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CAPITOLO 5 Formazione professionale dell’emigrazione femminile

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 5

Formazione professionale dell’emigrazione femminile

5.1 Caratteri sociali e aspetti culturali dell’emigrazione femminile

In un racconto lo scrittore Robert Musil descrive il personaggio di Grigia, stereotipo della contadina originaria di una località di alta montagna, disposta a ogni genere di lavoro pur di guadagnare lo stretto indispensabile per rendere vantaggiosa la sua permanenza lontano dal luogo di origine. Non casualmente la protagonista porta il nome di una mucca, particolare che consente al lettore di intuire la sua completa sottomissione alla fatica.363

Grigia può essere considerata un’antesignana dell’emigrazione femminile: in lei prevale il fattore economico, necessità che la donna in emigrazione condivideva con l’uomo sia prima della metà del XIX secolo, quando ancora le comunità rurali erano legate agli spostamenti stagionali, sia in seguito con i viaggi a distanze più elevate. Ma, come ha dimostrato Adriana Dadà, in età contemporanea è possibile individuare, oltre alla scarsità di mezzi di sostentamento, altri fattori sociali sfavorevoli e ambizioni culturali che spingevano la popolazione femminile a emigrare, tra cui i gruppi familiari numerosi e la necessità di liberalizzarsi.364

Se a differenza dei mestieri maschili fino a ora studiati, raramente madri e figlie partivano per impiegare in modo più produttivo le loro capacità professionali, spesso limitate a causa della costante presenza al fianco dell’uomo in ambito lavorativo, emigrando molte ragazze speravano di non essere più costrette a sottostare alle imposizioni dei padri e dei fratelli. Solo raggiungendo l’autonomia avrebbero potuto trovare un proprio settore in cui acquisire particolari competenze. All’estero o nelle maggiori città italiane le donne originarie delle aree di montagna situate sulle Alpi o sugli Appennini

363 R. MUSIL, Grigia, in Tre donne, Torino, Einaudi, 1981, traduzione di Anita Rho.

364 A. DADÀ, Balie, serve e tessitrici, in AA. VV., Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, cit.; le cause

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rimanevano colpite dai grandi negozi e dalle tante opportunità della vita cittadina,365 capivano che potevano lavorare per se stesse, per raggiungere la piena indipendenza e conquistare un futuro economico migliore, non essendo più costrette a consegnare il risultato delle loro fatiche al capofamiglia.

Questo processo di liberalizzazione si affermava gradualmente, attraverso un impegno costante finalizzato a costruire una posizione sicura nella località di arrivo o, nel caso di un rimpatrio, difendendo le conquiste economiche e culturali conseguite all’estero una volta di ritorno nel luogo d’origine. In alcuni casi poteva non essere sufficiente un’intera vita per liberarsi dal tradizionale ruolo di buona moglie, inteso come un limite alla possibilità di prendere delle decisioni per il proprio avvenire, che in parte la donna finiva per dover sopportare anche nel luogo di destinazione nel momento in cui i datori di lavoro o altri uomini appartenenti alla comunità in cui si era inserita le imponevano la loro volontà. Nemmeno in questi casi, però, le conquiste per avvicinarsi all’autonomia andavano perse, perché le seconde generazioni potevano partire dai risultati delle madri e andare oltre.366

Una foto delle donne appartenenti alla famiglia di Clementina Bergamaschi mostra questo lento processo di avanzamento cultuale. La migrante lunigianese partì nel luglio del 1929 per raggiungere il marito in Francia in una località vicino a Parigi, quando le figlie Anna e Vilma avevano ancora rispettivamente due anni e mezzo e nove mesi.367 Nella fonte, databile all’incirca metà del Novecento, appare Clementina ormai anziana davanti all’ingresso della sua abitazione all’estero con le nipoti Evelina, di pochi mesi, Ginetta e Germaine. Le ultime due, da quanto si deduce dall’immagine, hanno sui vent’anni; da notare il nome francese della seconda discendente, che attesta un miglioramento

365 Vedere l’intervista a Maria Strufaldi nel dvd Donne lontane.., cit.

366 E. FRANZINA, Donne emigranti e donne di emigranti. Memorie e scritture popolari dell’emigrazione

femminile italiana fra i due secoli, «Annali Cervi», anno XII, 1990, in particolare pp. 238-243, dove si parla

della sottomissione della donna all’uomo nella società rurale e si cita brevemente la corrispondenza inviata alla madre e alla sorella da un emigrante valsesiano di fine 800 in Francia, da cui emerge il timore delle due donne che dovevano nascondere le lettere al capofamiglia amareggiato per la partenza del figlio.

367 Con il codice 675 (MEGT) è archiviata un’immagine delle bambine di Clementina Bergamaschi, vestite con

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nel livello di integrazione dei genitori rispetto alla nonna. In una fotografia si rappresenta il cammino indirizzato all’indipendenza compiuto da tre generazioni in quasi mezzo secolo di vita in Francia. Al centro del ritratto Clementina, emigrata di inizio Novecento che dopo aver lavorato all’estero per un periodo di tempo limitato, con la nascita della terza figlia decise di dedicarsi quasi interamente alla famiglia, tranne alcune ore alla settimana a servizio come domestica, mentre ai lati della scala le nipoti ormai giovani donne.368 Alla posizione composta dell’anziana, seduta timidamente su un gradino, si contrappone la posa disinvolta di Germaine, che posta sul cornicione indossa una minigonna e mostra liberamente le gambe, mentre si sostiene in modo affettuoso alla spalla della nonna.

La popolazione femminile che emigrava in modo indipendente (di solito si trattava di ragazze tra i quattordici e i venticinque anni, mentre la maggior parte delle donne di età superiore partiva per raggiungere il marito all’estero) destava sempre giudizi negativi da parte dei benpensanti. Si riteneva che avessero interesse ad abbandonare la famiglia solo le più spregiudicate, che lontano dal luogo di origine avrebbero accettato qualsiasi compromesso pur di soddisfare la loro voglia di vivere in modo dissoluto.369 Per quanto riguardava le minorenni, si accusavano i genitori di essere pronti a sacrificare l’incolumità fisica e la moralità delle loro figlie pur di avere un’ulteriore fonte di guadagno, così solo le famiglie che versavano in condizioni di vita talmente precarie da mettere a rischio la propria sopravvivenza potevano essere giustificate se decidevano di far partire una ragazzina.370

I pessimi risultati del vivere lontano dal luogo di origine sulla donna si manifestavano quando le emigrate di ritorno rivelavano comportamenti che non avrebbero mai assunto, se non fossero rimaste senza la vigilanza dei padri e dei

368 Vedere il codice 677 (MEGT).

369 ISTITUTO COLONIALE ITALIANO, Atti del II congresso degli italiani all’estero, 11-20 giugno 1911, sez.

IV, tema 5, Roma, Tip. Ed. Nazionale, 1911, p. 29.

370 C. GRANDI Donne fuori posto. L’emigrazione femminile rurale dell’Italia postunitaria, Roma, Carrocci,

2007, in particolare il paragrafo “Il controllo sociale sull’emigrazione” pp.54-72, e P. VILLARI, L’emigrazione

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fratelli, atteggiamenti insopportabili per le comunità rurali, come le abitudini delle operaie che imparavano a ubriacarsi nelle taverne. Ma il pregio che la donna partendo metteva maggiormente a repentaglio era la sua purezza, essendo spesso sottoposta alla promiscuità e, nel peggiore dei casi, a cadere nelle mani dei ricettatori che operavano la tratta delle bianche.371 Era il caso estremo, anche se ampiamente diffuso in alcuni paesi di arrivo, a cui si assommavano maltrattamenti e abusi sessuali, che le emigranti subivano sottoponendosi ai ruoli di balia e di domestica presso le famiglie borghesi o nelle fabbriche e negli esercizi commerciali dove lavoravano in qualità di dipendenti.

Queste esperienze spiacevoli spesso davano alle vittime figli illegittimi di cui si dovevano in qualche modo sbarazzare, dal momento che sarebbe stato difficile tornare nel luogo di origine con il frutto del loro peccato. Il modo più sicuro e sbrigativo appariva nella maggioranza dei casi partorire in una località distante anche dal paese o dalla città in cui le madri avevano trovato sistemazione ed esporre il bambino, ma non sempre l’abbandono era l’unica soluzione.372 Le ragazze con il carattere più determinato, infatti, preferivano tenersi la creatura e, se erano veramente state vittima di un sopruso, era possibile per loro trovare un marito abbastanza comprensivo che le avrebbe sposate senza costringerle a rinunciare al proprio figlio.

L’emigrazione condusse anche alle prime separazioni coniugali, un fenomeno sociale sconosciuto nelle comunità rurali, offrendo alla donna l’occasione di stringere legami amorosi extramatrimoniali se si dirigeva in una località lontana da dove aveva trovato sistemazione il consorte. Ma quest’ultimo era il caso meno ricorrente, perché le mogli che non raggiungevano i mariti rimasero sempre una minoranza; molto più frequenti, invece, erano i tradimenti delle donne in attesa nel luogo di origine impegnate nell’investimento delle rimesse

371 Ne parla anche B. BIANCHI, Lavoro ed emigrazione femminile (1880-1915), in AA. VV., Storia

dell’emigrazione italiana, cit., p. 262.

372 D. NOTARI, Donne da bosco e da riviera. Un secolo di emigrazione femminile dall’Appennino reggiano

(1860-1960), Reggio Emilia, Parco dei giganti, 1998, p. 108, mentre per una testimonianza sulle difficoltà delle

migranti che rimanevano in stato interessante vedere la storia di Maddalena Marabutto, in N. REVELLI,

L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Torino, Einaudi, 1985, pp. 342-346. Altri casi sono raccontati

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che, eludendo la sorveglianza dei parenti stretti, potevano avvicinarsi a un altro uomo per commettere adulterio.

Elisa Bianchi a fine Ottocento rimase in stato interessante in seguito a una relazione con il vicino di casa favorita dalla lontananza del marito, Luigi Berrettini emigrato da Filattiera a Santa Rosa in California.373 La discendente Luciana Berrettini374 racconta che la donna era molto bella e i tre figli avuti dal consorte non rappresentarono un ostacolo al tradimento. Quando capì la sua condizione, la Bianchi decise di risolvere il problema nel modo più semplice: avuta dal marito la certezza di essere ancora accettata, ma solo con i bambini nati all’interno del rapporto matrimoniale, decise di raggiungerlo negli Stati Uniti con i figli legittimi e di affidare a una famiglia del suo paese, una frazione della Lunigiana, il piccolo appena nato.

Sempre Luciana Berrettini, figlia di Pietro Berrettini il bambino abbandonato, spiega che quest’ultimo non volle mai riconoscere la propria madre fuggita all’estero, nemmeno quando ormai anziana l’emigrata cercò di stabilire un contatto con il figlio adulto attraverso le lettere.375

La storia di Maria Strufaldi, invece, dimostra la possibilità che fosse la donna a subire il tradimento dell’uomo. Conosciuto il marito in Inghilterra, dove i due emigranti lavoravano nel settore della ristorazione, dopo il matrimonio la coppia rimpatriò e si impiegò nella fabbrica della Fiat di Torino, ma le aspirazioni del giovane operaio andavano oltre: il suo obiettivo era andare negli Stati Uniti per avere un posto nell’industria Ford. Quando riuscì a realizzare il suo sogno la moglie non provò a ostacolarlo, benché nel frattempo avesse avuto una bambina e rischiasse di doverla crescere da sola.

Tornata in Lunigiana, la Strufaldi iniziò a lavorare come domestica.376 L’ultima volta che ebbe notizie del consorte, che a quattro anni dalla sua

373 L’emigrante è già stato citato nel paragrafo 3.1, dedicato alla professione di tagliaboschi. 374 L’intervista alla Berettini è riportata nel dvd Donne lontane…, cit.

375 Con il codice 504 (MEGT) è conservata una lettera di Elisa Bianchi ormai anziana inviata al figlio Pietro

Berrettini residente nel paese di Ponticello, datata anni cinquanta.

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partenza aveva avuto un impiego stabile nella ditta automobilistica americana, fu quando gli fece visita durante un breve viaggio a Chicago. Successivamente il migrante non si interessò più nemmeno alla figlia e, benché la moglie gli avesse firmato la cessione degli assegni familiari, non le inviò mai le rimesse, costringendola a passare al lavoro di operaia nella SMI per avere un salario maggiore rispetto a quanto poteva guadagnare come donna di servizio.

Trascorsi molti anni, riprese i contatti con la consorte attraverso un avvocato, scrivendo una lettera in cui la avvertiva che si era risposato e le chiedeva il divorzio. Al tempo (circa la metà del XX secolo) le separazioni non erano ancora conosciute in Italia; la comunicazione proveniente dagli Stati Uniti fu quindi una novità non solo per l’interessata, ma anche per gli abitanti del paese in cui viveva, ormai certi che la donna fosse stata abbandonata dal marito, ma lontani dall’immaginare che quest’ultimo avrebbe richiesto il consenso della prima moglie per rendere ufficiale la sua nuova famiglia.

Malgrado il desiderio di acquisire modelli culturali distanti dalla tradizione, per la difficoltà di entrare a far parte di una comunità più evoluta l’allontanamento dal luogo di origine portava alla donna una condizione di disagio, che poteva perdurare anche al ritorno, nel momento in cui le sue nuove abitudini venivano condannate da parenti e compaesani. Era l’incomprensione il prezzo più caro da pagare per liberarsi definitivamente dall’opprimente ruolo imposto dalla cultura tradizionale; secondo Prezzolini l’emigrazione in generale e, quindi, anche quella femminile creava delle hyphenated,377 ossia tante vittime di una grande tragedia comune. Il termine, citato dallo scrittore nella prefazione all’opera I trapiantati, dove accusava gli aspetti negativi ricorrenti nel fenomeno migratorio italiano, veniva usato negli Stati Uniti per indicare gli stranieri che si facevano chiamare “…con due nomi di paesi uniti da una lineetta..”378, ormai separati dalla cultura da cui avevano avuto origine, ma ancora incapaci di integrarsi in modo completo nella società statunitense.

377 G. PREZZOLINI, I trapiantati, Milano, Longanesi, 1963, p. 12. 378 Ibidem.

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Per le ragioni fino a ora esposte, la partenza della donna era spesso ritenuta una vergogna morale maggiore rispetto a quella dell’uomo; era necessario renderla invisibile, perché provava che la società non era in grado di offrire sostegno alla popolazione femminile. Di conseguenza per un periodo di lunga durata, fino al Novecento inoltrato, nelle statistiche si evitavano distinzioni tra i sessi e le donne non venivano neppure segnalate nei passaporti familiari o dei gruppi migratori, rimanendo nell’assoluto anonimato fino a quando, raggiunto il luogo di arrivo, venivano regolarmente registrate.379

Nel 1920 Erminio Albonico (direttore degli uffici di segreteria dell’Opera Bonomelli) durante la sua inchiesta sugli esodi di massa rivelava un interesse per l’emigrazione femminile al tempo ancora difficile da trovare negli studiosi di statistica: il ricercatore, infatti, non solo cercava di stabilire la quantità dei flussi migratori di donne e bambini, ma aveva inserito nel suo questionario anche domande sui mestieri che andavano a svolgere. Il sondaggio fu inviato ai parroci, ritenuti da Albonico molto più precisi dei burocrati non solo perché dirigente di un ente religioso, ma anche per il loro interesse a mantenere aggiornata la situazione demografica delle parrocchie.380

Le partenze femminili si mantennero quasi sempre solo una parte del totale; infatti, in media oscillavano dal 10 al 20% degli esodi, una porzione assai limitata, che consentiva di nascondere con facilità l’incomodo allontanamento della donna agli occhi dell’opinione pubblica.

Lamberto Paletti, nella sua monografia di statistica migratoria stampata nei primi del Novecento, per il periodo compreso tra 1876 e 1905 dimostrava come solo dopo il 1884 l’emigrazione femminile manifestò un incremento delle partenze, che proseguirono ad aumentare fino all’inizio del XX secolo. Per gli anni presi in esame dalla sua ricerca lo studioso calcolava una media che oscillava tra il 12 e il 25% del totale.381

379 C. GRANDI Donne fuori posto, cit., p 46.

380 E. ALBONICO, Saggio di una prima inchiesta sulla emigrazione italiana in Europa, Milano, Tipografia

Fratelli Lanzani, 1921. Per le domande del questionario vedere la prefazione.

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Bruna Bianchi sottolinea la necessità di tenere in considerazione alcuni fattori che possono falsare i risultati statistici. Le donne in maggioranza restavano all’estero per molto tempo o per sempre (in particolare le mogli che si ricongiungevano ai mariti), mentre una buona percentuale degli uomini preferiva l’emigrazione temporanea e stagionale, quindi nell’arco degli anni gli stessi soggetti, varcando spesso i confini, venivano più volte registrati nelle statistiche. Infine, come sempre accade in materia di emigrazione, non era possibile e non lo è tuttora calcolare gli spostamenti dei clandestini, che se fossero conosciuti sicuramente metterebbero in dubbio molte convinzioni consolidate.382

La tabella che segue elenca le partenze a livello nazionale classificate per sesso e per età nel periodo compreso tra il 1876 e il 1925, prima che gli stati dell’America Settentrionale e Meridionale imponessero rigide quote per limitare l’arrivo degli immigrati.383

Anni Maschi Femmine Totale 1876 1877 1878 1879 1880 1881 1882 1883 1884 1885 1886 1887 1888 1889 1890 95 187 85 199 82 510 100 172 100 726 117 042 136 750 146 245 125 911 128 245 135 890 171 579 210 611 175 657 175 971 13 584 14 014 13 758 19 659 19 175 18 790 24 812 22 856 21 106 28 950 31 939 44 086 80 125 42 755 39 883 108 771 99 213 96 268 119 831 119 901 135 832 161 562 169 101 147 017 157 193 167 829 215 665 290 736 218 412 215 854

Paoletti per scrivere la sua opera fece riferimento alle pubblicazioni statistiche del Ministero degli Esteri edite fino al 1908, l’anno in cui concluse le sue ricerche.

382 B. BIANCHI, Lavoro ed emigrazione femminile (1880-1915), in AA. VV., Storia dell’emigrazione italiana,

vol I, cit., p. 257.

383 Fonte: Annuario statistico dell’emigrazione italiana, a cura del Commissariato Generale dell’Emigrazione,

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1891 1892 1893 1894 1895 1896 1897 1898 1899 1900 1901 1902 1903 1904 1905 1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 1915 1916 1917 1918 1919 1920 1921 1922 1923 1924 1925 219 823 175 949 194 365 178 739 220 179 238 519 227 790 226 993 255 223 291 568 432 926 439 809 422 735 387 826 603 552 642 716 574 432 402 517 507 765 531 197 430 961 579 585 710 358 385 147 91 575 79 603 21 201 15 649 163 501 438 250 128 826 202 514 284 669 263 531 197 653 73 808 47 718 52 386 46 584 73 002 68 963 72 065 56 722 53 116 61 214 100 319 91 700 85 241 83 365 122 779 145 261 130 243 84 157 117 872 120 278 102 883 131 861 162 240 94 005 54 444 62 761 25 295 12 662 89 723 176 361 72 465 78 756 105 288 101 083 82 428 293 631 223 667 246 751 225 323 293 181 307 482 299 855 283 715 308 339 352 782 533 245 531 509 507 976 471 191 726 331 787 977 704 675 486 674 625 637 651 475 533 844 711 446 872 598 479 152 146 019 142 364 46 496 28 311 253 224 614 611 201 291 281 270 389 957 364 614 280 081

Fino ai primi del Novecento si nota una netta prevalenza maschile, che tuttavia tende a diminuire avvicinandosi alla Grande Guerra. Nel 1876, anno in cui si manifestavano i primi movimenti migratori di massa e le cifre totali degli espatri a livello nazionale si aggiravano sulle centomila unità, gli uomini erano circa sette volte più numerosi delle donne: rispettivamente i dati furono 95187 e

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13584. Successivamente, fino al 1884, l’emigrazione maschile rimase da cinque a sei volte superiore a quella femminile, rapporto che scese gradualmente a favore della donna tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1914.

Dal 1915 le partenze maschili subirono un ulteriore tracollo dovuto agli arruolamenti per il fronte: a inizio secolo, infatti, gli uomini potevano essere anche quattro a cinque volte superiori rispetto alle donne, ma agli albori del primo conflitto mondiale non erano nemmeno il doppio, 91575 contro 54444 nel 1915 e 79603 contro 62761 nel 1916. Il 1917 fu l’unico anno in cui le partenze femminili divennero superiori a quelle degli uomini, nello specifico 25295 contro 21201; probabilmente in prevalenza si trattava di donne che si ricongiungevano ai familiari all’estero.

Negli anni che seguirono al conflitto mondiale i numeri dell’emigrazione maschile tornarono a crescere a causa del ritorno dei soldati dal fronte e tra il 1920 e il 1925 furono alternativamente dalle due alle quattro volte superiori rispetto agli esodi della popolazione femminile.

5.2 I ruoli della donna nella storia dell’emigrazione

A partire inizialmente erano gli uomini giovani sposati o ancora legati alla famiglia, appartenenti alla fascia di età compresa tra i venti e i quarant’anni. Con il tempo le piccole località di montagna si andavano gradualmente a rendere deserte, un processo demografico che aveva un momento iniziale in cui la popolazione restante era in prevalenza composta da anziani, donne e bambini. Era la fase antecedente al ricongiungimento della famiglia all’estero una volta che gli uomini potevano offrire un futuro dignitoso ai loro congiunti, risultato spesso reso possibile dall’appoggio dei compaesani partiti in precedenza.384 In questo modo si compivano le strategie adottate dalle comunità rurali per sfruttare al meglio le opportunità offerte dall’emigrazione, tendenza sociale che prevedeva per i due sessi ruoli ben precisi in base alle necessità familiari.

384 Sulle catene migratorie O’ ROURKE K. H. e WILLIAMSON J. G., Globalizzazione e storia. L’evoluzione

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Vissute fino a poco tempo prima nell’ombra del padre o del marito, era restando per più o meno tempo senza l’appoggio dell’uomo che molte donne accrescevano le loro capacità lavorative e organizzative, compiendo un passo avanti verso l’indipendenza economica e culturale, un avanzamento simile all’autonomia che raggiungevano le ragazze impiegandosi come domestiche presso le famiglie borghesi o nelle fabbriche delle grandi città.385

Mogli e figlie iniziarono a frequentare i luoghi dove si svolgevano le operazioni finanziare e commerciali, come le banche necessarie per depositare le rimesse inviate dall’estero o i negozi agricoli e i mercati del bestiame, che in precedenza erano sempre stati riservati agli uomini. In realtà sostenere che la donna prima dell’allontanamento dell’uomo non avesse alcun peso sui commerci della famiglia non sarebbe esatto: anzi, durante vendite e acquisti le consorti rivelavano sempre il proprio punto di vista ai mariti, anche se ogni loro condizionamento doveva essere esercitato con discrezione. Nel momento in cui l’uomo partiva, la donna aveva l’occasione di mettere in pratica quanto aveva imparato in precedenza rimanendo nell’ombra. 386

Attraverso la collaborazione delle donne si realizzavano i fini dell’emigrazione maschile, indirizzati all’investimento del denaro straniero per aumentare le proprietà rurali del luogo di origine, di conseguenza il ruolo della popolazione femminile risultava fondamentale.387

Quest’ultima non sempre, però, poteva godere a pieno dell’indipendenza a causa degli stretti vincoli con gli uomini che restavano nel luogo di origine, incaricati di vigilare sul suo operato: malgrado la separazione della famiglia, mogli e figlie non dovevano avere un’autonomia totale, ma solo una responsabilità temporanea dovuta alla necessità. La donna intraprendente non era sopportata in una società rurale maschilista, dove i padri e i suoceri potevano

385 P. CORTI, Storia delle migrazioni internazionali, Bari, Editori Laterza, 2003, p. 43, dove l’autrice sottolinea

che l’emigrazione non era solo alimentata dagli interessi individuali, ma rispondeva a specifici progetti familiari.

386 Vedere N. REVELLI, Il mondo dei vinti, testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 1993; alle pp.

92-94 l’autore riporta la testimonianza di Bartolomeo Spada, nato a Vignolo nel 1878, che praticò il commercio dei bovini tutta la vita. L’intervistato racconta che quando la moglie senza farsene troppo accorgere esprimeva il suo dissenso, il marito non comprava mai.

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giungere a comportamenti violenti nei confronti di figlie e nuore pur di evitare che divenissero completamente autosufficienti. Una balia feltrina, al momento di partire, era talmente desiderosa di abbandonare la famiglia del marito, da arrivare a sostenere con palese risentimento che: “…sopportai otto anni di tirannia di casa, poi dissi a mio suocero basta di lavorare per lui.”388

Alle volte la condizione di sofferenza e preoccupazione della donna era dovuta ai mancati risultati del lavoro all’estero del marito, con il permanere all’interno del nucleo familiare della precarietà economica e delle stesse privazioni che avevano indotto il capofamiglia alla partenza.389 Nelle testimonianze epistolari spesso si evidenzia il disagio subito dalla moglie sola, costretta a provvedere al mantenimento dei figli e alla gestione dei lavori agricoli, che danno risultati troppo scarsi per poter garantire la sopravvivenza di un gruppo familiare di cui non è affatto motivo di orgoglio essere responsabile. In tali circostanze la moglie maturava la consapevolezza di non avere possibilità di riscatto dalla povertà, che le appariva come una sorta di malattia endemica della società contadina.

Un emigrante bellunese ricoverato in un ospedale tedesco, ammalato e di conseguenza amareggiato per gli insuccessi seguiti alla sua decisione di vivere all’estero, accusava la moglie di avergli mancato di rispetto per uno sfogo dal dolore che si era permessa in una lettera.390 La donna, ormai stanca di sopportare una condizione di vita divenuta insostenibile a causa della completa assenza di mezzi di sussistenza, si sentiva rimproverare aspramente con queste parole: “Osi omia cara moglie gai avuto proprio unbel coragio ascrivermi una letera incuesta maniera ben si cheio tio spedito lamia col dirti questo anonpensando sopra di ofenderti cosi esendo cometiodetto avere lamente non perfeta vedendomi cui cosi di essere lungotempo inleto.”

388 D. PERCO, Balie da latte: una forma peculiare di emigrazione temporanea, Feltre, Comunità Montana

Feltrina e Centro per la Documentazione della Cultura Popolare, 1984, p. 138. L’emigrata, in partenza per Cremona dove avrebbe lavorato per la seconda volta come balia, non aveva sopportato che il suocero, tra i vari soprusi, avesse evitato di avvertirla della morte del suo bambino, quando molto prima aveva assistito il primogenito di una famiglia di Torino.

389 Ibidem.

390 F. MODESTI, Emigranti bellunesi dell’800 al Vajont. Sfruttamento, burocrazie, culture popolari, Milano, F.

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Nello sfogo di questa moglie, che prevedeva di partire a breve come balia per rimediare alle difficoltà portate dalla malattia del consorte, si intuisce la necessità di ribellarsi a una condizione di vita insopportabile e, rispetto al ruolo imposto dalla comunità rurale, anche un tale atteggiamento poteva essere considerato una sorta di avanzamento culturale. La donna, non dovendo mai criticare il trattamento economico che il capofamiglia le poteva offrire, nel momento in cui aveva il coraggio di lamentarsi delle privazioni rompeva con gli schemi della società maschilista e assumeva un’autonomia di pensiero.391 Non tutte le mogli che rimanevano nel luogo di origine, infatti, avevano la fortuna di avere un marito arricchito che le aveva rese “americane”, come si diceva nel Sud Italia,392 e che consentiva loro con le rimesse di raggiungere un tenore di vita tale da potersi permettere, una volta comprata della terra, di non salutare più il vecchio padrone incontrato per strada. Se si raggiungeva un simile risultato, la donna impegnata nel gestire i beni familiari si sentiva pienamente realizzata, perché era stata lei che, investendo in modo avveduto le rimesse, aveva reso possibile l’atteso avanzamento economico della famiglia.

Assolutamente diverse erano le difficoltà della donna che partiva con l’obiettivo di raggiungere il marito o il fidanzato (erano molte, infatti, le ragazze nubili che, stanche della vita condotta nelle aree rurali, decidevano di abbandonare i genitori per recarsi all’estero dove già viveva il futuro sposo). Il primo momento di smarrimento sopraggiungeva con il viaggio, particolarmente duro da affrontare per le migranti che decidevano di partire da sole; sull’argomento si può leggere la testimonianza rilasciata alla ricercatrice Cecilia Lupi da Lucia Nebbiolo Gonella, una donna che trascorse gran parte della vita lontano dal luogo di origine.393 La prima traversata oceanica la compì ancora in fasce dall’Italia all’Argentina. Tra il 1901 e il 1960 si diresse molte volte nel

391 E. FRANZINA, Donne emigranti e donne di emigranti.., cit., p. 240.

392 Il termine “americane” riferito alle mogli degli emigranti viene usato nell’articolo di V. TETI, Note sui

comportamenti delle donne sole degli “americani” durante la prima emigrazione in Calabria, in «Studi

Emigrazione », 1987, n. 85, pp. 13-46

393 C. LUPI, Trenta giorni di macchina a vapore. Appunti sul viaggio degli emigranti transoceanici, in

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continente americano, spostamenti che la costrinsero a conoscere gli aspetti peggiori della forzata convivenza tra passeggeri a bordo dei piroscafi. Su queste navi di grossa stazza, ma mai abbastanza capienti per l’eccessivo numero dei migranti, la popolazione femminile priva di accompagnatori maschili rischiava violenze fisiche e sessuali, giustificate dalla mentalità popolare che riteneva lecito per l’uomo approfittarsi di una donna sola; quest’ultima non poteva certo essere giudicata una brava moglie o una figlia ubbidiente, perché in caso contrario avrebbe avuto la compagnia del marito o del padre. Ai soprusi si aggiungeva il pericolo di contrarre malattie epidemiche come la tubercolosi o il colera, che in alcuni casi portavano a elevate percentuali di decessi, poiché il contagio era favorito dalle cattive condizioni igieniche e dalla forzata convivenza dei passeggeri a stretto contatto per un lungo periodo.

Una volta raggiunta la destinazione, per le emigrate iniziavano i problemi di adattamento al nuovo ciclo di vita, in una società in cui si imponevano orari di lavoro e si prevedevano abitudini completamente diverse da quanto erano solite fare nel luogo di origine.394 Come inizialmente accadeva agli uomini, anche le donne che si trasferivano nel continente americano dovevano adattarsi o ai ritmi veloci delle città statunitensi, dove incalzava lo sviluppo industriale e si affermava la società di massa, o a spazi più estesi nelle abitazioni coloniali del Sud America, poste a grande distanza dalle aree urbane.

Per la donna ricongiungersi con il marito all’estero significava accettare l’unica condizione da emigrante in cui soltanto con notevoli difficoltà le sarebbe stato consentito di raggiungere un avanzamento economico e culturale tale da poter rivendicare il diritto all’autonomia, liberandosi completamente del ruolo impostole dalla tradizione. Ma se da una parte erano gli uomini a ostacolare mogli e figlie nel momento in cui acquisivano piena consapevolezza della necessità di liberalizzarsi, spesso le donne che rimanevano legate alla famiglia preferivano preservare una condotta di vita per quanto possibile consona alle

394 A. MOLINARI, Vite e viaggi dell’emigrazione transoceanica, cit., l’autrice alle pp. 105-126 parla dei disturbi

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abitudini a cui si erano conformate nel luogo di origine, sperimentando l’indipendenza in modo graduale e apprendendo la lingua solo dopo diversi anni di vita all’estero.395 Tale comportamento prova quanto potessero essere lunghi i tempi di adattamento alla cultura autoctona per le italiane provenienti dai paesi della montagna alpina e appenninica.

Per l’uomo la presenza femminile era molto conveniente, perché consentiva il mantenimento dell’ambiente domestico e la possibilità di concentrarsi sugli impegni lavorativi; per questo motivo a volte le donne partivano con i padri o con i fratelli, anche se erano coscienti che la permanenza all’estero poteva non portare un miglioramento del loro tenore di vita.

La storia di Elena Nelli rappresenta un caso estremo. La giovane sarta lucchese espatriò a inizio Novecento insieme al marito, rendendosi in questo modo dipendente dal consorte, che stabilì i tempi del viaggio e scelse la località di destinazione. Benché l’unica condizione che la moglie avesse posto fosse stata quella di andare in California, la terra in cui riteneva, per quanto aveva appreso dai resoconti dei rimpatriati, esistessero maggiori possibilità di costruire un avvenire florido, il marito aveva già deciso che la meta della sua famiglia doveva essere Cordoba, così per evitare che la consorte lo contraddicesse non esitò a ingannarla. Alla partenza la rassicurò che il loro piroscafo (in realtà diretto in Argentina) sarebbe andato in California e anche quando all’arrivo la Nelli rimase profondamente delusa dalla località in cui si stava trasferendo, che non corrispondeva assolutamente alle sue aspettative, il marito continuò a mentire finché ne ebbe la possibilità.396 Da anziana l’emigrata, nei momenti di maggiore nostalgia, con le poche persone con cui era riuscita a stringere amicizia era solita sfogarsi dicendo: “Dio mio, quanto è brutta questa California”, senza nascondere la sua amarezza nel tono della voce, ma non

395 Per le difficoltà nell’apprendere la lingua del luogo di arrivo è interessante quanto racconta Cornelia Stratton

Parker su una vedeva italiana di nome Lucia, che imparò le prime parole in inglese solo dopo una decina di anni dal suo arrivo a New York; vedere C. STRATTON PARKER, Working with the working woman, New York, 1922, p. 84. Le difficoltà di integrazione della donna che emigrava all’estero con la famiglia vengono trattate anche nel capitolo dedicato alla vita del figurinaio Ivo Agostani.

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abbandonò mai la famiglia, sopportando una vita di privazioni per non disattendere al dovere di rispettare in ogni circostanza la volontà del consorte. Un esempio della figura di moglie guardiana della tradizione è offerto dalle donne della comunità sarda di Long Island, che si riunivano per cucinare il pane cogone e carasau come facevano quando risiedevano sulle montagne della loro isola, dove era compito della popolazione femminile provvedere alla preparazione del pane. Quest’ultimo per la cultura sarda assume un valore quasi magico, non solo per scongiurare lo spettro della fame nella società pastorale, ma anche come cura contro varie malattie. Il pane veniva depositato nei congelatori e messo a disposizione delle famiglie per alcuni giorni, dopodiché le donne, non potendo per gli impegni imposti dai nuovi ritmi di vita produrne con la stessa frequenza che riuscivano ad assicurare nel luogo di origine, prendevano nei supermarket statunitensi il pane pita, un particolare tipo di pane mediterraneo che nella forma ricorda il carasau.397

Non sempre, però, gli andamenti economici erano favorevoli al mantenimento dei ruoli tradizionali nel gruppo familiare trapiantato all’estero, specialmente nei luoghi dove lo sviluppo economico procedeva velocemente e, per favorire la crescita dell’industria leggera, era molto diffusa l’assunzione di donne e bambini retribuiti in modo sensibilmente inferiore rispetto agli uomini. Nel caso in cui il capofamiglia perdeva il suo posto di lavoro, la moglie era costretta dalle necessità a cercare un’occupazione per consentire almeno il sostentamento alimentare, entrando a contatto di un ambiente che poteva aiutarla a liberarsi dei limiti imposti dalla cultura maschilista ereditata dal luogo di origine. Tale condizione si verificò con particolare frequenza presso le famiglie di emigranti italiani negli Stati Uniti dove, almeno fino alle soglie della Grande Guerra, lo sviluppo industriale si alimentò di manodopera sottopagata e priva di ogni abilità professionale; la situazione variò negli anni venti, quando le aziende

397 E. ORTU, L’emigrazione femminile nel mondo, Cagliari, Centro Studi Giuridici ed Economici Comunitari,

2007, pp. 75 e 95-99. Inoltre in M. S. GARRONI ed E. VEZZOSI, Italiane migranti, in Storia d’Italia, cit. alle pp. 449-450 si ricordano le autrici statunitensi che hanno studiato la condizione della donna all’estero nella famiglia di origine, tra cui Donna Gabaccia, Maxine Seller, Tamara Hareven e Virginia Yans-Mc Laughlin.

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sempre più tecnologicamente avanzate e organizzate nella gestione del proprio personale, iniziarono a richiedere dipendenti in grado di svolgere compiti di maggiore responsabilità, per i quali erano indispensabili operai specializzati.398 Quando il lavoro della donna si rendeva necessario, gli uomini attivavano una serie di strategie per non perdere il potere che la tradizione culturale del luogo di origine conferiva loro, ricorrendo a sistemi di controllo delle attività femminili. Molte furono le famiglie italiane negli Stati Uniti segnalate ai servizi sociali, in cui padri e figli amareggiati dalle difficoltà economiche incontrate vivendo all’estero, si sentivano usurpati del proprio dominio dalla donna che, lavorando, assumeva un ruolo più forte all’interno della famiglia. A causa della condizione che si andava a creare, madri e figlie, secondo il giudizio degli uomini, facevano di tutto per ribaltare le posizioni stabilite dalle vecchie consuetudini. Per evitare di perdere il predominio numerosi emigrati finivano per rafforzare la loro vigilanza, giungendo ad accompagnare le mogli alle fabbriche o presso le abitazioni in cui prestavano servizio domestico;399 a sera, poi, le andavano a riprendere, di modo che potessero essere libere dai vincoli familiari solo all’interno del luogo di lavoro, dove di solito erano presenti altri uomini che esercitavano la loro autorità. Nei casi in cui il gruppo familiare in difficoltà viveva in uno stato di isolamento ed emarginazione dalla comunità autoctona, se il capofamiglia cadeva in depressione spesso ricorreva all’abuso di alcool e, nelle situazioni più estreme, diventava violento nei confronti della donna.400 La forma di sottomissione peggiore per le emigrate si manifestava quando erano costrette a lavorare all’interno della propria abitazione, per offrire ospitalità dietro bassi compensi ai connazionali che erano stati costretti a lasciare il luogo di origine senza farsi accompagnare dalle mogli o dalle figlie. Questa attività era chiamata bordo e la donna aveva l’ingrato compito di fare da

398 B. BIANCHI, Lavoro ed emigrazione femminile, in AA. VV. Storia dell’emigrazione…, cit., pp. 266-272;

una serie di condizioni ricorrenti rendevano lo stipendio del padre spesso insufficiente al mantenimento dei familiari negli Stati Uniti.

399 Cfr. K. HOLLADAY CLAGHORN, The immigrant’s day in court, New York, Arno Press and The New

York Times, 1969, pp. 67-100.

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mangiare, lavare e pulire per un numero imprecisato di uomini, che variava a seconda della forza delle sue braccia e dello spazio a disposizione.401

Oltre alla notevole fatica, che sciupava l’aspetto fisico e metteva a rischio la salute delle italiane impegnate in questa particolare professione, le bordanti rischiavano di subire violenze sessuali, facilitate dalla condizione di promiscuità che si andava creando in un ambiente prevalentemente occupato da uomini. Nelle sue memorie Rosa Cavalieri402 ricorda che quando fu chiamata a lavorare per i minatori del Missuri dietro richiesta del marito Santino, finì per subire oltraggi di ogni sorta, non solo a causa della situazione abitativa che prevedeva di mettere a contatto senza alcun rispetto per la dignità personale uomini e donne, ma anche per colpa del consorte che all’estero aveva imparato a bere e picchiava spesso la moglie quando era ubriaco.

Non tutte le donne erano disposte a seguire i loro mariti all’estero e ad accettare una vita spesso fatta di privazioni: molte ritenevano più conveniente rimanere nel luogo di origine per non abbandonare i genitori e i figli, evitando i traumi che sarebbero state costrette a sopportare nelle prime settimane di vita all’estero, come decise di fare Teresa Bonini. Sposata con Raffaele Luti, malgrado le frequenti sollecitazioni da parte del consorte, rifiutò di raggiungerlo prima a New York e poi a San Paolo, le città dove il lucchese si trasferì a inizio Novecento partendo dal paese di Fosciandora, distante pochi chilometri da Castelnuovo Garfagnana.403 A niente servì una lettera in cui la cugina di Teresa, residente nei pressi della proprietà agricola di Luti in Brasile, cercava di convincerla a trovare il coraggio per partire, così alla fine il migrante si dovette rassegnare a vivere rinunciando alla sua famiglia.

1880-1960, New York, Penguin Books, 1988; per il legame tra isolamento e violenza familiare pp. 309-310.

401 A. BERNARDY, Bordanti, in Ripensare la patria grande. Gli scritti di Amy Bernardy sulle migrazioni

italiane (1900-1930), a cura di Maddalena Tirabassi, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2005, pp. 165-166, ma il

lavoro del bordo viene descritto anche nell’articolo Occupazione delle donne e dei fanciulli, pp. 161-165. L’opera propone una raccolta dei contributi più significativi della scrittrice di inizio Novecento.

402 M. HALL ETS, Rosa. The life of an italian immigrant, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1970, in

particolare le pp. 160, 173, 186 e 254, ma tutta la seconda parte dell’opera è una testimonianza attenta delle difficoltà sopportate dalle donne che svolgevano il servizio di bordo all’estero.

403 Nelle foto di Raffaele Luti, codici 948 e 949 (AC), l’emigrante appare orgoglioso di mostrarsi insieme ad

alcuni amici probabilmente originari come lui della Garfagnana, anche se nella fonte non viene specificato il luogo di partenza dei suoi compagni.

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Nel documento epistolare inviato a Fosciandora l’8 novembre 1906 la mittente (di cui non è riportato il nome) sostiene che il Luti: “…non pensa a ritornare in Italia perché si trova bene quì e non ritiene opportuno lasciare. Per parte di rivedervi tutti verebbe anche domani però riconosce che la vita in Italia è molto più difficile che in Brasile.” 404 Anche se non sono state conservate lettere

successive a questo documento, è molto probabile che Luti si sia costruito una nuova famiglia, trovando non solo opportunità economiche ma anche affetti che lo legarono sempre di più al luogo di destinazione.

Un caso particolare in merito alle capacità lavorative della donna emigrante è rappresentato dalle barsane (venditrici originare del comune di Bagnone che tra Ottocento e Novecento si specializzarono in chincaglierie e maglierie) che dimostra come, anche se raramente, sia possibile individuare condizioni in cui si creava una sorta di qualifica professionale a vantaggio della popolazione femminile. Il termine barsane deriva dalla località in cui erano solite dirigersi queste venditrici ambulanti: la Barsana, che tra Ottocento e Novecento per la popolazione della montagna massese identificava genericamente la pianura Padana405 e, più nello specifico, la provincia di Brescia, dove le emigrate originarie di Bagnone avevano iniziato a recarsi dal tramontare del XIX secolo seguendo l’esempio di altri girovaghi.

L’apprendistato per divenire una barsana consisteva in un lungo periodo di prova da compiersi tra i dieci e i quindici anni, come sempre accadeva nel commercio ambulante quando i garzoni, dati in affidamento a un emigrante oppure nati in una famiglia in cui già si praticava questa attività, venivano impiegati come sostegno agli adulti. Un’anziana venditrice, che aveva ricevuto in eredità la professione dalla madre, raccontava406: “Sono partita col carretto così, mia madre davanti con la maglieria e io dietro con la merceria, avrò avuto undici, dodici anni. Insomma, lei davanti, io dietro: ogni tanto il carretto partiva

404 Si fa riferimento al codice 3299 (AC). 405 C. B. Brunelli, I Barsan, cit., p. 16.

406 La testimonianza è stata presa dalla registrazione dell’intervista collettiva effettuata a Groppo nell’agosto del

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sulle strade, sbattevo contro il paracarro e buttavo giù tutta la roba.” La vita per le piccole dipendenti, chiamate più comunemente serve, era difficile anche nel caso in cui fossero le figlie dei proprietari della merce, a causa della necessità di spostarsi a piedi per vendere i prodotti nei luoghi meno popolati. Da loro i padroni cercavano di trarre il massimo beneficio, così la sera pretendevano di essere informati sui proventi della giornata e se questi ultimi erano insoddisfacenti, riprendevano le ragazzine duramente, accusandole di non essere abbastanza abili nel convincere i clienti a comprare. Spiega una migrante amica della barsana precedente407 che: “Se non portavi abbastanza soldi erano sgridate. Non hai girato, ti dicevano, invece avevi girato tutto il giorno…”

Non tutte avevano la costanza per imparare il mestiere, ma le minorenni che resistevano crescendo potevano organizzare una loro attività, assumere altre serve e, nei casi più fortunati, passare con il tempo dal commercio ambulante alla gestione di un negozio o di un magazzino.

Quella della barsana era una professione prettamente femminile, dove l’uomo aveva un ruolo secondario perché queste emigranti erano solite, anche quando partivano in compagnia del marito, decidere i tempi e le modalità del loro lavoro. Nelle testimonianze si descrive persino una sorta di ribaltamento dei ruoli all’interno della famiglia, come spiegava un’altra anziana venditrice:408 “Erano più le donne che l’uomo (intendeva a occuparsi dell’attività commerciale). Mio marito sa cosa aveva, sapeva fare da mangiare, io quando arrivavo (si riferiva alla fine della giornata, terminato il giro delle vendite), avevo clienti in casa, lui faceva da mangiare.” E la sorella aggiungeva: “Facevano tutti da mangiare, anche il mio. Mentre io chiudevo il banco, lui andava a fare da mangiare…” 409 La donna era di fatto proprietaria della merce, anche se nella maggioranza dei casi era costretta a registrare la sua attività con il nome dell’uomo a causa dei limiti imposti dalle consuetudini burocratiche che

407 Ibidem. Non sempre è riportato il nome dell’autore della testimonianza. 408 Ibidem.

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furono preservate fino alla seconda metà del Novecento. A lei spettava decidere la località dove sarebbe andata a lavorare, assumere le serve e impartire le direttive dei loro spostamenti, infine tenere la contabilità e giudicare i risultati della campagna commerciale. A differenza della quasi totalità delle donne che si spostavano con i padri e i consorti, le barsane potevano rendersi indipendenti superando il ruolo subalterno riservato alla popolazione femminile nella società rurale, di conseguenza coltivano ambizioni simili alle aspettative delle ragazze che partivano in modo autonomo.410

Era quest’ultimo il caso in cui non esisteva tra le emigrate e la famiglia alcun legame se non quello di inviare le rimesse, obbligo in realtà più volte disatteso in generale da ambo i sessi, come dimostra il caso già citato di Maria Strufaldi che venne dimenticata dal marito assunto dall’azienda Ford, a cui si può aggiungere la storia dei fratelli Masini, originari di Chiozza, un paesino della Garfagnana. In una lettera del 1923 inviata dallo zio dei due emigranti al terzo fratello ancora residente in patria lo scrivente consolava il destinatario, amareggiato per non aver più ricevuto rimesse: “Capirai che sono giovani e si trovano qualche soldo in tasca e il benestare li fà dimenticare tutti ma però io glielò detto di mandarti a te qualche cosa.”411

Le ragazze entravano solitamente nei settori deboli del mercato del lavoro, di cui facevano parte il personale impegnato nei servizi,412 come cameriere o commesse, e le operaie delle fabbriche del Nord Italia e di alcune città dell’Europa centro meridionale, con una netta prevalenza nel tessile (per questo genere di produzione assunsero particolare rilievo le industrie del sud della Francia, in cui trovarono largo impiego anche le emigranti toscane). La manodopera femminile e minorile sottopagata, anche se priva di particolari

410 Per comprendere come il cammino di liberalizzazione delle barsane fosse caratterizzato da responsabilità in

ambito lavorativo e difficoltà nei rapporti con i familiari, specialmente con i figli ancora piccoli che rimanevano senza il conforto delle loro madri, vedere “Donne di Lunigiana nel Novecento”, dvd realizzato dalla regione Toscana, dal comune di Bagnone e dalla provincia di Massa (2006).

411 Giuseppe Masini da San Bernardo presso San Paolo al nipote di Chiozza, sabato 23 giugno 1923 (AC). 412 Sulla presenza della donna lontana dal luogo di origine nei mestieri legati ai servizi domestici vedere A.

DADÀ, Donne, lavoro, migrazioni, in www.unifi.it/upload/sub/pariopp/dada.pdf, dove l’autrice fa un confronto tra la situazione delle emigrate toscane tra Ottocento e Novecento e le difficoltà delle immigrate attuali in Italia.

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abilità professionali, lavorava con facilità ai nuovi sistemi di meccanizzazione, perché al dipendente restava soltanto il compito di riannodare i fili spezzati, essendo la macchina a realizzare il prodotto. Come era accaduto in Inghilterra centocinquanta anni prima, erano le categorie più deboli e sfruttate che davano agli imprenditori l’opportunità di risparmiare i fondi necessari per lo sviluppo industriale.413 Donne giovani e bambini in età scolare414 sopportavano orari giornalieri che potevano oscillare tra le tredici ore di lavoro in inverno e le sedici ore in estate, in ambienti malsani e privi di ogni genere di prevenzione a difesa della loro incolumità fisica, in cambio di una retribuzione sufficiente a garantire a malapena i generi di primaria necessità.415

Esponenti dei partiti socialisti europei e del movimento operaio internazionale, come Anna Kuliscioff416, lottarono affinché le donne e i bambini non fossero considerati unicamente forza lavoro da sfruttare ed è grazie al loro impegno che possediamo alcuni dati importanti. La sindacalista ricordava nella relazione presentata al Congresso Nazionale Socialista del 1910 che a inizio secolo in Italia l’89% degli addetti al settore tessile era di sesso femminile, ma già i dati che possediamo per il 1890 mettono in evidenza una netta minoranza della manodopera maschile, stimata solo di 15384 unità a fronte delle 120386 donne e dei 36589 bambini di ambo i sessi, ma è presumibile che anche tra questi ultimi le femmine prevalessero. La presenza del lavoro maschile era maggiore nei cotonifici, dove la crescente meccanizzazione richiedeva una forza lavoro qualificata, ma nemmeno le innovazioni di questo comparto impedirono alle operaie di continuare a essere più numerose: sempre nel 1890 si contavano 82932 donne contro 34750 uomini, mentre nettamente minori rispetto al tessile

413 Cfr F. ENGELS, La situazione della classe operaia in Inghilterra. In base ad osservazioni dirette e fonti

autentiche, Milano, Edizioni Lotta Comunista, 2011, in particolare p. 208. L’autore sostiene che una donna o un

fanciullo potevano fare lo stesso lavoro di un uomo a metà e a volte anche a un terzo del salario.

414 F. CAMBI e S. ULIVIERI, Storia dell’infanzia in età liberale, Firenze, La Nuova Italia, 1988, pp. 153-156. 415 C. RAVERA, Breve storia del movimento femminile in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 29, dove si

spiega che le retribuzioni giornaliere delle operaie di Schio erano fissate a 1,50 lire per le tessitrici e a 1,30 lire per le spolatrici, quando un chilo di pane costava 50 centesimi.

416 Cfr. A. KULISCIOFF, Proletariato femminile e partito socialista, Milano, Tip. degli Operai, 1910, relazione

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risultavano i bambini in numero di 17528 unità, inadatti per essere impiegati a lavorare con macchinari per il tempo altamente tecnologici.417

Le ragazze che emigravano nei centri industriali, se non avevano la propria famiglia o almeno parenti o amici disposti a ospitarle, per trarre il maggiore guadagno dal loro lavoro erano costrette ad abitare presso i collegi gestiti dalle suore nei pressi degli stabilimenti aziendali, che offrivano vitto e alloggio a prezzi estremamente contenuti. Per evitare che la vergogna del lavoro e dell’emigrazione femminile fossero visibili, le religiose imponevano alle giovani operaie regole rigide, togliendo loro ogni libertà. Le ragazze dovevano tornare al collegio appena concluso l’orario di lavoro, essere disposte a piegarsi alle abitudini imposte dalle suore che prevedevano momenti di preghiera e lavori serali di cucito, usare modi e linguaggio estremamente rispettosi e accontentarsi di uscire liberamente solo la domenica.

La vita di clausura non risparmiava nemmeno le domestiche, che oltre all’orario di servizio dovevano trascorrere presso le famiglie borghesi anche gran parte del tempo libero, impostando la loro vita da emigranti in funzione di regole più o meno rigide a seconda delle imposizioni previste dai datori di lavoro.418 Questi ultimi mantenevano un atteggiamento riservato verso la servitù, che non doveva mai permettersi di andare oltre il ruolo previsto per i sottoposti, allo scopo di evitare che si stabilissero rapporti affettivi come era accaduto di frequente presso le case della vecchia aristocrazia.

Fino all’Ottocento inoltrato era stato il signore ad amministrare il personale, stabilendo gerarchiche rigide tra i suoi dipendenti e riconoscendo ai servi maschi una posizione di superiorità rispetto alle domestiche, costantemente controllate non solo dal padrone ma anche dai colleghi uomini.419 Diventando durante il

417 C. GRANDI, Donne fuori…, cit., pp. 83-108 e 155-170.

418 A. DADÀ, Migrazione di donne invisibili, serve e balie tra Ottocento e Novecento, in AA. VV., Donne in

viaggio, viaggi di donne. Uno sguardo nel lungo periodo, a cura di R. Mazzei, Firenze, Le lettere, 2009, in

particolare pp. 114-121, con l’elenco dei molti obblighi che prevedeva il lavoro di serva, ma si veda anche l’appendice fotografica sull’emigrazione toscana.

419 Per i mutamenti avvenuti nelle relazioni tra i sessi e nella composizione del personale a servizio presso le

famiglie borghesi dell’Ottocento vedere A. ARRU, Il servo, storia di una carriera nel Settecento, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 12-16.

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XIX secolo sempre più numerosa la presenza femminile in questo ambito professionale, alla vigilanza maschile si andò gradualmente a sostituire quella della padrona di casa, che non si limitava più a controllare le sue serve nelle ore di lavoro, ma imponeva loro regole da rispettare e mansioni da assolvere anche durante il tempo libero.

Erano questi gli obblighi che venivano imposti alle giovani operaie e cameriere con il chiaro intento di limitare la loro indipendenza economica e culturale; solo prolungando la permanenza lontano dal luogo di origine le ragazze potevano risparmiare a sufficienza per liberalizzarsi. Prima di giungere a tale risultato, a cui però molte rinunciavano per tornare dai congiunti lasciati alla partenza, guadagnare il denaro per migliorare la qualità della vita era l’unico obiettivo da perseguire, che alimentava un costante impegno nel lavoro e favoriva l’adattamento alle più disparate condizioni. Da tali considerazioni è facile intuire come queste emigrate non fossero minimamente interessate a coltivare la loro professionalità e ad acquisire competenze specifiche.420

5.3 La consuetudine del baliatico sulla montagna toscana

Tra le emigranti che decidevano di appoggiarsi alla famiglia per vivere all’estero la continuità in ambito lavorativo era ricorrente, ma si trattava solo di una prosecuzione delle mansioni già in precedenza svolte nell’ambiente familiare, che non conduceva a un potenziamento o, tanto meno, a un investimento delle proprie competenze. Come è stato dimostrato, al di là delle madri e delle figlie che si impiegavano nelle fabbriche nel momento in cui i capifamiglia rimanevano disoccupati e si ammalavano di depressione, nella maggioranza dei casi la donna che si ricongiungeva al marito o al padre operava solo a livello casalingo o nelle colonie nel lavoro agricolo, rimanendo sempre sotto la sorveglianza maschile, condizione che la costringeva a rispettare il ruolo

420 C. GRANDI, Donne fuori posto, cit., p. 16. L’autrice nell’introduzione, citando quanto già sosteneva lo

studioso Vittorio Ellena a fine Ottocento, spiega che a spingere la donna ad adattarsi a molteplici ruoli lavorativi durante il periodo di emigrazione era il desiderio di migliorare la propria condizione di vita, sia da un punto di vista economico che a livello sociale.

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impostole dalla traduzione e le impediva di conseguire nuove esperienze professionali per un miglioramento della posizione sociale.

Dal momento, però, che sceglievano di partire in modo indipendente, le emigrate spesso finivano per cimentarsi in professioni mai svolte prima; quest’ultimo non era solo il caso delle operaie o delle commesse dei grandi negozi, ma anche delle domestiche le quali, sia si spostassero a livello regionale che andassero all’estero, entravano a contatto presso le famiglie borghesi con una realtà per loro completamente nuova. In questo quadro riassuntivo il lavoro della balia si inseriva con caratteristiche specifiche, che lo diversificavano dalle occupazioni viste nelle pagine precedenti nel trattamento economico e nell’ambiente sociale in cui la donna andava a relazionarsi, rendendosi disponibile verso un mestiere che per consuetudine veniva esercitato già dall’Ottocento inoltrato in alcune località poste nell’area alpina e appenninica.421 Oltre a Feltre in provincia di Belluno, assai nota per le sue balie era la frazione di Ponte Buggianese posta sulla montagna toscana, dove arrivavano richieste dalle famiglie borghesi di varie città dell’Italia Settentrionale, anche perché il piccolo paese si trova nella regione dove il dialetto era diventato lingua nazionale e le sue abitanti parlavano un italiano abbastanza corretto.422

Antecedentemente alle partenze di massa le madri dei neonati si limitavano a prestare il proprio servizio nel luogo di origine, svolgendo l’attività a domicilio su richiesta dei brefotrofi, da cui provenivano gli esposti a loro affidati dietro compenso pattuito. A cavallo tra i due secoli però, con la crisi dell’economia rurale, le balie iniziarono a emigrare per allattare i bambini delle famiglie borghesi, trasferendosi in prevalenza in alcune città dislocate tra il Nord Africa e l’Europa centro-meridionale. Tra le destinazioni di quest’ultima area geografica le ragazze provenienti dai paesi della montagna toscana preferivano il sud della

421 F. CELLI, Gli istituti dei bambini lattanti e i diversi modi di allattamento riguardo all’igiene infantile, in AA.

VV., L’allattamento mercenario e la salute del bambino: atti del primo congresso nazionale per l’igiene

dell’allattamento mercenario indetto dalla pia istituzione provvidenziale baliatica, a cura di Virgilio Colombo,

Milano, Tip. Cogliati, 1900, pp. 211-214.

422 Questa qualità delle giovani madri toscane è ricordata nel sito http://museogenteditoscana.it, nello spazio

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Francia.423 A spingere le puerpere a partire, oltre alla consapevolezza che il baliatico fosse un’attività largamente diffusa tra le coetanee, erano i parenti stretti, intenzionati a sfruttare il loro latte per reperire il sostentamento necessario alla famiglia.424 Allontanarsi dal luogo di origine rappresentava, però, un grande sacrificio: le giovani madri erano costrette ad abbandonare il proprio figlio per andare ad accudire il bambino di una sconosciuta, un distacco affettivo che creava un vuoto difficile da colmare, motivo di preoccupazione per l’emigrata anche durante i mesi di permanenza nella località di destinazione. Per necessità queste ragazze affidavano il neonato a una puerpera del paese a cui sarebbe andata una percentuale del loro guadagno, stabilita di solito intorno a un terzo, rischiando le conseguenze dalla noncuranza della balia locale.425 Con la crescita demografica, infatti, alcune madri che allattavano a domicilio ampliarono la propria professione accettando un numero sempre più elevato di neonati e sfruttando la possibilità di guadagnare cifre consistenti a scapito della salute dei loro assistiti: senza farsi degli scrupoli, sostenevano di avere il latte per sfamarli, ma in realtà sottoponevano i bambini a stress alimentari che potevano causare il loro decesso.426

Per alleviare la malinconia delle balie i borghesi cercavano di offrire loro un ottimo trattamento non solo a livello alimentare, ma anche facendo doni di discreto valore che le migranti si potevano trattenere, mentre dovevano inviare le retribuzioni ai mariti o ai suoceri per il sostentamento dei congiunti ancora residenti nel luogo di origine427. Questo comportamento era determinato dalla convinzione diffusa presso le famiglie europee più abbienti che il latte di una

423 M. L. DANIELI CAMOZZI, La tutela delle donne e dei fanciulli italiani in Europa, in ISTITUTO

COLONIALE ITALIANO, Atti del II congresso degli italiani all’estero, cit., p. 18.

424 A. DADÀ, Il lavoro di balia. Memoria e storia dell’emigrazione femminile da Ponte Buggianese nel 900,

Pisa, Pacini Editore, 1999, p.27.

425 Ivi, pp. 19-22, dove sono riportate alcune interviste realizzate con la collaborazione degli alunni della scuola

media P. F. Cecchi a donne anziane emigrate come balie in giovane età.

426 W.L. LANGER, Infanticidio: una rassegna storica., in T. MC KOEWN, L’aumento della popolazione

nell’era moderna, Milano, Feltrinelli, 1979, in particolare pp. 231-233, dedicate alle cosiddette killers-nurses che

somministravano sedativi a base di oppiacei per impedire ai neonati di piangere per la fame.

427 Sui doni che solitamente venivano fatti alle balie vedere il codice 917 (AC), con cui è stata archiviata la

garanzia di un orologio d’argento di proprietà della balia Anna Masini, originaria di Chiazza, frazione del comune di Castiglione Garfagnana, ed emigrata in Francia a Haute Saone presso Gray.

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ragazza sofferente non era buono o tanto meno possedeva un basso valore nutritivo; era necessario mantenere il latte “tranquillo”, termine utilizzato per lasciare intendere che la donna poteva avere latte sostanzioso solo se era serena. Secondo Adriana Dadà, però, anche le stesse balie adottavano una serie di strategie psicologiche utili ad alleviare le sofferenze del periodo in cui erano costrette a nutrire il figlio di un'altra donna. Cercavano in ogni modo di affezionarsi a lui: lo accarezzavano con tenerezza quando lo avevano al seno e nei pochi momenti di libertà cucivano vestitini per il bambino, per avere la soddisfazione di vederlo con un indumento che rispecchiava i loro gusti, come avrebbero fatto con il figlio naturale.428

Eppure, malgrado tutte le attenzioni, nei primi tempi di vita all’estero per le puerpere riuscire ad adeguarsi ai modelli di comportamento delle famiglie ospitanti, che prevedevano un avanzamento non solo nelle abitudini e nel comportamento, ma anche nel modo di pensare, poteva rappresentare una grande difficoltà e in molte finivano per preservare a lungo l’ingenuità e l’arretratezza culturale che avevano ereditato dal luogo di origine, in alcune circostanze andando incontro a spiacevoli conseguenze.

Nei documenti epistolari delle balie della famiglia Masini emergono i caratteri sociali della loro professione. Nate a Castiglione Garfagnana ed emigrate a Chassey, Anna e Stella Masini avevano una fitta corrispondenza con l’amica Elise, conosciuta a Haute Saone presso Gray durante il loro primo periodo di vita all’estero.429 Che le tre ragazze fossero unite da una solida amicizia è dimostrato dalla lettera in cui l’amica francese confidava ad Anna di essersi perdutamente innamorata di un uomo, da cui si deduce che non svolgeva il lavoro di balia, a meno che non fosse una ragazza madre o tradisse il marito. Elise avrebbe evitato di confessare i suoi sentimenti, se non avesse avuto con la

428 A. DADÀ, Partire per un figlio altrui: racconti delle balie nel Novecento, in AA. VV., Altrove. Viaggi di

donne dall’antichità al Novecento, a cura di D. Corsi, Roma, Viella Editore, 1999, pp. 111-134.

429 Si fa riferimento ai documenti con i codici dell’Archivio Cresci 1677 (lettera del 1910 di Elise Breteniere ad

Anna Masini), 1070 (lettera priva di data di Elise Breteniere ad Anna Masini), 900 (lettera del 28 dicembre 1909 di Elise Breteniere a Stella Masini) e 916 (lettera del 1 aprile 1910 di Elise Breteniere da Chassey a Stella e Anna Masini residenti a Gray).

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Masini una particolare confidenza. Per consentire a donne così diverse nella formazione culturale di raggiungere un forte legame affettivo era necessario che le sorelle lucchesi, legate ad abitudini tradizionali ereditate dalla società di origine, fossero avanzate frequentando le famiglie che le avevano richieste.430 Ma a volte le aperture mentali non erano sufficienti per consentire alle giovani madri di diventare abbastanza avvedute da evitare tutti i rischi che potevano incontrare vivendo lontano dai loro congiunti. Si trattava pur sempre di contadine cresciute in località di montagna distaccate dal resto del mondo e imparare i rudimenti di una lingua straniera e le buone maniere non permetteva loro di perdere quell’ingenuità, che le spingeva a fidarsi di qualsiasi persona con cui riuscivano ad avere un rapporto di amicizia.

In una lettera del 10 marzo 1912 la balia Maria Masini (probabilmente legata da parentela con le due corrispondenti di Elise) da Marsiglia scriveva alla cugina di Castiglione Garfagnana per giustificarsi del lungo periodo trascorso senza dare notizie della sua condizione, spiegando il modo in cui una compagna aveva potuto ingannarla: “Avevo una delle mie amiche che andava a lavorare in città come diresti da Chiozza a Castelnuovo e a loro (intende lei) ci davo le lettere per metere alla posta e mai avevo risposta anche dalla zia marietta sai cosa ci faceva guardava (intende rubava) i soldi e strappava le lettere mie stato ripetuto da unaltra che se erano corociatte.”431

Una volta che erano riuscite ad adeguarsi alla nuova condizione, queste migranti provavano un tenore di vita che non si sarebbero mai potute permettere nel luogo di origine, ma si trattava soltanto di una sistemazione temporanea, destinata a concludersi al loro ritorno. Di frequente le ragazze che avevano svolto il baliatico, oltre a non rappresentare più un introito, potevano diventare un fattore di disturbo per l’equilibrio della famiglia contadina se non si

430 Altre fonti epistolari dimostrano i legami di Anna e Stella e delle sorelle Adele e Pia (tutte balie) con persone

residenti all’estero, a volte anche di un livello sociale alto, che per le emigranti rappresentarono una spinta verso l’apertura culturale. Vedere i codici dell’Archivio Cresci 918 (lettera in francese di un’amica di Stella residente a a Bruxelles), 579 (cartolina spedita ad Anna da un’amica residente ad Alessandria del 24 ottobre 1927), 1666 e 1667 (lettere indirizzate a Stella e a Pia da parte della contessa Orglandes).

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