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LA LEGGE DI RIFORMA NEL SETTORE DELLA R.C.A. – IL PUNTO DI VISTA DEGLI ASSICURATORI

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Academic year: 2022

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LA LEGGE DI RIFORMA NEL SETTORE DELLA R.C.A. – IL PUNTO DI VISTA DEGLI ASSICURATORI

Dr. Francesco Nanni *

L’assicurazione obbligatoria r.c.auto sta attraversando da più di un anno una situazione di difficoltà senza precedenti nel nostro Paese, al punto di essere divenuta – a torto o a ragione – oggetto di scandalo e di esecrazione universale.

Certo, per gli assicuratori non è facile vivere un momento del genere. Bisogna riconoscere, però, che la crisi in atto ha avuto almeno il pregio di portare alla luce una serie di problemi da tempo esistenti e sui quali le compagnie avevano più volte e invano richiamato l’attenzione. E di assestare un colpo assai duro all’inguaribile demagogia dei nostri governanti che, nel blocco dei premi di rinnovo e delle tariffe r.c. auto disposto l’anno scorso, aveva dato ancora una volta gran prova di sé: al punto in cui siamo, infatti, nessuno può far finta di ignorare che facciamo parte dell’Unione Europea e, se vogliamo restarci, dobbiamo assumerne le regole e i principi di fondo.

Si ripete dovunque che la liberalizzazione, attuatasi per superiore volontà europea nel 1994, avrebbe dovuto aumentare la concorrenza in questo particolare ramo (il che è vero ed è, infatti, puntualmente avvenuto) e abbassare i prezzi (il che, invece, costituisce un falso clamoroso).

Abbiamo avuto un quarto di secolo di prezzi amministrati – anzi, per meglio dire, imposti – non certo per vezzo intellettuale, ma per calmierare i prezzi. Le tariffe imposte nulla avevano a che fare con il tradizionale controllo di stabilità dell’impresa e di equilibrio del mercato assicurativo, ma costituivano espressione del nostro vetusto sistema di controllo dei prezzi, risalente ai primissimi anni del secondo dopoguerra.

Che i prezzi imposti non fossero sufficientemente remunerativi per le imprese lo avevano dimostrato, a tacer d’altro, le 43 liquidazioni coatte amministrative di imprese autorizzate al ramo r.c. auto verificatesi in quegli stessi anni. E anche ai problemi posti dalle liquidazioni coatte si era cercato di porre riparo con misure tipiche della mentalità giacobina di quegli anni (penso alla SOFIGEA, la finanziaria che le imprese in regolare esercizio avevano dovuto costituire per rilevare e risanare, ove possibile, le compagnie in dissesto; penso alla ripartizione forzosa dei contratti di assicurazione e dei dipendenti delle imprese decotte tra le maggiori compagnie “in

* Direttore del Servizio legale dell’ANIA

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bonis” del mercato, una vera e propria forma di imponibile di mano d’opera che, formalmente almeno, è ancora in vigore ai nostri giorni).

Poi è arrivata la liberalizzazione europea, espressione diretta dei principi che governano questa nostra Europa: fine del controllo pubblico assicurativo di tipo materiale a monte (tariffe e condizioni di polizza approvate o imposte); libertà dei prezzi; concorrenza. Il sistema dei prezzi amministrati dal CIP è caduto non certo per fare un dispetto alle imprese, ma per sancire la fine di modelli dirigistici e di massiccio intervento della mano pubblica in economia.

Un liberale di vecchio stampo come me può anche permettersi il lusso di un sorriso su questa ondata un po’ grossolana di neoliberismo che, nel migliore dei casi, sa tanto di “deja vu”: la tesi secondo cui il mercato e la concorrenza aggiustano tutto per il meglio è vecchia e logora e su di essa già esercitava la sua fine ironia un maestro riconosciuto del liberalismo come Benedetto Croce.

Certo, i sanculotti di casa nostra avrebbero dovuto mostrarsi almeno un po’ prudenti.

E invece, dimentichi delle loro prodezze del passato e con uno zelo degno della Scuola di Chicago hanno cominciato subito a predicare il nuovo verbo (libertà, mercato, concorrenza), dando addosso alle imprese che a tali valori non ispirerebbero il loro comportamento.

Ora, la concorrenza c’è stata, eccome, e su entrambi i versanti possibili del prodotto:

quello giuridico-qualitativo delle condizioni contrattuali e quello economico- quantitativo dei prezzi.

Quanto al primo aspetto, essa ha portato però alla attuale non confrontabilità dei prodotti, alla giungla delle clausole – subito stigmatizzata da politici e consumatori, con buona pace della coerenza – e alla quale si cerca maldestramente di rimediare con normative demagogiche e bizantine sulla pubblicità di taluni profili tariffari di mero riferimento che, se gioveranno ben poco ai consumatori, affogano però le imprese in una pletora di adempimenti burocratici complicati e costosi.

Nessuno considera che una polizza di assicurazione non è come una lavatrice o un

“pacchetto vacanza” offerto da un operatore turistico, beni o servizi per i quali la confrontabilità è pressoché “in re ipsa”, e che la concorrenza a ogni costo può non essere talvolta un toccasana miracoloso per il consumatore.

In Francia lo avevano intuito fin dalla liberalizzazione del 1994 e avevano provato a conservare una clausola “bonus-malus” uniforme per tutto il mercato, proprio per consentire al consumatore di orientarsi nelle sue scelte – a parità di prodotto – in base al prezzo, questo sì rimesso al libero gioco della concorrenza. E il risultato è stato quello di una denuncia alla Corte di giustizia di Lussemburgo per violazione delle

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regole sulla concorrenza, ormai religiosamente entrate a far parte degli “idola mentis”

di questo nostro crepuscolo di civiltà.

Quanto ai prezzi, la varietà degli aumenti percentuali richiesti dalle imprese e le differenze di costo in cifra assoluta a fronte della garanzia assicurativa sono sotto gli occhi di tutti. E sono così marcate che la stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato, condannando a una sanzione pecuniaria inverosimile un certo numero di imprese operanti nel ramo r.c. auto, non ha contestato l’esistenza di un cartello dei prezzi – come si continua a ripetere maliziosamente – ma solo uno scambio di informazioni non consentite. E non è scesa neppure alla verifica degli effetti concreti di questo scambio, che non avrebbe trovato, fermandosi all’accertamento di illiceità del suo oggetto, in contrasto con la tradizionale giurisprudenza comunitaria in materia di scambi di informazioni e forte solo, sul piano formale, dei divieti sanciti al riguardo dal Regolamento CEE n. 3932/1992. Nonostante fosse a tutti manifesto che questi divieti, per un ramo soggetto a una pubblicità totale come quello r.c. auto, risultassero semplicemente ridicoli.

La concorrenza, dunque, c’è stata, solo che essa non ha portato a quell’abbassamento dei prezzi che alcuni, per sprovvedutezza o mala fede, si aspettavano né si è rivelata quella panacea buona per tutti i mali che i veri credenti del mercato ritengono per certo che debba essere.

E questo, a tacer d’altro, per almeno tre ragioni fondamentali e tutte italiane:

l’obbligo per le imprese di assicurazione operanti in Italia – nazionali o estere che siano – di tariffare e assicurare tutti indistintamente i tipi di rischio derivanti dalla circolazione che vengano loro sottoposti, risultando così preclusa ogni forma di specializzazione; la dirompente crisi della legalità, drammatica specialmente in certe aree geografiche del Paese; la crescita dei costi dei risarcimenti, specie in tema di danno alla persona, materia, questa, in cui l’ansia palingenetica di giustizia di alcuni si coniuga in modo perverso con l’ingegnosità pratica dei molti, troppi operatori che si aggirano nel sottobosco che circonda il mondo assicurativo e vive parassitariamente alle sue spalle.

Ma andiamo con ordine, cominciando dalla prima ragione.

L’Italia è l’unico paese europeo in cui gli assicuratori r.c. auto non solo sono obbligati ad accettare tutte le proposte che vengano loro presentate in conformità delle condizioni di contratto e di premio da esse elaborate, ma debbono addirittura predisporre preventivamente condizioni di contratto e di premio per tutti i rischi derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. Non solo obbligo a contrarre rispetto a condizioni liberamente predisposte, dunque, ma obbligo di assicurare tutti i rischi, nessuno escluso, in omaggio a un concetto di mutualità universalistico e solidaristico al massimo grado, che impedisce di specializzarsi nella

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copertura di segmenti particolari di rischio attraverso la creazione e la gestione di specifiche ed omogenee mutualità di settore.

Le conseguenze di ciò in termini di costo del servizio assicurativo sono intuibili e vengono infatti lamentate da quanti – peraltro del tutto incoerentemente – vorrebbero conseguire i vantaggi di più convenienti mutualità omogenee e mantenere le rigidità dell’attuale quadro normativo, demagogico e dirigista.

Non avviene così negli altri Paesi dell’Unione europea, dove il problema di garantire agli automobilisti forme e modi per reperire con certezza sul mercato la necessaria copertura assicurativa è stata lasciata alle capacità di risposta del libero mercato o, al massimo, è stata affidata a un apposito ufficio di tariffazione cui può rivolgersi chi abbia incontrato difficoltà ad assicurarsi ovvero a un semplice obbligo a contrarre rispetto alle condizioni di contratto e di prezzo liberamente predisposte da ciascuna impresa.

Circa la drammatica crisi di legalità nel nostro Paese, c’è veramente poco da aggiungere a quello che quotidianamente veniamo ad apprendere dai mezzi di comunicazione di massa e dalle stesse Istituzioni. Ci sono ormai ampie zone dell’Italia in cui lo Stato non ha più neppure il controllo materiale del territorio. Nello specifico comparto assicurativo non si contano i casi di truffa a danno delle imprese e, quindi, della massa degli assicurati. Non si tratta più solo di truffe individuali – in omaggio al consolidato assioma secondo cui dire bugie all’assicuratore non è peccato – ma anche di vere e proprie organizzazioni criminali che vedono coinvolti i personaggi più diversi e impensabili. In certi Ispettorati sinistri del Sud ci si presenta a reclamare la liquidazione del danno platealmente armati. Napoli, che fu nel ‘700 una delle maggiori e più civili capitali europee, è ridotta, da questo punto di vista, allo stato di una città da Far West.

Non sono stati gli assicuratori italiani, ma la Corte Suprema di Vienna ad affermare – sancendo l’irrisarcibilità di un furto d’auto subito a Napoli da un cittadino austriaco assicurato nel suo Paese – che è fatto ovunque notorio che non si può lasciare parcheggiata una Mercedes nelle strade della città partenopea con la pretesa poi di ritrovarla o, peggio, di farsi risarcire del danno dal proprio assicuratore.

Si dice che le compagnie non sono abbastanza presenti nella fase di liquidazione dei sinistri e che non combattono adeguatamente il fenomeno delle truffe ai loro danni.

Sarà in parte anche vero. Ma se di latitanze vogliamo parlare, allora ve ne sono oggi, in questo Paese, di ben più gravi e condizionanti di quella del settore assicurativo.

Lo Stato potrà, magari, essere centralista o federale, ma se le condizioni essenziali del vivere civile e della legalità non vengono garantite allora non c’è Stato di sorta e nessuno può illudersi che in simili condizioni l’assicurazione possa dare buona prova

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di sé. O che essa possa costituire addirittura un antidoto all’illegalità dilagante, come un legislatore sconsiderato ha mostrato di ritenere decretando, ad esempio, il finanziamento del Fondo nazionale antiracket mediante contributi obbligatori sui premi di assicurazione dei rami danni più diversi.

Infine, i costi dei risarcimenti.

Si dice che il costo dell’assicurazione r.c. auto non deve crescere più dell’inflazione, ma nessuno si degna di spiegarci cosa c’entri l’inflazione col costo di un’assicurazione della responsabilità civile. Si dice che, a differenza delle liberalizzazioni di altri mercati, quella dell’assicurazione r.c. auto non ha portato a un abbassamento dei prezzi, ma nessuno si sofferma a considerare che nelle altre più o meno effettive liberalizzazioni si partiva da una situazione di inveterato monopolio dal lato dell’offerta, mentre nel nostro caso si veniva, come detto, da una realtà venticinquennale di prezzi imposti e quindi calmierati. E via di questo passo ………..

La verità è che il costo di un’assicurazione della responsabilità civile dipende essenzialmente dal livello dei risarcimenti accordati sul terreno della responsabilità aquiliana, un terreno sul quale l’assicuratore non può esercitare in pratica alcun controllo.

Senza scomodare il Trattato di Roma, qualunque persona di modesto buon senso dovrebbe arrivare a capire che non si possono bloccare i prezzi delle spremute di arancia nei bar se si lasciano muovere liberamente i prezzi delle arance nei mercati generali. E questo è, invece, proprio quello che è avvenuto un anno fa, all’epoca del decreto legge di blocco delle tariffe r.c. auto, costato all’Italia lo schiaffo di una denuncia alla Corte di giustizia di Lussemburgo da parte della Commissione europea.

Dalle ovvie e sacrosante proteste degli assicuratori – prima di tutto quelli aventi sede legale negli altri Paesi europei – è nata, dopo molteplici peripezie, la norma di cui ai nuovi commi da 2 a 6 dell’art. 3 della legge n. 39 del 1977, ora introdotti dall’art. 5 della legge n. 57 del 2001, sulla quale mi vorrei adesso brevemente soffermare.

Essa è, in sé, importante perché riconosce nella sostanza che il prezzo dell’assicurazione non costituisce una variabile indipendente del sistema e, con buona pace di don Ferrante, non risente tanto della congiuntura dei corpi celesti – come sarebbero, rispetto ad esso, l’andamento dell’inflazione o gli esiti delle liberalizzazioni intervenute negli altri comparti economici – quanto di cose assai più pedestri, come la frequenza e il costo medio dei sinistri sopportato dall’assicuratore.

Ciò premesso, occorre subito precisare che la disposizione è formulata però in modo estremamente equivoco, venendo a costituire un esempio quasi paradigmatico di quell’offuscamento della visione politica e di quell’imbarbarimento della tecnica legislativa che costituiscono ormai la caratteristica pressoché costante della alluvionale produzione normativa nel nostro Paese.

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Prima di tutto l’incipit, così poco dignitoso per un legislatore che si rispetti (“In attesa di una disciplina organica sul danno biologico ….”), che si rinviene ormai ogniqualvolta la legge osi nominare questa categoria di danno alla persona e che vale come scoperta confessione di impotenza a legiferare organicamente in questa materia.

Qui non c’è spazio per la sconcertante tensione morale di Abacuc (Ab 2,3): ognuno di noi può star certo che quello che tarda non arriverà mai e dedicarsi, così, ad occupazioni più sostanziose.

Il progetto di legge organico c’è da tempo, elaborato da una commissione di studiosi – giuristi, giudici, medici legali – di cui, buon ultimo, ha fatto parte anche chi vi parla: esso ha subito poi alcune lievi modifiche ad opera del Ministero della giustizia ed è stato presentato infine alle Camere dal Governo nella sua collegialità.

Da allora se ne sono naturalmente perse le tracce nei meandri parlamentari ed ora esso decadrà, insieme ad infinite altre chimere legislative, con lo scadere della XIII^

legislatura. E questo – bisogna pur dirlo chiaro e tondo – perché la lobby dei tanti operatori di quello che abbiamo chiamato prima sottobosco assicurativo è assai ben rappresentata fuori e dentro il Parlamento: altro che la “potente lobby degli assicuratori”!……

E poi i contenuti normativi specifici.

Un sistema di valutazione del danno alla salute derivante da lesioni di lieve entità che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe valere – salvo sforzi di interpretazione conformante ai principi costituzionali davvero generosi – solo per i fatti illeciti da circolazione stradale, in palese spregio del principio di uguaglianza e, più in generale, del canone di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico, entrambi garantiti dall’art. 3 della Costituzione.

E solo per i sinistri avvenuti successivamente alla data di entrata in vigore della nuova legge, previsione di per sé non sconvolgente, ma che si spiega, comunque, più con la preoccupazione politica – non fondata, come si vedrà – che i nuovi risarcimenti sarebbero risultati inferiori a quelli correnti che non con esigenze di carattere strettamente giuridico.

Qui, infatti, non mi sembra in discussione il principio generale di irretroattività della legge, almeno quando il fatto illecito sia, sì, intervenuto prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione, ma la liquidazione del danno debba ancora essere effettuata.

Come è noto, infatti, il diritto al risarcimento non nasce liquido ed esigibile, ma tale diviene a seguito di una complessa attività, autonoma rispetto alla valutazione del

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fatto costitutivo del diritto, attività che la nuova norma appare volta, appunto, a disciplinare.

In altre parole, mi sembra che al nostro caso ben avrebbe potuto attagliarsi il principio secondo cui occorre distinguere tra retroattività della norma e sua applicazione immediata a situazioni preesistenti: con la conseguenza che la legge nuova può applicarsi, senza per questo divenire retroattiva, agli effetti non esauriti di un rapporto giuridico sorto anteriormente se, appunto, la legge stessa è diretta a regolare questi effetti e non rimette in discussione il fatto che li generò.

Ma non basta. Ed infatti, dopo aver superato indenne un paio di passaggi difficili (solo perché appiattita sul testo del disegno di legge governativo) la disposizione in esame riserva all’attonito lettore la più rara delle sue perle. Al comma 4 si apprende, infatti, che, fermo quanto sopra previsto (chiaro indice del fatto che non resta fermo un bel niente), il danno biologico viene “ulteriormente risarcito tenuto conto delle condizioni soggettive del danneggiato”.

Qui, francamente, le forze vengono meno. Che significa che, dopo la quantificazione del risarcimento effettuata sulla base del metodo tabellare previsto dal comma 2, il danno biologico viene “ulteriormente risarcito”? E poi, in ogni caso o solo quando il giudice ne ravvisi la necessità avuto riguardo alle circostanze del caso concreto?

Insomma, un unico risarcimento in due tempi, di cui il secondo meramente eventuale, o due risarcimenti distinti a fronte di due autonome poste di danno, sulla falsariga dell’ormai famosa quanto fallace dicotomia concettuale danno evento – danno effetto? Non ci dimentichiamo in proposito che la nostra norma – equivocando in modo sicuramente foriero di altri equivoci – definisce il danno biologico come “la lesione all’integrità psico-fisica della persona” e non come il pregiudizio derivante alla persona dalla lesione dell’integrità psico-fisica! E ancora, perché solo tenuto conto delle “condizioni soggettive del danneggiato” e non di tutte le circostanze – oggettive e soggettive – del caso concreto?

Con ben altra precisione terminologica e consapevolezza dei fenomeni sottostanti il ricordato disegno di legge organico presentato dal Governo – recependo in pieno il magistero della Corte costituzionale: uniformità pecuniaria di base e flessibilità per adeguare il risarcimento alle caratteristiche del caso concreto – prevedeva che, una volta calcolato il risarcimento sulla base dei valori monetari uniformi della tabella, il giudice avrebbe potuto, con specifica motivazione, correggere secondo il suo prudente apprezzamento la determinazione del risarcimento, avendo riguardo a comprovate peculiarità oggettive e soggettive del caso concreto. La correzione avrebbe potuto essere, in via di principio, in aumento o in diminuzione e sarebbe dovuta risultare inoltre contenuta – per non ricadere nell’anarchia dei giudicati – entro una misura non superiore al terzo dell’ammontare derivante dall’applicazione del criterio tabellare.

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Si consideri poi che tutto ciò il disegno di legge governativo prevedeva nel quadro di un sistema in cui, con il metodo tabellare, si sarebbero dovuti liquidare danni fino a 70 punti di invalidità permanente, vale a dire fattispecie anche molto gravi e per le quali aveva indubbiamente senso mantenere il correttivo della valutazione equitativa del giudice.

Mentre il mostriciattolo normativo testé partorito si occupa solo di micropermanenti, per cui c’è anche da chiedersi se fosse veramente ragionevole prevedere per esse

“ulteriori risarcimenti”.

Resta il fatto, comunque, che la norma, nella sua furbesca rozzezza, non sembra riferirsi tanto a eventuali poteri correttivi del giudice, per far salva l’equità, quanto a un vero e proprio risarcimento ulteriore rispetto a quello tabellare, al solo scopo di rimpinguare il livello del ristoro accordato. Esempio preclaro di disciplina di cui neppure può dirsi che costituisce il frutto infelice di una volontà politica compromissoria fra due orientamenti diversi, ma in cui convivono, l’un contro l’atro armato, due orientamenti affatto contraddittori.

Gli assicuratori avevano ovviamente insistito per avere, quanto meno per le micropermanenti, una disciplina che garantisse certezza del diritto e livelli risarcitori – e quindi livelli dei premi – compatibili con le risorse economiche effettive del Paese.

La normativa approvata non viene affatto incontro alle legittime esigenze del settore e questo, unitamente al sorgere di nuove categorie di danno alla persona e ai ripensamenti giurisprudenziali circa il carattere onnicomprensivo del danno biologico, suscita le più allarmate perplessità.

Tra le nuove figure di danno alla persona ha fatto da poco la sua comparsa anche il c.d. danno edonistico. Non credo che questo nome farà molta strada in relazione alla specifica fattispecie dannosa per la quale è stato coniato, troppo dolorosamente stridente risultando il contrasto fra il nome stesso e la realtà che con esso si vorrebbe indicare (la perdita di uno status, per via della morte della persona rispetto alla quale detto status sussisteva: coniuge, figlio ecc.).

Credo però che questo nome andrebbe benissimo se riferito globalmente alla vicenda del danno alla persona nel nostro Paese, quale si è svolta in questi ultimi venti anni e quale tutto fa pensare che continuerà a svolgersi nel prossimo futuro: una grande, meravigliosa festa barocca, così naturale nella sua deliziosa artificiosità. Con un piccolo inconveniente, però: qualcuno, alla fine, il conto della festa dovrà pagarlo e – piaccia o non piaccia – sarà un conto fortemente salato.

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