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Capitolo I Miguel de Cervantes, un’arte nata dalla sofferenza

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Capitolo I

Miguel de Cervantes, un’arte nata dalla sofferenza

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Miguel de Cervantes Saavedra nacque nel 1547 ad Alcalá de Henares, nei pressi di Madrid, e fu battezzato nella chiesa parrocchiale di Santa Maria la Mayor il 9 ottobre. In quel momento la Spagna era all’apice della sua estensione territoriale, e Carlo V regnava su di un impero vasto e ricco. Miguel era il quarto di sette figli nati dal matrimonio di Rodrigo de Cervantes con Leonor de Cortinas.

I primi documenti conosciuti relativi alla famiglia, che risalgono agli ultimi anni del XV secolo, menzionano un Ruy Díaz de Cervantes,

1 Le informazioni sulla biografia di Cervantes sono state tratte da Jean Canavaggio, Cervantes,

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bisnonno di Miguel, commerciante di stoffe all’epoca dei re Cattolici. Il padre di Miguel, Rodrigo, era sordo dalla nascita e a causa della sua infermità, non potè seguire le orme del padre avvocato. Decise allora di diventare cirujano, ed esercitò la professione inizialmente ad Alcalá de Henares. La maggior parte dei cirujanos proveniva dalle corporazioni dei barbieri; essi svolgevano due mansioni: quella di radere e quella di eseguire operazioni di chirurgia.

A causa degli scarsi guadagni di Rodrigo, la famiglia era costretta a viaggiare da un paese all’altro: Valladolid, Cordova, Siviglia e Madrid. Questo elemento del viaggio, dei continui spostamenti, sembra caratterizzare la famiglia Cervantes. Il mestiere del bisnonno, nonché quello del padre cirujano, hanno indotto alcuni studiosi a ipotizzare che Miguel appartenesse ad una famiglia di cristianos nuevos, ebrei convertiti al cristianesimo nel corso del ‘400, sebbene vi siano prove che attesterebbero la limpieza di Cervantes.

Sulla data di nascita vi sono ancora oggi dei dubbi. Le più recenti e credibili indagini propongono il 29 settembre del 1547, giorno di San Michele.

Molti lati della sua vita restano oscuri. Ad esempio, non possediamo notizie sull’infanzia e l’adolescenza. Inoltre, perdiamo le sue tracce a più riprese.

Nel 1570 dovette fuggire dalla Spagna per rifugiarsi in Italia ed evitare la sua prima condanna: il taglio della mano destra e dieci anni di esilio. L’accusa, se si dà fede ad un documento trovato nell’archivio di Simancas, era quella di aver ferito durante un duello tale Antonio de

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Sigura. Di fronte a questo documento, i biografi dettero libero sfogo alla loro fantasia. Per spiegare la gravità della sentenza, è stata avanzata l’ipotesi che lo scontro abbia avuto luogo nei portici del Palazzo Reale. Si è fatto ricorso alle descrizioni all’interno dei romanzi e novelle, allo scopo di ricostruire l’itinerario del fuggitivo, dando ad esse, per la circostanza, un valore biografico.

Comunque, al di là della veridicità o meno del fatto, Cervantes dovette trascorrere alcuni mesi a Roma come cameriere, al servizio del cardinale Acquaviva, probabilmente per sottrarsi ad una condanna.

Ci resterà soltanto poco tempo; egli infatti scelse il duro mestiere delle armi abbandonando, per la spada, il ruolo di segretario di un alto prelato. Aveva 24 anni quando salì come archibugiere sulla galera Marquesa, una nave che faceva parte della flotta della Lega Santa agli ordini di don Juan de Austria (costituita dal papa contro gli Ottomani, a cui partecipava anche la Spagna di Filippo II).

I suoi compagni di avventura descrissero Miguel come un uomo estremamente coraggioso, che non era spaventato dall’idea di dover combattere nonostante versasse in condizioni pessime di salute: neppure una violenta febbre che lo colpì soffocò la sua volontà di battersi a tutti i costi in onore del re e di Dio.

Nel 1571 Cervantes festeggiava la vittoria di Lepanto. Egli uscì dalla vicenda con la fama di valoroso, due ferite al petto e una mano inservibile, la sinistra. Ciò gli varrà più tardi il soprannome di El manco de Lepanto, di cui andò fierissimo per tutta la vita: «por haberla cobrado en la más memorable y alta ocasión que vieron los pasados siglos, ni

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esperan ver los venidores, militando debajo de las vencedoras banderas del hijo del rayo de la guerra, Carlo Quinto, de felice memoria»2.

Cervantes aveva comunque intenzione di riprendere servizio il prima possibile, e questa sua volontà di continuare a seguire la carriera di soldato, gli procurerà il soprannome di “el soldado aventajado” ovvero il soldato scelto.

Nel 1575, reduce da altre campagne e finalmente diretto verso la Spagna, la galera El sol, sulla quale viaggiava fu assalita da tre navi corsare turche ed egli venne fatto prigioniero insieme al fratello Rodrigo, anche lui soldato in Italia. In poche ore il destino dei fratelli Cervantes era cambiato: li attendevano non la Spagna e la famiglia, ma la prigionia.

Negli anni di prigionia conobbe lo scrittore siciliano Antonio Veneziano e ne divenne amico, tanto che gli dedicò un’epistola in dodici ottave, di cui settanta versi vennero inseriti nella commedia El trato de Argel, che narra degli anni trascorsi in Algeri. Le informazioni sulla prigionia si completano grazie alla commedia Los baños de Argel e il racconto della storia del prigioniero che troviamo tra il capitolo XXXIX e XLI della prima parte del Quijote.

Le prigioni o case dove i cristiani prigionieri venivano tenuti in attesa del riscatto erano chiamate “bagni”. Essi erano venduti all’asta, sorte che all’autore sarà risparmiata grazie alle lettere prestigiose che portava con sé3, le quali però lo fecero apparire un personaggio più importante di quanto in realtà non fosse, e quindi fecero aumentare le richieste del riscatto.

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J. Canavaggio, Op. Cit., p. 56

3 I due erano in possesso di alcune lettere di raccomandazione scritte da Juan de Austria e dal

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Cervantes tenterà la fuga quattro volte. Dopo cinque anni e un mese, nel 1580, egli fu finalmente libero. La sua libertà la doveva soprattutto agli sforzi della madre e dell’ordine religioso dei trinitari.

Per Cervantes la libertà certamente non coincise con la tranquillità. Quando finalmente fece ritorno in Spagna, senza soldi e senza lavoro, dovette adoperarsi in ogni modo per ottenere qualche modesto impiego. Così, nel 1587, iniziò ad occuparsi degli approvvigionamenti delle galere del re, ma si trattava di un compito difficile. Cervantes, infatti, doveva requisire grano ed altri beni per conto del re, dietro promessa di rimborso, e perfino arrestare chi si rifiutava di consegnarglieli. Quanto al grano prelevato, esso veniva rimborsato solo dopo mesi di attesa. A Écija requisì il grano a dei ricchi proprietari terrieri, fra i quali, alcuni nobili canonici e, incorse nella prima scomunica, comminatagli dal vicario generale di Siviglia. Successivamente a Castro del Río incarcerò un sacrestano restio, ricevendo così una seconda scomunica, questa volta dal vicario generale di Cordova.

La necessità di guadagnarsi da vivere lo obbligò ad accettare un nuovo lavoro, offertogli da don Augustín de Cetina, uditore di giustizia della cancelleria di Granada. Questa volta, dovette recarsi a Granada (agosto 1594) allo scopo di raccogliere due milioni e mezzo di maravedì di tasse arretrate. Trascorsi alcuni mesi decise di ritornare a Siviglia, e di depositare presso il finanziere Simón Freire il denaro riscosso, ma anche stavolta i guai non tardarono ad arrivare. Mentre si trovava a Madrid, per

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rendere conto della sua missione, apprese la notizia della bancarotta del finanziere, il quale scomparve portando con sé tutto il denaro.

Da alcuni documenti risulta che, Cervantes, in seguito a questo fatto spiacevole, avrebbe dovuto recarsi a Madrid per presentarvi il bilancio dettagliato della sua commissione. Tuttavia, egli non lo fece per ragioni a noi sconosciute. Il 6 settembre 1597, il giudice Gaspar de Vallejo, commise a danno di Cervantes un incredibile abuso. Egli, invece di addebitargli il saldo effettivo a lui richiesto dal Tesoro (80.000 maravedì), pretese i due milioni e mezzo di maravedì, la cui riscossione gli era stata affidata da Augustín de Cetina. Chiaramente, Cervantes non poteva garantire la somma richiesta. Di conseguenza non restava al giudice Vallejo che arrestarlo. Imprigionato nel settembre 1597 e rilasciato in dicembre, Cervantes fu congedato in via definitiva dal servizio del Re.

Si suppone che proprio in quei mesi, trascorsi in prigione, abbia maturato l’idea del cavaliere povero e assetato di giustizia in lotta contro il mondo per eseguire una sorta di nobile mandato che si è conferito da solo. È questa l’ipotesi di Jean Canavaggio4, il quale si trova in disaccordo con altri studiosi di Cervantes di cui non fa il nome. Questi ultimi, sostengono una stesura del capolavoro, o di alcuni capitoli, nel carcere reale. Canavaggio osserva che Cervantes rimase in prigione solo

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alcuni mesi, pertanto non avrebbe avuto il tempo per comporre il Quijote o parte di esso.

Cervantes vide nella propria vita quanto più tardi avrebbe scolpito nella sua opera. La tesi si propone di riflettere sulla questione della giustizia nel Quijote, considerando alcuni episodi fondamentali del romanzo caratterizzati da chiari riferimenti al funzionamento del potere giudiziario al tempo di Cervantes.

Successivamente alle vicende accadute in Andalusia, Cervantes si trasferì con tutta la famiglia a Valladolid, dove risiede in quegli anni la corte.

Nel 1605, verso i primi di gennaio, esce a Madrid la prima parte del suo capolavoro. Le alternate vicissitudini della vita lo avevano obbligato a frequenti interruzioni, costrigendolo a riprendere ogni volta il filo del racconto. Questo può essere uno dei motivi delle contraddizioni all’interno del Quijote, sebbene l’autore lo abbia riesaminato durante l’estate del 1604.

Proprio negli anni che vedono il successo di Cervantes e del suo capolavoro, egli ebbe nuovamente problemi con la giustizia.

Infatti fu nuovamente coinvolto in un processo a causa della morte misteriosa del cavaliere Gaspar de Ezpeleta, avvenuta presso il Rastro de los Carneros, davanti alla casa di Cervantes.

I documenti relativi a questa vicenda descrivono la figura di Ezpeleta come un libertino, sempre a corto di denaro e compagno di piacere del marchese de los Falces. La notte del 27 giugno del 1605, Ezpeleta, dopo aver cenato in compagnia del marchese, mentre era

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diretto verso casa, venne ferito profondamente da due colpi di spada. Con ogni probabilità il crimine era stato commesso da un tale Melchor Galván, un cancelliere reale che viveva in quelle vicinanze e la cui moglie era l’amante di Ezpeleta.

Il giudice Villaroel, incaricato di indagare sull’accaduto, condusse il procedimento in maniera molto anomala: mentre il servitore del ferito, Camporredondo, chiamava direttamente in causa Melchor Galván, Villaroel, suo amico, per non comprometterlo, mantenne fuori dalle indagini sia lui sia la moglie adultera. Invece inaspettatamente concentrò l’attenzione sugli abitanti della casa di Cervantes. Un ulteriore elemento di scorrettezza fu la mancata considerazione della testimonianza di Isabel de Islallana, che affermava di aver visto l’assalitore.

Dalle informazioni ottenute risultò che Ezpeleta non frequentava la casa di Cervantes, il quale riceveva invece abitualmente amici come Augustin Rajio e Simon Méndez. Di queste visite solamente la vicina Isabel de Ayala parlò negativamente, sostenendo che esse, diurne e notturne, si dovevano a ragioni scandalose. Ma sembrerebbe, secondo un’altra versione, che, interrogando testimoni ed inquilini in merito al delitto, il giudice venisse a conoscenza di notizie tutt’altro che rassicuranti sulla moralità della figlia di Cervantes, Isabel de Saavedra; e che per tanto il fermo di tutta la famiglia fosse dovuto ad accertamenti in tal senso. Cervantes si trovava così coinvolto in un affare al quale era estraneo, ma che comprometteva gravemente il suo buon nome e quello della famiglia.

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Un testimonianza avrebbe potuto scagionarlo, quella della vittima. Ma, Gaspar de Ezpeleta morì all’alba del 29 giugno, senza aver potuto completare la sua prima dichiarazione.

Il giudice attribuì grande importanza ad un particolare del testamento di Ezpeleta: il cavaliere destinava un vestito di seta a Magdalena, sorella di Cervantes, per riconoscenza delle cure da lei ricevute poco dopo il ferimento, e questo lascito non poteva che comprometterla agli occhi dei maldicenti. Così, Villaroel ordinò l’arresto di Cervantes e di altre dieci persone, tra cui Isabel, sua figlia.

L’ingiustizia commessa era però troppo evidente perché i presunti sospettati restassero in carcere. Da parte loro, i Cervantes non ebbero difficoltà a confutare Isabel de Ayala ed a provare la vacuità delle sue accuse. Riuscirono quindi a dimostrare la loro innocenza e a riguadagnare la libertà.

Miguel, scarcerato, si recò con la famiglia a Madrid, dove era tornata la corte di Filippo III, dedicandosi esclusivamente all’attività letteraria. Ma per Cervantes non era ancora giunta la fine delle ingiustizie. Il 4 luglio 1614 a Tarragona ricevette, infatti licenza di stampa definitiva il Segundo tomo del Ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha, composto dal sedicente Licenciado Alonso Fernández de Avellaneda. Tale nome è in realtà uno pseudonimo; la vera identità dell’autore resta tutt’oggi avvolta nel mistero, a dispetto delle innumerevoli ricerche.

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Nel capitolo XXII della prima parte, don Quijote incontra un gruppo di prigionieri scortati dalla Santa Hermandad e destinati ad andare a remare sulle galere. Uno di loro è stato incatenato dalle guardie con particolare cura per la quantità di delitti commessi e per il timore che fugga; si tratta di Ginés de Pasamonte, altrimenti conosciuto come Ginesillo de Parapilla, il quale informa l’hidalgo di essere intento a scrivere la propria autobiografia: Vida de Ginés de Pasamonte. Si è creduto, così, che l’ignoto autore potesse essere Jerónimo de Pasamonte, il soldato e scrittore che Cervantes conobbe ad Algeri e che lo ispirò per il personaggio del galeotto Ginés5. Egli era proprio di origine aragonese e avrebbe composto la seconda parte apocrifa del Quijote su richiesta di Lope de Vega.

L’hidalgo, creazione originale di Cervantes, è stato malridotto nel Quijote di Avellaneda, in cui il viaggio del cavaliere si conclude in un ospizio per pazzi. Nella seconda parte, pubblicata nel novembre 1615, Cervantes ripagò con la stessa moneta l’impostore.

A partire dal capitolo LIX, della seconda parte, i riferimenti all’apocrifo saranno molteplici. Qui don Quijote giunge in una locanda, dove per caso viene a conoscenza dell’esistenza di una seconda parte del Don Quijote de la Mancha: due personaggi alloggiati nella stanza adiacente a quella dell’hidalgo, don Jerónimo e don Juan, ne posseggono una copia e stanno discutendo dello scarso valore della continuazione. Informato da Sancho che a parlare dalla stanza attigua è nientemeno che

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il vero don Quijote de la Mancha i due personaggi si precipitano a fare la sua conoscenza:

Apenas hubo dicho esto Sancho, cuando entraron por la puerta de su aposento dos caballeros, que tales lo parecían, y uno dellos, echando los brazos al cuello de don Quijote, le dijo:

-Ni vuestra presencia puede desmentir vuestro nombre, ni vuestro nombre puede no acreditar vuestra presencia: sin duda vos, señor, sois el verdadero don Quijote de la Mancha, norte y lucero de la andante caballería, a despecho y pesar del que ha querido usurpar vuestro nombre y aniquilar vuestras hazañas, como lo ha hecho el autor deste libro que aquí os entrego6.

Quello appena esposto, non è che il primo riferimento esplicito al Quijote di Avellaneda. Don Quijote modificherà il proprio itinerario decidendo di dirigersi a Barcelona invece che a Zaragoza per non seguire le orme del falsario. Nella capitale catalana verrà accolto come «el valeroso don Quijote de la Mancha, no el falso, no el ficticio, no el apócrifo que en falsas historias estos días nos han mostrado»7.

Nel capitolo LXX il libro incriminato svolgerà la funzione di palla da gioco per i diavoli che Altisidora racconta di avere visto nell’oltretomba. Ma è nel capitolo LXXII che avviene il colpo di scena: Cervantes farà incontrare il suo cavaliere con uno dei personaggi più importanti ed originali inventati da Avellaneda, don Álvaro Tarfe. Quest’ultimo dovrà riconoscere che i veri don Quijote e Sancho Panza sono loro, non quelli descritti nell’apocrifo. La vera parola fine alla questione ad ogni modo, verrà solamente con l’ultimo capitolo e la morte

6 Quijote, II, LIX, pp. 1000- 1001 7 Ibidem, II, LXI, pp. 1019-1020

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di don Quijote, evento che sbarrerà la strada ad ogni nuovo tentativo di continuazione. La proprietà intellettuale esclusiva di Cervantes sulla storia da lui inventata viene proclamata dalle parole che Cide Hamete de Benengeli fa dire alla sua pluma:

Para mí sola nació don Quijote, y yo para él: él supo obrar y yo escribir, solos los dos somos para en uno, a despecho y pesar del escritor fingido y tordesillesco que se atrevió o se ha de atrever a escribir con pluma de avestruz grosera y mal deliñada, las hazañas de mi valeroso caballero, porque no es carga de sus hombros, ni asunto de su resfriado ingenio8.

A un anno dal compimento dell’opera, la malattia di cui soffriva da un paio d’anni, l’idropisia, lo portò alla morte, sopraggiunta a Madrid il 22 aprile 1616.

Dall’insieme di queste vicende emerge che Cervantes, anche a causa della giustizia del suo paese, non ebbe una vita facile, umiliato per di più dalle accuse di immoralità rivolte alla sua famiglia.

Notiamo come lungo il corso della sua esistenza non furono pochi gli ostacoli che dovette affrontare con coraggio ed umiltà; fu, infatti, imprigionato ingiustamente, e dovette prendere coscienza della propria impotenza, che gli impediva di difendersi efficacemente. Egli dunque si trovò ad essere vittima di procedimenti profondamente arbitrari, dovendo pagare per reati non commessi.

La sua travagliata esperienza mette in evidenza una situazione in cui la giustizia spesso poteva divenire ingiustizia per chi non era ricco e

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potente. Del resto essa era uno dei tanti strumenti al servizio dei potenti, che consentiva loro di commettere abusi spesso ignorati dai magistrati, i quali così di fatto obbligavano i più deboli ed indifesi a subirli. È naturale che simili avvenimenti e situazioni abbiano scosso a fondo la vita dello scrittore riflettendosi nella sua produzione letteraria, soprattutto inducendolo a riflettere sulla giustizia. In questo senso, mi soffermerò in particolar modo su due episodi della prima parte del romanzo, che si sviluppano intorno a tale tema: il capitolo IV, in cui Don Quijote compie il primo atto giustizia, che consiste nell’impedire ad un contadino di frustare a sangue il ragazzino Andrés, suo pecoraio; il capitolo XXII, in cui don Quijote interviene come difensore di un gruppo di condannati alle galere e, in nome della libertà, nel senso di iniquità di ogni costrizione, li strappa dalle mani della giustizia. Per quanto riguarda la seconda parte, ho scelto di analizzare: Quijote e Sancho alla corte dei duchi (dal capitolo XXX al LVII); i due capitoli (XLII-XLIII) dedicati alle lezioni di Quijote a Sancho sul buon governo; il Governatorato di Sancho (XLV, XLIX, LI, LIII), l’Inquisizione (LXVIII, LXIX e LXXIII) e infine Roque Guinart (LX- LXI).

Dopo aver illustrato in breve le ombre che talune vicende giudiziarie proiettarono sulla vita del romanziere, è opportuno passare ai termini in cui la giustizia stessa appare raffigurata nel Quijote.

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