica, invece, “esso è inteso come l’apertura di una vera e propria via di ricerca, avente lo scopo di trovare che cosa è l’uomo nella sua essenza”. Op. cit., pp. 176-177.

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S. Se, allora, non è uomo né il corpo, né l’insieme di corpo e anima, resta, credo, da concludere o che l’uomo non sia nulla, oppure che, se è qualcosa, non sia altro che anima.

A. Perfetto.

S. Ed è necessario dimostrarti ancora più chiaramente che l’anima è l’uomo? A. Per Zeus, mi sembra abbastanza dimostrato.

(Plat. Alc. I, 129e-130c)

La distinzione fra sõma e psyché, già emersa nelle pagine dell’Apologia in rela-zione all’opposirela-zione fra le cose di minor conto (corpo, ricchezze, fama, onore) e quelle di maggior valore (saggezza, verità, perfezione dell’anima), viene qui ripre-sa e svolta in virtù del rapporto sussistente fra lo strumento e l’utilizzatore dello stesso: l’anima, essendo ciò che si serve del corpo comandandogli, è l’uomo in sé, mentre tutto il resto appartiene all’uomo ma non lo identifica.

L’iter mediante il quale Socrate giunge a questa conclusione (ovvero il ricorso a-gli esempi del calzolaio e del citarista che usano sì strumenti atti a taa-gliare e a suo-nare, ma lo fanno servendosi delle mani e degli occhi)67 conduce da un lato alla

dimostrazione dell’esistenza di qualcosa che, come l’anima, sfugge alla percezio-ne sensibile,68 dall’altro alla caratterizzazione della stessa come utilizzatrice del

corpo. Ma se la psyché intrattiene col sõma un rapporto di tipo strumentale, vale a dire se usa e subordina il corpo in vista di determinati fini, allora essa risulta “quantomeno il luogo in cui vengono individuati gli obiettivi delle azioni e si prendono le decisioni adatte per eseguirle”.69 La chiara identificazione dell’uomo

con la sua psyché, quindi, è sinonimo di esplicito riconoscimento dell’originarsi in essa di ogni nostro comportamento, in direzione della virtù o del vizio, della sag-gezza o dell’ignoranza.70

Il richiamo alla cura dell’anima emerso dalle pagine dell’Apologia è rintracciabile anche in un altro dialogo “socratico” di Platone: il Carmide. Prima dell’inizio del-la discussione suldel-la natura deldel-la saggezza,71 infatti, Socrate finge di possedere un

67 129b-e.

68 Trabattoni, op. cit., p. 177. 69 Ibid., p.177.

70 Cfr. anche 117d sgg., dove Socrate sostiene che gli errori di comportamento sono dovuti a un

tipo d’insipienza che ci fa credere di sapere ciò che in realtà si ignora.

71 Reale (Tutti gli scritti cit.) traduce il vocabolo σωφροσύνη con “temperanza”, focalizzando

l’i-dea di moderazione. Centrone, invece, lo traduce con “saggezza”. Ho ritenuto opportuno riprende-re la scelta di quest’ultimo in quanto più consona al fine di affrontariprende-re la tematica gnoseologica del dialogo in questione. Cfr. Centrone B., (introduzione, traduzione e note) Platone, Teage Carmide

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