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Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna (una riflessione sul non-processo di Franz Kafka) - Judicium

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Academic year: 2022

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RUNO

C

APPONI

Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna (una riflessione sul non-processo di Franz Kafka)

SOMMARIO: 1. Il pericoloso momento del risveglio e l’improvvisa malattia del processo.

— 2. Il non-arresto. — 3. Il non-interrogatorio. — 4. Sarà l’imputato a cercare il processo, dopo che il tribunale sarà stato attirato dalle colpe. — 5. L’avvocato Huld e il pittore giudiziario Titorelli: teoria e pratica del non-processo. — 6. Le inaccessibili porte della Legge ed i suoi guardiani ingannatori ed invincibili. — 7.

Attualità di Kafka.

1. — Lo studioso del processo che si accosti (o riaccosti, magari dopo un’acerba e quasi inconsapevole lettura giovanile) al capolavoro di Franz Kafka potrà forse avere l’impressione di essersi incamminato lungo un sentiero per lui congeniale (1). Calunnia, arresto, processo, istanza, memoria, giudice istruttore rappresen- tano termini « tecnici » che sembreranno condurlo per mano verso un’istruttoria e, poi, la celebrazione d’un pubblico dibattimento: del resto, non altro che Il Processo è il titolo del romanzo pubblicato nel 1925 postumo ed incompleto (cfr. particolarmente il capitolo ot- tavo) soltanto per volontà del curatore testamentario Max Brod che, contravvenendo alle ultime disposizioni dell’amico destinato a dive- nire illustre (ma pressoché sconosciuto all’epoca della sua prema- tura morte), scelse di sottrarre il manoscritto alla programmata distruzione. Molti altri manoscritti di Kafka vennero invece distrutti

— riuscendo così scrupolosamente assecondate le sue ultime vo-

(1) L’interesse dei processualisti per l’opera di Kafka e, in particolare, per il Processo non è certo nuovo: cfr. CAVALLONE, Il processo come contagio, in Riv. dir. proc., 2002, p. 581 ss., part. pp. 586-588 (ove l’opera è analizzata nell’àmbito di un discorso più generale su letteratura e processo); La lezione di Titorelli, pittore e giurista (Kafka e la teoria del giudicato), in Riv. dir. proc., 2011, p. 633 ss.

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lontà — oltre che da lui stesso (2), dai nazisti della Gestapo che li rinvennero nell’appartamento dell’ultima delle fuggevoli amiche dello scrittore, un’ebrea berlinese di appena ventidue anni che rispondeva al nome un po’ fantastico di Dora Diamant (o Dymant).

La celebre frase con cui il romanzo ha inizio avverte che

« qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato ». La calunnia rimanda all’incolpazione di chi si conosce innocente, ovvero alla simulazione a suo carico delle tracce d’un reato; si ha dunque a che fare, non c’è dubbio, con un processo penale. Non sorprende quindi che K., sospetto colpevole di un reato che potrebbe essere grave, venga immediatamente arrestato. Dopo di che, per accertare se vi sia stata calunnia o meno, colpevolezza o meno si dovrà celebrare un processo, si dovrà conoscere in modo non sommario. Cose del genere accadono anche ai nostri giorni.

Senonché, nel caso, strana la calunnia ed ancor più strano l’arresto. Né K., né altro personaggio del romanzo, né il lettore del Processo sapranno mai quale sia il reato contestato, e così quale fosse stato l’oggetto di quella calunnia; l’arresto, dal canto suo, non coinciderà con una limitazione della libertà personale perché, come a K. spiegherà nel primo capitolo l’ispettore di polizia alla stregua di cosa del tutto ovvia, « lei è stato arrestato, tutto qui [...] certo che lei è stato arrestato, ma questo non le deve impedire di fare il suo lavoro: nessuna delle sue abitudini dovrà trovare intralci ». Un arresto che non è un arresto (oggi potremmo utilizzare l’abusato aggettivo « virtuale »), coordinato a un’ipotesi di reato che non viene e non verrà mai neppure ufficiosamente formulata, e men che mai formalmente contestata. Un reato, come vedremo, di cui molto si parlerà intorno a K., al punto da rendere il suo nome a tutti noto (« quanto sarebbe bello presentarsi prima, ed essere conosciuti solo dopo! », considererà amaramente K. nella surreale e drammatica scena ambientata nel Duomo: capitolo nove); di certo se ne parla molto più che in quelle sedi istituzionali — se così potremo definirle

— che appunto dovrebbero essere deputate all’accertamento del reato.

(2) Ce lo testimonia l’amico-curatore testamentario Max Brod: « purtroppo Kafka è stato lui stesso il giustiziere di una parte della sua eredità. In casa sua trovai dieci grandi quaderni [...] ma soltanto le copertine, il contenuto era stato distrutto » (Antologia critica, in Il Processo, ed. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2012, p. 18).

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Bastano queste poche battute iniziali per comprendere quale sia la chiave (o una delle possibili chiavi (3)) di lettura del romanzo.

Quello che Kafka chiama Processo è tutt’altro che un procedimento retto da un codice di procedura e diretto da un magistrato dell’or- dine giudiziario. Il Processo è titolo bugiardo, o a tutto concedere allusivo (4).

La vicenda di cui K. è vittima si snoda da un capitolo iniziale dal tono grottesco e surreale, nel quale l’unico pregiudizio concreto che l’indagato subisce è la perdita irreversibile della prima colazione alla quale saranno lieti di far onore i due « intrusi » o « guardiani » che dovrebbero contestargli le sue colpe (ma neanche loro sanno preci- samente di cosa si tratti, e forse per questo non hanno neppure un atteggiamento troppo aggressivo); sino al capitolo finale, il decimo

— ma tra l’ottavo e il nono c’è un chiaro iato —, nel quale s’è ormai perso qualsiasi possibile connotato farsesco e lieve, qualsiasi possi- bile deviazione da Vaudeville. Tutto lo spazio narrativo viene occu-

(3) La pluralità dei piani di lettura delle opere di Kafka e, in particolare, del Processo è dato pacificamente acquisito dalla letteratura: v. almeno, anche per riferi- menti, CALASSO, K., Milano, 2005; CITATI, Kafka, Milano, 2007 (prima ed. 1987);

DAVID, Franz Kafka, Paris, 1989, trad. it. di Morteo, Torino, 1992.

(4) Secondo CAVALLONE, La lezione di Titorelli, cit., p. 637, il testo di Kafka andrebbe interpretato presupponendo « una differenza tra processo e condanna (dal punto di vista dell’accusato) [...] nel senso che gli effetti della seconda consistono nel rendere irreversibili quelli del primo ». Quindi al momento del non-arresto, che è quanto dire all’inizio della vicenda, la condanna ci sarebbe già stata (o, se si preferisce, K. l’avrebbe già introiettata), e di ciò si mostra consapevole lo zio di campagna laddove, con intuitiva saggezza, afferma: « avere un processo come questo vuol dire averlo già perduto », forse col significato per cui « il procedimento è già in sé la condanna » (CALASSO, K., cit., p. 17). Non saprei, però, dire come questa lettura — una delle tante possibili — possa giustificarsi alla luce della frase rivelatrice del predicatore nel Duomo, che lo stesso Cavallone ricorda, secondo cui « la sentenza non viene ad un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza », né con la tensione di K. verso l’assoluzione piena (tensione che infatti gli fa escludere le soluzioni alternative dell’assoluzione provvisoria e del rinvio); provvedimento per il quale, secondo Cavallone, vi sarebbe un difetto assoluto di giurisdizione (l’espressione è nostra) perché « in un sistema dove il processo esiste solo se è l’accusato a volerlo, il suo proscioglimento completo e definitivo presuppone il venir meno del suo senso di colpa, e quindi la eliminazione del processo con effetti ex tunc [...] la sentenza di “vera” assoluzione [...] è semplicemente la constatazione che il processo non c’è, e non è mai esistito » (op. cit., p. 634). L’assoluzione vera, insomma, è soltanto quella che l’imputato elabora dentro se stesso (così come dentro se stesso sono condanna e processo), e un’eventuale decisione — sia essa di merito o di rito ovvero, come sembra ragionevole ritenere, né dell’un tipo né dell’altro — sarebbe così un « atto superfluo » (op. cit., p. 634).

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pato da una realtà che lentamente quanto inesorabilmente soprav- viene, livida e angosciante: che culmina col barbaro omicidio compiuto a notte appena iniziata nel teatro di una cava — una tipica ambientazione da criminalità organizzata, potremmo dire con l’esperienza triste della nostra cronaca — ove il cuore di K. verrà trafitto e « rigirato due volte », a sangue freddo, con « un coltellaccio lungo, sottile, a due tagli », un volgare strumento da salumaio. Non una motivazione, nessun riferimento ad una sentenza. L’ultima battuta di K. sarà soltanto di vergogna: « come un cane! », ben sapendo che si tratta di vergogna destinata a sopravvivergli. Tra il primo e il decimo capitolo (i primi e forse i soli ad aver attinto una stesura definitiva), che rappresentano rispettivamente il polo della commedia e quello della tragedia, si dipana dolorosamente Il Pro- cesso: vera via crucis che K. affronterà dapprima con baldanza, poi con smarrito sospetto fino alla più completa e debellata rassegna- zione. Se non venisse assassinato, infatti, si darebbe lui stesso la morte; ed anzi l’ultima sua vergogna è proprio nel non aver avuto il coraggio, o l’occasione, di trafiggersi da solo con quella sottile lama da assassini.

Più che ad un procedimento rituale che si svolge per successive udienze, assistiamo ad un drammatico percorso interiore segnato da stati d’animo sempre più opachi e rarefatti: un processo che non ha un capo, perché non si conoscerà mai l’accusa che lo muove, e di cui l’imputato temerà costantemente il sopravvenire della coda — è l’avvocato Huld ad affermare, parlando col cliente-cane Bloch:

« devi aver letto da qualche parte che in molti casi la sentenza finale arriva all’improvviso, per bocca di uno qualsiasi, in un momento qualunque » — fin quando non sarà un improbabile predicatore che declama dal pulpito d’un buio Duomo deserto a svelargli: « tu fraintendi la situazione, la sentenza non viene ad un tratto, è il processo che a poco a poco si trasforma in sentenza » (5).

K. capirà nello stesso modo — poco a poco — che lui stesso è divenuto parte del processo, che è il processo ad essersi impadronito

(5) Questa affermazione ci richiama alla mente il fenomeno del giudicato interno col suo progressivo esaurimento della lite attraverso il passaggio dei gradi del giudizio, che sempre è richiamato dalla Cassazione quale manifestazione del principio di econo- mia processuale: v., da ultimo, Cass., sez.un., 19 giugno 2012, n. 10027.

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di lui, a contagiarlo (6) privandolo di qualsiasi dignità (7). Il pro- cesso è la perdita di fiducia, l’abbandono di qualsiasi speranza, il consegnarsi senza più combattere a chi, in silenzio, ti farà la pelle.

Uno dei più autorevoli traduttori di Kafka, Primo Levi (8), ha scritto che la lettura del romanzo « lascia mutati: più tristi e più consapevoli di prima [...] tradurre è più che leggere: da questa traduzione sono uscito come da una malattia ». E la malattia (9), che Levi dichiara di aver contratto da Kafka, viene appunto dalla cognizione del Pro- cesso, che ora dobbiamo esaminare più da vicino.

2. — Sarà appunto stata una calunnia; sta di fatto che, nella prima mattina del suo trentesimo compleanno, Josef K. viene arre- stato nella stanza che occupa all’interno del dignitoso pensionato gestito dalla signora Grubach (capitolo primo). Il luogo non viene precisato, ma sappiamo che Kafka lasciò la città di Praga, in cui era nato il 3 luglio 1883, soltanto in rarissime occasioni, spesso soltanto per ricoverarsi in sanatori (morì infatti il 3 giugno 1924 in quello di Kierling, in Austria). All’inizio sembra trattarsi di un vero e proprio arresto: « Lei non se ne può andare: lei è in arresto », gli intima la guardia di nome Franz, che si accompagna — vanno infatti sempre

(6) V. ancora CAVALLONE, Il processo come contagio, cit., p. 589, ove la conside- razione (riferita non soltanto all’opera di Kafka): « forse il virus del processo è un ceppo unitario, dal quale però traggono origine specie diverse a seconda dei climi sociali e culturali ».

(7) Di qui le lezioni « psicologiche », anche da Cavallone abbracciate (Il processo come contagio, cit., p. 586: « il Tribunale K. lo ha interiorizzato, metabolizzato, se lo porta dentro ovunque vada »), e che portano ad affermare: « il processo esiste solo per chi lo vuole, ovverosia è indotto a volerlo da un senso di colpa » (La lezione di Titorelli, cit., p. 634). Il peccato di K. è « l’atroce senso di colpa che per tutta la vita torturò Franz Kafka » (CITATI, Kafka, cit., p. 162).

(8) Einaudi, 1983. Ci sono state ovviamente altre traduzioni (rammentiamo quella di Raja per Feltrinelli, Milano, 1995, e quella di Busco per la già citata edizione Baldini Castoldi Dalai del 2012; precedenti traduzioni sono ricordate da CAVALLONE, La lezione di Titorelli, cit., pp. 635-636), ed è bene precisare che le citazioni riportate nel nostro testo sono state tratte dalla traduzione di Levi. Sull’apparente semplicità della traduzione di Kafka v. CAPRIOLO, Traducendo Il castello, in Il castello, Torino, 2002:

« Kafka si serve di un lessico quotidiano e non costruisce mai quei periodi complessi, irti di subordinate, di cui spesso si compiacciono gli scrittori di lingua tedesca [...]

ma proprio per la sua estrema semplicità, la sintassi di Kafka può risultare faticosa [...] la traduzione letterale di una pagina di Kafka rischia di produrre un testo sciatto e legnoso, del tutto privo di fascino » (Introduzione, IV).

(9) Cfr. ancora CAVALLONE, Il processo come contagio, cit.

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in coppia — con quello che sapremo chiamarsi Willem (anche se i due tra di loro non si chiamano mai, se non una sola volta: « hai visto, Willem? Ammette di non conoscere la legge, e insieme dice che è innocente »). Il motivo preciso « non siamo autorizzati a dirglielo [...] il procedimento è solo agli inizi, lei saprà tutto a tempo debito » (10). Franz e Willem, come fosse la cosa più naturale di questo mondo, consumano la colazione di K. dinanzi ai suoi attoniti occhi (11) e poi gli spiegano che presto sarà privato dei vestiti e della biancheria, che andranno consegnati ad un pubblico deposito o, preferibilmente, a loro stessi. Il loro compito è « farle la guardia dieci ore al giorno » (cosa mai potrà succedere in quelle restanti?), questo e non altro essendo il regime dell’arresto: che deve sempre presumersi legittimo, perché le autorità inquirenti « vengono at- tratte dalle colpe: è così che dice la legge ». È l’arresto a giustificare l’esistenza di una colpa, mai il contrario.

Improvvisamente, le guardie annunciano che l’ispettore, titolare dell’indagine e il cui nome non sarà mai reso noto, sta già aspettando l’indagato nella stanza di un’altra pensionante, la signorina Bürst- ner, avendola già camuffata in sala d’udienza: il tavolino da notte in mezzo (« tavolo di udienza », appunto); fiammiferi, puntaspilli e un libro, che già stavano sul tavolino, quali oggetti « essenziali ai fini del dibattito ». L’ispettore, che manipola quegli oggetti con mania- cale cura come fossero i più preziosi strumenti del suo delicatissimo mestiere, ha in realtà tutti i poteri di un giudice, perché revoca la misura dell’arresto in camera trasformandola in qualcosa di molto più lieve: una sorta di arresto « a piede libero », o « non apparente ».

Non senza aver premesso, riferendosi alle guardie, che « questi signori ed io abbiamo pochissimo a che vedere con la sua faccenda, anzi non ne sappiamo quasi niente [...] non le posso neppure dire che lei è sotto accusa; [...] Lei è in arresto, su questo non c’è dubbio [...] le posso dare un consiglio: non pensi tanto a noi e a quello che

(10) Questa rassicurazione non è altro che una consapevole bugia, perché tutte le emanazioni del tribunale « hanno una fortissima predilezione per tutto ciò che è menzogna, falsità, inganno, teatro », fino ai due boia del capitolo finale, che sembrano usciti, coi loro cilindri, da « un volgare avanspettacolo » (così CITATI, Kafka, cit., p. 155).

(11) « La visione delle due guardie che divorano la sua prima colazione sottin- tende che la sua condanna a morte sia stata notificata. E che notificazione ed esecuzione tendano a coincidere. La prima colazione che le guardie stanno mangiando è già la prima colazione di un morto »: CALASSO, K., cit., p. 231.

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le capiterà, pensi piuttosto a se stesso ». Alle ferme rimostranze di K., che in questa fase iniziale è ancora nel pieno vigore di tutte le sue forze, chiarisce quale sia stato il suo ruolo e, in conseguenza, quale dovrà essere quello dell’imputato: « Lei è stato arrestato, tutto qui.

Glielo dovevo comunicare, l’ho fatto, e ho anche visto come lei ha reagito. Per oggi basta questo e ci possiamo separare, almeno per un certo tempo ». Ne deduciamo che dev’essere stato il buon compor- tamento dell’indagato K., persona del resto ottimamente educata, a consentire la trasformazione in melius dell’arresto iniziale (« Lei non se ne può andare »): per permettere all’indagato di fare il suo lavoro e mantenere tutte le sue abitudini, esattamente come se nulla fosse. Senza creargli troppi disturbi.

Un arresto, insomma, che arresto non è; ed infatti K. si reca, sia pure con ritardo, al suo posto di lavoro di primo procuratore di un’importante banca. Quando a sera rientrerà al pensionato, la signora Grubach gli dirà, per tenerlo tranquillo e forse anche per tranquillizzare se stessa: « Cosa mai ci tocca di vedere a questo mondo! [...] Lei è in arresto, sì, ma non in arresto come un ladro.

Quando uno viene arrestato alla maniera dei ladri, allora sì che è brutto, ma nel suo caso [...] ecco, il suo caso mi sembra una di quelle cose da gente istruita ». Diremmo oggi: non un volgare criminale da strada, ma un colletto bianco che delinque in modo culturalmente qualificato, sine strepitu per la gente comune.

Si tratta, però, pur sempre d’un delinquente. E anche la Gru- bach inizia a pensarlo.

3. — Sino a questo punto del romanzo il grottesco, il surreale, la meraviglia combinatoria danno al discorso un tono quasi lieve, che potrebbe facilmente evolvere in commedia; si dice che Kafka amasse leggere il primo capitolo del Processo a conoscenti e amici, divertendosi un mondo e provocando in loro le risate più frago- rose (12).

L’inizio del capitolo secondo ci informa che K. viene avvertito per telefono — il nostro ordinamento si sarebbe adeguato a questa forma di notificazione, com’è noto, solo a distanza di molto tempo

(12) BARILLI, Comicità di Kafka. Un’interpretazione sulle tracce del pensiero freudiano, Milano, 1999.

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— che la domenica successiva avrebbe avuto luogo « un piccolo interrogatorio » in un edificio della Juliusstrasse. Ne sarebbero poi seguiti altri, sempre di tipo piuttosto veloce. Il tribunale, anzi « la casa », si trova in « una strada sperduta di periferia, un luogo in cui K. non era mai stato », e non gli viene fornito né il numero civico, né l’orario dell’udienza. K. decide comunque di presentarsi alle nove del mattino, ben sapendo essere quello l’orario in cui i tribunali aprono i loro battenti nei giorni feriali.

Dopo una ricerca piuttosto affannosa, che gli prende molto più tempo del previsto nonostante « il tribunale sia attratto dalle colpe », K. viene alfine introdotto, dalla moglie del portinaio, nel- l’aula in cui lo attende il giudice istruttore: si tratta di una stanza modesta (« camera a due finestre, di media grandezza, cinta da una galleria schiacciata sul soffitto »), stracolma di gente malvestita e vociante, ove si respira un’aria mefitica in un clima da stadio, o da circo: una sorta di Colosseo mitteleuropeo. K. ha l’impressione « di entrare in un’assemblea » (potrebbe quindi tranquillamente trat- tarsi di un’aula parlamentare), perché due gruppi sembrano fron- teggiarsi nella platea, come fossero fazioni contrapposte, mentre nella galleria le persone risultano pigiate contro il soffitto, al punto che « parecchi si erano portati dietro dei cuscini e li tenevano fra il capo e il soffitto per non farsi male ». Sembra di intravedere sullo sfondo le tavole di Daumier, Grosz e Bosch. K., inizialmente « re- spinto dal tanfo », si decide ad entrare piucchealtro per osservare.

La novità e la stranezza della situazione lo incuriosiscono. Si sente ancora sostanzialmente estraneo a quella buffa rappresentazione di ciò che dovrebbe essere un processo, il cui reale significato continua ancora a sfuggirgli.

Il giudice istruttore, seduto al centro della sala su una malferma pedana, dapprima gli contesta l’ora e passa di ritardo (sull’orario che non gli era mai stato comunicato), poi gli dice di non essere più in obbligo di raccogliere l’interrogatorio (come fosse stato richiesto da K.), ma che lo avrebbe comunque fatto « in via del tutto ecce- zionale » e sempre che il ritardo non si fosse mai più ripetuto.

Presupposto è infatti che quella fosse la prima di una serie continua di udienze, com’è appunto proprio di un processo. Consultando un lurido blocchetto per appunti, unico oggetto presente sul suo tavolo (e che tiene quindi il luogo del fascicolo processuale), per introdurre l’esame gli chiede: « Dunque lei è imbianchino? ».

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La reazione di K. è veemente: protesta, si indigna, strappa il quadernetto dalle mani del giudice e lo ributta sul tavolo dopo averlo fatto penzolare « come se ne avesse ribrezzo », mostra al pubblico tutto il ridicolo della situazione perorando la sua assoluta innocenza, si attira qualche applauso da vero protagonista della scena, si rincuora al punto che, addirittura, dà un pugno sul tavolo spaventando il giudice che s’era prontamente estraniato dalla situa- zione. Però, dinanzi al quel « sedicente tribunale », si lascia sfuggire una frase che diverrà la spiegazione del suo ruolo nel processo: « che non è un processo, perché lo diventerà soltanto quando io lo riconoscerò come tale » (13). E nel momento in cui si avvede che quelli del pubblico hanno tutti, appuntato sul risvolto della giacca, lo stesso distintivo che esibisce il giudice istruttore, ne deduce trattarsi di una « banda corrotta », coi cui traffici ignobili egli assolutamente non vuole essere immischiato. Nel silenzio generale, prende cappello e si avvia verso l’uscita; ma viene fermato dal giudice istruttore il quale, con molta tranquillità, si limita a comu- nicargli: « volevo solo farle presente che oggi lei, forse non se n’è ancora reso conto, si è privato del vantaggio che l’interrogatorio rappresenta per l’arrestato ». « Farabutti, teneteli per voi i vostri interrogatori », è la replica sdegnata con cui K. abbandona la sala d’udienza.

Sino a questo passaggio della vicenda, K. sarebbe forse ancora libero di giudicarsene perfettamente estraneo: nessun atto gli è stato notificato; nessuna vera restrizione è stata comminata; nessuna accusa è stata formulata; quando, dinanzi all’ispettore (dinanzi al giudice istruttore il problema non verrà neanche sollevato), ha parlato della possibilità di telefonare al suo avvocato, il procuratore Hasterer, quello non gli ha detto certo di no, anzi, ma ha ribattuto

(13) Con un qualche fondamento CAVALLONE, Il processo come contagio, cit., pp.

586-587, osserva che K. dà l’impressione di potersi liberare dal processo semplicemente rigettandolo con un gesto di volizione psicologica; ciononostante, « l’infezione procede inesorabile » come fosse una « sindrome ossessiva » della quale si muore prescindendo da quella che sarà la conclusione del processo stesso. « Il pensiero del processo non l’abbandona più », si dice all’inizio del settimo capitolo, ed è questa la vera malattia « epidemica » (op. cit., p. 588). Secondo CITATI, Kafka, cit., p. 168, K. « come l’ultimo carcerato, vive soltanto nella dimensione del processo, incapace di cancellare dalla mente il pensiero di quella mattina — gli sconosciuti nella sua stanza, l’aggressione nella sua casa —: mentre, se sapesse dimenticare, le guardie, i giudici e le gerarchie del Tribunale tornerebbero forse nel vuoto dal quale sono usciti ».

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quasi ingenuamente: « non so proprio che senso possa avere: a meno che lei non gli debba parlare di qualche sua questione privata » (quella dell’arresto non lo è abbastanza); il giudice istruttore, che, come se dovesse già dibattersi la causa, lo ha ricevuto in pubblica udienza in una maleodorante casa di periferia, lo ha addirittura confuso con un altro. Il secondo capitolo del libro, grottescamente intitolato Primo interrogatorio, tutto descrive salvo che un interro- gatorio condotto da un giudice istruttore; non c’è un vero fascicolo processuale, ma un brogliaccio che ha « tutta l’aria di un vecchio quaderno di scuola, sgualcito per il lungo uso »; il giudice istruttore, si scoprirà nel terzo capitolo, non consulta codici, avendo a sua disposizione un primo libro introdotto da « un’illustrazione sconve- niente: un uomo e una donna nudi seduti su un divano », e un secondo libro dall’eloquente titolo Le pene che Grete ebbe a patire da suo marito Hans (del resto, non dobbiamo dimenticare che l’ispettore aveva già utilizzato fiammiferi, puntaspilli e un livre de chevet di argomento ignoto); al termine dell’udienza, K. se ne va indignato e nessuno lo trattiene; né gli viene chiesto di presentarsi ad una successiva udienza. La macchina sembra non essersi ancora messa in moto.

4. — Ma, come K. mostra di aver già capito, il processo non inizia con l’arresto, né con una formale contestazione che del resto non c’è né ci sarà, e neppure inizia col primo atto istruttorio che in effetti non c’è stato (né ce ne saranno altri); inizia soltanto quando l’imputato riconosca il processo come tale, comportandosi lui per primo di conseguenza. È l’imputato a fare il processo.

Soltanto questo spiega perché, la domenica successiva, K. si presenta spontaneamente nella stessa « sala delle udienze » (il ter- mine tribunale viene attentamente evitato) per poter continuare il suo interrogatorio. Ma la sala è vuota e K. trova nell’anticamera solo la moglie del custode (14), davanti alla quale egli mantiene il suo

(14) Si tratta di una donna, come le tante altre che K. incrocia nel suo percorso, che si iscrive nel lunghissimo « corteo di custodi-prostitute e serve-prostitute, che offrono a ognuno le loro grazie infantili e indecenti, confortano e insidiano, insieme spie e complici degli accusati » (CITATI, Kafka, cit., p. 160). Lo stambugio di Titorelli è assediato da torme di ragazzine corrotte, mentre « il bordo del letto è la soglia di un altro mondo » (CALASSO, K., cit., p. 262).

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atteggiamento di superiorità e distacco: « dell’esito del processo non mi importa niente, e una condanna mi farebbe solo ridere [...] ho l’impressione che il procedimento sia già stato interrotto, o lo sarà tra breve ». Ma la donna, evidentemente prendendo la situazione molto più sul serio, si offre di aiutarlo sia pure con ambigui discorsi;

senonché viene letteralmente rapita da uno studente di giurispru- denza, che verosimilmente fa la sua pratica legale in quella oscena sala, il quale se la trascina su per una scala verso la soffitta dove con ogni probabilità l’attende il giudice istruttore che, come del resto lo studente, le fa da tempo una corte serrata: è lei, del resto, la più bella della casa, e ne è perfettamente consapevole (fa infatti la smorfiosa anche con K.). Interviene quindi il marito, che offre a K. la possi- bilità di visitare gli uffici delle segreterie.

Visto lo stato dell’aula di udienza, possiamo ben immaginarci quello delle segreterie, sistemate nei bassi solai. In lunghi corridoi privi di luce, su due file di lunghe panche, gli imputati, anche di domenica, stazionano pazientemente in attesa. Sembrano tutti ine- betiti, non riescono a scuotersi, forse non sanno loro stessi con precisione perché restano lì anche nel giorno di festa (15). Non sperano nulla. Ad uno di essi K. domanda cosa stia facendo e quello, dopo essersi a lungo concentrato, riesce a rispondere: « un mese fa avevo fatto alcune richieste di testimonianze per la mia causa, e sto aspettando che siano accolte ». K. sembra preoccuparsi, lui non ha chiesto infatti nessuna testimonianza, e del resto non saprebbe neppure su quali circostanze chiederla. Ma l’altro non gli conferma neppure l’utilità della sua istanza; l’ha fatta, e tanto gli basta; l’ha fatta tanto per farla; è lì che attende, senza neanche agitarsi troppo;

la sua voce esprime « solo paura, non convinzione ».

K. inizia a star male, gli manca l’aria, l’ambiente delle segreterie lo sta poco a poco soffocando. Un impiegato lo rassicura: « non si preoccupi, non c’è niente di strano, è un incidente che qui capita

(15) CAVALLONE, Il processo come contagio, cit., p. 389, riferendo di questa sorta di zombies malvestiti e trascurati che stazionano o vagano senza costrutto nelle segre- terie, ne parla come di « ammalati angosciati », tra i quali circolano « diagnosi e prognosi superstiziose » circa il possibile esito dei rispettivi processi. CITATI, Kafka, cit., p. 163, come di « mendicanti o cani che leccano le mani dei loro aguzzini ». CALASSO, K., cit., p.

248, ne dà una lettura sociologica: « è nella borghesia, in questa classe metamorfica che vuole e sa sostituirsi a tutto, imitare l’aristocrazia e intridere il proletariato, che la colpa cresce rigogliosa ».

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quasi a tutti, la prima volta che ci vengono ». Un altro conferma: « il signore si sente male, ma solo qui dentro, non così in generale ». È quindi una specie di malattia professionale, precisamente localiz- zata, roba da non preoccuparsi. Gli viene presentato uno strano tipo, che chiamano l’informatore: « è lui che dà alle parti in causa, che aspettano qui, tutte le informazioni che gli servono; e gliene servono tante, perché sul nostro tribunale la gente ha idee molto vaghe. Lui sa rispondere a tutte le domande ». La trovata fa certa- mente sorridere: è una specie di addetto dal tribunale ai rapporti con la clientela, un curioso Ombudsman della soffitta.

È forse nelle segreterie che K. mostra di aver contratto defini- tivamente il morbo del Processo. È nelle segreterie che apprende ciò che nessuno gli ha ancora detto chiaramente: quello che lo sta indagando, se davvero lo sta facendo, è sì un tribunale (il termine viene all’inizio pudicamente eluso), ma di tipo particolare, e di cui la gente sa davvero troppo poco. Serve quindi un informatore che sia anche un campione di eleganza, « in modo che la prima impressione sia decorosa »; non deve sorprendere se i suoi bei vestiti vengano acquistati dagli impiegati delle segreterie con una colletta cui anche le parti private contribuiscono, dal canto loro. L’informatore è la faccia presentabile del tribunale, è lì per aiutare; ma ciò non toglie che le parti lo temono, e lo evitano per quanto cerchino di imbel- lettarlo.

K. sta sempre peggio, quasi perde i sensi; riprende vigore solo dinanzi alla porta d’uscita, e si dice che in futuro « avrebbe passato le mattine della domenica in modo migliore ».

Egli però è ormai parte dell’ingranaggio; e sta a dimostrarlo proprio il fatto che, dopo il primo interrogatorio, che interrogatorio non è stato, non è il processo a cercare lui, bensì il contrario. Anzi, possiamo affermare (e ce lo dirà chiaramente il predicatore del Duomo deserto) che il processo non lo cercherà mai più, perché quella che avrebbe dovuto essere la prima di tante udienze « forse non tutte le settimane, ma comunque a brevi intervalli » rimarrà il suo unico contatto col « sedicente tribunale ». L’impressione è che quel primo contatto abbia avuto la funzione di iniettargli il morbo (16); poi, la malattia avrebbe fatto da sola tutto il suo infelicissimo decorso.

(16) CAVALLONE, Il processo come contagio, cit., p. 588, individua come seconda possibile occasione infestante il contatto (che è anche sessuale) con l’infermiera-

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5. — La fantasia visionaria di Kakfa ci porta, nei capitoli successivi, a fare la conoscenza di due individui diversissimi, uno più curioso dell’altro, che entrambi dovrebbero venire in soccorso dell’imputato: l’avvocato Huld e il pittore giudiziario Titorelli.

Nell’abitazione del primo, K. viene condotto da un preoccupa- tissimo zio di campagna che era stato suo tutore e che, come tutti ormai, ben sapeva del « serio processo » intentato contro il giovane nipote. K. non è convintissimo della bontà della scelta di difendersi, e mette in guardia il suo sollecito parente: « guarda che questo processo non si svolge davanti al tribunale ordinario [...] non è con l’agitazione che si vincono i processi ». E quando lo zio gli parla con entusiasmo del suo vecchio amico avvocato Huld (eroicamente definito « avvocato dei poveri », sebbene K. povero non sia affatto), lo stesso K. ribatte: « non sapevo che per una causa come questa si potesse anche ricorrere a un avvocato ». La verità è che K. ha compreso, intimamente, che il suo non è un processo comune, che non valgono le regole comuni; sebbene ancora non abbia capito se sia possibile, o comunque utile difendersi. Ma lo zio è incontenibile, e lo trascina quasi a viva forza a casa dell’avvocato; il quale si fa trovare a letto, per un grave disturbo cardiaco che lo perseguita da tempo, ma che stavolta è « più brutto che mai ».

Ciò non gli impedisce, tuttavia, di accettare la difesa di K. che, dal canto suo, non aveva trovato del tutto sgradito quell’impedi- mento imprevisto essendo scarsamente persuaso dell’utilità di un difensore, per quanto esperto e qualificato. Ovviamente Huld, fre- quentando l’ambiente giudiziario — ma K. non a torto penserà:

costui « lavora al tribunale del Palazzo di Giustizia, e non a quello del solaio » — è già perfettamente al corrente del processo, che anzi definisce, di quelli recenti, tra i più « clamorosi ». Quello contro K.

è un processo molto serio. Il suo consiglio sarà di affidarsi alle relazioni personali, intrecciate pazientemente dallo stesso avvocato negli anni, ed anzi, combinazione, verrà assai comodo il fatto che sia presente del tutto casualmente, al suo capezzale, il signor segretario

segretaria dell’avvocato Huld (in italiano: Grazia), l’intraprendente signorina Leni, che nel mostrare a K. la mano palmata, chiaro stigma diabolico (« prostituta sacra [...]

sirena, grande allettatrice »: così CITATI, Kafka, cit., pp. 171-172), rivendica: « ora sei mio », e lo trascina giù sul tappeto.

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capo (17), uomo molto influente nel tribunale e che si sarebbe preoccupato personalmente della faccenda. È peraltro la cameriera- infermiera dell’avvocato, l’intraprendente signorina Leni, ad essere più esplicita, prendendo in disparte K.: « lei non è abbastanza arrendevole, a quanto mi hanno detto [...] corregga il suo errore, non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna confessare. Faccia la sua confessione, appena può.

Solo dopo se la potrà cavare, solo dopo ». A K. non possono non venire in mente le parole del giudice istruttore — le uniche che quel tanghero gli avesse indirizzato — circa la perdita di un’occasione favorevole, e del fatto che l’interrogatorio che non era stato con- dotto a causa della reazione sdegnata dell’imputato. Se K. avesse confessato in quel frangente, ora sarebbe stato all’evidenza un gran bel pezzo avanti.

Le spiegazioni dell’avvocato Huld sull’andamento dei processi, e di quello in particolare, sono terribilmente confuse. Premette che

« la prima istanza era già quasi pronta ed era importantissima, perché spesso è la prima impressione lasciata dalla difesa quella che determina l’andamento di tutto il processo »; ma sùbito dopo si lascia sfuggire che « molte volte le prime istanze al tribunale non venivano neanche lette [...] l’osservazione e l’interrogatorio dell’im- putato erano più importanti di qualsiasi scartoffia ». Va inoltre considerato che il procedimento non è pubblico; le carte non sono accessibili, né all’imputato e tantomeno al difensore; in genere non si conosce — ed il caso di K. ne è chiara riprova — contro quali accuse debba essere indirizzata la prima istanza, pur così determi- nante; ma, per converso, le difese più efficaci sono in realtà quelle successive alla prima, allorché « il procedere degli interrogatori dell’imputato abbia potuto far emergere più chiaramente i singoli capi di accusa e la loro motivazione, o abbia permesso di indovi- narli »; la difesa tecnica non è permessa, ma soltanto tollerata;

addirittura « non esistono avvocati riconosciuti dal tribunale: tutti quelli che si presentano come avvocati davanti a questo tribunale non sono in sostanza che mestieranti »; in questo contesto così ostile, in un processo « non soltanto segreto per il pubblico, ma

(17) E cioè, secondo la ricordata traduzione di Busco, « il signor direttore delle cancellerie », persona quindi oltremodo importante per chiunque abbia a che fare col processo (Il processo, Baldini Castoldi Dalai, cit., p. 128).

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anche per l’accusato stesso », l’unica possibile soluzione è data dalle

« relazioni personali dell’avvocato, che sono essenziali: la validità della difesa sta tutta qui », e forse solo uno o due altri avvocati sulla piazza potevano vantare le stesse relazioni personali di Huld.

Gli avvocati — spiegherà nell’ottavo capitolo un malmesso cliente dell’avvocato Huld, il commerciante Bloch, ridotto ad una specie di larva o animale domestico, totalmente sottomesso anche a Leni, che sopravvive nell’abitazione dello stesso Huld — non sono tutti uguali: ci sono i mestieranti, i piccoli e i grandi avvocati; di questi ultimi si sente solo parlare, perché « appartengono a una categoria che sovrasta i piccoli avvocati in misura incomparabil- mente maggiore di quanto questi sovrastino i tanto disprezzati mestieranti ». I grandi avvocati? « Non c’è imputato che, avendone appreso l’esistenza, non sogni di loro per giorni [...] ma si interes- sano solo alle cause che hanno già superato il livello di prima istanza [...] purtroppo non si riesce a dimenticarli del tutto, è un pensiero che ritorna, specialmente di notte ».

Segue, da parte di Huld, una descrizione estremamente detta- gliata, e al tempo stesso opaca, dei numerosissimi problemi che possono insorgere all’interno di un processo nel rapporto tra i funzionari, tra questi e le parti, tra le corti gerarchicamente ordinate, tra tutti costoro e l’avvocato, tra l’avvocato e il cliente e così via: al punto da poter far entrare il procedimento « in una fase in cui nessun aiuto è più consentito, in cui esso passa nelle mani di corti non più accessibili, in cui perfino l’imputato non può più essere raggiunto dall’avvocato »; K. si ritrova « stanco di parole fino alla nausea ». E per sovrapprezzo, gli viene anche rimproverato di essersi rivolto all’avvocato troppo tardi, quando ormai, in sede di primo interrogatorio, la frittata era già stata fatta.

Ma intanto della prima istanza, importante o meno che potesse essere, non si vede neanche l’ombra. L’avvocato somministra, dal suo letto apparentemente dolente, soltanto chiacchiere, avverti- menti, fole, panzane, inutili raccomandazioni frammiste a perle di saggezza forense: è del tutto logico che gli avvocati « siano recisa- mente contrari a introdurre o imporre qualsiasi miglioria nella procedura, mentre quasi tutti gli imputati, anche gente assai sprov- veduta, non appena ha inizio il loro processo cominciano sùbito a pensare a proposte di perfezionamento, sprecando tempo ed energie che ben potrebbero essere meglio impiegate [...] La sola via giusta

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era quella di adattarsi alla situazione esistente ». Nel corso d’un altro incontro, alla presenza di un sempre più afflitto e scoraggiato Bloch, Huld spiega a K. che tutto è controvertibile, su tutto si può discutere all’infinito, l’adulazione di un piccolo funzionario può a volte valere più della migliore prima istanza, l’avvocato deve avere il coraggio e la pazienza di caricarsi sulle spalle il cliente, « e senza più deporlo portarlo fino alla sentenza ed oltre », e al tempo stesso tentare di dialogare col giudice, o con più giudici, in un contesto in cui nulla è certo, nulla è prevedibile, non sai mai se è il processo che ti segue o sei tu ad andare dietro a lui, non ci sono termini di riferimento:

addirittura sul punto fondamentale che il processo ci sia o no, ci sia ancora o no. Sai, dice ad un tratto Huld, « intorno al dibattito le diverse opinioni si accavallano fino all’impenetrabilità ». Ci sono varie dottrine sull’inizio stesso del processo: « è antica consuetudine che a un determinato punto del processo si dia uno squillo di campana »; secondo certi commentatori ciò dà inizio al processo, invece secondo certi altri no, « e non posso dirti adesso tutto quanto parla contro questo punto di vista, e del resto tu non capiresti, ti basti sapere che ci sarebbe molto da dire ». Fortunatamente, l’ottavo capitolo si interrompe, perché in caso contrario l’avvocato Huld avrebbe avuto certamente modo di spararne altre, forse anche di più grosse. Ma ciò che conta è che il suo atteggiamento è sempre lo stesso, e K. l’ha compreso bene: il suo avvocato cerca sempre « di distrarlo con notizie non pertinenti alla causa, di allontanarlo dal punto essenziale: ossia quale lavoro aveva effettivamente svolto per la causa ».

In K. inizia così a farsi strada l’idea di provvedere da solo alla sua difesa e di dispensare l’avvocato Huld, il quale, del resto, gli fa anche capire che sarebbe stato bene se l’istanza se la fosse scritta da solo.

Ma, come il malato incurabile passa dal medico al guaritore e infine allo stregone, K. troverà sulla sua strada una figura ancor più imprevedibile e stravagante: quella del pittore giudiziario Tito- relli (18).

(18) Il quale, secondo CAVALLONE, La lezione di Titorelli, cit., è in realtà un

« giurista finissimo » (paragonato addirittura al coevo J. Goldschmit, p. 636) il quale impartisce « una lezione di alto livello dottrinale », parlando a K. di un qualcosa cui l’avvocato Huld non aveva ancora mai fatto cenno: l’assoluzione. Secondo CITATI, Kafka, cit., Titorelli, sebbene appaia come « la più sicura delle guide » (p. 157), « non ha nulla

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A questi viene indirizzato da un cliente della banca, un indu- striale addentro agli affari più segreti del tribunale (ma il procedi- mento contro K. non è certo un segreto per nessuno). Del processo gli ha parlato infatti lo stesso Titorelli, pittore che lavora per il tribunale facendo spaventosi ritratti ai giudici, colti sempre nell’atto di adirarsi e di scagliarsi contro chi gli sta di fronte. Gli consegna una lettera di raccomandazione, ben contento di potergli tornare utile.

K., combattuto tra il disagio di una notizia così diffusamente propalata e il desiderio di trovare una qualsiasi via d’uscita, si presenta immediatamente a casa del ritrattista, che abita in una periferia ancor più sordida e scalcagnata di quella in cui ha sede il tribunale del solaio.

Il pittore gli rivela il suo ruolo di « confidente del tribunale », e di essere portatore di una specie di tradizione di famiglia: « già mio padre era pittore giudiziario. È una carica esclusivamente ereditaria, la gente nuova qui non serve [...] là in quel cassetto ho gli appunti di mio padre, che non mostro a nessuno. Ma solo chi li conosce è in grado di ritrarre i giudici [...] ogni giudice vuole essere dipinto come sono stati dipinti i grandi giudici d’una volta, e solo io ne sono capace ».

Titorelli chiede a K. se per caso sia innocente. Alla risposta affermativa, replica con una meravigliosa contraddizione: « se lei è innocente, la causa è molto semplice », ma al tempo stesso è resa molto complicata dal fatto che « il tribunale non cambia convinzione mai. Se dipingessi qui su una tela tutti i giudici uno accanto all’altro, e lei davanti alla tela si difendesse, avrebbe più speranza di successo che davanti al tribunale vero ».

Occorre forse presentare una buona prima istanza, secondo quanto afferma l’avvocato Huld? Titorelli è scettico: « mi pare che del tribunale lei non si è ancora fatta un’idea [...] esso è inaccessibile

della maestà avvocatesca e talmudistica di Huld, non ha nemmeno letto la legge » (p.

174), eppure ne è il più pratico e sicuro interprete: « è uno dei mille, ulissiaci tricksters (imbroglioni) del mondo moderno » (p. 174). Per CALASSO, K., cit., p. 263, Titorelli è sì un postulante, un pover’uomo, ma forse proprio per questo è il solo ad aver accesso, dal suo stambugio, alle « leggende » che si tramandano nell’ambiente del tribunale, che il ritrattista conosce come nessun altro: del resto ne fa parte integrante, così come le stesse ragazzine corrotte che lo tormentano giorno e notte: nelle soffitte tutto appartiene al, tutto è il tribunale.

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solo agli argomenti che vengono sollevati in aula, ma le cose vanno diversamente se questi tentativi si fanno alle spalle del tribunale pubblico, ad esempio nelle camere di consiglio, nei corridoi, o magari anche qui, nel mio studio ». Lo studio di Titorelli del resto — è il solito solaio, ove la calura e la mancanza d’aria rendono malati in un batter d’occhio — appartiene al tribunale, e lui stesso, per l’incarico che ha, se ne considera parte integrante.

Quindi è confermato: non contano gli atti, non conta ciò che avviene nella pubblica udienza; i magistrati si trattano privatamente, contano sempre e soltanto le relazioni personali.

Che tipo di assoluzione lei desidera?, chiede d’un botto Titorelli.

Questa domanda lascia sgomento K., ma al tempo stesso gli dimostra che Titorelli ha le idee molto chiare, assai più chiare dell’avvocato Huld. Questi, infatti, non ha ancora mai parlato di assoluzione, amando anzi indugiare su tutti gli aspetti sfavorevoli, e non son pochi sebbene al tempo stesso non possano definirsi chiari, dell’intricatissima quanto ignota vicenda. In un certo senso, Huld dà per scontato che l’assoluzione non possa darsi, è solo un miraggio, non è nel novero delle possibilità. Concepisce il processo come un fenomeno di durata, come un animale pericoloso che dorme e che non va disturbato.

« Ci sono tre possibilità: l’assoluzione vera, l’assoluzione appa- rente e il rinvio. L’assoluzione vera è naturalmente la migliore, ma questa assoluzione è del tutto fuori del mio potere. Del resto [...]

non ho mai sentito di un’assoluzione vera, e ho saputo di molti giudici che sono stati influenzati [...] devo ammetterlo, non ho mai assistito a un solo caso di assoluzione vera ». D’altra parte, com’è possibile far capo a precedenti? « Le sentenze definitive dei tribunali non vengono pubblicate, non sono accessibili neppure ai giudici, e perciò sui casi giudiziari del passato non si sono conservate che leggende » (19).

(19) Secondo CAVALLONE, La lezione di Titorelli, cit., p. 637, è del tutto logico che K.

non possa aspirare all’assoluzione vera, perché l’imputato è in realtà « in lotta con se stesso, e un siffatto conflitto può essere risolto solo in quel misterioso Tribunale supremo al quale non hanno accesso né gli avvocati, né gli stessi giudici ordinari, e meno che mai i pittori o i funzionari di banca, e le cui decisioni non possono essere raccolte in nessun repertorio di giurisprudenza, ma al massimo costituire l’oggetto di leggende ».

Ricordiamo che per Cavallone il processo inizia dopo la già pronunciata condanna, che il primo potrà rimuovere o rendere irreversibile (op. loc. ult. cit.).

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K. ammette che, nella situazione data, vanno preferibilmente esplorate le altre due possibilità: l’assoluzione apparente e il rin- vio (20). Titorelli assicura essere entrambe alla sua facile portata, occorre solo scegliere à la carte: « l’assoluzione apparente richiede uno sforzo concentrato ma temporaneo, il rinvio uno sforzo molto più leggero, ma più lungo [...] Io scrivo su un foglio la sua dichia- razione d’innocenza: il testo mi è stato tramandato da mio padre, ed è inattaccabile. Poi, con questa dichiarazione faccio il giro dei giudici che conosco [...] mi porto garante della sua innocenza [...]

quando poi io abbia un numero adeguato di firme di giudici sulla dichiarazione, vado con questa dal giudice che ha in mano il suo processo ». Già, ma perché apparente? L’assoluzione che regime ha? Titorelli è chiarissimo: « se lei è assolto in questo modo, per il momento è sottratto all’imputazione, ma questa continua a rimanere

(20) CAVALLONE, La lezione di Titorelli, cit., pp. 635-636, si impegna nell’analisi del termine die Verschleppung, solitamente tradotto come « rinvio », « differimento » (anche nella lezione di Busco, che Cavallone non ha potuto considerare, si parla di

« rinvio »), sottolineando che esso rimanda all’idea del trascinare, del tirare in lungo, del temporeggiare « con una connotazione per così dire di continuità » (CITATI, Kafka, cit., p. 175, utilizza infatti il termine procrastinazione, in ciò ripreso da CALASSO, K., cit., p.

263, termine che forse rende meglio degli altri il concetto di « continuità » cui aspira Cavallone, secondo il quale « “differire” o “rinviare” fanno piuttosto pensare a date, scadenze, occasioni, incombenze che si susseguono nel tempo, separate da intervalli vuoti »). Se K. avesse scelto questa soluzione, continua Cavallone, non avrebbe forse affrontato « le tragiche conseguenze che tutti conosciamo » (op. cit., p.

638); ma la verità è che K. tale soluzione non era in condizioni di scegliere perché, come vedremo, un solo anno di Processo lo avrà completamente debilitato, giungendo egli stesso a riconoscere, sia pur impressionisticamente (capitolo dieci), la propria colpevolezza o, secondo la versione di Cavallone, l’irreversibilità del suo senso di colpa (della sua colpa « origina- ria », che forse il processo avrebbe dovuto rimuovere).

D’altra parte, occorrerà anche comprendere se all’inizio del processo la condanna c’è già (CAVALLONE, op. cit., p. 633), o se sia il processo stesso a « equivalere a una condanna » (op. cit., p. 637) o ancora, come afferma il predicatore nel Duomo, a trasformarsi poco a poco in condanna (soluzione che dovrebbe logicamente escludere le due precedenti). Kafka, la cui personale nevrosi era nelle fantasie di duplicazione al punto da immaginare la presenza nel mondo di tanti Franz Kafka « che percorrevano la terra nemici l’uno dell’altro » (CITATI, Kafka, cit., p. 57) avrebbe forse fatto convivere tutte le soluzioni possibili; Cavallone giudica invece « praticabile » solo quella del rinvio (o procrastinazione), che significa costringere il processo in un limbo, impedendo che i suoi effetti diventino definitivi e irreversibili (ma, elemento da non trascurare, K. ha probabilmente già sulle spalle un condanna ed è certamente già in stato di « arresto »: il che, secondo Cavallone, può anche essere una semplice malattia che l’ammalato trascina senza curarla, insomma una malattia che non ha mai ucciso nessuno e che pertanto certamente non avrebbe ucciso K.).

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sospesa sopra di lei e, se viene l’ordine superiore, può tornare subito in vigore [...] nell’assoluzione vera gli atti devono essere totalmente eliminati [...] nell’assoluzione apparente il fascicolo degli atti non subisce altri cambiamenti se non che viene arricchito dalla dichia- razione di innocenza, dell’assoluzione e della sua motivazione [...]

nessun atto va perduto, il tribunale non dimentica ».

E il processo potrebbe ricominciare da capo?, chiede K.

Certo, ma si potrà sempre ottenere una seconda assoluzione apparente; il problema è che si potrà venire nuovamente arrestati:

potrà passare del tempo, ma potrà anche essere immediato. Tutto è sospeso, provvisorio, imprevedibile. Non ci sono regole certe.

E la seconda assoluzione apparente — diremmo ora, la doppia conforme — è quindi di per sé definitiva?

« Certo che no: alla seconda assoluzione fa seguito il terzo arresto, alla terza assoluzione il quarto arresto e così via. Questo è nello spirito dell’assoluzione apparente ».

K., al quale l’industriale, per spingerlo a consultare il pittore Titorelli, aveva ottimisticamente annunciato: « lei è quasi un avvo- cato, no? Lo dico sempre a tutti, il procuratore K. è quasi un avvocato », sembra sempre più preoccupato. L’assoluzione appa- rente somiglia sempre più ad una finta assoluzione, è qualcosa di più prossimo alla condanna. Va forse considerata attentamente la terza soluzione.

Con aria ispirata, come se declamasse dalla cattedra universita- ria, Titorelli illustra nel dettaglio la segreta tecnica del rinvio: « il rinvio consiste nel limitare permanentemente il processo alla fase processuale più bassa [...] per questo non occorre il dispendio di forze che richiede un’assoluzione apparente, ma è necessaria un’at- tenzione molto più intensa [...] bisogna visitare a intervalli regolari, e inoltre in particolari occasioni, il giudice competente, conservan- done la simpatia con tutti i mezzi possibili [...] il rinvio presenta il vantaggio che l’avvenire dell’accusato è meno vago: è al riparo dal terrore dell’arresto improvviso ». E però il processo va tenuto in vita con indagini, interrogatori, atti processuali di pura esteriorità che non comportino eccessivi disturbi, ma che dovranno pur sempre esserci perché sono proprio loro a giustificare il continuo rinvio.

Insomma, « è necessario che l’imputato, essendo appunto imputato, si faccia vedere dal suo giudice ogni tanto ». E se si fa vedere da più giudici, è ancor meglio.

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Come dinanzi all’avvocato, a K. « per lo sforzo dell’ascolto era venuto il mal di testa ». Vedendolo incerto, il pittore esclama:

« entrambi i metodi hanno in comune il vantaggio di impedire la condanna dell’imputato », sollecitando a K. la scelta, non c’è poi tanto tempo da perdere; « però impediscono anche l’assoluzione vera », ribatte K. che se ne va via sconsolato, non senza aver acquistato uno stock di tele eguali, tutte parimenti oscene, che avrebbe occultato in un cassetto della sua scrivania. E non senza aver constatato che, tutt’intorno allo studio del pittore, avevano sede altre segreterie. « Di che cosa si stupisce? », chiede il ritrattista a sua volta stupito, « sono le segreterie del tribunale. Non lo sapeva che ce ne sono anche qui? Ci sono segreterie in quasi tutti i solai, perché dovrebbero mancare proprio qui? ». Del resto l’aveva pre- messo: lui stesso faceva parte del tribunale, era un ospite ed un confidente del tribunale, il locale in cui viveva e lavorava era del tribunale ed anche in questo era regolarmente succeduto a suo padre; e proprio per questo poteva venirgli utile. Lui e il tribunale erano una cosa sola.

6. — Il capitolo nove, Nel Duomo, rappresenta il passaggio del romanzo a più forte carica simbolica.

La banca incarica K. di far visitare ad un cliente italiano le bellezze della città. Quello intende visitare soprattutto il Duomo, ed è lì che K. gli darà appuntamento alle dieci del mattino. Ma la campana rintocca più volte, e l’italiano non si vede. Anche per ripararsi dal freddo pungente, K. entra ed inizia a vagare nella semioscurità delle navate. Ad un tratto si sente chiamare a voce alta per nome, come già aveva fatto l’ispettore dalla stanzetta della signorina Bürstner: Josef K.!

È il sacerdote che, nel Duomo completamente buio e deserto, richiama K. dall’alto del pulpito. Anche il sacerdote sa che K. è sotto accusa. Anche il sacerdote ha appreso di lui prima di conoscerlo.

Anche il sacerdote appartiene al tribunale, perché è il cappellano delle carceri. Dice: « ti ho fatto chiamare per parlarti ». Chiede:

« come t’immagini che andrà a finire? ».

C’è forse un segreto accordo tra la banca e il predicatore? Non è stata forse la banca a mandare K. nel Duomo? E perché l’italiano ancora non si vede?

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