• Non ci sono risultati.

350/2011 Nuovi fascismi? / Atlante occidentale-orientale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "350/2011 Nuovi fascismi? / Atlante occidentale-orientale"

Copied!
46
0
0

Testo completo

(1)

NUOVI FASCISMI?

Pierangelo Di Vittorio, Alessandro Manna, Enrico Mastropierro, Andrea Russo Fascismi senza fascismo

Alessandro Dal Lago Il problema non sarà un altro?

Damiano Cantone, Massimiliano Roveretto Un’idea di realtà. Berlusconi come educatore Edoardo Greblo La democrazia identitaria

Massimiliano Nicoli Il fascismo del manager Raoul Kirchmayr Autoimmunità, tardo-

capitalismo, tecno-fascismo

Pier Aldo Rovatti Il fascismo nella nostra lingua

ATLANTE OCCIDENTALE-ORIENTALE Premessa

Paulo Barone Vishva darpana. East-West atlas.

Note sull’immagine del Mondo / il resto Giangiorgio Pasqualotto Tra Oriente e Occidente Rana P.B. Singh Rovine e tradizioni nell’India

contemporanea

Michel Serres Una nuova cultura umana, generica e naturale

Antonello Sciacchitano Quel che resta del mondo Raoul Kirchmayr Atlante del disastro

350

aprile giugno 2011

4 22 31 44 61 77 92

101 105 118 134 148 160 173

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it),

Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento,

tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: via Melzo 9, 20129 Milano

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. i✏ek

per proposte di pubblicazione: redazioneautaut@gmail.com

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.p.A.

Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: autaut@saggiatore.it

abbonamento 2011: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”.

L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l.

responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96).

servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836

e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Lego S.p.A., Lavis (TN)

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel giugno 2011

(3)

Nuovi fascismi?

Il titolo, va da sé, si riferisce a letture possibili dell’anomalia italiana. Al plurale e con il punto interrogativo, senza sovrapposizione storica e con un accento (forse un po’

pasoliniano) sugli aspetti di novità che caratterizzano la società di oggi.

La sezione, che avrà probabilmente un seguito, ha solo la pretesa di esplorare un orizzonte di discorsi critici.

L’occasione ci è stata fornita dal gruppo barese di Action30, che ha sollecitato una discussione redazionale con il testo che pubblichiamo qui in apertura.

(4)

Fascismi senza fascismo

PIERANGELO DI VITTORIO ALESSANDRO MANNA ENRICO MASTROPIERRO ANDREA RUSSO

D

i un “ritorno del fascismo” si era già par- lato all’inizio degli anni novanta. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, si era assistito all’emergere di violente pulsioni identitarie che avevano preso di volta in volta l’aspetto del nazionalismo, del razzismo e del fanatismo religioso. Nel decennio successivo, l’on- data sicuritaria scatenata dagli attentati dell’11 settembre ha ri- dato vigore a un’interrogazione sulle nuove forme di razzismo e fascismo da cui ha preso le mosse il collettivo Action30. Le do- mande che erano alla base del collettivo sono diventate più ur- genti con il clima che è venuto a crearsi in Italia dopo l’insedia- mento del quarto governo Berlusconi.1E sembra difficile conte- stare il fatto che la lunga catena di violenze – contro rom, stra- nieri, omosessuali – abbia trovato la propria giustificazione nei discorsi politici dei partiti al governo, e in leggi palesemente di- scriminatorie come il “Pacchetto sicurezza”, che ha introdotto il reato d’immigrazione clandestina.

Gli autori di questo intervento fanno parte di Action30 e hanno pubblicatoL’uniforme e lanima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Letture di:Bataille, Littell e Theweleit, Jack- son, Pasolini, Foucault, Deleuze e Guattari, Agamben, Eco, Ballard), Action30, Bari 2009 (d’ora in poi UA). Action30 è un collettivo di grafici, fotografi, disegnatori, video-maker, musicisti, studiosi, il cui obiettivo è percepire le “nuove” forme di razzismo e fascismo usando gli anni trenta del XXsecolo come una lente d’ingrandimento.

1. Per una presentazione di L’uniforme e lanimanel contesto storico-politico da cui muove il collettivo Action30, cfr. P. Di Vittorio, Penser le fascisme aujourd’hui. Reflets ita- liens, “Lignes”, 33, 2010, pp. 113-129.

4 aut aut, 350, 2011, 4-21

(5)

I termini del dibattito

È opinione diffusa che vi sia oggi un problema che riguarda lo stato di diritto e la democrazia, non solo in Italia. Minore è in- vece il consenso circa l’opportunità di mettere questo problema sotto la rubrica del “fascismo”. Il dibattito comincia qui. È le- gittimo usare ancora il termine fascismo? E per quali ragioni si può decidere, nonostante tutto, di utilizzarlo? La prima risposta è che il fascismo “si sente”: è un’atmosfera nella quale ci si tro- va immersi e che si percepisce quasi fisicamente. Si potrebbe al- lora rovesciare la prospettiva, e domandarsi se in taluni casi, in- vece di affidarsi unicamente alla propria testa, non convenga ascoltare anche la propria pancia. Atteggiamento in apparenza semplicistico, se non fosse che tra le caratteristiche principali del fascismo c’è quella di presentarsi come una mobilitazione

“estetica” nel senso forte, cioè “metafisico”, del termine.2Il fa- scismo si sente perché è fatto per essere percepito, più precisa- mente perché è un’organizzazione concertata del “sentire” di massa. Basti pensare al mito della razza, dove la componente estetica è il punto di articolazione e di sintesi tra una serie di preoccupazioni di ordine scientifico, ideologico e politico.

La seconda ragione per cui si può decidere di continuare a usare il termine fascismo, è che si presenta ormai come tabù, so- prattutto per coloro che hanno interesse a governare infrangen- do i vincoli su cui si fondano le democrazie liberali. Per governa- re al di sopra della legge e al di fuori delle regole, è meglio epu- rare la razionalità di governo da ogni residuo di ideologia fasci- sta. Non solo perché il richiamo al fascismo storico si presenta come politicamente scorretto, e può quindi nuocere al consenso politico entrando in rotta di collisione con l’imperativo di gover- no (al quale si sono piegate anche le rappresentanze parlamenta- ri più “estreme”, sia di destra che di sinistra). La ragione princi- pale è un’altra: per rispondere a questo imperativo di governo, che tende a mettere tra parentesi i principî su cui si fondano le

5

2. Cfr. P. Di Vittorio, GeorgesBataille. Documents1929-1930: l’Informe contro l’U- niforme, in UA, pp. 27-52 (in particolare il paragrafo “Modernità e metafisica fascista”, pp. 40-47).

(6)

6

democrazie liberali (e che quindi delinea quanto meno una “de- riva” di tipo fascista), è preferibile essere pragmatici, ossia radi- calizzare in senso gestionale l’arte di governo. Se si considera il fascismo come una particolare forma di “eccesso di governo”, che al tempo stesso presuppone e produce la catastrofe della de- mocrazia, allora si possono pensare le attuali forme di ipergover- no come una versione “riformata” del fascismo storico.3

In una recente analisi del “sarkozismo”,4fenomeno che si pre- sta in parte al paragone con il “berlusconismo”, un articolo vie- ne dedicato al tema del fascismo democratico. Scelta interessan- te dal punto di vista della discussione terminologica: da un lato, infatti, si parla apertamente di fascismo, mentre l’aggettivo de- mocratico è messo tra parentesi;5dall’altro, però, si dice che la vera “novità” del fascismo democratico contemporaneo consi- sterebbe in ciò che viene indicato dall’aggettivo piuttosto che dal sostantivo. “Poco importa che sia fascista, l’importante è che sia ‘democratico’...”6 A giudicare dai nuovi leader politici pre- miati nelle ultime elezioni in Olanda, Svezia e Austria,7sembre- rebbe che anche l’estrema destra europea abbia assimilato la le- zione e si candidi ora, a sua volta, a governare “senza comples- si”.8Ragion per cui, se è doveroso spiegarsi sul perché si conti- nuino a usare i termini fascismo e fascista, è forse non solo ugual- mente doveroso, ma perfino urgente spiegarsi sul perché si con- tinuino a usare i termini democrazia e democratico.

Significativo inoltre che l’analisi critica di questi fenomeni as- suma l’aspetto del lessico o dell’antologia; come se la loro “com- plessità”, lungi dal lasciarsi racchiudere in una visione unitaria e totalizzante, si prestasse meglio a essere trattata in maniera aper-

3. Cfr. quanto dice Michel Foucault sulla riforma del sistema penale, inSorvegliare e punire(1975), Einaudi, Torino 1976, p. 89.

4.Dictionnaire critique du“sarkozysme”, numero monografico di “Lignes”, 33, 2010, pp. 9-101.

5. M. Belhaj Kacem, Fascisme (démocratique), ivi, pp. 38-41.

6. Ivi, p. 40.

7. Cfr. il dossier Les extrêmes droites à loffensive, “Le Monde diplomatique”, gennaio 2011, pp. 19-22.

8. Cfr. C. Vollaire, complexé, “Lignes”, 33, 2010, pp. 26-28; P. Prado, complexer, ivi, pp. 29-32.

(7)

Il problema non sarà un altro?

ALESSANDRO DAL LAGO

Non mostrarti mai troppo esperto di pratiche viziose, e non raccontare i vizi altrui controppo vituperio o troppo zelo, o si penserà che ci caschi anche tu.

Cardinal Mazzarino, Breviario dei politici

H

o diverse difficoltà con espressioni co- me “ritorno del fascismo” o l’equazio- ne “berlusconismo uguale fascismo”.1 Per cominciare, c’è un ovvio problema di proporzioni. Il bona- partismo di Napoleone III “il piccolo”, come lo chiamò Victor Hugo, non era esattamente quello del terribile zio. Anche senza ricordare la battuta di Marx sulle tragedie che ritornano in for- ma di farsa, è abbastanza evidente, per esempio, che Berlusconi ha ben poco in comune, in senso stretto, con Mussolini, salvo l’origine padana e la tronfia verbosità. E ciò vale a maggior ra- gione per Sarkozy, che non è certamente Pétain (e figuriamoci De Gaulle...). Insomma, in questo campo bisognerebbe non far- si condizionare troppo dalle somiglianze superficiali, dall’avver- sione per i personaggi e nemmeno, come nel caso dell’Italia, da un senso quasi inarrestabile di depressione. Ma cerco di proce- dere con ordine.

Una prima definizione applicabile ai fascismi del XXsecolo è il Führerprinzip, ovvero la supremazia di un leader (Führer, duce, caudillo, conduca˘tor) sulla Costituzione, mediante un partito che si fa stato (Germania, Spagna), oppure che convive formalmente con un potere di facciata (in Italia, la monarchia fino alla Repub-

1. Cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e lanima. Inda- gine sul vecchio e nuovo fascismo, Action30, Bari 2009. Si veda anche, per una versione più polemica e popolare di tali dibattiti, “MicroMega”, 1, 2011, numero speciale su Berlusconi- smo e fascismo (1).

22 aut aut, 350, 2011, 22-30

(8)

blica di Salò). Da tale supremazia discende l’aspetto più ripugnante e grottesco del fascismo, ovvero la pretesa di obbedienza assolu- ta al Duce-Führer sostenuta dalle armi ed espressa in miti e appa- rati simbolici. Ovviamente, non troviamo nulla del genere nelle democrazie occidentali contemporanee e nemmeno in gran parte degli stati autoritari, come quelli della riva sud del Mediterraneo che – mentre scrivo – sono travolti o scossi da straordinari movi- menti popolari. In questo secondo caso, i leader sono piuttosto autocrati petroliferi o finanziati dall’estero (cioè dalle democrazie liberali occidentali), presidenti a vita, di rinnovo in rinnovo, che si appoggiano all’esercito, il quale a un certo punto può abban- donarli e così via. In giro per il mondo il Führerprinzip trova oggi ben poche applicazioni dottrinali (anche se pullulano ovviamente dittatorelli di ogni tipo).

E nulla del genere troviamo nell’Italia berlusconiana. Il Cava- liere cerca di aggirare le leggi vigenti o di inventarne continua- mente a sua protezione, ingaggia da sempre una guerriglia contro le procure e magari sarà condannato per aver violato la legge nel- la sua vita privata, ma non è (o non è ancora) formalmente al di sopra della legge (ci prova, ma è dubbio che ci riesca). Tant’è che i nostri custodi della Costituzione, i presidenti della Repubblica, alla fine firmano le leggi volute dalle maggioranze berlusconiane (anche se obtorto collo, con osservazioni e distinguo, rinvii alle ca- mere ecc.). Questo non significa che non siano evidenti tra i se- guaci di Berlusconi tendenze autoritarie o dispotiche e persino un risibile culto del capo nelle sue diverse epifanie (dall’imprendito- re di successo all’insostituibile leader della destra, dall’uomo del- la provvidenza al gallo nel pollaio e al munifico Papi). Ma si trat- ta di consenso volontario e non di coercizione. Nessuno può ob- bligarci a essere berlusconiani. Si è mai visto un dittatore che in- terviene in diretta in una trasmissione televisiva e viene mandato a quel paese dal conduttore? Per farla breve, il berlusconismo, qualunque cosa sia, rimane per il momento compatibile con lo sta- to cosiddetto liberale, ovvero con un sistema legale-razionale (avrebbe detto Max Weber), e c’è proprio da dubitare – vista l’età del Cavaliere e date anche le caratteristiche del suo partito – che

23

(9)

24

l’attuale (e orrida) cultura politica di maggioranza relativa in Ita- lia evolva verso forme neocarismatiche o golliste.

Ma esisterebbe in Italia, obiettano alcuni, una specie di fasci- smo culturale, espresso dal dominio incontrastato di un certo lin- guaggio, di stili di vita riprovevoli, insieme libertini e sessisti, di modelli cognitivi e comunicativi orientati quasi esclusivamente dai media ecc. Tuttavia, anche su questo punto si rischia di scambia- re una certa dimensione antropologica con un progetto politico- culturale. Lo stile di vita tipo Videocracy o “folli notti di Arcore”

corrisponde a una dimensione abbastanza diffusa (forse in Italia più che altrove) che il Berlusconi imprenditore ha saputo sfrutta- re con le sue televisioni fin dagli anni ottanta e ha rilanciato con successo in politica, ma che non ha inventato e che comunque non è sua esclusiva. La differenza è che in Italia questa pornocrazia ha cominciato a interagire con la sfera pubblica. Mentre altrove si esi- ge dai politici un’apparente irreprensibilità, da noi di fatto ciò non avviene (e questo vale anche per l’altro grande tema specificamente italiano, la auri sacra fames di politici, amministratori ecc.). In Ita- lia, diremmo noi sociologi, mancano da sempre quelle etiche di gruppo (o se vogliamo di élite) che altrove condannano all’igno- minia o alla sparizione dalla scena pubblica un deputato sorpreso a infastidire una segretaria o a falsificare un rimborso spese.2È un tema importante in Italia (probabilmente collegabile con il “fa- milismo amorale”), che però non ha granché a che fare con il fa- scismo, persino in un’accezione metaforica o traslata.

Ritengo anche che le mobilitazioni attuali contro l’amoralità dei comportamenti privati di Berlusconi e la corruzione politica (de- naro e seggi contro favori per così dire corporali ecc.), per quan- to comprensibili e persino condivisibili (da parte mia con forti ri- serve),3siano destinate allo scacco perché sostanzialmente impo-

2. Con “etiche” intendo norme non scritte, ma in qualche modo vincolanti, che discipli- nano il comportamento privato e personale di politici, amministratori ecc. Sarebbe lungo in- dagare le ragioni storiche della mancanza di tali codici informali in Italia, ma quel che è cer- to è che anche in questo campo Berlusconi non ha inventato nulla di nuovo.

3. La mia riserva principale è che il quadro di riferimento che si oppone al berlusconismo finisce per riproporre una cultura bipartisan di tipo nazionale (Dio, patria e famiglia) molto perbenista. Si veda a questo proposito la presa di posizione critica di Maria Nadotti su un cer-

(10)

Un’idea di realtà. Berlusconi come educatore

DAMIANO CANTONE

MASSIMILIANO ROVERETTO

T

anto nel testo del collettivo Action30 con- tenuto in questo stesso numero di “aut aut”, quanto nella pubblicazione che ne costituisce il presupposto,1si trova avanzata una duplice ipote- si: da una parte, che la fase storica che stiamo vivendo rappre- senti una sorta di riedizione di quanto avvenuto tra gli anni ven- ti e trenta del secolo scorso; dall’altra, che, oggi come allora, l’I- talia si trovi, “nel processo di sgretolamento della democrazia, [...] all’avanguardia”.2

Anche dando per scontato un certo consenso circa l’esistenza, in Italia e altrove, di un “problema” concernente la salvaguardia dello stato di diritto e delle libertà democratiche fondamentali, l’opportunità di inscriverlo sotto il titolo “fascismo” – come pe- raltro riconosciuto dagli stessi membri del collettivo – è oggetto di un vivace dibattito. Tanto più se teniamo presente come l’esi- genza di confrontarsi con lo spettro del fascismo, pur essendo sor- ta sotto la spinta della “possente ondata sicuritaria successiva agli attentati dell’11 settembre”, sarebbe per essi divenuta tanto più

“urgente” e “acuta” dopo l’insediamento, nella primavera del 2008, del quarto governo Berlusconi. Da questo punto di vista, la que-

aut aut, 350, 2011, 31-43 31

1. Cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e lanima. Inda- gine sul vecchio e nuovo fascismo (Letture di:Bataille, Littell e Theweleit, Jackson, Pasolini, Foucault, Deleuze e Guattari, Agamben, Eco, Ballard), Action30, Bari 2009.

2. Cfr. P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, Fascismi senza fascismo, in questo fascicolo.

(11)

32

stione circa la legittimità o meno di impiegare il termine “fasci- smo” in relazione all’attuale fase di sviluppo politico e istituzio- nale delle moderne democrazie liberali assume infatti una forma ben altrimenti circostanziata, riducendosi da ultimo alla seguente domanda: il cosiddetto berlusconismo può essere sic et simpliciter considerato una fattispecie del fascismo?

È vero che Di Vittorio e gli altri membri di Action30 non ado- perano il termine “fascismo” alla stregua di un criterio tassono- mico, bensì come un semplice strumento, funzionale al “metodo”

o allo “stile” genealogico da essi adottato nella loro analisi. Vale a dire che esso serve loro anzitutto come un ponte, come “una pas- serella” da stendere tra il presente e il passato al fine di potersi muovere “all’interno di una sequenza storica di lungo periodo”.

Soltanto in tale prospettiva il fascismo rivelerebbe difatti, al di sot- to dei suoi orpelli ideologici, la sua reale funzione di agente della normalizzazione e della generalizzazione di una condizione di eser- cizio della sovranità, lo stato d’eccezione, cui, nel corso degli an- ni immediatamente precedenti il suo avvento, avevano invero fat- to già appello, dal profondo della loro agonia, quelle stesse de- mocrazie che avrebbero viceversa dovuto arginarlo. Ed è sempre focalizzando lo sguardo sul lungo periodo che, nell’esigenza di ef- ficacia amministrativa rinvenibile al fondo di tale metabolizzazio- ne dello stato d’eccezione quale condizione limite per la demo- crazia, ci sarebbe dato di riconoscere il medesimo ordine di ra- gioni attualmente alla base della gestione della res publica. Di mo- do che la scomparsa, in seno alla nostra società, dei tratti più sco- pertamente e diffusamente repressivi dell’eccesso di governo in- carnato dai fascismi storici, non ne implicherebbe in alcun modo il declino, ma ne segnerebbe piuttosto l’evoluzione.

Sulla scorta delle analisi di Giorgio Agamben e di Michel Fou- cault, si tratterebbe insomma di prendere atto di come, da so- spensione temporanea del diritto e delle libertà individuali, lo sta- to d’eccezione vada attualmente evolvendosi in una vera e propria

“macchina governamentale per gestire la popolazione nel suo com- plesso”. Già nel corso degli anni sessanta, del resto, Pier Paolo Pa- solini aveva intuito come l’ingresso, sulla scena della storia, di una

(12)

nuova generazione di italiani, avrebbe alla lunga comportato la fi- ne dei partiti politici tradizionali, i quali non solo erano improv- visamente divenuti incapaci di rappresentare una società per essi incomprensibile, ma, vanamente illusi che la gestione della cosa pubblica sarebbe sempre stata un affare di rapporti tra la Dc e il Pci, non apparivano nemmeno in grado di comprendere le reali poste in gioco nelle scelte da essi operate.

La nostra ipotesi è che l’Italia non versi, come alcuni credono, in una situazione anomala, un’eccezione al limite del tollerabile nel panorama delle moderne democrazie occidentali. Al contra- rio pensiamo che sia un laboratorio politico nel quale si sta ten- tando di mettere a punto una forma politica di governo che ri- guarda non tanto il presente quanto il futuro. Non c’è rimprove- ro più miope del considerare la democrazia italiana in ritardo o inadeguata rispetto alle altre democrazie europee o mondiali: sia- mo anzi l’avanguardia, l’incubatrice di un modello della possibile democrazia a venire, la forma di governo più adatta ad affrontare il capitalismo contemporaneo e a prevedere e progettare quello futuro. Berlusconi è causa ed effetto di tutto questo. L’uomo Ber- lusconi è l’effetto più perfetto, compiuto e autoconsapevole di quel processo di “mutazione antropologica” di cui Pasolini è stato il primo lucido analista più di trent’anni fa; il politico Berlusconi ha rivestito e riveste tuttora principalmente la funzione di educato- re, in un senso speculare a quello in cui Nietzsche dà a questo ter- mine in riferimento a Schopenhauer: “Tutti noi per mezzo di Ber- lusconi possiamo educarci contro il nostro tempo, perché abbia- mo il vantaggio di conoscerlo realmente per mezzo suo”.3

Non stupisce allora che, sulla quarta di copertina di uno dei primi libri – e per certi versi sicuramente il migliore – dedicati al- la figura di Berlusconi, Berlusconi in concert, questi sia presenta- to come l’incarnazione “del prototipo di una umanità che sta cam- biando pelle: sognatore pragmatico, cultore di utopie, [...] filosofo dell’azione, egli esprime una sintesi ancora in costruzione tra Ulis-

33

3. F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore(1874), trad. a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1972, p. 32. Ovviamente abbiamo inserito il nome Berlusconi al posto di quello del filosofo tedesco.

(13)

44 aut aut, 350, 2011, 44-60

La democrazia identitaria

EDOARDO GREBLO

1. Anche se non manca chi continua a caldeggiare la teoria della democrazia diretta o partecipativa in modo da avvicinarsi alla de- mocrazia partendo dal basso, l’idea ormai prevalente è che, nelle democrazie moderne, la rappresentanza politica sia la sola proce- dura elettorale che permetta la trasmissione e la realizzazione del- la volontà popolare. La rappresentanza non è altro, infatti, che l’applicazione del principio di eguaglianza dei cittadini ai siste- mi politici moderni.1È certo irrealistico pensare che vi possa es- sere una perfetta corrispondenza fra la volontà dei cittadini e la vo- lontà espressa dai loro rappresentanti parlamentari, a meno di non imporre i vincoli di mandato esclusi dalle costituzioni liberalde- mocratiche proprio per sottolineare la differenza tra rappresen- tanza di diritto privato e rappresentanza di diritto pubblico, e cioè la rappresentanza politica. Per questo tutti i teorici della rappre- sentanza democratica hanno considerato le funzioni parlamentari incompatibili con qualsiasi forma di mandat impératif e tutte le co- stituzioni liberaldemocratiche hanno accolto questo divieto come una regola fondamentale. Ciò significa che i rappresentanti politi- ci non dovrebbero essere responsabili neppure di fronte ai propri elettori, ma solo di fronte all’intera nazione, poiché l’interesse ge- nerale del paese richiede che i delegati, titolari di un mandato ad omnia, si oppongano a ogni tipo di interesse particolare. Il pro-

1. R. Dahl, La democrazia e i suoi critici(1989), Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 324-327 e 339-349.

(14)

blema della selezione della cosiddetta “classe dirigente” è perciò ovviamente cruciale: se in un regime rappresentativo i cittadini si limitano a decidere chi dovrà decidere per loro, è come minimo necessario che nell’arena politica abbia luogo una competizione au- tenticamente democratica per la selezione dei rappresentanti.

La realtà che abbiamo sotto gli occhi ci costringe, invece, ad as- sistere all’erosione quotidiana dei meccanismi che dovrebbero mo- bilitare i cittadini, tradurre in linguaggio politico i loro interessi e conferire forza legittimante alle deliberazioni di maggioranza. Che ciò avvenga in nome dell’unità plebiscitaria del corpo politico è uno dei tanti paradossi della crisi della democrazia rappresentati- va e parlamentare, ossia della sola forma di democrazia che i mo- derni siano riusciti a costruire, servendosi peraltro di materiali e meccanismi che non sono di per sé democratici: elezioni, costitu- zione, diritti e, ovviamente, rappresentanza. Non c’è bisogno di evocare il fascismo per sostenere che negli ultimi quindici anni hanno preso piede processi politici capaci di alterare in misura so- stanziale l’assetto costituzionale che la nostra democrazia si è da- ta nel secondo dopoguerra. Il degrado della rappresentanza in sen- so oligarchico, la sovrapposizione del potere castale su quello sta- tuale, l’ormai strutturale carenza di “rappresentatività” degli or- ganismi legislativi e, certo non ultimo, l’imporsi di un modello po- litico trainato da un populismo a base carismatica, ne sono sol- tanto gli esempi più macroscopici. Ciò è avvenuto sulla spinta di movimenti e partiti che si sono dimostrati capaci di mobilitare set- tori consistenti della società italiana grazie al fatto di essere riu- sciti a trovare un efficace fattore di convergenza tra due orienta- menti politici distinti ma paralleli: l’ideologia privatistica che chie- de lo smantellamento dello stato sociale e l’ideologia localistica delle “piccole patrie”. Questo fattore di convergenza è stato indi- viduato nell’idea di “libertà negativa”, ovvero di libertà dallo sta- to, cui si chiede di astenersi dalle funzioni regolative in materia di controllo macroeconomico e di redistribuzione, ormai considera- te equivalenti a forme mascherate di statalismo, e di libertà dalla nazione, alla quale si chiede di segmentarsi secondo presunte li- nee “etniche” al solo scopo di ottenere benefici, risorse, privilegi.

45

(15)

46

Con la prima libertà si è cercato di ridimensionare i tratti più si- gnificativi delle politiche di coordinazione in campo sociale ed eco- nomico e di cedere potere non tanto alla “giustizia di scambio”

assicurata dalle leggi anonime dei mercati, quanto ai soggetti pri- vati, alle comunità o alle lobby organizzate. Con la seconda si è cercato di svalorizzare ogni preliminare consenso di fondo su una forma di omogeneità culturale capace di operare da fondamento nazionale della solidarietà civica, ormai considerata come una for- ma residuale di nazionalismo, e di esaltare “identità collettive in comunità immaginate, col folklore o con le ronde volontarie che creano l’illusione che si possano ritrovare i territori e gli spazi so- ciali perduti”.2 In entrambi i casi, la disarticolazione dello stato sociale da un lato e dello stato nazionale dall’altro viene presenta- ta come se ciò offrisse ai cittadini migliori opportunità di costrui- re i propri piani di vita in modo sempre più autonomo, e quindi di estendere i propri margini di libertà persino al di là di quel sen- so morale che dovrebbe costringerli a interessarsi vicendevolmente l’uno dell’altro. Una sorta, come ha detto qualcuno, di “liberi tut- ti e ciascuno per sé”, in cui traspare un modello di società che tra- sforma i diritti privati e le libertà prepolitiche in un privilegio an- tisociale da usare in maniera puramente strumentale.

E tuttavia, a differenza di quanto affermato dalla cultura poli- ticamente maggioritaria, che ha inteso sganciare la libertà dei cit- tadini da ogni forma di reciprocità obbligante per convertirla in una forma di individualismo egoistico a cui fanno da contraltare identità collettive per lo più immaginarie, a essere in gioco non è affatto la “rivoluzione liberale” proclamata dai suoi esponenti. Per potersi richiamare al titolo onorifico di “liberale” non basta rife- rirsi al termine “libertà” con ossessività martellante, se l’obiettivo politico trasparente è quello di gettare le basi di una democrazia carismatica e populista che con il liberalismo, comunque lo si vo- glia definire, non ha nulla a che fare. Quello che invece andrebbe preso sul serio è il termine “rivoluzione”, a condizione di valutar- ne le conseguenze per il sistema di limiti, vincoli e controlli che

2. C. Galli, Lirresistibile sopravvivenza dello spazio politico, “il Mulino”, 1, 2009, p. 15.

(16)

Il fascismo del manager

MASSIMILIANO NICOLI

A noi non basta lobbedienza negativa, né la più abietta delle sottomissioni. Allorché tuti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà.

George Orwell, 1984

Premessa

Questo intervento (breve e sincopato – avverto subito il lettore) am- mette come ipotesi che esista un elemento di fascismo che circola oggi nei luoghi di lavoro. Ipotesi difficile da confermare – sembre- rebbe – in tempi in cui la valorizzazione del fattore “umano” è uno dei ritornelli delle teorie e delle pratiche concernenti l’economia aziendale e l’organizzazione di impresa. “Umane” sono le risorse,

“umano” è il capitale. Di più, il lavoratore è una “persona” il cui

“sviluppo” è decisivo per il successo dell’impresa. Le organizzazio- ni appiattiscono le proprie gerarchie, le relazioni di lavoro si fanno sempre più informali, il clima è friendly. Il capo è un leader, il ma- nager è un coach che aiuta le persone a esprimere pienamente il pro- prio “potenziale”. L’impresa ha una mission e una responsabilità so- ciale, una vision e una carta etica. In libreria, i bestseller manage- riali sono esposti accanto ai libri di psicologia e pedagogia, e i cor- si universitari di gestione delle risorse umane popolano le facoltà di scienze della formazione. Persino la filosofia, in forma di consulen- za, fa capolino nelle stanze del business. A cercare orbace e man- ganello – o almeno lo sguardo torvo di un capo autoritario à la Val- letta – nei luoghi di lavoro, oggi, si finisce per trovare un pullover molto casual e delle slides di Powerpoint. E un team leader sorri- dente che ti regala un feedback sulla tua performance.

Eppure, molto recentemente, dei collegamenti analogici sono stati fatti – e non senza ragioni – fra il lavoro sotto il comando del Duce e il lavoro senza padre né padrone – così parrebbe – di og-

aut aut, 350, 2011, 61-76 61

(17)

62

gi. Per esempio, la recente vicenda dell’accordo imposto dall’am- ministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ai lavoratori delle carrozzerie di Mirafiori ha suscitato commenti in cui è stato esplicitamente evocato lo spettro del fascismo: un accordo che in- terviene in maniera pesantemente peggiorativa sulle condizioni di lavoro e contemporaneamente esclude dalla rappresentanza sin- dacale le organizzazioni che non lo firmano è una chiara manife- stazione di “fascismo aziendale”. Tanto più che il cosiddetto ac- cordo viene “presentato” sotto forma di ricatto (travestito da re- ferendum): o si dice di sì alle condizioni dettate dall’azienda o la dura lotta per la sopravvivenza nel mercato globalizzato costrin- gerà il management a trasferire altrove la produzione. Secondo Giorgio Cremaschi – dirigente dell’unica sigla sindacale che ha ri- fiutato di firmare l’accordo, la Fiom –, gli eventi di Mirafiori (e prima ancora di Pomigliano) non trovano alcun precedente stori- co che li eguagli per gravità, a meno di risalire fino all’accordo del 2 ottobre 1925 sottoscritto a Palazzo Vidoni da Mussolini, pa- dronato industriale e sindacati fascisti e corporativi.1 Quell’ac- cordo sanciva la fine delle commissioni interne aziendali elette dai lavoratori e il passaggio al regime dei fiduciari nominati dai sin- dacati firmatari. Ieri come oggi: fine della democrazia in fabbrica e rappresentanza concessa ai soli sindacati collaborativi.

Facendo un passo indietro rispetto alla stringente attualità – mentre scrivo – dell’affaire Mirafiori, si può richiamare il discorso tenuto dallo stesso Marchionne al meeting di Comunione e Libe- razione a Rimini, il 26 agosto 2010. L’amministratore delegato del- la Fiat parla al meeting poco dopo la sentenza del Tribunale di Mel- fi che imponeva all’azienda il reintegro di tre operai dello stabili- mento lucano licenziati per “sabotaggio”. L’azienda aveva dato se- guito alla sentenza reintegrando gli operai ma confinandoli in una

“saletta sindacale”, per consentire loro – secondo i termini di leg- ge – di godere dei diritti sindacali, ma non di riprendere il lavoro.

A Rimini, in più di un passo del suo discorso, Marchionne inter-

1. G. Cremaschi, Sì, quello di Marchionne è fascismo aziendale, intervento sul sito web di

“MicroMega”, 10 gennaio 2011, <http://temi.repubblica.it/micromega-online/cremaschi- si-quello-di-marchionne-e-fascismo-aziendale>.

(18)

viene in merito alle polemiche che quella decisione aziendale ave- va suscitato, stigmatizzando i tre operai, e la Fiom che li sostene- va, in quanto rappresentanti di un modello ideologico che blocca lo sviluppo dell’azienda e del paese intero: “Non è possibile getta- re le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra capitale e lavoro, tra padroni e operai. Se l’Italia non riesce ad ab- bandonare questo modello di pensiero, non risolveremo mai nien- te”. E poco più avanti: “Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli im- pegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al paese la possibi- lità di andare avanti”.2Niente di nuovo sotto il cielo dell’impresa, visto che le parole del “manager dei due mondi” rievocano – ri- corda Vladimiro Giacché – il patto di Palazzo Chigi stipulato fra Confindustria e Confederazione generale delle corporazioni fasci- ste il 21 dicembre 1923, che sanciva “il principio che l’organizza- zione sindacale non deve basarsi sul criterio dell’irriducibile con- trasto di interessi tra industriale e operai, ma ispirarsi alla neces- sità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e i lavoratori, e fra le loro organizzazioni sindacali”.3

Si potrebbe continuare mettendo a confronto la linea di conti- nuità che univa regime fascista e organizzazione taylorfordista del lavoro nell’idea di costituire una “élite manageriale scientifica” in grado di controllare e superare la lotta di classe,4con la contiguità politico-culturale che avvicina Berlusconi e Marchionne in nome della gestione manageriale della cosa pubblica: laddove il mana- ger subordina gli investimenti in Italia alla “governabilità” degli stabilimenti e alla flessibilità del lavoro, il capo del governo ri- sponde promettendo la modifica in senso ultraliberista dell’arti- colo 41 della Costituzione.5

63

2. Il testo del discorso di Marchionne, inclusivo delle slides proiettate, è scaricabile in formato pdf dal sito del “Sole-24 ore”, <http://www.ilsole24ore.com>.

3. V. Giacché, Così parlò Marchionne, “alfabeta2”, 3, 2010.

4. Cfr. G. Maifreda, La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella storia ita- liana, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 186-189.

5. L’articolo 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in con- trasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica

(19)

Autoimmunità, tardo-capitalismo, tecno-fascismo

RAOUL KIRCHMAYR

1. Tardo-capitalismo e autoimmunità

Se assumiamo che la nostra epoca mostra un tratto essenziale, cioè il nesso tra globalizzazione e nichilismo, la questione che occorre porre al presente riguarda la stessa possibilità che la democrazia possa avere un avvenire nel quadro di un mondo forgiato tecni- camente e su scala globale dal capitalismo. Se vi sarà un avvenire, questo non potrà che dischiudersi a partire dallo scioglimento di un nodo che, al contrario, pare stringersi ulteriormente, quello tra il dominio della tecnica, il capitalismo e le forme di tramonto del politico che disegnano lo scenario attuale. È difatti questa l’al- leanza che pare non sciogliersi e che ci porta a chiedere se ciò che il XX secolo ci ha consegnato, perlomeno a quel “mondo occi- dentale” che si riconosce nel cosiddetto modello di democrazia li- berale, non sia affatto l’eredità di una libertà concreta, ma un bi- nomio costituito da una libertà astratta e da più o meno marcate forme di servitù, di dipendenza e di oppressione.

Di fronte al saldarsi del connubio tra potere tecnico e sovranità politica si può avanzare l’ipotesi, dunque, che possa non essere la democrazia la forma di governo politico più adatta alla modernità tardo-capitalista, ruolo che potrebbe meglio svolgere una sua imi- tazione autoritaria in grado di far lavorare il binomio libertà astrat- ta/servitù concreta, conservando cioè come apparenze tutte le for- me del diritto borghese, ma piegate alla salvaguardia, più o meno violenta, di posizioni di forza e di dominio. È in questa prospetti- va che si dovrebbe guardare al “berlusconismo” e al cosiddetto

aut aut, 350, 2011, 77-91 77

(20)

78

“caso italiano” che, per le loro caratteristiche e soprattutto per la loro ormai considerevole durata, paiono essere più che il risulta- to di un “laboratorio” in cui si sono incubate alcune tendenze del- l’Occidente tardo-moderno.

Molti discorsi giubilatori risuonati nel dibattito politico du- rante gli anni novanta – i quali, con la fine della Guerra fredda, avevano perlopiù proclamato la vittoria della liberal-democrazia e del sistema capitalista di produzione – appaiono oggi come pre- coci sintomi di una crisi del senso della democrazia più che quel- li di un effettivo radicarsi di quest’ultima in aree geopolitiche non appartenenti all’Occidente. Costitutivamente ambigui, pos- siamo cogliere un diverso significato di tali discorsi, una volta ri- contestualizzati nella cornice di un nichilismo reattivo, il quale si nutre, indifferentemente, tanto del repertorio “progressista”

e illuministico quanto di esaltazioni imperialistiche e coloniali- stiche, tanto del mito della partecipazione popolare quanto del- l’immaginario bellico. Dalla fine della Guerra fredda a oggi pos- siamo dire di sapere per esperienza e non solo più per annuncio, o profezia, quali forme può assumere la reazione delle forze che, con il declino del politico, mirano a imporre la conservazione dello status quo, cioè dei rapporti mondiali di dominio, sfrutta- mento delle risorse, accumulazione e circolazione del capitale.

Lo scenario attuale è pertanto disegnato dall’orizzonte della vio- lenza e del conflitto (nella forma esplicita della guerra e in quel- la implicita della competizione economica globale), mentre le re- toriche ufficiali si nutrono di formule che occultano o denegano i processi in corso, con lo scopo di non incrinare la rappresen- tazione dominante della liberal-democrazia come unico model- lo di governo auspicabile e, al tempo stesso, quale fine politico universale cui tendere.

Anche a un’osservazione rapida e di sorvolo, si può vedere co- me il nesso tecnica-sovranità abbia ampiamente trasformato il pae- saggio politico e sociale nel corso del XXsecolo verso una sempre maggiore interdipendenza dei sottosistemi locali – quelli che ven- gono pure chiamati i sistemi-paese – nel quadro globale. Inoltre, l’impatto della globalizzazione ha prodotto estese operazioni di

(21)

trasformazione interna degli stati-nazione, tant’è che da tempo ne viene descritta la tormentata senescenza di fronte al realizzarsi di un’economia-mondo dominata dal sapere tecnico.

A dispetto del fatto che fosse il socialismo reale a essere eti- chettato con la formula di “esperimento di ingegneria sociale”, è lo stesso modello capitalistico ad avere condotto un processo di costruzione tecnica della società grazie a Umwelten che funzio- nano omeostaticamente e garantiscono così la loro stabilità siste- mica attraverso la costante riduzione dell’impatto sull’intero si- stema provocato dai fattori estranei, potenzialmente destabiliz- zanti e perfino distruttivi. Di fronte al paradosso generato dal- l’aumento di complessità del sistema e, parallelamente, dalla sua vulnerabilità, le risposte che il tardo-capitalismo occidentale è riu- scito a dare sono state di tipo autoimmunitario,1 con le quali è emersa la contraddizione tra la “logica” del capitale, che preside al funzionamento del capitalismo globalizzato, e le singole archi- tetture giuridico-politiche delle democrazie occidentali.2 Il pro- cesso autoimmunitario non riguarda che il sistema medesimo e il suo procedere per crisi interne che hanno lo scopo di consolidar- lo: pur evocando, suscitando o attivando un’“esteriorità” (fino al- la costruzione della figura del “nemico”, in modo da delimitare schmittianamente uno spazio politico), è grazie alla mobilitazione delle sue risorse interne che se ne garantisce il rafforzamento: co- sì il sistema risponde aggressivamente ai fattori esterni – reali, pre- sunti o artificiali – finendo per intaccare se stesso, ma pure accre- scendosi.3Da un punto di vista ottimistico esso potrebbe essere

79

1. L’emergere dell’autoimmunità in relazione alla sovranità, la risposta autoimmunitaria delle democrazie occidentali di fronte alla globalizzazione, il vincolo tra stato d’eccezione e logica autoimmunitaria ecc. sono temi che di recente si sono imposti nel dibattito sulle tra- sformazioni del pensiero politico. Cfr. per esempio J. Derrida, J. Haberman, Filosofia del ter- rore(2002), Laterza, Roma-Bari 2003 e, in un’altra prospettiva, R. Esposito, Bíos. Biopoliti- ca e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

2. Il caso cinese e, più in generale, di alcuni paesi dell’Estremo Oriente, come l’Indone- sia, mette ampiamente in discussione l’assunto delle teorie politiche liberali e neoliberali che pongono l’interrelazione reciproca di economia di mercato e liberalismo giuridico-politico:

infatti ciò che lo scenario ci mostra oggi è la possibilità che altre forme di governo, non de- mocratiche, possano garantire sviluppo economico in senso capitalistico.

3. Ciò si traduce politicamente nei termini di una paranoia, alimentata dai media, verso tutto ciò che allinternopotrebbe essere esterno.

(22)

92 aut aut, 350, 2011, 92-100

Il fascismo nella nostra lingua

PIER ALDO ROVATTI

L

a deformazione del linguaggio pubblico, della lingua comune e insieme della lin- gua privata, in una determinata contin- genza storica e in una situazione sociale specifica, come è oggi la nostra, è un segnale significativo dell’involuzione autoritaria in corso. Segnale antico ma che nel Novecento ha conosciuto de- clinazioni di massa corrispondenti a progetti precisi di governo:

così è stato per il nazismo hitleriano, che ne rappresenta l’esem- pio più vistoso e organizzato, così è accaduto anche nel fascismo mussoliniano e in altri regimi autoritari che hanno costellato il secolo. Da questo punto di vista, quella che stiamo vivendo ades- so in Italia non sembra un’anomalia, piuttosto un fenomeno già studiato e catalogato sotto il nome generale di “propaganda”.

Anzi, si presenta come un dispositivo planetario connesso stret- tamente alla cosiddetta globalizzazione e alla complessiva muta- zione e omologazione delle forme di vita.

Muovendo da qui, possiamo formulare un’ipotesi e individuare un compito analitico. L’ipotesi riguarda l’uso della parola “fasci- smo” come permanenza nella società attuale, e specificamente nel- la società italiana, di un carattere cui possiamo dare in modo non vago né improprio tale nome, anche se esso non è la riproduzione conforme di modelli autoritari del passato. Il compito analitico, sul quale si sta già lavorando da più parti, riguarda la descrizione delle differenze e delle specificità italiane che si concentrano in quella che possiamo chiamare “cultura berlusconiana” e che oggi è con evi-

(23)

denza la cultura dominante nel nostro paese, risultato di oltre un decennio di governo di tipo populistico attraverso l’uso degli stru- menti mediatici, e in particolare della televisione. Ritroviamo così l’anomalia italiana, ma soprattutto abbiamo a che fare con un labo- ratorio molto significativo al quale rivolgere un’attenzione speciale.

Il fascismo nella lingua ha molte caratteristiche. La principale è la semplificazione dei discorsi che si realizza attraverso la riduzione delle parole disponibili per la comunicazione. Riduzione quantita- tiva e qualitativa: il numero delle parole si assottiglia decisamente e insieme si riduce in modo drastico lo spazio del significato attorno a esse. Tendenzialmente, ogni parola viene compressa in un signifi- cato unitario con effetti pratici molto rilevanti sulla libertà del di- scorrere. Accade, in un simile regime discorsivo, che non solo si han- no meno parole a disposizione ma anche che molte esperienze vis- sute importanti diventino mute poiché non ci sono più le parole che possano esprimerle. In realtà, accadono anche tante altre co- se che hanno a che fare con la distorsione dei significati: infatti, il fascismo nella lingua, a uno sguardo storico, comporta una defor- mazione eterodiretta di molti significati che – alla lettera – costitui- sce un rovesciamento di senso o un suo evidente spostamento, co- me nel caso tipico delle parole “libertà” o “popolo”.

Esistono vari studi su quanto è successo nella lingua tedesca negli anni del nazismo. Un testo di riferimento è LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, scritto da Viktor Klemperer (e tradotto da Giuntina nel 1998). L’acrostico LTIsi scioglie in Lin- gua Tertii Imperii, e Klemperer sottolinea come la lingua tedesca si attagli molto bene a questa fascistizzazione, grazie alla sua pos- sibilità di costruire sempre nuove parole composte. Viene in luce, così, un ulteriore aspetto del fascismo nella lingua, che consiste nell’utilizzo di parole prima non esistenti, una batteria di neolo- gismi che si deposita in una vera e propria neolingua. Al Taccuino (e ai precedenti Diari 1933-1945) di Klemperer si sono riferite al- cune recenti riflessioni italiane, e in particolare il pamphlet Sulla lingua del tempo presente del giurista Gustavo Zagrebelsky.1 Ma

93

1. G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi, Torino 2010.

Riferimenti

Documenti correlati

Eppure nel corso degli ultimi due anni sono venuti emergendo sempre più chiaramente alcuni limiti nell’azione del Primo Ministro che gli hanno attirato una crescente mole

 il Consiglio di sicurezza, composto da 15 membri di cui 5 permanenti (Cina, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti) e 10 eletti a rotazione ogni due

In ventiquattro azioni, come i canti dell’Iliade di Omero, questa iniziativa ha portato, nei teatri lungo il fronte della Prima Guerra Mondiale, la voce dei classici e del

Fu definita Guerra Fredda la contrapposizione che venne a crearsi alla fine della Seconda Guerra Mondiale tra due blocchi internazionali: gli Stati Uniti (NATO), e

 NUOVA ATTENZIONE PER ITA  NUOVO APPREZZAMENTO DELL’UNICO CAPITALE ITA CHE LA SCONFITTA NON AVESSE COMPLETAMENTE DISSIPATO = QUELLO GEO-POLITICO : ITA ESSENZIALE PER IL

- D’ALTRA PARTE, VERO CHE GLI USA HANNO UNA IMPELLENTE NECESSITà DI ESPANDERSI, X EVITARE UNA CRISI ECONOMICA, MA Ciò NON IMPLICA PER FORZA UNA POLITICA VOLTA A MINARE LA

Tale dinamica è, in fondo, analoga a quella presupposta dall’agencement in Deleuze (e in Casetti): il soggetto, pur essendo implicato dal dispositivo, può aggirarlo