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Parte I. Lo specchio come dispositivo ottico

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Parte I. Lo specchio come dispositivo ottico

Si chiama “ottica” una parte della geometria che si occupa dell’occhio; l’altra parte che riguarda l’orecchio è detta “canonica”… l’una e l’altra si basano su spazi e intervalli lineari e calcoli numerici. L’ottica consente molti esperimenti curiosi. Per esempio un solo specchio fa apparire diverse immagini di un unico oggetto; uno specchio messo in un certo posto non riflette niente, spostato altrove rende le immagini; ci si guarda, stando ritti, in uno specchio e si vede la propria immagine a testa in giù e piedi in su.

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1. Lo specchio e l’ottica

1.1. Problemi di ottica antica

Il termine “specchio”, solitamente riferito ad un oggetto con una superficie levigata, capace di dare immagini per riflessione e, più in generale, a qualunque superficie in grado di riflettere in modo abbastanza regolare la luce, deriva dall’equivalente latino spĕcŭlum, che proviene a sua volta dal verbo spĕcĕre, con il significato di “guardare verso, osservare”1.

La stessa etimologia connessa al processo della visione si ritrova nella maggior parte dei sinonimi nelle principali lingue indoeuropee,

come espejo, Spiegel, miroir, mirror2. Inoltre, quando non

direttamente attinente a varianti di “guardare attentamente” o anche mīrāri, “meravigliarsi, ammirare” al momento della percezione visiva, la parola “specchio” si lega all’idea di ombra, di apparenza o a quel materiale capace di restituire le immagini, con cui il più delle volte

questo manufatto viene realizzato: il vetro3.

1 M. Cortelazzo e P. Zolli, voce “specchio”, in Dizionario etimologico della lingua

italiana, Bologna, 1988.

2 Per un elenco dettagliato di sinonimi e delle loro derivazioni cfr. voce “mirror”, in C.

D. Buck, A Dictionary of Selected Synonyms in the Principal Indo-European Languages, Chicago-London, 1988.

3 Ibidem. E’ il caso rispettivamente del francese miroir, da mirer e dell’inglese mirror,

entrambi derivati dal latino mīrāri, dell’irlandese scāthān, da scāth, “ombra” e del gallese drych, “vista, apparenza”. Caratteristico dell’inglese è poi l’uso di glass o di looking-glass, con riferimento appunto al materiale di realizzazione. Cfr. anche A. Dauzat et al., Dictionnaire étymologique et historique du français, Paris, 1993.

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Già nei vocaboli che lo designano quindi è contenuto il carattere distintivo di questo oggetto, capace di suscitare meraviglia, di catturare l’attenzione di chi lo osserva e di indurre, tra le altre cose, ad interrogarsi sulle sue proprietà e funzionamento.

Utensile tra i più antichi di cui l’uomo si sia servito, al di là dei diversi possibili impieghi a scopo utilitario, che come si vedrà vanno dalla cura della persona all’osservazione degli astri, lo specchio è presto introdotto nel dibattito scientifico-filosofico, per via del suo legame con la vista, e dunque con la conoscenza, e diventa da subito uno degli oggetti di studio di quella disciplina che anticamente si occupava proprio del problema della visione: l’ottica. Pertanto, nell’affrontare lo specchio da un punto di vista storico-tecnologico e culturale, è opportuna una premessa, seppur breve, sull’origine di quella scienza, senza la pretesa di entrare nei dettagli di un argomento così vasto, per cui si rimanda agli scritti specialistici già esistenti4, ma cercando di

estrapolare dal quadro d’insieme alcune problematiche relative alla superficie specchiante e agli strumenti ottici in genere, e di mostrare come esse siano note sin dall’antichità e si ripresentino costanti fino all’epoca moderna.

Generalmente parlando, per ottica si intende quella parte della fisica attuale che si occupa dello studio della luce e dei fenomeni luminosi, ma a ben vedere si tratta di una scienza che affonda le sue

4 Sulla storia dell’ottica esiste una vasta bibliografia che ci si limiterà qui a ricordare

attraverso la citazione di alcune opere fondamentali consultate: V. Ronchi, Storia della luce, Bologna, 1952; Id., L’ottica, scienza della visione, Bologna, 1955; D. Gioseffi, “Ottica”, in EUA, X, 1963, coll. 273-286; G. Federici Vescovini, Studi sulla prospettiva medievale, Torino, 1965; V. Ronchi, Scritti di ottica, Milano, 1968; D. Lindberg, Theories of vision from al-Kindi to Kepler, Chicago, 1981; Id., Studies in the history of medieval optics, London, 1983.

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radici nell’antichità, dove nasce, seppur con finalità diverse, come optiké téchnē, arte di ciò che riguarda la vista, scienza della visione. L’ottica antica infatti, la cui tradizione occidentale inizia in maniera sistematica in Grecia, intorno al IV secolo a. C., non è tanto interessata a chiarire la vera natura della radiazione luminosa, problema a lungo dibattuto in epoca moderna tra filosofi e scienziati5, quanto piuttosto

volta a spiegare il meccanismo sensoriale della percezione visiva. In altre parole, ci si interroga su come l’uomo veda e sulle eventuali illusioni visive, formulando diverse ipotesi ma senza considerare ancora l’occhio come un dispositivo ottico, pur conoscendone già l’anatomia6.

Se in un primo momento questo approccio alla disciplina può sembrare singolare, nella prospettiva contemporanea, erede della rivoluzione scientifica del XVII secolo, occorre ricordare come le questioni di ottica rientrassero anticamente nella più ampia speculazione sul problema della conoscenza della realtà e della sua essenza, conoscenza che passava anche attraverso i sensi e che spesso assegnava una preminenza assoluta al vedere7.

5 In particolare dal XVII secolo in poi, cfr. V. Ronchi, op. cit., 1952 e M. Born, E. Wolf,

Principles of Optics, London, 1959.

6 L’anatomia dell’occhio era già nota ai medici antichi ed è discussa dettagliatamente

nel II secolo d. C. da Galeno, secondo cui la percezione visiva avviene lungo il nervo ottico ma grazie allo spirito visivo, il pneuma, misto di aria e fuoco ripreso dagli Stoici, capace di trasformare l’aria circostante in uno strumento percettivo. Bisognerà però attendere l’importante contributo della scuola araba e in particolare di Alhazen, nel X secolo, perché venga stabilito un legame tra l’anatomia oculare e la scienza della visione e perché i diversi aspetti matematici, fisici e anatomici di questa disciplina siano per la prima volta integrati in un’unica teoria visiva. Cfr. D. Lindberg, op. cit., 1981, cap. 3 e 4.

7 Basta citare, a questo proposito, i due grandi filosofi dell’antichità, Platone e

Aristotele, i quali, pur sostenendo due diverse posizioni gnoseologiche, accordano entrambi un primato alla vista sugli altri sensi. E’ il caso, ad esempio, dell’incipit della Metafisica di Aristotele dove si dice che “[gli uomini] amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione ma anche senza aver alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere in un certo senso a tutte le altre sensazioni. E il

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Dal IV secolo a. C. in poi vengono formulate diverse ipotesi per spiegare il funzionamento della visione e di conseguenza anche di alcuni fenomeni ottici, come quello della riflessione speculare, sulla base di differenti approcci medici, fisici e matematici. In particolare, si distinguono tre teorie principali, molto discusse e le cui idee di fondo sopravvivranno a lungo, filtrando nel Medioevo e nella prima età

moderna, attraverso l’importante contributo della scienza araba8.

Si tratta in primo luogo della dottrina sostenuta dagli Atomisti, tra cui Leucippo e Democrito, e da Epicuro e Lucrezio, secondo cui la visione avviene a causa dell’emissione, continua e in tutte le direzioni, da parte dei corpi, di aggregati di atomi, i simulacra, “cui si può dare quasi il nome di membrane o di corteccia, poiché l’immagine presenta aspetto e forma simile all’oggetto”9, al pari delle fini tuniche deposte

dalle cicale, delle membrane dei vitelli o della pelle del serpente. Queste

motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose” (A 1, 980 a 21-27, ed. G. Reale, Milano, 1993). Ma anche Platone ne aveva ammesso il primato, insieme all’udito (Fedone, 65 b), e la grande utilità “in quanto dei ragionamenti che ora vengono fatti intorno all’universo, nessun sarebbe mai stato fatto, se noi non avessimo visto né gli astri, né il sole né il cielo” (Timeo, 47 a, ed. G. Reale, C. Marcellino, Milano, 2000). “E dico appunto che questo degli occhi è il bene più grande.” (Ibidem, 47 b).

8 Per approfondire l’evoluzione delle diverse teorie visive nei secoli si rimanda alla

consultazione delle opere precedentemente citate in nota 4. Ci si limita qui a ricordare l’indispensabile apporto degli Arabi (IX-XI secolo) sia nel filtrare alcuni concetti antichi, come quello dei raggi rettilinei o degli agenti esterni che intervengono sull’occhio, sia nel combinarli in una nuova teoria che spiega l’azione sull’occhio degli elementi esterni del campo visivo, stabilendo una corrispondenza precisa tra i singoli punti che compongono l’occhio e gli elementi esterni del campo visivo. Si tratta di un’idea che estenderà la sua influenza fino alla concezione dell’immagine retinica con Keplero, nel XVII secolo.

9 Lucrezio, De rerum natura, IV, vv. 50-53, ed. F. Giancotti, Milano, 2008: “esse ea

quae rerum simulacra vocamus,/quae quasi membranae vel cortex nominitandast,/quod speciem ac formam similem gerit eius imago” e poco oltre vv. 58-64. Per quanto riguarda la dottrina dei simulacra, fondata sulla fisica atomistica o più in generale la teoria dell’intromissione, si fa riferimento soprattutto a Lucrezio, IV, vv. 26-468, ricordandone la derivazione da fonti epicuree; per Epicuro cfr. “Lettera ad Erodoto”, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 46-51.

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“immagini delle cose e tenui figure”10 si staccano dalla superficie degli

oggetti circostanti e si diffondono in ogni direzione fino ad impressionare i nostri sensi e, in particolare, colpiscono gli occhi con la loro forma e colore, producendo così la sensazione visiva. In questo caso quindi la percezione avviene tramite un’azione dall’esterno sugli occhi.

Opposta a questa teoria è l’idea, di origine pitagorica, che il processo visivo avvenga in direzione contraria, quindi dall’osservatore verso l’esterno, grazie a un’emissione di raggi che dall’interno dell’occhio va a colpire e di conseguenza a visualizzare i diversi oggetti sensibili. A questo indirizzo di pensiero si può ricondurre in qualche modo il concetto platonico degli occhi portatori di luce, che lasciano filtrare la parte pura del fuoco interno, con la caratteristica di illuminare ma senza bruciare. Secondo Platone però è possibile vedere solo dopo che questa corrente di fuoco oculare si sia fusa con la luce diurna, così da formare un corpo unico in grado di toccare gli oggetti sensibili e di trasmetterne i moti fino all’anima11. Ma è soprattutto a partire dal III

secolo a. C. che la teoria dell’emissione dall’interno verso l’esterno viene sviluppata in direzione prettamente geometrica da matematici come Euclide e Erone di Alessandria e dall’astronomo Tolomeo, autori dei primi importanti trattati scientifici, di stampo matematico, più che fisico o filosofico, nei quali si cerca di definire le leggi che governano i

10 Lucrezio, op. cit., IV, v. 42.

11 Per la teoria visiva di Platone cfr. Timeo, 45-46, in particolare: “Quando, dunque, vi

sia luce diurna intorno a tale corrente del fuoco puro che è la vista, allora, incontrandosi simile con simile e unendosi insieme, se ne forma un corpo unico e omogeneo nella direzione degli occhi, in quel punto in cui quello che scaturisce dal di dentro si incontra con quello che confluisce dal di fuori. E tutto questo corpo, divenuto capace delle stesse impressioni a causa delle somiglianze delle sue parti… fornisce questa sensazione, per la quale noi diciamo di vedere.” Diversamente accade di notte quando, in assenza del suo simile diurno, il fuoco oculare si spegne e cessa di vedere.

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fenomeni legati alla visione. L’Ottica di Euclide infatti, articolata in sette postulati12 e ripresa cinque secoli più tardi da Tolomeo, si fonda sul

concetto che la visione è resa possibile dall’emissione, da parte dell’osservatore, di raggi visivi rettilinei e divergenti, in modo da formare un cono visivo con vertice nell’occhio e base sulla superficie degli oggetti visti. In questo modo il visibile, di volta in volta racchiuso in tale cono, viene ricondotto ad un sistema di rette e angoli, il cui variare di ampiezza permette di calcolare le dimensioni e le posizioni delle cose osservate, sempre che durante il loro percorso i raggi non trovino ostacoli che, come si vedrà, ne causerebbero una deviazione. Pur basando il suo ragionamento sulla nozione di raggi visivi che esistono solo in funzione dell’osservatore, cosa inconcepibile per l’ottica odierna che studia la radiazione luminosa dotata di un’esistenza fisica indipendente, quest’opera, così come quella successiva e da essa derivata di Tolomeo, resterà imprescindibile per i successivi sviluppi della disciplina13. In esse infatti sono contenute le prime intuizioni di

ottica geometrica e l’aspetto puramente matematico dei fenomeni prevale su quello fisico.

Infine, in alternativa alle due precedenti teorie visive dell’intromissione e dell’extramissione, ne esiste una terza, sostenuta da Aristotele, che assegna la massima importanza all’azione sugli occhi del mezzo trasparente e continuo, interposto tra di essi e gli oggetti, il quale,

12 Euclide, Ottica, in F. Acerbi, ed., Tutte le opere, Milano, 2007, p. 584 e segg.

13 Per quanto riguarda la questione dei raggi visivi cfr. G. Simon, Derrière le miroir, in

“Le temps de la réflexion”, II, 1981, pp. 298-332, dove si definiscono come: “une projection à la fois matérielle et psychique”. In generale però questo aspetto passa in secondo piano nella ricezione dell’Ottica euclidea, che resta fondamentale per la costruzione geometrica né Euclide si sofferma a chiarire la natura dei raggi visivi.

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una volta sollecitato dall’esterno, cioè quando i corpi sensibili ne innescano il movimento e i cambiamenti qualitativi di luce e colore, è in grado di permettere la visione14. Si tratta però di una concezione di

minore interesse, rispetto alla questione qui centrale dello specchio in rapporto alle conoscenze ottiche di una data epoca. Di fatto, sono soprattutto le prime due teorie visive ad essere le più influenti e a fornire, quando applicate alla superficie di riverbero, una possibile spiegazione del meccanismo speculare, come spiegato da Seneca nel I secolo: “sugli specchi esistono due teorie: infatti alcuni pensano che in essi si scorgano i simulacri, cioè le figure dei nostri corpi emesse dai nostri corpi e da essi separate; altri invece ritengono che non si tratti di immagini ma che nello specchio si vedano i corpi stessi, poiché i raggi visivi si ripercuotono e ritornano riflettendosi verso se stessi”15.

Guardando e studiando una superficie specchiante infatti, il primo e principale problema che si incontra e che, come si vedrà, ne attraversa tutta la storia, da un punto di vista ottico-scientifico ma anche filosofico-metaforico e storico-artistico, è quello del riflesso, della sua natura e della sua formazione. Possibili spiegazioni di questo fenomeno vengono fornite, in campo ottico, grazie all’applicazione delle suddette teorie visive.

Esiste, a questo proposito, un passo significativo dell’Apologia di Apuleio che, nel II secolo, nel contesto di una difesa dello specchio e dell’uso appropriato che un filosofo può farne, riassume le diverse posizioni adottate fino a quel momento dai suoi predecessori per

14 Cfr. Aristotele, De anima, II, 7.

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spiegare il meccanismo speculare. Compito del filosofo è non solo considerare la propria rassomiglianza con il riflesso ma anche indagarne le cause:

Infatti spesso bisogna non solo considerare la propria rassomiglianza, ma la ragione di questa rassomiglianza. Vedere cioè se, come afferma Epicuro, le immagini, partendo da noi e staccandosi come leggeri tessuti con perenne flusso dai nostri corpi, allorché hanno colpito qualcosa di liscio o di solido, nell’urto vengono riflesse e tornano rovesciate; o, come affermano altri filosofi, se i nostri raggi – sia emanati, come sostiene Platone, da mezzo dei nostri occhi e mescolati e quindi uniti in un tutt’uno con la luce esterna, sia semplicemente partiti dagli occhi senza appoggio di luce esterna, come ritiene Archita, sia condotti attraverso il fluido atmosferico, come pensano gli Stoici – quando cadono su un corpo solido, lucente e liscio rimbalzino verso la persona da cui sono partiti con angoli di riflessione uguali agli angoli di incidenza, in modo che raffigurano dentro lo specchio ciò che hanno toccato e visto all’esterno16.

Si tratta di una testimonianza densa di contenuti, che riepiloga anche le principali conoscenze sulle proprietà ottiche dello specchio nell’antichità, facendo altresì riferimento alle leggi di riflessione, già formulate da Euclide nel III secolo a. C..

In generale, l’idea comune a tutti, tra filosofi, naturalisti e matematici, è anzitutto quella di un urto sulla superficie piana e lucida, da parte dei raggi visivi, dell’aria o di emanazioni, tale da comportarne un cambiamento di direzione. E’ di ugual parere anche Plinio, autore di una delle più complete opere enciclopediche dell’antichità, la Storia naturale, sostenendo come quella di riflettere le immagini sia una

16 Apuleio, L’apologia o la magia, XV, ed. G. Augello, Torino, 1984, p. 87; nel testo si

cita anche Archita di Taranto, filosofo pitagorico del IV secolo a. C, al quale per l’appunto viene associata la teoria dei raggi visivi estromessi dagli occhi e in grado da soli di permettere la visione, quindi senza essere necessariamente combinati alla luce esterna.

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qualità straordinaria, attribuibile alla “ripercussione dell’aria che è

rimandata negli occhi”17. Del resto lo stesso temine “riflessione”

contiene etimologicamente l’idea di re-flĕctĕre, di piegare indietro, di rinviare, alludendo oggi alla deviazione subita dalla luce, qualora incontri un ostacolo liscio e terso18. Inoltre nel caso della dottrina

atomistica, secondo cui negli specchi si scorgono le immagini emesse dalle cose, molto simili ad esse ma di tenue natura, poiché rimandate indietro dall’ostacolo risplendente e levigato al punto da impedirne la rottura, si precisa come lo specchio rifletta qualsiasi cosa abbia di volta

in volta di fronte, in qualunque momento19.

Oltre al fatto pratico della riflessione, le fonti antiche spiegano come l’impatto con la superficie di riverbero non sia privo di conseguenze ma provochi l’inversione dell’immagine speculare, altro fenomeno concordemente riconosciuto. Tra i primi a parlarne vi è Platone, secondo cui le immagini appaiono nelle superfici lucide grazie alla fusione su di esse dei due fuochi, cioè quello interno proveniente dalla vista e quello esterno della luce diurna, che diventano così un corpo unico, capace di trasformasi in molti modi. In questo caso però, rispetto alla maniera consueta e diretta di vedere, ciò che è a sinistra

17 Plinio, Storia naturale, XXXIII, 128, ed. G. B. Conte et al., Torino, 1982-1988, vol. V,

p. 81.

18 M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., voce “riflessione”.

19 Lucrezio, op. cit., IV, vv. 155-156, p. 199: “e per quanto subitamente, in qualsiasi

momento, tu ponga/ una cosa qualunque contro uno specchio, appare l’immagine” e vv. 166-167: “ovunque volgiamo alle superfici delle cose/ lo specchio, le cose vi si riflettono con simile forma e colore”, conformemente al flusso dei simulacri dai corpi sensibili, che è continuo e in tutte le direzioni. Il fatto però che lo specchio produca un riflesso ogni qualvolta gli venga opposto un oggetto è una tematica che ritorna più volte anche al di fuori della fisica atomistica, cfr. Seneca, op. cit., I, 5, 9, p. 251: “da uno specchio l’immagine non sarebbe riflessa se esso non si trovasse di fronte all’oggetto … poiché è necessario contrapporre allo specchio l’oggetto della cui immagine esso si deve appropriare”.

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appare a destra e viceversa, dal momento che le parti opposte del fuoco visivo interiore entrano in contatto con le parti opposte del fuoco

esterno20. Oltre al caso dello specchio piano capace di restituire

l’immagine non identica ma simmetrica di un oggetto, Platone dimostra, nel prosieguo del suo discorso, di conoscere anche il comportamento degli specchi curvi, alludendo in particolare ad un tipo di superficie con i bordi superiori rialzati verso l’esterno, quindi verosimilmente concava, in grado di far apparire la destra di nuovo a destra e la sinistra a sinistra; lo stesso dispositivo, se girato trasversalmente rispetto al viso, produce un rovesciamento in senso

verticale dell’immagine, che appare capovolta21. Tre secoli dopo,

Lucrezio riprende il problema dell’inversione e, per spiegare come l’immagine, per effetto dell’urto, si rovesci “diritta”, cioè entro se stessa e senza girarsi sul proprio asse, si serve di un paragone tratto dalla vita quotidiana, quello con una maschera di creta ancora umida che, se gettata contro un ostacolo, si capovolge al suo interno in modo che la parte in rilievo rientri in se stessa e fuoriesca dal lato opposto e la figura complessiva si conservi ma rovesciata indietro; di conseguenza l’occhio che prima era il destro diventa il sinistro e viceversa22.

20 Platone, op. cit., 46b-c, p. 131; cfr. anche F. M. Cornford, Plato’s Cosmology. The

Timaeus of Plato translated with a running commentary, London, 1937, p. 155 per una rappresentazione grafica del fenomeno.

21 Platone, ibidem. Sebbene non lo si dica esplicitamente, si tratta di uno specchio

concavo, evidentemente semicilindrico disposto verticalmente, che con la sua curvatura riesce a rigirare il fuoco visivo e a rinviarlo all’osservatore così che venga percepita la corretta ubicazione di destra e sinistra. Nel secondo caso invece si tratta dello stesso tipo di specchio che, posto orizzontalmente, “fa sembrare tutto rovesciato, in quanto spinge la parte inferiore verso la parte superiore della vista e la superiore verso l’inferiore”.

22 Lucrezio, op. cit., IV, vv. 292-301; poco più avanti si riconosce lo stesso fenomeno

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Infine un altro fenomeno noto e in generale riconosciuto già dall’antichità, accanto a quelli di deviazione e inversione, è l’uguaglianza tra l’angolo di riflessione e l’angolo di incidenza “giacché la natura costringe tutte le cose a riflettersi/ e rimbalzare dalle cose, rimandate

indietro con angoli eguali”23. E’ però nell’opera di Euclide che si fornisce

una prima e compiuta spiegazione al problema, sulla base della teoria dei raggi visivi e di quella dei triangoli simili, quindi con un approccio esclusivamente geometrico. In particolare la Catottrica, opera a lungo considerata spuria ma oggi ritenuta autentica, è un trattato espressamente dedicato allo studio dei fenomeni di riflessione e capostipite di un fortunato filone di scritti matematico-geometrici sugli

specchi, che giungerà fino al Medioevo24. In esso, partendo dalla

fondamentale proposizione secondo cui “dagli specchi piani e convessi e concavi i raggi visivi sono riflessi in angoli uguali”25, si illustra il

comportamento dei diversi tipi di specchi noti all’epoca, arrivando a localizzarvi la posizione e le caratteristiche delle immagini riflesse, il tutto sulla base di costruzioni geometriche. Euclide è un esempio di come, pur in assenza di un metodo sperimentale così come lo si intende oggi e interpretando i fenomeni in chiave fondamentalmente antropocentrica, gli antichi si interrogassero comunque sulla natura

proprio a causa della loro forma, di rimandare indietro i simulacri senza rivoltarli, vv. 311-319.

23 Lucrezio, op. cit., IV, vv. 324-325, p. 207.

24 Per i problemi testuali e di attribuzione della Catottrica, di cui è giunta solo una

redazione greca, che è circolata nell’occidente medievale in una traduzione latina intitolata De speculis, cfr. F. Acerbi, ed., op. cit., pp. 610-619.

25 Euclide, Catottrica, in F. Acerbi, ed., op. cit., p. 2200; tale proposizione è preceduta

dall’enunciazione della proporzionalità tra distanza dallo specchio e distanza, sullo specchio, dal punto di riflessione al piede della perpendicolare dall’oggetto e dall’occhio. Per quanto riguarda invece la determinazione della posizione delle immagini riflesse nei diversi tipi di specchi cfr. proposizioni 16-18.

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dell’immagine ottica, piuttosto che da un punto di vista fisico, in relazione al problema della visione e fossero molto presto consapevoli delle sue principali caratteristiche.

E’ verosimile immaginare che, in un primo momento, la

conoscenza dei fenomeni riguardanti lo specchio derivi

dall’osservazione diretta degli stessi nelle circostanze più svariate della vita quotidiana, ad esempio nella concavità delle coppe per il vino, durante un banchetto, sul pelo dell’acqua di una sorgente o sulla superficie convessa degli scudi dei soldati, e che in seguito, nel contesto di un’indagine ottica in specifici trattati, si cerchi di definire le leggi universali che governano quei fenomeni. Tuttavia il fascino dello specchio continua a farsi sentire anche in ambito non strettamente scientifico. Non a caso Apuleio, nel testo sopraccitato, a proposito dell’attività del filosofo, prosegue:

Non vi pare che i filosofi debbano studiare e investigare tutti questi problemi e considerare tutti gli specchi, liquidi o solidi che siano? Essi, oltre alle cose che ho detto, debbono chiedersi altre cose, cioè perché negli specchi piani le immagini di coloro che si specchiano si riflettono quasi identiche, in quelli convessi e sferici tutto appare rimpicciolito e nei concavi invece ingrandito; e inoltre perché negli specchi la destra e la sinistra si invertono e quand’è che in uno stesso specchio l’immagine resta nascosta nel fondo e quando appare sulla superficie e per quale motivo gli specchi concavi, posti al sole accendano un’esca preparata; in che modo avviene che appaia tra le nubi un arco multicolore e si vedano due soli perfettamente uguali tra loro26.

26 Apuleio, op. cit., XVI, p. 89. In questo passo, tra i fenomeni ottici propriamente

legati alla riflessione speculare, si include anche quello meteorologico dell’arcobaleno, come già fatto da Aristotele nei Meteorologica, III, 4 e diffusamente da Seneca nel I libro delle Questioni naturali, in particolare I, 3-8, proseguendo così una tradizione che giungerà fino alla scuola di Oxford, quando Roberto Grossatesta, nel De iride, la correggerà applicandovi la teoria della rifrazione della luce, dopo aver meditato gli

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I confini tra le discipline quindi non sono ancora rigidamente delimitati e anche al filosofo, così come al matematico o al geometra, può spettare il compito di studiare il meccanismo della riflessione nelle sue diverse modalità e di approfondirne altri aspetti, oltre ai tre già citati e generalmente riconosciuti. Questo passo appunto contiene un altro grande problema di ottica: quello della molteplicità dei riflessi possibili a seconda delle caratteristiche della superficie specchiante, che ne determinano di volta in volta la diversa capacità di duplicazione, di riduzione o di ingrandimento delle immagini. Se lo specchio piano infatti è in grado di rinviare un’immagine quasi identica, ad eccezione dell’inversione delle parti, non si può dire lo stesso per gli specchi curvi che, nel caso in cui siano convessi, rimpiccioliscono le figure e, qualora siano concavi, le ingrandiscono. Questa peculiarità era già stata notata da Plinio, osservando, ad esempio, l’effetto di dilatazione del riflesso che si ottiene da uno specchio metallico diventato leggermente concavo, per le continue politure subite, argomentando che vi è differenza a seconda che lo specchio “riceva o respinga l’aria riverberata”27, a seconda cioè

che la sua superficie sia curva o piana. Inoltre, le proprietà di riflessione dei diversi tipi di specchi, piani, convessi e concavi, erano state dimostrate da un punto di vista geometrico, come si è detto, in distinte proposizioni nella Catottrica di Euclide e si ritrovano anche nei

scritti dell’arabo Al-Kindi. Inoltre si accenna qui anche al caso del parelio, già trattato da Seneca, op. cit., I, 11; I, 13.

27 Plinio, op. cit., XXXIII, 128: “tantum interest, repercussum illum excipiat an

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successivi trattati sull’argomento, come la Catottrica di Erone di

Alessandria e l’Ottica di Tolomeo, che sviluppano i principi euclidei28.

Più avanti nel testo sopraccitato, sempre Apuleio riferisce, a proposito degli specchi concavi posti al sole, il caso particolare degli

specchi ustori già menzionato da Plinio29, cioè di quei dispositivi

riflettenti cavi, con la proprietà di convogliare i raggi solari riflessi in un unico punto e di accendervi un fuoco, e include anche questo fenomeno tra i campi di indagine del filosofo, a rimarcarne l’importanza. Nell’immaginario collettivo l’applicazione più nota di simili congegni resta senza dubbio quella leggendaria di Archimede che, secondo quanto riferito da fonti però molto tarde, se ne sarebbe servito durante l’assedio di Siracusa, nel III secolo a. C., per difendere la propria città dall’attacco della flotta romana, riuscendo persino a bruciare le navi nemiche30. Forse non è un caso che poco oltre, nel testo di Apuleio,

28 Euclide, op. cit., proposizioni 19-28. Per la Catottrica di Erone di Alessandria, a

lungo creduta di Tolomeo, della quale resta solo una traduzione latina nella quale si discute la costruzione di dispositivi speculari, la conoscenza dei diversi tipi di specchi e delle loro proprietà è da subito fondamentale e provata geometricamente cfr. proposizioni III-V e IX-XI, in L. Nix, W. Schmidt, rec., Heronis Alexandrini opera quae supersunt omnia, vol. II, Leipzig, 1900. Per quanto riguarda l’Ottica di Tolomeo, che prosegue quella euclidea e ne amplia l’aspetto matematico con un paragone, di tipo fisico, tra i raggi visivi e la radiazione luminosa, essa è parzialmente sopravvissuta in una traduzione latina da una perduta traduzione araba dell’originale greco, cfr. A. Lejeune, L’Optique de Claude Ptolémée dans la version latine d’après l’arabe de l’émir Eugène de Sicile, Leiden, 1989, in particolare la fine del libro III, 67 e segg., per gli specchi piani e convessi e libro IV per gli specchi concavi e composti.

29 Plinio, op. cit., II, 239: “specula quoque concava adversa solis radiis facilius etiam

accendant quam ullus alius ignis”.

30 Per l’evoluzione del problema a lungo discusso degli specchi ustori di Archimede e

degli esperimenti compiuti per verificarne la realizzabilità e il possibile funzionamento cfr. J. Baltrušaitis, Lo specchio: rivelazioni, inganni e science-fiction, Milano, 1981, pp. 95-142. Si tratta dispositivi di origine antica, citati come armi per la difesa di Siracusa solo in fonti posteriori, a partire dal II secolo d. C., come Luciano di Samosata e Galeno; la leggenda siracusana però si consolida successivamente, nel XII e XIII secolo, con autori bizantini e arabi. Il loro impiego è ricordato nel Medioevo da Bacone e Vitellione ed è oggetto di indagine e dibattito nel XVI-XVII con Della Porta, Kircher e Cartesio, che mette in dubbio l’attendibilità del loro antico utilizzo, sulla base delle difficoltà tecniche nel costruirli e nell’ottenere il risultato desiderato su un’ampia distanza. Nel XVII secolo la questione viene riaperta dal naturalista Buffon che, nel

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venga menzionato proprio il matematico siracusano, in questo caso lodato per l’acutezza d’ingegno nei suoi studi sulle scienze geometriche e sullo specchio e ricordato come autore di una grande opera sul dispositivo speculare, ad oggi non pervenuta. In ogni caso, al di là dell’effettiva riuscita della leggendaria impresa di Archimede, quel che è certo è che la possibilità, da sempre agognata dagli uomini, di raccogliere e concentrare l’energia solare in uno spazio limitato, tramite un dispositivo speculare concavo o composito, opportunamente orientato, era nota sin dall’antichità e già presente nei primi testi scientifici. La trentesima proposizione della Catottrica di Euclide è infatti dedicata alla costruzione degli specchi ustori sferici, capaci, se opposti al sole, di accendere il fuoco e lo stesso problema si ripresenta nei secoli successivi, almeno fino agli esperimenti di Buffon nel Settecento. Sembra inoltre che la proprietà di accendere il fuoco con uno specchio concavo fosse utilizzata anticamente nel contesto sacro dei templi, un’usanza in parte sopravvissuta, in epoca contemporanea, nel caso dell’accensione della fiaccola olimpica in Grecia, tramite uno

specchio parabolico concavo31.

Ma tornando al tema in questione della varietà dei riflessi in base alla tipologia di superficie speculare, esso si lega a quello altrettanto sentito della deformazione e della moltiplicazione delle immagini, sempre a seconda del tipo di superficie di riverbero impiegata, una

corso di esperimenti sulle radiazioni, realizza un dispositivo composto non da uno ma da 168 specchi piani, opportunamente orientati e uniti su un unico telaio di legno, così da riuscire ad appiccare il fuoco a grande distanza e ad ottenere temperature sufficientemente elevate. Baltrušaitis segue la vicenda dello specchio ustorio fino al moderno uso nei forni solari, mostrando così come una leggenda si possa oggi convertire in realtà.

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problematica avvertita anche al di fuori dell’ambito strettamente ottico perché, come si vedrà, concerne un’alterazione del rapporto dell’immagine speculare con la realtà esterna. E’ quanto porta Seneca ad affermare che “non tutti gli specchi forniscono un’immagine

corrispondente al vero”32. Nel caso degli specchi deformanti infatti, se lo

specchio è curvo, ad esempio, o cilindrico, il riflesso che ne deriva può essere talmente alterato da risultare persino spaventoso, distorto o inverosimile. Prosegue Seneca:

ve ne sono di quelli che avresti paura a guardare (talmente deformata è l’immagine che riflettono perché deturpano l’aspetto di coloro che vi si specchiano stravolgendone la rassomiglianza); ve ne sono altri che, quando ti specchi, ti possono render fiero delle tue forze (fino a tal punto i muscoli aumentano di volume e la forma del corpo cresce complessivamente fino a superare le dimensioni umane); alcuni mostrano la parte destra dei volti altri la parte sinistra, altri infine li distorcono e li capovolgono…33

Da una simile testimonianza si può ricavare come già dai tempi antichi esistessero specchi capaci di modificare in modo sorprendente le sembianze dell’osservatore, ad esempio facendolo apparire più muscoloso, o addirittura con più occhi, quindi un tipo di dispositivo destinato ad avere una certa fortuna nei secoli successivi per i prodigiosi effetti conseguiti, che ne giustificano il conseguente impiego come attrazioni nei cinquecenteschi gabinetti di meraviglie e curiosità o, come si vedrà, l’inserimento tra i soggetti trattati nella Magia naturale di

32 Seneca, op. cit., I, 5, 14: “neque enim omnia ad verum specula respondent”.

33 Ibidem, ripreso più avanti in I, 6, 2, p. 255: “perché la natura di alcuni specchi è tale

che essi mostrano molto più grandi gli oggetti riflessi e aumentano i loro contorni a grandezze mostruose; la natura di altri è viceversa tale da rimpicciolire le immagini”, riferendosi in questo caso a specchi concavi e convessi.

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Della Porta34. Ancora riguardo ai dispositivi speculari deformanti

dell’antichità, Plinio segnala il caso degli specchi dedicati nel tempio di Smirne, definiti monstrifica, e ne spiega la capacità di distorsione in base alle caratteristiche fisiche della superficie, che può essere rigonfia o incavata nelle parti centrali e riflettere diversamente anche a seconda della tipologia del proprio asse, trasversale o obliquo, o di un’eventuale inclinazione35. Infine, il caso citato, in fondo al passo di Seneca, degli

specchi che mostrano solo un lato dei volti si riferisce presumibilmente a specchi piani ad angolo che originano immagini multiple ed è riconducibile al suddetto problema della moltiplicazione dei riflessi, quando cioè l’inclinazione reciproca di più specchi contigui è in grado di riprodurre le figure da una superficie all’altra, arrivando anche a mostrarne solo delle porzioni, a raddrizzarle o persino a moltiplicarle di numero. Si tratta di un fenomeno legato alla forma e all’accostamento degli specchi tra di loro e ben noto agli antichi che ne parlano in contesti diversi. In particolare Lucrezio, nel riferire come da uno specchio all’altro si possano trasmettere immagini, e quindi moltiplicare i simulacri, spiega come sia possibile, tramite questo stesso gioco di rimandi, correggere il fenomeno dell’inversione del riflesso, riportando la destra e la sinistra alle loro posizioni originarie, al pari di quanto

34 Cfr. J. Baltrušaitis, “Un museo di catottrica”, in op. cit., pp. 15-39; per gli specchi

capaci di far apparire l’osservatore dotato di tre occhi e due nasi o in grado di volare cfr. l’incipit della Catoptrica di Erone di Alessandria in op. cit., vol. II, I e XV.

35 Cfr. Plinio, op. cit., XXXIII, 129, dove, a proposito degli specchi deformanti, si dice:

“excogitantur et monstrifica, ut in templo Zmyrnae dicata” e più avanti si spiega come lo specchio ricettore distorca secondo la propria forma i simulacri che lo raggiungono: “qualitate excipientis figurae torquente venientes umbras”.

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fatto, come si è detto, da certi specchi concavi36. Guardando l’interno

lucido e sfaccettato di certe coppe, rileva in seguito Plinio, l’immagine dell’osservatore viene riprodotta, come in tanti specchi, tante volte quante sono le sfaccettature della loro concavità, così da produrre una “folla di immagini”37, motivo che tornerà subito dopo in Seneca. Nel

paragonare infatti il riflesso che si produce e si moltiplica in tante gocce d’acqua, quelle stesse che possono scaturire dalle nubi, Seneca fa riferimento a quanto accade con certi specchi composti da innumerevoli specchietti, in grado di far apparire, ad un unico osservatore, una moltitudine di individui riflessi, poiché ogni parte dello specchio riproduce l’immagine e “questi specchietti, anche se sono congiunti e aderiscono, tengono tuttavia separate le proprie immagini e di un solo uomo ne fanno, sì, una folla, senza però confondere quella compagnia

ma presentandola distinta, distribuita in altrettante immagini…”38. Poco

più avanti però, discutendo intorno al fenomeno del parelio, sempre Seneca precisa che in realtà, quando più specchi sono contrapposti e riflettono la stessa immagine, solo una deriva dal vero, mentre le altre sono imaginum effigies; ciò nonostante lo specchio riflette, a

prescindere dalla natura dell’oggetto che ha di fronte39.

Oltre alle caratteristiche finora descritte, alcune fonti antiche di ottica riferiscono come di solito si abbia la sensazione che l’immagine riflessa compaia al di là dello specchio, quasi discosta dalla superficie, una peculiarità tuttora percepita al momento dell’osservazione e che

36 Lucrezio, op. cit., IV, v. 302: “fit quoque de speculo in speculum ut tradatur imago” e

più avanti vv. 308-310.

37 Plinio, op. cit., XXXIII, 129: “ut vel uno intuente totidem populus imaginum fiat”. 38 Seneca, op. cit., I, 5, 5, p. 247.

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dapprima disorienta lo sguardo. Si tratta di un fatto opportunamente spiegato, già nel II secolo, da Tolomeo, nel terzo libro della sua ottica geometrica, prima ancora che dalla fisica attuale. L’astronomo greco infatti interpreta il fenomeno in chiave geometrica, dimostrando come un oggetto visto tramite i raggi deviati dal piano di riflessione venga in realtà percepito come quando si verifica la visione diretta mediante raggi rettilinei, cioè come se la sua posizione fosse dietro allo specchio, in corrispondenza dei prolungamenti dei raggi riflessi che, intersecandosi, danno luogo a quella che la fisica di oggi definisce

immagine virtuale40. Se Tolomeo è tra i primi a spiegare

scientificamente un’illusione ottica, prima di lui c’è chi, come Lucrezio, attinge a quanto visto comunemente e propone un’altra soluzione al problema, ricorrendo nuovamente a un paragone con un fatto della vita quotidiana. Per spiegare infatti il perché l’immagine riflessa si avverta come sul fondo dello specchio, il poeta romano si avvale del confronto con la percezione di oggetti collocati al di fuori di una stanza e visti attraverso una porta aperta. In entrambe le situazioni, la visione avviene per “livelli” successivi ed è prodotta per una duplice aria inviata dalle cose: nel caso della porta, l’aria che si trova al di qua degli stipiti è avvertita prima dei battenti e prima ancora di quella che si trova al di là di essi, così come, nel caso del riflesso, l’aria spinta in avanti dall’immagine dello specchio, mentre questa viene verso gli occhi, è sentita prima che venga percepito lo specchio stesso, in modo che l’immagine, individuata in un secondo momento, sembri distante dal

40 Per l’Ottica di Tolomeo cfr. ed., A. Lejeune, op. cit., III, 71-73; la problematica delle

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piano speculare, cioè situata al di là di esso41. Di conseguenza anche la

questione dello spostamento dell’immagine rispetto all’oggetto reale, così da farla sembrare situata dietro la superficie riflettente, “nascosta nel fondo”, per riprendere le parole di Apuleio, si lega presto al più grande problema dell’illusione, dell’apparenza e oltrepassa il campo strettamente ottico.

In generale, oltre alla citata capacità di duplicazione immediata e totale dello specchio qualora gli venga opposto un oggetto, le fonti antiche sono concordi nel descrivere la transitorietà dell’immagine riflessa, che si forma rapidamente, non per parti ma subito per intero, e che altrettanto rapidamente svanisce, nel caso in cui il medesimo oggetto ne venga allontanato42. Seneca inoltre aggiunge che: “nulla è

riflesso così prontamente come l’immagine dallo specchio, questo infatti non crea nulla ma si limita a rivelare”43, sicché se viene allontanato

molto dall’osservatore, non è più in grado di riprodurne le sembianze poiché i raggi visivi non hanno la forza di tornare a lui. A questo proposito, il primo libro delle Questioni naturali costituisce una fonte preziosa di informazioni poiché, partendo da fenomeni meteorologici come i fuochi celesti, gli aloni e gli arcobaleni, Seneca introduce la problematica della riflessione speculare e, in particolare, nello stabilire un confronto tra l’aria o le nubi e le superfici riflettenti, ne esamina

41 Lucrezio, op. cit., IV, vv. 269-291 per il fenomeno del riflesso che appare al di là dello

specchio, a causa dell’aria che viene spinta verso gli occhi e percepita per prima; in particolare vv. 283-287, p. 205: “Ma, quando abbiamo percepito anche lo specchio stesso,/subito l’immagine che da noi procede perviene/a questo, e riflessa ritorna verso i nostri occhi,/e sospinge e fa scorrere innanzi a sé altra aria,/e fa sì che vediamo questa prima di lei stessa,/e per ciò sembra distare dallo specchio tanto discosta”.

42 Cfr. ad esempio Seneca, op. cit., I, 6, 4: “proprium enim hoc speculi est, in quo non

per partes struitur quod apparet, sed statim totum fit…”.

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alcune proprietà. Affinché un corpo possa riflettere il sole infatti deve avere quelle caratteristiche di levigatezza, uniformità e lucentezza proprie dello specchio e indispensabili per rinviare immagini simili, deve essere denso e compatto e costituito di una materia omogenea, sia essa, come si vedrà, il metallo o, in un secondo momento, il vetro44.

Inoltre la superficie di riverbero è tersa ma mutevole poiché riflette qualsiasi cosa le venga posta di fronte in qualunque momento, quindi non ha un colore vero e proprio ma lo cambia in funzione di quello che riflette. Riguardo a questo fenomeno dell’apparire di una speciem falsi coloris, cioè dell’apparenza di un colore falso, di un’illusione di colore, come quella che appare sul collo delle colombe a seconda di come esso si pieghi, Seneca precisa che lo specchio: “non assume un colore reale

ma simula, per così dire, un colore che non gli appartiene”45,

introducendo così l’idea di falsus e di simulatio anche nell’ambito della spiegazione delle caratteristiche oggettive dello strumento e dei fenomeni scientifici ad esso legati.

E’ possibile che proprio la rapidità di formazione del riflesso e la brevità della sua durata, indipendentemente dalla forma o dai materiali impiegati per lo specchio, siano state la base della precoce intuizione da parte del matematico Erone di Alessandria, alla fine del I secolo, di quello che nel XVII secolo diventerà il principio del tempo minimo. E’ Erone infatti il primo ad affermare, nei suoi studi sullo specchio, che la riflessione avviene non solo con angoli uguali ma anche con raggi

44 Seneca, op. cit., I, 5, 3 e 8.

45 Seneca, op. cit., I, 7, 2, p. 257: “hoc autem et in speculo est, cui nullus inditur color,

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minimi, cioè nel modo più veloce possibile e, per provarlo geometricamente grazie alla reciproca uguaglianza degli angoli, dimostra come i raggi visivi viaggino in modo tale da incidere e

riflettersi sullo specchio lungo la distanza più breve46. Se in questo caso

quindi, per dimostrare attraverso lo specchio piano come la riflessione avvenga il più rapidamente possibile, si parla di raggi visivi e di distanza minima e non ancora di raggi luminosi, di velocità della luce e di durata minima, l’intuizione è comunque buona e verrà ripresa, nel 1650, dal matematico francese Fermat, con l’idea, applicabile anche ai fenomeni di rifrazione, che di tutti i cammini possibili che la luce può seguire per andare da un punto ad un altro, essa segua il cammino che richiede il tempo più breve.

Infine, per completare questa panoramica delle conoscenze ottico-scientifiche sullo specchio nell’antichità, occorre riprendere la primitiva connessione tra il dispositivo speculare e la vista e aggiungere, ai temi ricorrenti, il paragone tra il meccanismo della riflessione e quello della visione. Se è vero che si tratta di una questione apparentemente estranea a quelle più strettamente scientifiche finora esaminate, essa si spiega sempre all’interno di quella optiké, che, nel II secolo d. C., era stata definita da Aulo Gellio come “una parte della geometria che si occupa dell’occhio”47. Si è detto del probabile ruolo

giocato dall’osservazione diretta dei fenomeni speculari nella vita quotidiana, come incentivo al loro studio da un punto di vista

46 Erone di Alessandria, Catoptrica, in L. Nix, W. Schmidt, op. cit., vol. II, IV: “dico

igitur, quod omnium incidentium et refractorum in idem radiorum minimi sunt qui secundum equales angulos in speculis planis et circularibus, si autem hoc, rationabiliter in angulis equalibus refringuntur”.

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scientifico, e in tal senso è possibile che anche l’occhio, con la sua superficie lucida e convessa, abbia avuto un ruolo pari alle sorgenti d’acqua e alle superfici levigate. In questo caso però il problema è più complesso perché il frequente raffronto tra lo specchio e l’organo visivo parte sì dall’ambito fisico, come testimoniato dalle fonti ottico-scientifiche, ma si estende e si sovrappone presto alla sfera filosofico-morale, per via del legame tra visione e conoscenza, ed è destinato ad avere una lunga fortuna e a penetrare nell’immaginario collettivo, al punto che tuttora, ad esempio, si dice comunemente che l’occhio sia lo specchio dell’anima.

Alla base del nesso tra visione e riflessione in campo fisico c’è anzitutto la capacità materiale dell’occhio di riflettere come uno specchio, sulla superficie dell’iride e della pupilla, la porzione di mondo sensibile antistante, comprese le sembianze di colui che di volta in volta le osserva dall’esterno, una caratteristica che presso gli antichi ha suscitato diverse credenze. Tra i primi a parlarne vi è Democrito, secondo cui l’occhio è composto d’acqua, in virtù della quale vediamo, e il vedere è causato dal riflettersi sull’occhio dell’immagine che proviene dall’oggetto visto e che appare di conseguenza sulla pupilla, così che la formazione delle immagini nell’occhio umido è paragonabile alla formazione delle immagini nello specchio lucido. Nonostante tale posizione sia stata presto contestata da Aristotele sulla base del fatto che, tra i tanti corpi riflettenti, l’occhio è l’unico a vedere effettivamente

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per cui la somiglianza con lo specchio è inconsistente48, il collegamento

tra l’occhio e lo specchio continuerà ad essere ben presente tra filosofi e naturalisti e acquisterà tanta più importanza se si pensa al primato che anticamente veniva assegnato alla vista, di cui lo specchio diventerà uno degli attributi per eccellenza. Di fatto, tra coloro che sostengono quel legame, c’è anche Platone che, pur uscendo appunto dall’ambito strettamente ottico delle teorie della visione e riferendosi invece ad un contesto gnoseologico, indica, nell’Alcibiade primo, come l’occhio altrui sia un modo efficace per guardare e quindi conoscere se stessi, dunque un’alternativa naturale al dispositivo artificiale dello specchio. Discutendo infatti con Alcibiade sulla necessità di conoscere se stessi, per poter prendersi cura della propria anima e quindi occuparsi convenientemente di politica, Socrate introduce in quel dialogo la problematica della conoscenza speculare ottenuta tramite strumenti che si possano guardare e che allo stesso tempo permettano di vedere se stessi e identifica l’occhio come uno di questi, per il suo funzionamento analogo a quello delle superfici specchianti, pur essendo queste ultime più pure e più luminose. E’ a questo proposito allora che il filosofo parla delle proprietà riflettenti della κóρη, o pupilla, e ne chiarisce l’etimologia, derivata proprio da quella “fanciullina” che è la piccola immagine riflessa di chi sta davanti all’occhio e vi si guarda49. Il

ragionamento prosegue, come si vedrà meglio in seguito, applicando il problema della riflessione come mezzo di conoscenza di se stessi anche

48 Per i frammenti di Democrito sulla vista e quanto percepito con essa e la polemica di

Aristotele nel De sensu, 2, 438a, cfr. Democrito, Raccolta dei frammenti, interpretazione e commentario di Salomon Luria, Milano, 2007, pp. 567-597.

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all’anima, affinché questa, specchiandosi, contempli la propria parte più divina ove risiede la saggezza, così come avviene per l’occhio che, rivolgendo lo sguardo a un altro occhio, vede e conosce se stesso.

Pertanto, associare lo specchio all’occhio permette di stabilire un nesso con l’uomo nella sua interezza e di legare lo strumento ottico non solo alla geometria della visione ma anche a problemi di natura morale, dal momento che, dalle fonti antiche, emerge progressivamente tutta la complessità dell’organo visivo e della sua duplice funzione materiale e spirituale, cioè non più solo di ricettore del mondo sensibile ma anche di rivelatore della personalità dell’individuo che guarda, di organo di espressione del suo stato d’animo e dei suoi sentimenti, di finestra aperta sulla sua anima, tema che avrà una notevole fortuna anche nella storia dell’arte, come si vedrà più avanti, al pari dell’idea dell’occhio come specchio.

Per comprendere appieno l’importanza che l’organo della vista ha sempre avuto fin dall’antichità, basta leggere quanto sostenuto da Plinio che ne parla come della parte del corpo più preziosa che, con l’uso della luce, segna la differenza tra la vita e la morte e, meglio di qualunque altra parte, esprime i diversi stati d’animo dell’uomo, dall’odio all’amore, dalla tristezza alla letizia, dal momento che l’anima abita

negli occhi50. Così scrivendo, Plinio compendia questa doppia

caratteristica degli occhi che, oltre alla capacità di mutare espressione e di canalizzare lo sguardo e il passaggio della luce attraverso il foro della

50 Cfr. Plinio, op. cit., XI, 139 dove si definiscono gli occhi: “pars corporis pretiosissima

et quae lucis usu vitam distinguat a morte” e più avanti XI, 145: “neque ulla ex parte maiora animi indicia cunctis animalibus, sed homini maxime… profecto in oculis animus habitat”.

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pupilla, come attraverso una finestra, hanno anche le stesse proprietà degli specchi poiché possono riflettere sulla propria superficie la figura umana, che vi appare intera ma rimpicciolita, come in uno specchio convesso51. E’ proprio questa proprietà riflettente dell’occhio ad aver

creato il presupposto per l’antica credenza nell’anima “pupillina” o “anima immagine”, come viene chiamata da Deonna, autore di un esauriente studio sull’occhio e la sua simbologia, che si serve appunto di questa espressione per definire l’apparire della propria anima negli occhi altrui sottoforma di una figurina umana riflessa, una pupilla, che era invece creduta dagli uomini primitivi l’anima di colui che veniva osservato52.

Queste idee antiche sull’occhio come specchio o finestra sull’anima avranno un successo tale da filtrare nel Medioevo per poi giungere fino all’età moderna, quando si consolideranno più sul piano della morale popolare, nella suddetta convinzione che la pupilla sia un’alternativa naturale allo specchio artificiale per una conoscenza profonda, che sul piano ottico-scientifico, dal momento che il

meccanismo di funzionamento dell’organo visivo verrà

progressivamente chiarito. Di fatto, quella preziosa fonte sulla cultura medievale che è l’opera di Dante riprende da un lato il paragone concreto tra la formazione delle immagini nell’occhio e negli specchi di

“vetro terminato con piombo”53, poiché entrambi ricevono e riflettono la

51 Plinio, op. cit., XI, 148: “media eorum cornua fenestravit pupilla… adeoque his

absoluta vis speculis, ut tam parva illa pupilla totam immagine reddat hominis”.

52 Cfr. W. Deonna, L’âme pupilline et queleques monuments figurés, in “L’antiquité

classique”, 26, 1957, pp. 84-90 e Id., Il simbolismo dell’occhio, Torino, 2008.

53 Dante, Convivio, III, IX, 6-9, in partic.: “E nell’acqua ch’è nella pupilla dell’occhio,

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luce, e confronta l’acqua del globo oculare, anch’essa “terminata”, con il vetro trasparente ma piombato e la retina con il rivestimento interno metallico dello specchio che respinge indietro la forma visibile; dall’altro lato, recupera il concetto più ampio dell’occhio capace di rispecchiare perfettamente la realtà fino a riuscire a cogliere il vero oltre le apparenze, quindi ad accedere alla visione celeste o addirittura, come accade negli occhi rilucenti di Beatrice, fino ad arrivare a riflettere la duplice natura della divinità, come uno specchio posto dinnanzi al sole54. Sul piano più strettamente scientifico invece, tra il IX e l’XI

secolo, gli studiosi arabi di ottica e medicina, raggruppati inizialmente intorno alla scuola di Bagdad, traducono i testi greci, proseguono gli studi di anatomia e fisiologia dell’occhio, iniziati alcuni secoli prima dal medico Galeno, e dedicano diverse opere a studi di oftalmologia, anche a seguito dell’incidenza delle malattie dell’occhio nel vicino oriente islamico55. Di conseguenza gli scienziati arabi, il più influente dei quali

resta sicuramente Alhazen, comprendono presto l’importanza del ruolo attivo dell’occhio nel processo della visione e danno il loro significativo

terminata – quasi come specchio, che è vetro terminato con piombo – sì che passar più non può ma quivi a modo d’una palla, percossa si ferma: sì che la forma, che nel mezzo trasparente non pare, [nella parte pare] lucida e terminata. E questo è quello perché nel vetro piombato la imagine appare, e non in altro”.

54 Dante, Paradiso, XXI, vv. 16-19: “Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,/e fa di quelli

specchi a la figura/che n’ questo specchio [il cielo di Saturno] ti sarà parvente” e XXX, vv. 85-86: “per far migliori spegli/ancor degli occhi”, capaci di riflettere ancor più chiaramente al momento della contemplazione della rosa celeste; infine Id. Purgatorio, XXXI, vv. 121-123: “Come in lo specchio il sol, non altrimenti/la doppia fiera dentro vi raggiava,/or con altri, or con altri reggimenti”: nella grande allegoria finale del Purgatorio la duplice natura umana e divina del grifone-Cristo si riflette negli occhi di Beatrice-Teologia come il sole in uno specchio e Dante potrà conoscere indirettamente il divino attraverso la contemplazione degli occhi di Beatrice, quindi per speculum come aveva scritto S. Paolo in I Cor., XIII, 12.

55 D. Lindberg, op. cit., 1981, pp. 33-57, dove si citano gli studi di Yuhanna ibn

Masawaih e Hunain ibn Ishaq sull’anatomia e le patologie dell’occhio e il paragone di Avicenna tra la vista, la formazione di immagini nell’occhio, attraverso l’umore cristallino, e la formazione di immagini nello specchio, quindi il riflesso.

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contributo all’ottica arrivando a intuire il fenomeno delle persistenza dell’immagine retinica, definito poi compiutamente da Keplero nel XVII secolo. Osservando infatti il permanere dell’immagine luminosa nell’occhio dopo aver guardato una sorgente splendente come il sole, Alhazen recupera la teoria dell’intromissione, con l’idea dell’azione di un agente esterno sulla parte sensibile dell’occhio, credendo però che ad essere impressionata sia la superficie anteriore del bulbo oculare, o meglio il cristallino, anziché la sua membrana più interna, cioè la retina. Ciò nonostante, in questo suo tentativo di spiegare il meccanismo della visione, introduce già tutti gli elementi che vi sono effettivamente coinvolti e, per chiarire come il contatto tra i simulacri esterni e l’occhio avvenga lungo raggi rettilinei convergenti nella pupilla, stabilisce per primo una corrispondenza tra i singoli punti che compongono gli uni e l’altro, aprendo così la strada ai successivi studi di Maurolico da

Messina e di Keplero56. Inoltre, sostenendo che l’impressione che

giunge agli occhi dall’esterno, per rifrazione, viene poi trasmessa al nervo ottico per essere ricevuta ed elaborata dal cervello, integra definitivamente l’aspetto fisico e psicofisiologico a quello matematico-geometrico nello studio dell’ottica.

In età moderna, nonostante il progredire degli studi di anatomia che coinvolgono anche il globo oculare, si continua a ritrovare la vecchia idea dell’occhio come finestra del corpo umano o come specchio, attraverso cui l’anima contempla la luce e la bellezza del mondo, anche negli scritti di un grande artista e scienziato come Leonardo, autore lui

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stesso di indagini anatomiche sull’occhio, che afferma vigorosamente il

primato della vista sugli altri sensi, in particolare sull’udito57. Sul piano

più strettamente ottico invece gli studi sulle lenti, già note da tre secoli ma mai indagate compiutamente prima, se non dagli Arabi e in alcuni esperimenti da Ruggero Bacone, vengono portati avanti nel Cinquecento con la loro applicazione alla camera oscura da parte dall’abate Francesco Maurolico, in scritti pubblicati postumi, e soprattutto da Giovanni Battista Della Porta, aprendo la strada alla

piena comprensione del processo visivo nel XVII secolo58. Nella

fortunata Magia Naturale infatti, opera poliedrica e di larga circolazione, Della Porta comprende il vantaggio di collocare una lente di vetro nell’apertura della camera ottica, già nota ad Alhazen, e intuisce il funzionamento dell’occhio come una camera oscura in miniatura, senza però sviluppare oltre l’idea, come verrà invece fatto da Keplero.

Nel 1604 appunto, in un momento in cui il meccanismo della riflessione speculare non è più sufficiente a spiegare il funzionamento dell’organo visivo, Keplero, tenendo conto del fenomeno della rifrazione studiato più approfonditamente in quegli anni e del dispositivo ottico della camera oscura, giunge alla corretta spiegazione della visione.

57 Leonardo, Trattato della pittura, I, 12 ove si definisce l’occhio “signore de’ sensi”, la

perdita del quale costituirebbe il maggior danno alla specie umana, impedendo di comprendere il bello del creato e I, 20: “L’occhio, dal quale la bellezza dell’universo è specchiata dai contemplanti, è di tanta eccellenza, che chi consente alla sua perdita, si priva della rappresentazione di tutte le opere della natura, per la veduta delle quali l’anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhi, per i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di natura. Ma chi li perde lascia essa anima in una oscura prigione, dove si perde ogni speranza di rivedere il sole, luce di tutto il mondo… Certo, non è nessuno che non volesse piuttosto perdere l’udito e l’odorato che l’occhio, la perdita del quale udire consente la perdita di tutte le scienze che hanno termine nelle parole, e sol fa questo per non perdere la bellezza del mondo, la quale consiste nella superficie de’ corpi sì accidentali come naturali, i quali si riflettono nell’occhio umano”.

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Optando infatti per la teoria dell’intromissione e riprendendo la “puntinizzazione” dei corpi sensibili e delle sorgenti luminose già intuita da Alhazen, Keplero sostiene che a penetrare negli occhi siano raggi luminosi rettilinei emessi dai suddetti corpi, in modo da formare un cono con vertice nel punto-oggetto esterno, sorgente appunto dei raggi, e con base sulla pupilla dell’osservatore. Una volta penetrati nell’occhio, attraverso il foro della pupilla, che funziona come un diaframma, tali raggi vengono rifratti attraverso la cornea, gli umori trasparenti e il cristallino, che funziona come una lente naturale, così da formare un altro piccolo cono con base sempre sulla pupilla e vertice nel punto in cui i raggi rifratti convergono sulla retina, riconosciuta finalmente come la parte sensibile dell’occhio che riceve lo stimolo da inviare al cervello, attraverso il nervo ottico, in modo da tradurlo in una rappresentazione della realtà esterna. Dal momento che gli oggetti sensibili sono formati da un insieme di punti, sulla retina si forma un’immagine che è una vera e propria proiezione punto per punto dei corpi esterni che vengono osservati e, tramite questo sistema di raggi e triangoli distanziometrici, la psiche riesce a localizzare ciò che viene visto e a calcolarne la distanza

e la posizione rispetto all’occhio59. Pertanto Keplero, dopo aver messo a

frutto parte dei più apprezzabili studi di ottica antica, soprattutto araba, di anatomia e di proprietà delle lenti, è il primo a comprendere appieno la funzione dell’occhio come un sistema ottico, costituito da mezzi rifrangenti e da una membrana sensibile, la retina, capace di formare su di sé un’immagine reale e capovolta di ciò che viene osservato,

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riconoscendo così il giusto ruolo anatomico e fisiologico alle diverse parti dell’organo visivo e, chiarito una volta per tutte il problema della visione, apre la via all’ottica moderna.

L’aver compreso il meccanismo visivo permette altresì a Keplero di spiegare per la prima volta il fenomeno della riflessione speculare in maniera esauriente. In seguito ai suoi esperimenti con sfere trasparenti infatti, Keplero intuisce la differenza tra immagini reali o picturae, proiettabili su uno schermo o, nel caso dell’occhio, sulla retina e immagini virtuali o imagines rerum, che si vedono invece nei punti di intersezione dei prolungamenti dei raggi luminosi e che coincidono con i vertici dei coni di raggi che arrivano agli occhi, in altre parole quelle immagini che si percepiscono quando si guardano specchi, prismi e lenti. In questo modo, chiarisce finalmente il funzionamento dello specchio e il perché gli oggetti riflessi si vedano come se fossero posti al di là della superficie specchiante, sostenendo come su di essa si veda un’immagine ottica che è formata da un insieme di punti simmetrici ai punti-oggetto e collocati sulle intersezioni dei prolungamenti dei raggi luminosi incidenti deviati dallo specchio stesso. L’immagine percepita dai nostri occhi quindi appare come se fosse oltre la superficie di riverbero e simmetrica anch’essa rispetto all’oggetto sensibile che riproduce.

Diciotto secoli dopo gli studi geometrici di Euclide e le prime teorie della visione, una volta spiegato il meccanismo del riflesso e le leggi fisiche che lo governano, lo specchio perde a poco a poco la sua magia e quella carica di mistero che aveva segnato la sua lunga storia ed

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