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Capitolo 2 Gli Anni Cinquanta 2.1

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Capitolo 2

Gli Anni Cinquanta

2.1 Morte di Stalin e cambiamento in Unione Sovietica

Il 5 marzo 1953 il leader sovietico Joseph Stalin morì e subito dopo il potere fu assunto da una Dirigenza Collettiva composta da Berija, Chruscev, Malenkov e Molotov. Uno dei problemi costanti dell'Unione Sovietica era proprio la mancanza di un meccanismo condiviso ed efficace a cui affidarsi nel ricambio e nell'avvicendamento dei vertici del potere. La prima urgenza per gli eredi di Stalin fu di garantire la propria autorità e sicurezza e impedire il predominio di una sola persona: potenzialmente il più pericoloso era il capo della polizia segreta, Berija. Inizialmente, tra marzo e luglio 1953, fu proprio Berija il protagonista nella gestione del potere, avviando un processo di riforme, concedendo un'amnistia generale, in vista della definitiva chiusura dei campi di lavoro, e riducendo i poteri della polizia sovietica. Tuttavia, il 26 giugno, Berija fu arrestato in quanto considerato dagli altri membri della dirigenza un personaggio scomodo e fu in fretta processato come spia britannica1. Nella fase immediatamente successiva all'arresto di Berija sembrò che Malenkov, il quale in agosto aveva pronunciato un importante discorso, in cui affrontava il problema della necessità di adottare riforme interne e di avviare un processo di distensione a livello internazionale, potesse emergere rispetto agli altri membri della dirigenza. In realtà la figura di Malenkov, che poteva contare sul sostegno del Consiglio dei Ministri, fu presto oscurata dall'astro nascente di Chruscev, che, nel settembre 1953, divenne primo segretario del Comitato Centrale del partito. Chruscev sposò la politica di Malenkov, che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita per la popolazione: il benessere materiale che ne sarebbe derivato avrebbe sostituito il terrore come stimolo alla mobilitazione2. Il segretario del partito elaborò un vasto programma edilizio che prese avvio dopo il 1953 e che, da un punto di vista meramente quantitativo, fu un successo in quanto, tra il 1955 e il 1964, la disponibilità di alloggi in Unione Sovietica quasi raddoppiò, mentre il costo delle utenze rimase estremamente basso. Chruscev legò il suo nome alla “campagna delle terre vergini”, ovvero l'avvio di coltivazioni agricole in terre che non erano mai state sfruttate

1 R.Bartlett, Storia della Russia. Dalle Origini agli anni di Putin, Milano, Mondadori, 2007, p.256. 2 V.Zubok, C.Pleshakov, Inside the Kremlin's Cold War. From Stalin to Krushchev, Harvard, Harvard University Press, 1996, p.185.

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38 prima3. In un primo tempo l'iniziativa ebbe un certo successo: furono messi a coltivazione 37 milioni di ettari di terra e migliaia di volontari partirono per coltivare i terreni. Tuttavia nel lungo periodo questa politica si rivelò catastrofica in quanto, per occuparsi delle nuove terre, che ben presto si dimostrarono poco adatte alla coltivazione, furono trascurate le terre fertili dell'Ucraina, della Bielorussia e del Caucaso, determinando così un aumento del costo medio dei cereali.

L'eredità che Stalin lasciava dietro di sé era davvero imponente. Egli aveva trasformato la vita sociale sovietica e aveva dato al paese il ruolo di superpotenza globale, trasformando le forze armate in una poderosa macchina da guerra. Tuttavia aveva creato un sistema economico fragile del quale i suoi successori cominciarono a vedere i limiti senza però comprenderne l'effettiva debolezza strutturale. Il sistema economico sovietico era basato su criteri opposti a quelli dell'economia di mercato, poiché le scelte e gli investimenti erano affidate all'insindacabile giudizio dei dirigenti del partito. Una burocrazia gigantesca sovrintendeva all'attività di questo sistema sulla base di criteri che mettevano in primo piano la crescita dell'industria pesante e del complesso militare a danno della produzione dei beni di consumo. In questa impresa venivano sperperati immensi capitali e risorse materiali senza calcolare adeguatamente il rapporto costi-benefici necessario anche in un'economia collettivistica4. La “rivoluzione staliniana” aveva generato un'economia a pianificazione centrale, fondata sulla proprietà statale di tutte le risorse materiali, su disciplina e costrizione: un sistema adatto al rapido sfruttamento delle risorse, finalizzato a una crescita intensa e generalizzata. Nonostante si trattasse di un sistema pianificato, al suo interno rimasero sempre presenti alcuni elementi di economia di mercato che si potevano rintracciare soprattutto nel commercio estero e nel “settore privato” interno, ovvero quelle attività economiche che operavano al di fuori del sistema, come il contrabbando e l' economia sommersa. I meccanismi informali si svilupparono parallelamente e in forma parassitaria rispetto all'economia ufficiale5. I singoli individui facevano affidamento sul blat, ossia l'economia dei favori, per ottenere merci e servizi in teoria disponibili, ma in pratica irreperibili attraverso i canali ufficiali. L'accesso a questi beni dipendeva soprattutto dalle relazioni personali che si riuscivano a instaurare e dalle capacità di contraccambiare favori. Si privilegiavano amicizie, rapporti di fiducia privati e legami non ufficiali rispetto a meccanismi e canali di stato, alimentando la diffidenza nei confronti della legge e dei

3 R.Bartlett, op.cit., p.257. 4 G.Boffa, op.cit., p.543.

5 Molte imprese per affrontare e superare i limiti del coordinamento ufficiale avevano dovuto ingaggiare

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39 valori pubblici6.

L'economia dei piani quinquennali funzionò dagli anni Trenta agli anni Ottanta, garantendo la stabilità macroeconomica, la piena occupazione e la certezza del lavoro, nonché il minimo indispensabile per la vita di tutti i giorni. Dopo il 1953 l'Unione Sovietica cominciò gradualmente ad aprirsi al mondo, sviluppando forti relazioni commerciali con i partner del Comecon e con le economie occidentali. Tuttavia, il regime economico sovietico restò immobile, rigido e inefficiente. Disinteressato alla qualità dei prodotti e alla loro praticità, esso sosteneva fattori produttivi dispendiosi e inutili e incentivava pochissimo l'innovazione7.

La timida apertura che si ebbe in Unione Sovietica dopo il 1953 permise all'intellighenzia di riflettere sulle sofferenze patite nel corso degli anni Trenta e sui limiti dello stalinismo. Subito dopo il discorso pronunciato da Malenkov, nell'agosto 1953, sulla rivista “Novyj Mir” apparve un saggio intitolato “Sulla verità in letteratura” di Pomeranchev, che prendeva in giro il mondo sovietico e i suoi artisti servili.

Nel 1934, in occasione del Congresso degli scrittori, nacque il realismo socialista, inteso come ogni espressione di creatività improntata ad esaltare il regime e i suoi successi. Fu solo con la morte di Stalin che il rigore del realismo socialista si spezzò. Il periodo compreso tra il 1953 e il 1956 è definito come una fase di disgelo corrispondente alla prima distensione.

Nonostante l'intellighenzia avesse acquisito nuove libertà e pubblicare opere letterarie fosse divenuto leggermente più semplice, rimase in piedi una forte censura. Chruscev si considerava un uomo del popolo, orgoglioso di non essere un intellettuale. Voleva cercare una società più umana e per questa ragione cercò di allentare sia la repressione interna sia la tensione internazionale. Tuttavia rimase un leader autoritario8.

Chruscev considerò il dialogo con l'Occidente uno dei capisaldi della politica internazionale. L'allentamento della tensione si ebbe quando, nel 1953, ripresero le trattative che portarono alla firma, il 27 luglio 1953, dell'armistizio di Panmunjon, che definì i termini della tregua, stabilendo la divisione tra la Corea del Nord e quella del Sud in corrispondenza del 38° parallelo. L'armistizio definì una suddivisione provvisoria ma durevole. La seconda occasione di convergenza fu rappresentata dalla conferenza dei ministri degli esteri delle quattro grandi potenze convocata per iniziativa del britannico Eden e riunita a Ginevra a partire dal 25 gennaio 1954.

6 V.Zubok, C.Pleshakov, op.cit., pp.201-203. 7 R. Bartlett, op.cit., pp.264-267.

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40 L'obiettivo della conferenza era quello di discutere la situazione europea. I lavori si trascinarono in modo inconcludente fino al 18 febbraio, quando vennero rinviati al 26 aprile per affrontare la discussione della situazione nel Vietnam e di un trattato di pace per la Corea, alla presenza di un rappresentante della Repubblica popolare cinese e di un rappresentante di entrambi i governi coreani9. Nulla venne concluso sulla questione coreana, mentre un accordo venne raggiunto in relazione a Vietnam, Laos e Cambogia. In Indocina, sin dal 1945, i francesi dovettero combattere il Fronte per l'indipendenza del Vietnam, dominato dal partito comunista e guidato da Ho Chi Minh; il Laos proclamò l'indipendenza mentre i francesi controllavano solo il Vietnam meridionale e la Cambogia. Fra il 1945 e il 1951 i negoziati si susseguirono agli scontri armati, finchè l'indipendenza dei tre stati venne riconosciuta nell'ambito dell'Union Française, entità politica istituita dalla Costituzione francese del 1946 come evoluzione del vecchio impero coloniale, senza che Ho Chi Minh avesse abbandonato la lotta per spezzare questo vincolo. Furono la nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949 e la guerra di Corea a riaccendere le speranze del leader vietnamita che riprese a combattere con crescente successo. Fra il 1952 e il 1953 la situazione militare francese peggiorò drasticamente e, assediati da forze viet minh, nel campo fortificato di Dien Bien Phu, i migliori reparti francesi resistettero dal 13 marzo al 7 maggio 1954, quando furono costretti alla resa.

I lavori della Conferenza di Ginevra, iniziati in gennaio, ricevettero un'immediata accelerazione e il 20 e il 21 di luglio vennero sottoscritti tre diversi accordi, uno per ciascuno stato della penisola indocinese. Essi riconoscevano l'indipendenza di Laos e Cambogia e stabilivano, per il Vietnam, la suddivisione del paese in due zone di occupazione: a nord del 17° parallelo avrebbero governato i viet minh, mentre a sud del parallelo un governo guidato dal cattolico Ngo DinhDiem, che ben presto si appoggiò alla crescente influenza statunitense10.

9 A.Sharp, op.cit., pp. 152-154.

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2.2 XX Congresso e destalinizzazione

Il momento culminante dell'ascesa di Chruscev e dell'enunciazione del programma che egli voleva far conoscere ai propri concittadini, al mondo e, in modo più circoscritto, ai dirigenti del Pcus, fu il XX Congresso del partito, riunito a Mosca dal 14 al 25 febbraio del 1956. Nel corso del congresso il leader sovietico tenne due discorsi: uno pubblico dedicato alle questioni internazionali, l'altro segreto, dedicato solo ai delegati sovietici, ma non alle delegazioni straniere, salvo poche eccezioni. Nel discorso pubblico Chruscev enunciò i temi della coesistenza pacifica, le possibilità di evitare la guerra e le differenti vie di transizione verso il socialismo, che era in pratica la sconfessione dell'internazionalismo proletario staliniano e l'apertura al concetto di vie nazionali al socialismo. Il discorso pubblico conteneva enunciazioni importanti, ma non esplosive, che furono invece affidate al discorso segreto pronunciato il 25 febbraio e quasi per intero dedicato a una critica aspra, serrata, caricaturale dell'immagine di Stalin, della politica che aveva seguito, del culto della personalità e del terrore che aveva disseminato nel proprio paese11. Chruscev sfruttò il problema dell'eredità di Stalin per mettere sotto scacco i suoi avversari. Nel 1955 i gravi fatti avvenuti durante la dittatura staliniana erano stati ormai documentati nel dettaglio e contro la volontà del Presidium, così Chruscev si assunse la responsabilità di denunciarli al XX Congresso del partito. Il rapporto segreto si concentrava soprattutto sugli attacchi alla nomenclatura, dal 1934 in poi, assolvendo da ogni responsabilità gli attuali membri in carica del Presidium: collettivizzazione e piani quinquennali erano visti con favore, mentre sul terrore in generale si passò oltre, glissando anche sulla complicità personale degli altri leader (Chruscev stesso era colpevole di massacri in Ucraina e Polonia). Detronizzato Stalin, Lenin fu esaltato come il faro del socialismo sovietico. Il rapporto segreto divenne presto noto, destando enorme scalpore: all'estero provocò disordini e proteste, che minacciarono la stabilità interna di alcuni paesi satelliti dell'Europa orientale, mentre in patria fu ben accolto per la promessa di arrestare il terrore, ma fu anche osteggiato per via degli interessi e delle reti clientelari che minacciava12. L'eco della condanna politica dell'internazionalismo proletario e, poco dopo, quella del rapporto segreto segnarono un momento di crisi del comunismo internazionale. In particolare la destalinizzazione ebbe effetti devastanti in Polonia e successivamente in Ungheria.

11 G.Boffa, op.cit., p.651. 12 R.Bartlett, op.cit., p.258.

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42 In Polonia esplosero scioperi e manifestazioni di ostilità contro il governo. Si trattava non di un movimento anticomunista, bensì di una reazione antisovietica. Le masse polacche individuarono in Gomulka il simbolo delle loro speranze e, quando in autunno il malcontento esplose, accettò di farsene interprete, nella consapevolezza di essere l'uomo adatto per restituire la speranza ai suoi concittadini senza provocare un'eccessiva reazione sovietica. Il 19 ottobre Chruscev si recò a Varsavia, constatando che la situazione non presentava alternative. Gomulka fu cooptato nel Comitato centrale del partito e questa fu la conferma della sua lealtà all'alleanza con l'Unione Sovietica. La cooptazione di Gomulka e il suo ritorno al potere permisero l'avvio delle riforme necessarie per calmare le proteste, ma al contempo garantirono che da parte della leadership polacca non vi fosse alcuna intenzione di giungere a una rottura dell'alleanza con l'Unione Sovietica13. Le ripercussioni polacche vennero così convogliate verso una soluzione compatibile con le esigenze sovietiche. Se in Polonia il partito operaio unificato trovò al proprio interno il modo per superare la crisi, in Ungheria questo non fu possibile. Fra gli intellettuali e gli studenti aveva messo radici un movimento che già nel maggio 1955 aveva dato vita, all'interno delle strutture comuniste, al Circolo Petofi. I dibattiti riguardavano il modo in cui il partito veniva governato e la politica oppressiva di Rakosi, indicato come il responsabile degli eccessi compiuti dopo il 1947. L'eco dei fatti polacchi allargò l'agitazione. Nel luglio 1956, dopo la visita di alcuni gerarchi sovietici a Budapest, si cercò di trovare una soluzione analoga a quella polacca mediante il sacrificio di Rakosi e la nomina di un suo collaboratore, Erno Gero a primo segretario del partito. La misura era però tardiva poiché il partito era spaccato in tre fazioni: gli staliniani, i moderati guidati da Kadar e i simpatizzanti di Nagy, espulso dal partito alla fine del 1955 e mai riammesso per il suo rifiuto di pronunciare un discorso di autocritica14. La tensione toccò un primo momento acuto il 6 ottobre, quando i familiari delle vittime di Rakosi celebrarono in loro onore un rito funebre al quale presero parte centinaia di migliaia di persone. Alla metà di ottobre il controllo sfuggì dalle mani del partito. Incominciarono manifestazioni studentesche e popolari con la richiesta che si formasse un nuovo governo, sotto la guida di Nagy.

Il 23 ottobre venne convocata attorno alla statua del poeta Petofi una grandiosa manifestazione che acquistò un carattere incendiario. Dall'edificio della radio partirono le prime raffiche contro i manifestanti e attorno alla radio si accese una vera battaglia con decine di morti e centinaia di feriti. Il Comitato centrale del partito, consultato

13 M.Del Pero, La Guerra Fredda, Roma, Carocci, 2001, p.49

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43 Chruscev, decise di nominare Nagy primo ministro, lasciando nelle mani di Gero la guida del partito15. Il 28 ottobre Nagy annunciò che un accordo per il ritiro dei sovietici era stato raggiunto, che la polizia politica era stata sciolta e che in suo luogo sarebbe stato istituito un corpo di sicurezza. I movimenti dei carri armati sovietici verso la periferia fecero credere agli abitanti di Budapest di avere vinto la battaglia. Nonostante il governo stentasse a rafforzare la propria autorità, Nagy compì un passo troppo arrischiato, poiché ottenne dal governo l'approvazione della richiesta di ritiro dell'Ungheria dal Patto di Varsavia. La sera del primo novembre Kadar si recò presso gli esponenti sovietici dove ricevette l'investitura a sostituire Nagy non appena le forze armate avessero ristabilito la normalità. L'attacco militare sovietico fu risolutivo: il 22 novembre Nagy cercò di fuggire, ma venne catturato e successivamente condannato a morte. Intanto Kadar aveva formato un nuovo governo, sul quale ricadde tutta l'avversione che in quei giorni era diretta contro i sovietici, ma al quale il nuovo primo ministro cercò di dare la maggior possibile rispettabilità16. La rivoluzione e la repressione dimostrarono l'incapacità dei sovietici di stabilire nei paesi da essi controllati regimi circondati da un vero consenso sociale, attestando che il dominio sovietico era una pellicola stesa su un sistema burocratico e imperiale così sottile da non poter reggere a lungo a ulteriori tensioni o alle contraddizioni interne. Il caso ungherese ebbe conseguenze disastrose poiché evidenziò che i limiti dell'esperienza sovietica non erano riconducibili solo alle deviazioni personalistiche della dittatura staliniana ma appartenevano alla natura del socialismo reale17. Il controllo dei paesi dell'Europa orientale era uno dei cardini su cui Mosca aveva costruito la propria politica di sicurezza. La defezione dell'Ungheria avrebbe fatto mancare un importante tassello nel sistema difensivo, costituito un significativo precedente per tutti i paesi dell'area e soprattutto posto le premesse per un'estensione dell'influenza occidentale anche all'interno dell'impero sovietico18. La vicenda ungherese era rivelatrice dei limiti intrinseci delle riforme di Chruscev. Le modalità con cui l'Unione Sovietica aveva imposto la propria egemonia sull'Europa orientale rendevano difficile la gestione e l'accomodamento delle forme di dissenso che fossero sorte all'interno del blocco comunista. L'impero sovietico manifestava una scarsa adattabilità all'evoluzione del contesto internazionale e alla conseguente possibilità che i paesi che gli erano soggetti

15 Ivi, op.cit., p.415.

16 A.Graziosi, L'URSS dal trionfo al degrado: storia dell'Unione Sovietica 1945-1991,Bologna, il Mulino, 2008, pp.252-255.

17 Ivi, op.cit., p.255-256. 18 M.Del Pero, op.cit., p.49.

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44 acquisissero una maggiore autonomia e indipendenza. Esso scontava un pesante difetto di origine rappresentato dall'assenza delle forme di collaborazione e consenso che invece contraddistinguevano le relazioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei. Il processo riformistico e la destalinizzazione soddisfacevano solo in parte le richieste di maggiore democrazia provenienti da larga parte dell'opinione pubblica dei paesi del blocco comunista. La repressione in Ungheria fu l'espressione emblematica dell'incapacità dell'Unione Sovietica di gestire il proprio impero senza ricorrere alla coercizione e alla violenza19. La nuova linea adottata dai comunisti sovietici e le drammatiche conseguenze che ebbe nei paesi dell'Est europeo provocò preoccupazione in Cina. Mao, infatti, ebbe grossi dubbi circa l'atteggiamento adottato da Chruscev e dagli altri dirigenti sovietici nell'affrontare la questione dell'approccio all'eredità staliniana. Chruscev aveva agito unilateralmente senza una preventiva consultazione con i paesi “fratelli”, mentre si riteneva che la questione dell'operato del capo del comunismo mondiale fosse di interesse comune. L'attacco condotto dagli stessi autori contro il modello sovietico non potè non cogliere alla sprovvista i cinesi, che erano preoccupati di proteggere il loro regime e il loro comunismo dalle conseguenze spiacevoli che rischiava di provocare una condanna troppo severa di Stalin.

Così, pur associandosi ad alcune delle critiche formulate da Chruscev, i dirigenti cinesi tentarono di sfumare i propri giudizi, sottolineando le differenze negli stili di direzione tra Stalin e Mao allo scopo di mettere quest'ultimo al riparo dalla campagna scatenata in Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa orientale contro il culto della personalità. In un editoriale del “Quotidiano del Popolo” del 5 aprile 1956, intitolato Sull'esperienza

storica della dittatura del proletariato, Mao espresse la posizione del partito comunista

cinese al riguardo, sostenendo che il dirigente sovietico aveva portato un contributo importantissimo alla causa del marxismo-leninismo, mentre gli errori erano limitati solo all'ultima parte della sua vita. L'editoriale chiariva che in futuro la Cina avrebbe copiato solo selettivamente l'esperienza sovietica e, cosa assai più importante, segnalava un netto cambiamento nell'atteggiamento cinese verso Mosca. Mao sembrava ergersi a giudice delle azioni affrettate di una dirigenza sovietica esordiente20. Fu proprio il movimento di destalinizzazione, lanciato al XX Congresso del partito comunista dell'Unione Sovietica, che determinò il naufragio dell'alleanza sino-sovietica.

I comunisti cinesi avevano ottenuto il potere servendosi, secondo la dottrina, di vie poco ortodosse: della rivoluzione contadina e della guerra nazionale. Mostrarono un

19 Ivi, op.cit., p.50.

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45 attaccamento formale tanto più forte ad un'ortodossia marxista-leninista, in quanto questa conferiva alla loro iniziativa il marchio di un socialismo scientifico, internazionalmente riconosciuto. Questa combinazione di pragmatismo e di ortodossia nell'esercizio del potere è familiare alla tradizione confuciana, la quale su questo punto non potè che essere di sostegno alla pratica marxista-leninista dei dirigenti cinesi21. Nella misura in cui durante un quarto di secolo le vittorie del socialismo sono state identificate con il regime di Stalin, quest'ultimo divenne sul piano ideologico un punto di riferimento indispensabile. Agli occhi dei dirigenti cinesi non si poteva respingere Stalin senza rimettere in discussione la validità e la pertinenza di un'ideologia, fonte di legittimità e di forza per il campo socialista nel suo insieme, come per ciascuno dei suoi membri22. Oltre ad essere preoccupato dei sommovimenti che attraversarono il campo socialista, il partito comunista cinese, in seguito alle dichiarazioni del segretario del Pcus, dovette affrontare al proprio interno una crescente divisione in fazioni, corrispondente al diverso atteggiamento dei dirigenti nei confronti delle questioni di interesse comune. Per comprendere il fenomeno delle diverse fazioni all'interno del partito comunista cinese è necessario identificare i problemi che ne favorirono l'emergere. Dopo il cattivo raccolto del 1954 e le difficoltà di rifornimento dell'inverno 1954-1955 i dirigenti cinesi presero coscienza della necessità di porre rimedio al ritardo che l'agricoltura stava accumulando. Mao Zedong, nel discorso del 31 luglio 1955, intitolato Sul problema della cooperazione agricola, raccomandò l'accelerazione della collettivizzazione nelle campagne23. Dal testo del discorso emerse chiaramente che il punto di vista di Mao non era condiviso da tutti i dirigenti del partito per cui certi compagni furono accusati di essere troppo timorosi. Mao non tardò a prevalere nel dibattito sul ritmo di attuazione della collettivizzazione.

Il sesto plenum allargato del VII Comitato centrale, riunito il 4 ottobre 1955, approvò l'accelerazione della collettivizzazione e Mao, nel gennaio del 1956, lanciò il piano dodecennale per lo sviluppo della produzione agricola che prevedeva un aumento della produzione del 150% tra il 1956 e il 1967. In occasione del movimento di massa lanciato nella primavera del 1956 per operare questa mobilitazione, le incertezze di alcuni dirigenti contrastarono con l'entusiasmo dei quadri locali. Quei dirigenti denunciarono le incoerenze, gli sprechi e gli abusi di potere che accompagnarono

21P.Calzini, E.Collotti Pischel (curatori), Coesistenza e Rivoluzione, documenti della disputa

cino-sovietica, Torino, Einaudi, 1964, p.18.

22 M.C. Bergere, La Repubblica popolare cinese. 1949-1989, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 125-126. 23 La collettivizzazione permette una mobilitazione più completa della mano d'opera, un'utilizzazione più razionale delle risorse e un controllo più stretto dello stato sulle eccedenze.

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46 l'attuazione del nuovo programma, il cui esempio più noto fu la sovrapproduzione di aratri muniti di vomere a doppio versoio, inadatti agli attacchi e al terreno cinese. Da molti punti di vista la mobilitazione della primavera del 1956 prefigurò il Grande Balzo in avanti del 1958, ma nel 1956 l'opposizione della maggioranza dei responsabili pose fine all'esperienza24. Nel biennio 1956-1957 Mao Zedong e il gruppo dirigente comunista si trovarono di fronte, oltre ai problemi relativi alla pianificazione economica, nuove questioni, in particolare il rapporto tra partito e intellettuali e, ovviamente, i mutamenti in Unione Sovietica. Problemi che furono affrontati dall'VIII Congresso del partito cinese, riunito nel settembre del 1956 e che segnò una svolta importante nella storia della Repubblica popolare cinese, consacrando il successo del regime nei suoi primi anni: ricostruzione politica ed economica, progresso dell'industrializzazione e completamento della collettivizzazione. Si riaffermò l'unità e la coesione della direzione collettiva, facendo prevalere una linea moderata.

Tuttavia i contrasti dei mesi precedenti all'interno della dirigenza non si spensero e i cambiamenti intervenuti nel gruppo dirigente lasciarono presagire che l'equilibrio raggiunto non sarebbe durato25. L'VIII Congresso nazionale rappresentò l'ultima fase in cui si misurarono e si equilibrarono le tendenze alla moderazione e gradualizzazione, da una parte, e alla radicalizzazione e accelerazione dall'altra, prima della prevalenza di queste ultime a partire dalla fine del 1957. Il Congresso prese atto dei risultati largamente positivi del primo piano quinquennale e approvò le linee guida del secondo: il nuovo piano accordava bassa priorità all'agricoltura nell'allocazione delle risorse, ma maggiore enfasi veniva posta sull'industria leggera al fine di venire meglio incontro alla domanda dei beni di consumo. Il primo ministro Zhou Enlai nel suo rapporto sottolineò l'importanza che l'economia procedesse speditamente, ma allo stesso tempo in conformità con i bisogni e le possibilità per assicurare una crescita dell'economia nazionale ben equilibrata. Il rapporto non fece alcun riferimento all'ipotesi, che Mao aveva formulato nel suo piano in dodici anni per l'agricoltura agli inizi del 1956, di costruire il socialismo con risultati economici migliori, più veloci e meno costosi26. Nelle decisioni finali il Congresso indicò l'esigenza di combattere due tendenze opposte, ma entrambe erronee: quella conservatrice di chi non era in grado di cogliere tutte le potenzialità offerte dalla situazione e quella avventuristica, di chi guardava ad una

24 M.C. Bergere, op.cit.,pp.82-86. 25 O.A. Westad, op.cit., p.35. 26 P.Short, op.cit., p.390.

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47 crescita spedita senza tenere conto dei limiti oggettivi esistenti27. I recenti eventi in Unione Sovietica, con la denuncia da parte della dirigenza comunista dei crimini commessi da Stalin, orientarono il rapporto presentato da Deng Xiaoping sulla revisione dello statuto del partito. Nel rapporto, nonché nel successivo statuto approvato, si poneva l'enfasi sullo studio del marxismo-leninismo, senza citare esplicitamente il pensiero di Mao e si sottolineava l'esigenza di combattere ogni forma di culto della personalità, aderendo integralmente al sistema della direzione collettiva del partito. Il nuovo statuto prevedeva anche la possibilità di istituire un presidente onorario del Comitato centrale, facendo seguito alle insistenze di Mao affinchè si cominciasse a pensare per tempo a preparare una nuova leva generazionale di dirigenti. Si indicava inoltre che, con il sostanziale completamento della trasformazione socialista la contraddizione di classe tra proletariato e borghesia fosse risolta e il secolare sistema di sfruttamento di classe giunto al capolinea28.

Il compito principale del partito stava nel concentrare le proprie forze, nel proteggere e sviluppare le forze produttive e trasformare la Cina da paese agricolo arretrato a nazione industriale avanzata. Controversa è la questione se Mao fosse o meno pienamente condiscendente rispetto alle varie decisioni assunte nel corso del congresso. Tuttavia, tenendo conto dell'autorità e del prestigio di cui godeva, appare probabile che ne fosse pienamente partecipe, ma che allo stesso tempo ritenesse tali decisioni come una tappa provvisoria e tutt'altro che immodificabile, in particolare per quanto riguardava i temi dell'accumulazione, dello sviluppo economico e dell'importanza della lotta di classe29. Importanti riflessi del pensiero di Mao vennero in particolare da due discorsi. Nel primo, Sui dieci grandi rapporti, dell'aprile 1956, egli delineò in teoria un metodo di direzione e di gestione politica basato sull'equilibrio nel rapporto tra centralismo e democrazia, sviluppo delle campagne e delle città, crescita industriale e agricola, appartenenza al partito, che doveva costituire una bussola atta a guidare il paese per un lungo periodo. Nel secondo, Sulla corretta risoluzione delle contraddizioni in seno al

popolo, del febbraio 1957, Mao enfatizzò l'importanza di distinguere tra due diversi tipi

di contraddizioni in seno alla società socialista: quelle tra “noi e il nemico”, da risolvere attraverso i metodi della coercizione e della dittatura, e quelle in seno al popolo, alle quali fornire adeguate risposte attraverso metodi democratici e la persuasione.

Nel corso del 1956 Mao divenne più cosciente di alcuni errori commessi dalla sua

27 M.C. Bergere, op.cit., p.88. 28 G. Samarani, op.cit., p.220. 29 P.Short, op.cit., p.394.

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48 leadership nei mesi precedenti, errori che avevano provocato crescenti reazioni negative da parte di settori operai e contadini, nonché la disillusione di numerosi intellettuali. I rapporti tra partito e intellettuali erano stati proficui, ma contrastati, e Mao aveva in più occasioni evidenziato diffidenza e sfiducia nei loro confronti. Nonostante i progressi nel campo dell'educazione, larga parte degli intellettuali continuava a provenire da famiglie abbienti o che tali erano state. Nei primi anni Cinquanta decine di migliaia di intellettuali avevano seguito corsi di sei-otto mesi, tenuti da veterani del partito sulla natura della rivoluzione cinese, sul marxismo-leninismo e sul pensiero di Mao. Sempre nei primi anni Cinquanta avevano preso parte alle campagne di massa, svolgendo un ruolo prezioso di supporto del partito e del socialismo nelle scuole, nel lavoro di propaganda e nell'industria cinematografica. Durante le prime fasi del primo piano quinquennale, il ruolo degli intellettuali in generale venne visto in modo piuttosto positivo, in quanto la loro competenza ed esperienza appariva indispensabile ai fini dello sforzo economico nazionale30. Nel 1956 i primi successi erano stati acquisiti ma le preoccupazioni certo non mancavano. L'andamento economico-sociale era fonte di crescenti interrogativi e il rapporto con numerosi intellettuali appariva incerto.

Da Mosca le notizie che filtravano sui radicali mutamenti nella situazione politica e sulle idee del nuovo gruppo dirigente sovietico sollevavano dubbi e interrogativi profondi. Il disgelo cinese non fu soltanto un sottoprodotto della destalinizzazione, infatti nel gennaio 1956, parecchie settimane prima dell'intervento di Chruscev, il ministro Zhou Enlai tenne un discorso davanti a una conferenza, riunita su convocazione del Comitato centrale al fine di esaminare il problema dei rapporti tra il partito e gli intellettuali, nella quale sostenne la necessità di lasciare maggiore libertà, creatività e tempo lavorativo agli studiosi senza pretendere da loro una trasformazione ideologica totale e immediata31. Sembrava urgente allentare le tensioni, allargare il consenso e non introdurre ulteriori elementi di divisione e di frizione. Queste motivazioni portarono all'avvio del "Movimento dei Cento fiori" che mirava, come disse lo stesso Mao nel discorso pronunciato il 2 maggio 1956, “a lasciare che cento fiori sboccino” nel campo della cultura e a “permettere che cento scuole di pensiero si confrontino” in ambito scientifico. Veniva sollecitato con forza il contributo delle idee degli intellettuali sul loro paese e sulla loro società, suscitando prima caute e poi entusiaste reazioni da parte di molti. Gli intellettuali denunciarono le manchevolezze, il carattere sterilizzante della dottrina del realismo socialista, insorgendo contro il

30 Ivi, op.cit., p.216.

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49 controllo burocratico imposto alle attività creative. Nell'inverno del 1956-1957 la politica di liberalizzazione stava per essere rilanciata e si seppe che il partito avrebbe dovuto mostrare maggiore flessibilità e moderazione nell'esercizio del potere. La preoccupazione dei liberalizzatori era quella di migliorare le relazioni tra il potere e le masse, al fine di prevenire esplosioni simili a quelle che avevano appena scosso la Polonia e l'Ungheria. Questa politica incontrò l'opposizione di numerosi quadri, i quali temevano di vedere indebolite l'autorità del partito e le loro stesse posizioni32. In seguito ad un articolo pubblicato il 7 gennaio 1957 sul “Quotidiano del Popolo”, nel quale si esprimeva la preoccupazione che la liberalizzazione avesse come risultato quello di rimettere in discussione il ruolo della letteratura e delle arti al servizio della politica, Mao Zedong intervenne, fornendo una base teorica alla liberalizzazione. Il 27 febbraio 1957, davanti alla Conferenza suprema dello stato, pronunciò il discorso Sulla giusta

soluzione alle contraddizioni all'interno del popolo, riconoscendo la persistenza di

contraddizioni nella società dopo l'instaurazione del socialismo.

Mao sottolineò come le contraddizioni, nate all'interno del popolo, fossero secondarie e non antagoniste, non confrontabili con quelle che opponevano proletariato e borghesia, paesi socialisti e paesi capitalisti. Queste contraddizioni principali, o antagoniste, si svilupparono tra il popolo e i suoi nemici e dovevano essere risolte con l'eliminazione degli oppositori. Le contraddizioni che invece emersero, dopo la rivoluzione, tra il partito e le masse, ma anche tra i partiti comunisti nel campo socialista, dovevano essere risolte con la concertazione senza ricorrere alla forza. Le contraddizioni non antagoniste non nascevano dalle imperfezioni dei rapporti di produzione ma dalle deviazioni dell'apparato dirigente. Per superare queste contraddizioni era opportuno rettificare lo stile di lavoro del partito33. Dopo l'intervento di Mao l'accordo avvenne sulla necessità di una campagna di rettifica, ma non sulla sua ampiezza e sul suo stile. Quando Mao esortò ad una rettifica aperta, sottoponendo i quadri alla critica delle masse, altri dirigenti, come Liu Shaoqi, raccomandarono una rettifica condotta all'interno del partito, molto meno pericolosa di un movimento che coinvolgesse l'insieme della popolazione. In seguito alla direttiva pubblicata il primo maggio 1957 dal “Quotidiano del Popolo” venne lanciato il movimento di rettifica che durò fino al 7 giugno. Contrariamente alle attese di Mao Zedong i contestatori non si limitarono ad attaccare lo stile di lavoro dei comunisti, il loro burocratismo e soggettivismo, ma se la presero con la natura e il ruolo stesso del partito. Denunciarono la struttura monolitica, la confusione

32 J. Strauss, op.cit., p.80.

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50 tra i suoi ingranaggi e l'apparato dello stato. Rivendicarono le riforme delle istituzioni e la possibilità che i partiti democratici svolgessero un vero ruolo politico, anziché servire da “vasi da fiori”. Gli studenti si dimostrarono ancora più audaci e, ispirati dagli avvenimenti di Polonia e Ungheria, preferirono rimettere in discussione il sistema dello stato. Di fronte al flusso montante di critiche il partito fece un brusco voltafaccia. Nell'editoriale dell'8 giugno il “Quotidiano del Popolo” denunciò coloro che volevano servirsi della campagna di rettificazione per condurre una guerra di classe. Dieci giorni dopo il discorso di Mao Sulla giusta soluzione alle contraddizioni all'interno del popolo fu finalmente pubblicato, ma con modifiche che ne alterarono il senso34. Fu l'inizio della così detta Campagna contro la Destra, nel corso della quale centinaia di migliaia di intellettuali furono puniti con la perdita del lavoro e degli incarichi, con l'imprigionamento e con l'invio nei campi di lavoro. Nel corso di queste dure misure repressive, che si protrassero fino alla primavera del 1958, circa quattrocento intellettuali furono giustiziati con l'accusa di essere nemici del socialismo35. Nel complesso il rapporto tra partito e molti intellettuali fu seriamente compromesso come avrebbe ulteriormente dimostrato dieci anni dopo la Rivoluzione culturale. L'autonomia della quale beneficiarono le professioni intellettuali ridotta e i quadri del partito presero il posto di scrittori e degli studiosi nei comitati de redazione delle riviste e negli organi dirigenti delle istituzioni scientifiche. Il partito stabilì anche un controllo più stretto sull'ambiente studentesco, precisando, con una direttiva del 20 luglio 1957, che i diplomati dovevano essere oggetto d'inchieste politiche, obbedire al piano di ripartizione degli impieghi fissati dalla stato e accettare le funzioni alle quali sarebbero stati destinati36. 34 P.Short, op.cit., p.315. 35 H. Schmidt-Glintzer, op.cit., p.88. 36 M.C. Bergere, op.cit.,pp.101-102.

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2.3 La politica cinese in Asia

La morte di Stalin e la firma dell'armistizio di Panmunjon, nel corso del 1953, avviarono una fase più distensiva nella politica estera cinese, favorita anche dal sostanziale successo dell'opera di ricostruzione e di stabilizzazione interna. I rapporti con l'Unione Sovietica furono per alcuni anni caratterizzati da uno spirito di collaborazione più forte e dalla tendenza a ridurre, pur gradualmente, il forte squilibrio a favore di Mosca nella partnership. La Cina inoltre fu in grado di svolgere un proprio ruolo attivo diplomatico su varie questioni internazionali, grazie alle capacità della propria diplomazia e al supporto dei sovietici. Zhou Enlai, durante la sua permanenza a Mosca in occasione dei funerali di Stalin, fu trattato con grande riguardo dai nuovi leader dell'Unione Sovietica ed ebbe occasione di discutere con questi della necessità dell'avvio di una nuova fase nei rapporti bilaterali37. Questa fase positiva dell'alleanza si manifestò l'anno successivo quando, nel settembre-ottobre 1954, Chruscev si recò a Pechino in occasione del quinto anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese. Nel corso della visita le ultime disposizioni ereditate dai “trattati ineguali”, stipulati dalla Russia zarista, furono annullate e così la base di Port Arthur fu restituita alla Cina e i sovietici rinunciarono alla parte di loro spettanza nelle compagnie miste dello Xinjiang. Mosca, abbandonando i suoi ultimi interessi in Cina, si era impegnata in una maggiore cooperazione nel piano dello sviluppo economico cinese, come rivelato l'anno successivo dalla firma a Mosca dell'accordo sulla cooperazione per l'utilizzazione pacifica dell'energia atomica38. Il sostegno sovietico in quella fase fu di fondamentale importanza per consentire a Pechino di svolgere un proprio ruolo diplomatico attivo su varie questioni internazionali, grazie alla capacità della propria diplomazia guidata dall'abile Zhou Enlai, portando paradossalmente a far cessare il pericolo di appiattimento della politica estera cinese rispetto all'Unione Sovietica39. Fu proprio in occasione della Conferenza di Ginevra nel 1954 che la Cina potè fare il suo ritorno sulla scena internazionale, grazie al sostegno e all'appoggio ricevuto dai sovietici. Nel corso della conferenza la Cina svolse un ruolo cruciale per il buon esito della stessa, grazie ai solidi rapporti avviati negli anni precedenti con il leader vietnamita Ho Chi Minh,

37 G.Samarani, op.cit., p.241. 38 B.Onnis, op.cit., p.43.

39 V.Ferretti, La questione della sicurezza nell'evoluzione della politica estera della Repubblica popolare

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52 quando questi guidava la resistenza contro il colonialismo francese. L'atto finale della Conferenza di Ginevra, che stabilì un confine armistiziale tra i due Vietnam, evitò alla Cina di andare incontro a un'altra Corea e a scongiurare la costituzione di uno stato indipendente esteso a tutto il Vietnam. Attraverso l'operato di Zhou Enlai, che si distinse per talento e duttilità nelle trattative, la Cina riassunse di fatto il volto e le responsabilità di una grande potenza in Asia, gettando al contempo le premesse per la normalizzazione dei suoi rapporti con i paesi occidentali40. Il ministro Zhou Enlai si propose come il difensore della pace in Asia, cercando di limitare l'influenza americana e, nello stesso tempo, d'impedire al Vietnam di raccogliere nella sua interezza l'eredità dell'Unione Francese. Di importanza politica ancora maggiore fu il ruolo svolto dai cinesi, sempre attraverso il primo ministro e ministro degli esteri Zhou Enlai nell'aprile 1955 alla Conferenza di Bandung, alla quale presero parte delegazioni di ventinove paesi asiatici e africani, per lo più emergenti dalla dominazione coloniale, per affermare la propria volontà di non essere più trascinati nella scia delle grandi potenze e di sottrarsi alla politica dei blocchi contrapposti.

I protagonisti principali, oltre a Zhou Enlai, furono Jawaharlal Nehru, Achmed Sukarno, Tito e Gamal Abd el Nasser, i quali erano espressione di un movimento che spingeva verso la ricerca di una nuova realtà nei rapporti internazionali basata sul neutralismo e sulla decolonizzazione, ponendo le basi per quello che sarebbe divenuto il Movimento dei paesi non allineati41. Nel comunicato finale della conferenza erano contenuti i principi essenziali per la promozione della pace e della distensione nel mondo, che contribuirono a rafforzare quello spirito di concertazione e di conciliazione che aveva caratterizzato i rapporti sino-indiani negli anni immediatamente precedenti al fine di trovare una soluzione ai problemi bilaterali e alla questione tibetana, e che avevano portato alla definizione dei Cinque principi della coesistenza pacifica, i Pancha Shila. I suddetti principi, che richiamavano al reciproco rispetto per l'integrità e la sovranità territoriale, alla non aggressione, alla non interferenza negli affari interni, all'eguaglianza e a mutui benefici e alla coesistenza pacifica, erano stati riconosciuti da Cina e India fin dalla fine del 1953 come linee guida delle relazioni internazionali e della politica estera cinese. In quanto tali, essi erano stati inseriti nel preambolo del Trattato sino-indiano sul commercio e le comunicazioni tra la regione autonoma del Tibet e l'India, firmato a Pechino il 29 aprile 1954, con il quale il governo di Nuova

40 S.Kuo-Kang, Zhou Enlai and the foundation of Chinese Foreign Policy, London, Macmillan press, 1996, pp.150-155.

41 G.Calchi Novati, L.Quartapelle (curatori), La Conferenza afro-asiatica di Bandung in una prospettiva

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53 Delhi riconobbe la pienezza della sovranità cinese sulla regione tibetana, rinunciando ai precedenti diritti acquisiti dal potere britannico in India42.

Il ruolo che Zhou Enlai svolse durante la conferenza fu rilevante, poiché la Cina dettò l'agenda degli incontri, introdusse e rafforzò l'idea di neutralismo come principio ispiratore di questo movimento e insistette perchè il dibattito non fosse subordinato a prospettive ideologiche. Furono definiti obiettivi prioritari la dissoluzione del colonialismo e la tutela della pace. Le risoluzioni della Conferenza di Bandung tracciarono una ferma condanna del colonialismo, del razzismo e della politica di segregazione e discriminazione tra le razze, soprattutto per ciò che riguarda la sicurezza economica e sociale. Coerentemente con quest'ultima considerazione la conferenza enunciò i principi di una politica d'indipendenza economica che avrebbero dovuto mettere fine all'egemonia del mondo bianco: cooperazione economica tra le potenze asiatiche e africane per scambio di assistenza tecnica e finanziaria, incoraggiamento alla creazione di industrie nazionali, trasformazione sul posto delle materie prime sino a quel momento acquistate ai prezzi stabiliti dal mercato occidentale e creazione di banche autoctone43. Sul terreno della politica internazionale, la conferenza proclamò che gli stati asiatici e africani rifiutassero di essere trascinati in una guerra per l'una o per l'altra delle due grandi potenze mondiali. Si trattava di una posizione neutralista importante in quella congiuntura politica, poiché conteneva l'affermazione di una politica ormai indipendente da parte di quelle nazioni asiatiche e africane che, sino a quel momento, avevano sempre visto le potenze occidentali disporre liberamente dei loro destini. La Conferenza di Bandung costituì inoltre il presupposto per la creazione del movimento dei cosiddetti "paesi non allineati", cioè di quelli che, dichiarandosi neutrali rispetto allo scontro tra i blocchi, rifiutarono la logica della Guerra fredda e privilegiarono obiettivi di disarmo, sicurezza collettiva e autonomia politica. Promosso dall'iniziativa comune dell'indiano Nehru, dell'egiziano Nasser e dello jugoslavo Tito, il movimento dei non allineati nacque poi ufficialmente nel 1961, nel corso della conferenza di Belgrado, ma il suo limite fu quello di non riuscire a presentarsi sulla scena internazionale come una forza unita e un'alternativa reale alla politica dei blocchi44. Queste iniziative diplomatiche conferirono alla Cina un ruolo specifico e originale, almeno su scala regionale. La sua appartenenza alla comunità dei paesi asiatici e sottosviluppati, dai quali l'Unione Sovietica era esclusa, la pose in disparte nel

42 B.Onnis, op.cit., p.44.

43 G.Calchi Novati, L.Quartapelle (curatori), op.cit., 140. 44 F.Logevall, op.cit., p.16.

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54 campo socialista, il che d'altra parte fu confermato dal rifiuto cinese di aderire al Patto di Varsavia. Parte integrante del campo socialista, la Cina conservò nella sua politica estera una certa autonomia, legata alla sua natura di stato-continente e all'esperienza dell'umiliazione coloniale e del sottosviluppo economico che l'avvicinava ai paesi del Terzo Mondo45. La denominazione Terzo Mondo fu coniata nel 1952 per indicare quei paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina appena usciti dalla soggezione coloniale, oppure in lotta per il conseguimento dell'indipendenza, caratterizzati da un basso prodotto interno lordo pro capite, da una elevata crescita demografica e da una struttura produttiva fortemente dipendente dall'importazione di capitali e tecnologia dai paesi industrializzati46

Relativamente al settore regionale asiatico, la Cina, oltre a confrontarsi con gli interessi sovietici, dovette prendere atto della presenza di un'altra grande potenza emergente, l'India. Nel dicembre del 1949 l'India aveva riconosciuto la Repubblica popolare cinese e da quel momento aveva continuato a fare pressioni affinchè il governo di Pechino rappresentasse la Cina popolare alle Nazioni Unite. Dallo scoppio della guerra di Corea, nel giugno 1950, l'India aveva esercitato i propri mezzi diplomatici per porvi fine e per evitare il possibile conflitto tra Cina e Stati Uniti che lo spiegamento della Settima flotta in difesa di Taiwan rendeva probabile. Questi sforzi per la causa della pace furono favorevolmente accolti da Pechino e rappresentarono il preambolo necessario per la firma del trattato sino-indiano del 29 aprile 1954. Nonostante le premesse positive, già alla conferenza di Bandung ci fu da parte cinese un contrasto di opinioni. Nehru infatti cercò di prendere Zhou sotto la sua protezione, trascurando, forse con una certa ingenuità, il fatto che questa apparente gentilezza poteva sottintendere un senso di superiorità da parte sua. Tuttavia, l'irritazione per la presunzione di Nehru e dell'India, nell'accampare un diritto alla leadership dell'Asia non influenzò la politica del governo cinese47. I cinesi approvavano la politica estera di Nehru, in quanto egli si teneva a cauta distanza dal blocco occidentale, rifiutava di concedere basi militari ed era pronto nel denunciarne le aggressioni, come fece per la Guerra di Suez nel 1956 e per l'intervento anglo-americano in Medio Oriente nel 1958. Era costante nel sostenere il diritto di Pechino a rappresentare la Cina alle Nazioni Unite. Come riassunse il “Quotidiano del Popolo”, Nehru era un amico della Cina e un oppositore della politica imperialista,

45 M.C.Bergere, op.cit., p.125.

46 G. Scidà, Terzo Mondo e divisione internazionale del lavoro, “Dimensioni dello sviluppo” n. 2, 1986, p.34.

47 A.Lamb, The China-India Border: The Origins of the Disputed Boundaries, London, Routledge & Kegan Paul, 1964, p.356.

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55 bellicosa e aggressiva48.

L'India aveva riconosciuto, con il trattato del 1954, la sovranità cinese sulla regione tibetana, tuttavia fu proprio riguardo al Tibet che si ebbe una prima rottura nei rapporti sino-indiani, esplosa successivamente nella guerra di frontiera del 1962 per la contesa dell'Aksai Chin e dell'Arunachal Pradesh.

Una della più vaste minoranze storiche della Cina è proprio quella dei tibetani, su cui già il governo manciù aveva posto il proprio controllo con forza crescente, toccando un punto massimo intorno al 1800. Successivamente però l'interesse e l'impegno della Cina imperiale in quella zona andò decrescendo. Solo l'accentuazione dell'influenza britannica sul Tibet, verificatasi nel XIX e agli inizi del XX secolo, evocò resistenze da parte cinese. La Cina aveva raggiunto un accordo con l'Inghilterra su alcune questioni territoriali, come ad esempio la convenzione anglo-cinese del 1890, in base alla quale il Sikkim, originariamente stato vassallo di Lhasa, venne dichiarato protettorato britannico. Nel 1893, senza consultare il governo tibetano, fu firmato il trattato anglo-cinese sul commercio tra India e Tibet. La logica imperialista spinse il potere britannico, nel primo decennio del XX secolo, a cercare di affermare la propria influenza esclusiva sul Tibet e ad impedire la minacciosa avanzata dei russi verso l'India. In reazione alla crescente influenza della Russia su Lhasa, dovuta ai contatti che il XIII Dalai Lama strinse con i rappresentanti dello Zar, Lord Curzon, vicerè inglese dell'India, decise di intervenire militarmente contro il Tibet e, tra il 1903 e il 1904, organizzò una spedizione, guidata dal Tenente colonnello Younghusband, contro Lhasa. L'accordo di Lhasa, firmato a conclusione della missione, impegnava il Tibet a rifiutare l'ingresso a rappresentanti o emissari di qualsiasi potenza straniera ad eccezione della Gran Bretagna. In tal modo parve garantito il fatto che il Tibet sarebbe rimasto in quello che gli inglesi consideravano “lo stato di isolamento da cui aveva dimostrato di non aver intenzione di uscire”49

. Nel 1907, in un accordo con la Russia, la Gran Bretagna si impegnò a restare fuori dal Tibet e a non intavolare negoziati con i tibetani, se non con la mediazione della Cina, a rispettarne l'integrità territoriale e ad astenersi da ingerenze nella sua amministrazione interna. Così il Tibet divenne uno stato cuscinetto accettato sia dalla Russia che dalla Gran Bretagna50. In tutte queste manovre diplomatiche gli inglesi avevano pensato alla Cina come a un elemento passivo, quasi neutrale. Ma nel primo decennio del XX secolo la politica cinese nel Tibet cambiò bruscamente rotta e,

48 N.Maxwell, L'India e la Cina: Storia di un conflitto, Milano, Gabriele Mazzotta Editore, 1973, pp.281-283.

49 H.Schmidt-Glintzer, op.cit.,p.92. 50 N.Maxwell, op.cit., p.37.

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56 di conseguenza, mutò anche l'atteggiamento degli inglesi e specialmente quello del governo dell' India verso la Cina. La Cina avviò un suo tipo di politica espansionistica verso le terre di frontiera dell'Asia centrale, con l'intenzione di trasformare protettorati blandamente controllati in vere e proprie province dell'Impero. I cinesi volevano allargare la loro presenza militare nel Tibet centrale, sostituendo l'antica e teocratica organizzazione amministrativa con istituzioni più moderne, diminuendo il potere del Dalai Lama e degli ordini monastici. Le autorità indiane, sempre attente al mutar della situazione in prossimità delle proprie frontiere, avevano osservato con crescente apprensione la rapida riaffermazione del potere cinese in Tibet e avevano reagito allarmate quando, nel maggio 1910, i cinesi avevano occupato Rima, preteso tasse dagli abitanti e impartito l'ordine di costruire una strada attraverso la zona tribale verso l'Assam. In questo territorio vi erano estese piantagioni di tè, bacini carboniferi e altri interessi economici della Gran Bretagna. Sia in India che a Londra si diede inizio a discussioni riguardo alla politica da adottare per prevenire ulteriori mosse cinesi. Un paragrafo della legge, in base alla quale l'India era governata, stabiliva che tranne in caso di urgente e improvvisa necessità le entrate dell'India non dovevano essere usate per finanziare operazioni militari oltre le frontiere esterne51.

L'improvviso crollo della potenza cinese nel Tibet nel 1911-1912 sembrò offrire l'occasione per fare qualche passo al fine di prevenire future minacce lungo la frontiera nord orientale dell'India. Gli inglesi, constatati i pericoli della presenza cinese lungo le frontiere indiane, decisero che per i loro interessi fosse più utile escludere dal Tibet il potere cinese. Per raggiungere questo obiettivo convocarono una conferenza a Simla che, iniziata nell'ottobre del 1913, si concluse il 3 luglio 1914. L'aspirazione della Gran Bretagna era che il Tibet, mentre nominalmente conservava la sua posizione di stato autonomo sotto la sovranità della Cina, di fatto fosse posto in una condizione di assoluta dipendenza dal governo indiano, e che si creassero degli strumenti effettivi per tener fuori i cinesi e i russi52. La Gran Bretagna presentò la conferenza di Simla come un tentativo di accomodamento delle relazioni tra Cina e Tibet, presentandosi come il modesto mediatore tra le parti.

Pur sapendo di trovarsi in una posizione di debolezza, i cinesi non erano disposti ad accettare la proposta britannica, comprendendo che si trattava solo di un tentativo per

51 A.Lamb, The McMahon Line: A Study in the relations Between India, China and Tibet 1904-1914, London, Routledge & Kegan, 1966, pp.116-118.

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57 separare il Tibet dalla Cina53. Nonostante i tentativi degli inglesi di arrivare alla firma di un trattato, la conferenza di Simla non diede luogo a nessun accordo in cui il governo della Cina figurasse come una delle parti54.

Inizialmente l'India indipendente continuò a seguire la politica inglese verso il Tibet, continuità dimostrata dalla decisione di lasciare a Lhasa, come rappresentante dell'India, l'ultimo ambasciatore britannico. A metà del 1949 i tibetani espulsero da Lhasa la missione cinese adducendo come giustificazione il timore che i cinesi potessero essere, o diventare, comunisti. I tibetani cominciarono a formarsi un proprio esercito, ricevendo il sostegno dell'India che inviò in Tibet ufficiali di grado elevato per avviare il programma di assistenza militare. Il nuovo governo indiano diresse la propria politica al fine di escludere l'autorità cinese e di aumentare la propria influenza in Tibet. L'affermarsi, in Cina, del governo comunista nel 1949, aprì la strada ad un capovolgimento dell'equilibrio. I comunisti cinesi avevano ripetutamente dichiarato le proprie intenzioni di riaffermare l'autorità centrale nel Tibet, pochi giorni dopo la nascita della Repubblica popolare, Pechino annunciò che avrebbe inviato l'esercito in Tibet. In una nota diplomatica l'India avvertì Pechino che l'azione militare avrebbe potuto mettere a rischio gli sforzi fatti dall'India affinchè il governo di Pechino rappresentasse la Cina alle Nazioni Unite. Per la Cina il Tibet era parte integrante del suo territorio e la decisione di inviarvi l'esercito rientrava nelle questioni di politica interna55. Il governo indiano sperava che Pechino si accontentasse di una posizione in Tibet analoga a quella dell'India in Bhutan, vale a dire che i tibetani avrebbero potuto condurre i loro affari interni, mentre la Cina avrebbe preteso che non avessero relazioni con altri governi.

Nel 1950 le truppe cinesi invasero il Tibet e nel 1951 la Cina sottoscrisse un trattato in base al quale garantiva l'indipendenza del Tibet e riconosceva i diritti del Dalai Lama. Lo stesso trattato assegnava alla Cina il diritto di stabilire guarnigioni in territorio tibetano e di rappresentare il paese sul piano della politica estera. Dal momento che, dopo il fallimento delle comuni popolari in Tibet, il governo di Pechino aveva istituito un Comitato propedeutico per la regione autonoma del Tibet e perseguiva ulteriormente la sua politica delle comuni popolari, il 10 marzo 1959 avvenne una rivolta con la quale il Tibet proclamò la propria indipendenza. La sommossa fu sedata nel giro di pochi

53 A.Lamb, op.cit., p.237. 54 N.Maxwell, op.cit., p.62. 55 J.Osterhammel, op.cit., p.355.

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58 giorni dalle associazioni cinesi e il 17 marzo il Dalai Lama si rifugiò in India56. I cinesi consideravano la ribellione in Tibet come una controrivoluzione e il tentativo di mantenere l'oscurantista, crudele e barbaro sistema servile da parte delle classi che ne beneficiavano. La Cina non avrebbe certo permesso che la reazione indiana alla rivolta in Tibet bastasse di per sé a guastare la cordialità che per tutti gli anni Cinquanta aveva contrassegnato le relazioni tra i due paesi, tuttavia guardò con sospetto l'avvicinamento tra India e Stati Uniti nel corso del 195957. Se nel corso del 1959, il mutamento nell'atteggiamento americano divenne evidente e portò ad un avvicinamento all'India, ancora lontano era il momento in cui questo sarebbe avvenuto anche con la Cina. Gli Stati Uniti avevano contrastato la Repubblica popolare cinese fin dalla sua nascita, sostenendo la Repubblica di Cina che aveva sede a Taiwan. Il Presidente Harry Truman, il 5 gennaio 1950, in seguito alla vittoria dell'esercito comunista di Mao Zedong annunciò che gli Stati Uniti non si sarebbero fatti trascinare in una guerra con Pechino anche nel caso di un attacco comunista a Taiwan, isola dove si erano rifugiati l'esecutivo e le superstiti forze del Guomindang. Tuttavia, quando il 25 giugno 1950, iniziò la guerra di Corea, Truman dovette cambiare opinione, dichiarando, il 27 di giugno, che gli Stati Uniti avrebbero garantito anche con la forza la neutralizzazione dello Stretto di Taiwan. Pochi giorni dopo la Settima flotta americana venne inviata nel suddetto braccio di mare per impedire qualsiasi tentativo offensivo di Pechino nei confronti di Taiwan ma anche per dissuadere le forze del GMD ad effettuare azioni di disturbo contro la Cina di Mao. Il Congresso americano ritenne necessario fornire a Chiang Kai-shek non soltanto protezione, ma anche un certo quantitativo di armi e rifornimenti per il suo esercito58. Politica che, subito dopo il suo insediamento alla presidenza, il successore di Truman, Eisenhower decise di intensificare.

Forte dell'appoggio statunitense, ai primi di agosto del 1954, Chiang Kai-shek trasferì 58 mila soldati a Quemoy e 15 mila nel vicino arcipelago di Matsu, in modo da creare una cintura di contenimento atta a sventare eventuali attacchi contro Taiwan. Il governo di Pechino, irritato, reagì ribadendo che l'obiettivo rimaneva quello di impossessarsi dell'isola anche a costo di utilizzare la forza. Pochi giorni dopo il governo di Washington avvertì Pechino che, in caso di attacco contro Taiwan, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in qualunque modo pur di scongiurarlo59. Quest'ultimo monito spinse l'Unione Sovietica a criticare aspramente Washington e a lasciare intendere le sue

56 H.Schmidt-Glintzer, op.cit., p.94. 57 N.Maxwell, op.cit., pp.284-287. 58 G.Chang, op.cit., p.123. 59 O.A.Westad, op.cit., p.134.

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59 eventuali mosse di carattere militare. Nonostante l'avvertimento della Casa Bianca, il 3 settembre 1954, cinque divisioni di artiglieria dell'esercito comunista cinese si posizionarono lungo la costa orientale, dando inizio ad un pesante bombardamento su Quemoy. I capi di Stato Maggiore statunitensi, di fronte a questa escalation, suggerirono al presidente Eisenhower l'ipotesi di utilizzare come mezzo di dissuasione prima l'arma aeronavale per poi passare, se necessario, ad una rappresaglia nucleare contro Pechino. Il presidente Eisenhower, data la delicatezza della situazione, prese tempo e, seppur infastidito dalla decisione del tribunale di Pechino di condannare a lunghe pene detentive 13 aviatori nord americani abbattuti sul territorio cinese nel corso della guerra di Corea, dichiarò di voler rinunciare, per il momento, a qualsiasi iniziativa militare contro Pechino per risolvere la crisi degli stretti60. Il 2 dicembre 1954 il Congresso americano siglò il “Trattato di mutua difesa” con il governo nazionalista di Taiwan. L'intesa fece infuriare Mao che, nel gennaio 1955, con un atto molto rischioso attaccò e occupò l'isola di Yijiangshan, posizionata ad appena 210 miglia a nord di Taiwan. Nel corso della battaglia i comunisti trucidarono l'intera guarnigione locale nazionalista formata da 750 uomini. Indignati per l'accaduto i membri del Congresso approvarono a maggioranza assoluta “l'ordine del giorno di Formosa”, autorizzando il presidente Eisenhower a difendere con le armi non solo Formosa, ma anche le isole Quemoy, Dachen, Nanchi e Matsu. Nonostante la rafforzata posizione di forza il presidente preferì fare pressioni su Chiang Kai-shek affinchè accettasse di evacuare i suoi 11 mila soldati e i 20 mila civili presenti nelle isole Dachen e Nanchi, lasciandole di fatto alla mercè dei comunisti cinesi. Per contro, Chiang decise di rinforzare tutte le guarnigioni poste a difesa degli arcipelaghi posti intorno a Taiwan, dando ai suoi l'ordine di effettuare connoneggiamenti contro la costa cinese. Pechino schierò ingenti truppe supportate da artiglieria pesante lungo il litorale compreso tra le città portuali di Fuzhou e Xiamen, riprendendo i bombardamenti su Quemoy, Matsu e le isole Pescadores61. Il 9 febbraio 1955 la crisi indusse il senato americano a ratificare il patto di mutua sicurezza tra Washington e Taipei, votando anche una nuova risoluzione che di fatto impegnava gli Stati Uniti a proteggere tutti i territori sotto la giurisdizione di Taipei. La politica del braccio di ferro premiò gli Stati Uniti, costringendo Mao a rivedere tutti i suoi piani. Il ministro Zhou Enlai approfittò della conferenza di Bandung per lanciare un appello alla coesistenza con gli Stati Uniti e per un regolamento pacifico della questione di

60 G.Chang, op.cit., p.115. 61 O.A.Westad, op.cit., p.138.

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60 Taiwan, il che consentì di allentare momentaneamente le tensioni con Washington62. Il primo maggio 1955 Mao Zedong ordinò la cessazione dei bombardamenti su Quemoy e Matsu, mettendo così fine alla “Prima crisi degli Stretti” e il 13 agosto la Cina rilasciò anche i 13 aviatori statunitensi precedentemente incarcerati. La tregua dello Stretto di Taiwan durò soltanto tre anni in quanto, all'alba del 23 agosto 1958, circa seicento pezzi di artiglieria dell'esercito cinese, dislocati lungo la costa meridionale, nell'area di Xiamen, ripresero improvvisamente a bombardare Quemoy. Dopo aver scaricato sull'isola, nell'arco delle prime ventiquattro ore, qualcosa come 49000 proiettili, per circa una settimana l'artiglieria comunista proseguì il suo lavoro di distruzione nel tentativo di demolire i bunker e le difese interrate, nelle cui viscere stavano rintanati ben 100 mila soldati di Taiwan. Alla fine di agosto Mao Zedong ordinò di continuare con i bombardamenti e nel frattempo di allestire una forza navale per tentare uno sbarco a Quemoy63. La risposta degli Stati Uniti non si fece attendere, dimostrando di non temere il coinvolgimento in un conflitto più vasto, il presidente Eisenhower rinforzò il dispositivo della Settima flotta e il 7 settembre la squadra statunitense iniziò a scortare le navi nazionaliste impegnate nelle missioni di rifornimento a Quemoy64. Durante quel caldo settembre del 1958 il Cremlino, sebbene molto irritato con Mao per non essere stato preventivamente messo al corrente circa i suoi piani offensivi contro Taiwan, ribadì più volte che un eventuale utilizzo americano di armi atomiche contro la Cina avrebbe giustificato un contrattacco sovietico di pari natura contro gli Stati Uniti. Nel corso della “Seconda crisi degli Stretti”, pur continuando a mobilitare le forze e ad assicurare il più totale sostegno a Chiang, Washington non mancò di invitare il leader nazionalista alla massima prudenza. Sia gli Stati Uniti che l'Unione Sovietica preferirono giocare le proprie carte su più tavoli, nella convinzione che uno scontro frontale avrebbe provocato l'apocalisse65. Per diverse settimane il braccio di ferro tra Mao e Chiang andò avanti, finchè Mao, pressato da Mosca, che in realtà temeva più di Washington una guerra con gli Stati Uniti, in quanto meno attrezzata sotto il profilo aeronautico e navale, iniziò a rivedere i suoi piani e a farsi più prudente. Alla fine di settembre la sostanziale sterilità dei bombardamenti su Quemoy e le sensibili perdite subite indussero Mao ad intavolare un negoziato diretto con Washington per raggiungere una tregua dignitosa. Fu così che, dopo circa un mese di incontri, il 6

62 B.Onnis, op.cit., p.45. 63 J.Osterhammel, op.cit., p.434.

64 Da notare che su ciascuna delle portaerei giunte di rinforzo, oltre i normali velivoli da assalto e cacciabombardieri, risultava imbarcato anche il bombardiere strategico, Skywarrior, armato con ordigni nucleari.

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61 ottobre, il governo comunista dichiarò un cessate il fuoco unilaterale66.

Il supporto sovietico verso Pechino fu tiepido e tardivo e inasprì ulteriormente i rapporti bilaterali: l'Unione Sovietica riteneva assurda l'iniziativa cinese, che rischiava di portare alla scoppio di una guerra più ampia, e criticava aspramente il fatto che Pechino non si fosse preventivamente consultata con Mosca, come prevedeva il trattato di alleanza e mutua assistenza del 195067. A partire dal 1956 in Cina fu avviata una riflessione circa l'applicazione del modello di sviluppo sovietico, che spinse la dirigenza cinese a cercare nuove vie, più autonome, per lo sviluppo del socialismo. Probabilmente gli eventi del 1956 fecero sentire i propri effetti sui rapporti sino sovietici con un certo ritardo dopo il 1958 per tre motivi essenziali: 1) il processo in corso di transizione e di ridefinizione della strategia cinese, che spingeva a privilegiare i problemi interni; 2) lo sviluppo in Unione Sovietica della lotta per l'egemonia e il potere, che aveva visto l'emergere di Chruscev le cui posizioni tuttavia apparivano ancora relativamente deboli, riflettendosi sull'esigenza di non inasprire i rapporti esterni; 3) la preoccupazione comune per l'unità del campo socialista, scossa dagli eventi di Varsavia e Budapest68. Durante l'VIII congresso del partito comunista cinese nel settembre 1956, i dirigenti si sforzarono di sottolineare il carattere collegiale della direzione cinese e di far apparire Mao come un

primus inter pares. Gli stessi cinesi erano stati vittime delle decisioni arbitrarie che

l'Unione Sovietica, attraverso il Comintern, aveva imposto al movimento rivoluzionario nel corso degli anni Venti e Trenta, ed erano dunque in grado di comprendere le rivendicazioni dei partiti comunisti europei che reclamavano l'indipendenza nazionale. Ma se i dirigenti cinesi difesero il diritto di ciascun partito comunista di organizzare la propria rivoluzione e, dopo aver preso il potere, di incaricarsi degli affari nazionali del proprio paese, diedero tuttavia la precedenza alla difesa del sistema comunista e all'unità del blocco socialista69. Secondo le tesi cinesi il sistema socialista era buono, bisognava saperlo guidare e risolvere opportunamente le contraddizioni che, dopo la presa di potere, continuavano a persistere all'interno degli stati comunisti, così come tra i diversi stati che appartenevano al campo socialista. Queste contraddizioni “non antagoniste” non erano fondamentali, tuttavia se i dirigenti non le avessero considerate con la necessaria attenzione avrebbero potuto creare gravi crisi del genere di quelle che si rimproveravano a Stalin. Queste tesi furono riprese e sviluppate sul piano teorico da Mao nel discorso Sulla giusta soluzione alle contraddizioni all'interno del popolo del

66 J.Strauss, op.cit., p.150. 67 G.Samarani, op.cit., p.246. 68 Ivi, op.cit., p.244.

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