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Morire di Tso nell’Italia del terzo millennio

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Andrea Pugiotto

Morire di Tso nell’Italia del terzo millennio

http://ilmanifesto.info/ 19 agosto 2015

La morte di Andrea Soldi durante l’esecuzione di un Tso è una metonìmia. Narra qualcosa di più generale che trascende il fatto in sé, pur gravissimo, lasciando intravedere nodi irrisolti nel rap- porto tra autorità e libertà individuale. Proviamo a scioglierli.

Lo Stato di diritto ammette la forza, ma vieta la violenza. Della forza è l’apparato statale ad avere il monopolio legale, e può servirsene – anche attraverso la semplice minaccia – per garantire effetti- vità alle sue norme giuridiche, le sole coercibili. Quel monopolio, però, diventa illegittimo se tra- smoda in violenza, nel nome di una supremazia presunta sulla libertà personale e morale dell’individuo.

Ecco perché il nostro corpo e la nostra mente sono tutelati in Costituzione, specie laddove il rap- porto tra individuo e autorità si fa asimmetrico, stabilendosi che «nessuno» può essere arbitraria- mente sottoposto a misure coercitive cautelari (art. 13), detentive (art. 27) o sanitarie (art. 32).

L’arresto di un criminale, la detenzione di un condannato, il trattenimento di un clandestino, l’internamento di un folle reo – anche quando giustificati dalla legge – non possono mai tradursi in trattamento inumano, degradante, addirittura esiziale nelle forme equivalenti della morte provocata o del gesto suicidario. Se accade — e accade sovente, viste le troppe condanne a Strasburgo per violazione dell’art. 3 Cedu – lo Stato è, alla lettera, fuorilegge.

Tutto ciò vale anche e soprattutto per l’esecuzione di un Tso, misura sanitaria che la legge pone a garanzia non della collettività, ma del malato.

Lo fa sottoponendo la proposta di Tso a doppia certificazione medica, a motivata e tempestiva con- valida giudiziaria, a durata massima certa. Lo fa richiedendo una triplice condizione per la sua autorizzazione: l’urgenza terapeutica, il rifiuto di cure dell’alienato, l’impossibilità di adottare tempe- stive misure extraospedaliere. Lo fa esigendo fino all’ultimo istante utile iniziative rivolte ad assicu- rare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato: perché «di norma» i trattamenti sanitari hanno da essere volontari (art. 33, legge n. 833 del 1978), e un Tso autorizza ma non impone la contenzione.

Sono regole figlie del principio costituzionale per cui il ricorso a misure coercitive è un’extrema ratio. Regole fondamentali opportunamente ricalcate nel parere approvato all’unanimità dal Comi- tato Nazionale di Bioetica, il 24 aprile scorso: il ricorso alla contenzione, anche nell’ambito del Tso, può avvenire «solamente in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esi- genze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e solamente per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi». Nessuna finalità sanitaria — si legge — può giustificare l’abuso della forza che, dell’autonomia individuale, è sempre una viola- zione dagli effetti (anche terapeutici) controproducenti.

Con ciò non si nega la malattia mentale né i dilemmi che essa pone a chi, impotente, chiede il rico- vero forzato del proprio familiare. Semmai si ribadisce la piena consapevolezza che chi non ha diritti non è, poiché a chi tutto ha perso capita facilmente di perdere anche se stesso. Fino alla pro- pria vita, com’è accaduto ad Andrea Soldi.

Restituire al soggetto coercito la sua dignità personale (fatta di soma, psiche e civitas), e rispet- tarla: è, questa, la condizione necessaria per evitare che possa ripetersi — in un carcere o in un Opg, in un commissariato o in un Cie – quanto mai avrebbe dovuto accadere sulla panchina di una piazza di Torino, nell’Italia del terzo millennio.

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