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Discrimen » Le garanzie processuali nella morsa dell’ambiguità: contro la giurisprudenza delle interpretazioni mancate

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Academic year: 2022

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Edizioni ETS

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Criminalia

Annuario di scienze penalistiche

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FRANCESCO MORELLI

LE GARANZIE PROCESSUALI NELLA MORSA DELL’AMBIGUITÀ:

CONTRO LA GIURISPRUDENZA DELLE INTERPRETAZIONI MANCATE

SOMMARIO: 1. Il garantismo e la legge. Una premessa metodologica. – 2. Il problema. Norme scon- fitte prima dell’interpretazione: le garanzie soffocate dall’ambiguità. – 3. Nessun garantismo senza le regole. – 4. Chi protegge il garantismo? Le regole hanno un ruolo nell’assicurare il ri- spetto delle regole?

1. Il garantismo e la legge. Una premessa metodologica

Il dibattito sulle garanzie nel processo penale, tradizionalmente, passa attra- verso molteplici canali di discussione. Essi si intrecciano tra loro, eppure, posso- no essere distinti ed esaminati separatamente.

Secondo un primo approccio, parlare di garantismo significa affrontare il tema dei diritti e delle tutele di cui gode l’imputato che subisce il processo penale. Non si può fare a meno, in questa prospettiva, di affrontare (e, soprattutto, valutare criticamente) il contenuto delle situazioni giuridiche attive che sono attribuite all’imputato, dalla Costituzione prima, dal codice poi. Esse costituiscono l’apparato di tutele di cui questi deve godere affinché il processo possa dirsi strumento contenitivo e delimitativo del potere statale, che può portare a com- primere la libertà della persona, in forza dell’applicazione della sanzione. Qui conta la sostanza: il diritto alla difesa, la presunzione d’innocenza, la regola del contraddittorio rappresentano – solo per fare degli esempi – alcuni tra gli spazi di tutela dell’imputato che la Costituzione pretende non manchino nella disciplina del processo. Per questo, parlando di garantismo, si può tentare di identificare il contenuto di simili tutele costituzionali, si può verificarne l’attuazione da parte della legge nel (talvolta) inevitabile bilanciamento con gli interessi contrapposti, e si può infine saggiarne lo stato di salute nella prassi e nell’interpretazione giudi- ziaria. Parrebbe adatto, quindi, intendere il garantismo, in questo senso, come il complesso delle posizioni giuridiche soggettive attive che presidiano l’imputato nel contesto del processo penale.

Esiste, tuttavia, un secondo angolo prospettico dal quale poter apprezzare il senso del garantismo, ed è proprio su questo aspetto del problema che vorrebbe concentrarsi il presente lavoro.

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La discussione su tale diverso tema, anche in questo caso vivida, passa sotto l’etichetta del principio di legalità ma, in definitiva, si tratta di un aspetto del di- scorso sul garantismo, che precede il tema della sostanza dei diritti processuali e si occupa di indagare la modalità con cui essi entrano a far parte del corredo di posizioni attive dell’imputato. È questa un’indagine che può svilupparsi quale che sia il contenuto delle tutela, quale ne sia l’intensità, quale che sia l’esito del bilanciamento legislativo tra i diritti dell’imputato nel processo e gli interessi con- trapposti variamente individuabili. Qui, il garantismo può essere inteso non subi- to come tutela sostanziale1, ma propriamente come garanzia, ovvero assicurazione circa l’applicazione di una certa tutela dell’imputato, dove ciò che conta non è il quid della stessa, ma il fatto che, a prescindere dal suo contenuto, tale protezione sia certa, immancabile; appunto, garantita. Garanzia, quindi, intesa come assicu- razione, prima che come protezione.

Istintivo, si diceva poc’anzi, che considerando questa seconda accezione del garantismo venga in mente il principio di legalità e la soggezione del giudice alla sola legge2: simili principi, nella materia penale, anche processuale, evocano sì la fonte della produzione normativa, che sgorga dal Parlamento, ma soprattutto la sicurezza che la prescrizione recepita dalla legge avrà applicazione nel processo3.

Nella prospettiva adottata da questo lavoro, il garantismo, quale applicazione assicurata della tutela legale, non è estraneo al concetto di legalità, ma non vi coincide del tutto: esso va invece ristretto alla certezza non dell’applicazione della legge in generale ma dell’applicazione della legge che attua (il “come”, pur rilevan- tissimo, qui non importa) una tutela dell’imputato nel processo penale, pretesa dal-

1 Lo studio del garantismo così inteso è cruciale e non può che nutrire tutta la scienza proces- suale. Infatti, non si vuole affatto predicare l’indifferenza ai contenuti delle tutele dell’imputato nel discorso sul garantismo. Semplicemente, ciò che ci spinge a fare un passo indietro e occuparci di un altro aspetto del garantismo è un duplice ordine di motivi: anzitutto, osservando la sostanza dei di- ritti processuali, si apprezzano flessioni in un certo senso fisiologiche delle garanzie, auspicabilmen- te da contrastare, ma che non ne mettono in discussione il meccanismo di funzionamento. Ad e- sempio, che le garanzie nel processo diminuiscano ad opera della legge, quasi come un riflesso con- dizionato, nei momenti in cui esplode il fenomeno terroristico è certamente deprecabile (e spesso censurabile ad opera della Corte costituzionale), ma non mette in discussione il fatto che il giudice debba necessariamente applicare le norme che presidiano posizioni attive dell’imputato. Diverso è, invece, constatare che le legge, valida ed efficace, soffre di mancanze applicative (sporadiche o ge- neralizzate nella prassi) nel singolo processo: questo fenomeno riflette una patologia di sistema ben più grave, perché svela che, per quanto corposa la garanzia processuale prevista dalla legge, essa potrebbe non funzionare e non proteggere alcuno o qualcuno.

2 Per l’approfondimento di questo tema si veda il dibattito, La soggezione del giudice alla leg- ge: un principio ancora attuale?, in questa Rivista, 2007, p. 73 ss.

3 I due significati del principio di legalità sono sinteticamente chiariti da L.CARLASSARE,Le- galità (principio di), in Enc. giur., vol. XX, 1990, p. 1 che, già nella retrospettiva sul principio, nota- va che alla «valenza garantista – necessità della previa norma – si accompagnava quella democratica:

che la norma provenisse da un atto che traesse la sua “forza vincolante dalla volontà dei cittadini”».

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la Costituzione e tradotta in legge, o pretesa anche dalla sola legge ordinaria quan- do offre garanzie ulteriori rispetto al minimum di protezione attribuito dalla Carta costituzionale all’imputato. Nell’indagine sul “garantismo” non conviene ignorare questo aspetto, né pare interamente riconducibile al dibattito sulla legalità: non si tratta solo (verrebbe da dire, banalmente) di pretendere che la legge venga applica- ta, ma di pensare alla protezione legale dell’imputato come un dato certo, quasi ineluttabile e preminente rispetto agli altri, all’interno del singolo processo4.

L’idea di fondo di questo lavoro, dunque, è che la crisi del sistema processuale penale non è tanto la crisi della legalità, ma quella del garantismo, nella seconda accezione proposta, ossia della legge quando genera posizioni attive in capo all’imputato5.

Questo approccio, di certo non innovativo, permette però di chiarire bene la direzione del discorso.

Anzitutto, non ci si chiederà “cosa” debba prescrivere la legge perché di ga- rantismo si possa parlare. Ma non si prenderà neppure in considerazione il pro- blema dell’interpretazione della legge, dei metodi e delle regole che la presidiano.

Il problema, assai complesso, della scelta interpretativa del giudice, che pure condiziona pesantemente l’effettività delle tutela prescritta dalla legge, non verrà affrontato perché segue il passaggio, preliminare, dell’approccio del giudice al te- sto, siccome esso può del tutto mancare ed essere pretermesso con strategie e me- todi diversi.

Parimenti non ci si chiederà neppure se e come la legge abbia attivato le pro- tezioni fondamentali per l’imputato nel processo. Il garantismo verrà visto, in so- stanza, nel rapporto tra giudice e legge ed anzi, nel particolare momento di quella relazione che si sostanzia nel contatto iniziale con il testo, e non tanto nell’interpretazione che ne segue.

4 Non mancano nozioni di garantismo che non si pongono nell’ottica della tutela globale del- le posizioni attive dell’imputato – almeno – riconosciute in Costituzione, ma individuano le caratte- ristiche del processo garantista in profili assai circoscritti: «un processo penale quindi può dirsi possedere connotati garantistici nella misura in cui la sua definizione […] presenti carattere cogni- tivo, si fondi cioè sull’accertamento dei fatti»; e tutto si riduce poi a due aspetti della disciplina pro- cessuale: le «modalità con cui viene illustrato al giudice e agli altri protagonisti del processo il thema decidendum» e gli «altri strumenti cognitivi con cui accertare la veridicità di quanto narrato nell’atto di imputazione» (C.SANTORIELLO, Garantismo (processo penale), in Dig. disc. pen., agg.

III, vol. I, 2005, p. 551).

5 O, più in generale, che comprime (e non espande) i poteri decisionali del magistrato inqui- rente o giudicante. Per voler aggiungere un dato statistico a sostegno di questa scelta metodologica si pensi (anche senza l’appoggio immediato di una catalogazione capillare delle massime) a quante soluzioni giurisprudenziali che passano attraverso la torsione del dato normativo creino vantaggi alla posizione dell’imputato, deprimendo l’attività dell’accusa, e a quante, invece, rimuovano osta- coli alla condanna a detrimento delle istanze difensive.

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In definitiva, il tema che ci si propone di approfondire, e che sembra decisivo per rifondare il garantismo, è quello della assicurazione legale circa l’applicazione della tutela, del tutto prescindendo dal contenuto della stessa che (in una certa misura) può variare senza che possa cambiare però la certezza della sua applica- zione. Chiamando in causa i protagonisti di questa dinamica (giudice e legge)6, non importano molto le scelte interpretative della disposizione che il giudice compie, ma l’atto (mancato) del giudice di prendere in considerazione il testo, di affrontarne (quale che sia l’esito) la lettura e l’interpretazione7.

6 «Perché non provare a spostare l’asse del dibattito dal piano dei rapporti tra giudice e legi- slatore a quello dei rapporti tra giudice e legge?»; così F.PALAZZO, Intervento in AA.VV., Legalità e giurisdizione. Le garanzie penali tra incertezze del presente ed ipotesi del futuro, Padova, 2001, p. 5, nell’intento, si crede, di accantonare gli aspetti più politici della crisi della legalità, e di iniziare a rivolgere lo sguardo ai suoi profili tecnici.

7 Sia che si parli di interpretazioni mancate che di fedeltà apodittica al testo di legge, o solo di quella che il giudice ha eletto a norma regolatrice del caso ignorando il resto del tessuto normativo (pratiche che spesso coincidono nei risultati, per vero), ciò che dovrebbe spaventare il giurista è sempre l’assenza di dibattito sulle interpretazioni, come ben ricorda F.PALAZZO, Intervento, cit., p.

4: «l’interpretazione della legge – dopo la scoperta del mito della sua avalutatività – continua però a praticare infingimenti che dietro l’apparenza di argomentazioni testuali aprono ad esigenze sostan- ziali, senza mai osare prospettare l’interrogativo, scientifico e politico, di nuove tecniche interpreta- tive». Infatti, è ovvio che la scelta di non affrontare la lettura di un testo può entrare nella dinamica dell’interpretazione, sicché si potrebbe dire che già la selezione delle disposizioni rilevanti è inter- pretazione. Come osserva R.BIN, A discrezione del giudice. Ordine e disordine una prospettiva

“quantistica”, Milano, 2013, pp. 54-55, 66: «alla fine, quello che il giudice si trova ad applicare non è il “testo”, ma qualcosa che assomiglia di più a un puzzle. Date le circostanze, il procedimento che serve ad individuare il testo “da applicare” è così intimamente connesso al processo di interpreta- zione del testo stesso che i due tendono a sovrapporsi. […] l’interprete esercita una influenza tanto inevitabile quanto imprevedibile sull’oggetto della sua interpretazione». E, secondo l’Autore, non tutti questi passaggi sono suscettibili di spiegazione: «ciò che la motivazione di una decisione può fare è spiegare come e perché l’interprete ha raggiunto una certa conclusione, oppure come ha trat- to una norma specifica dai testi in vigore e considerati rilevanti. Ma come le uova rotte non possono ritornare intere, un giudice non può riuscire a “ricreare” esattamente il complesso delle informa- zioni che lo hanno guidato alla conclusione. Né potrebbe attribuire l’esatto peso argomentativo a ogni fonte che ha influenzato la decisione, sia o meno menzionata nella motivazione». Questo di- scorso inquadra lucidamente la dimensione non intelligibile (o entropica, come direbbe l’Autore) del processo da cui scaturisce la regola del caso concreto. Ma se qualcuno pensasse di ricavarne l’assunto per cui ogni scelta in ordine al testo normativo è possibile e legittima sbaglierebbe di gros- so e incorrerebbe nelle fondate critiche che U.SCARPELLI, Il metodo giuridico, in Riv. dir. proc., 1971, p. 567, rivolge al giurista humptidumptiano, ossia quello che, nel momento in cui interpreta,

«comanda sopra i segni e può dar loro il significato che vuole», tenendo (come rileva M.NOBILI, Crisi della motivazione e controllo democratico della giurisdizione, in Critica dir., 1997, p. 123) «na- scosto dietro le quinte» ciò che indica «i reali fini perseguiti» con il provvedimento. Certo che l’interpretazione (ma, già prima, la selezione) dei testi è condizionata da elementi non tutti rintrac- ciabili nella motivazione, ma quella selezione deve guardare alle fattispecie normative, anzitutto, e affrontarne la valutazione critica. Se non si accetta questo vincolo, l’interpretazione scompare, e serve solo a nascondere l’arbitrio, che esiste e non è uno dei modi di interpretare il testo. Infatti, lo stesso R.BIN, A discrezione del giudice, cit., significativamente, si sente, per così dire, rassicurato

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2. Il problema. Norme sconfitte prima dell’interpretazione:

le garanzie soffocate dall’ambiguità.

La scissione del concetto di garantismo in due fondamentali significati, distinti ma ben connessi tra loro, non rappresenta un’opzione metodologica particolar- mente innovativa, eppure, pare adatta a fotografare il problema attuale delle ga- ranzie nel processo penale, ossia la libertà del giudice nella selezione dei testi da interpretare. È da questo punto, sembra, che conviene partire per riconsiderare il valore ed il ruolo delle garanzie nel processo penale, intese proprio come tutele assicurate all’imputato, ossia di certa applicazione nel corso del processo.

Il meccanismo che consente di superare la legge, e quindi la relativa garanzia, vede sempre in azione un fattore esterno alla norma applicabile (un principio non scritto ricavato dal sistema, principi ricavabili dalla giurisprudenza delle Corti eu- ropee8, regole scaturite da fonti di autoregolamentazione come le circolari interne agli uffici giudiziari, doveri inderogabili ricavati non da norme, ma da “funzioni”

della magistratura9, persino un fatto materiale): questo non apre quasi mai la strada ad un percorso argomentativo in grado di condurre alla soluzione sul “di- ritto applicabile” che tenga conto di ogni possibile interferenza normativa con- corrente con la legge nel regolare il caso. Questi elementi (talvolta intrusi, altre volte legittimi attori della scena) portano spessissimo all’esito unico della non ap- plicazione della legge posta a garanzia dell’imputato: semplicemente, il procedi- mento fa il suo corso e non è permesso di interferire agli “ostacoli” dovuti alla protezione di chi deve difendersi dall’accusa. Null’altro: non si tratta, quindi, di applicare regole diverse, o di ricavarle dalla mescolanza tra le garanzie legali e le re- gole che discendono dall’inevitabile incursione di altre fonti, di sostituire alla legge il diritto che si ricava dai nuovi percorsi dell’interpretazione nella accresciuta com- plessità del sistema normativo. Si tratta semplicemente di rintracciare elementi che consentano di non applicare, meglio “non leggere”, le norme poste a garanzia

proprio dalle regole processuali: «il giudice tratta ogni caso nei limiti del suo oggetto e rigide regole processuali restringono la conoscenza del giudice a ciò che è pertinente al caso di specie» (p. 72 e anche 105, corsivi miei); e questa affermazione vale per i fatti del processo, ma anche per le disposi- zioni che regolano le condotte descritte nell’imputazione e l’iter processuale. Ciò che questo lavoro intende affrontare non è la difficoltà esegetica nell’individuare il testo rilevante, ma il metodo, si- stematicamente diffuso, di non dare applicazione ad una norma che pur non viene considerata irri- levante. In tutti i casi che si esamineranno, infatti, non sarà mai messo in discussione dal giudice che la norma posta a garanzia dell’imputato sia applicabile; ne verranno semplicemente disinnescati gli effetti giuridici sebbene gli elementi costitutivi della fattispecie ricorrano tutti.

8 V.MANES, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovrana- zionali, Roma, 2012, specialmente p. 22 ss., e p. 34 ss.

9 Quella di accertare la colpevolezza, ad esempio, che le regole sul rito lo consentano o meno.

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dell’imputato, ossia di epurare il procedimento da taluni di quei momenti di prote- zione, senza elaborarli o rimodellarli, ma semplicemente eliminandoli.

Qualche esempio10.

La Corte di cassazione esclude l’applicazione di una norma inevitabilmente applicabile quando afferma: «Anche a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, con cui è stata data attuazione alla direttiva 2010/64/UE sull'assistenza linguistica, è legittima la convalida dell'arresto dello straniero allo- glotta, senza che si sia previamente proceduto al suo interrogatorio per l'impossi- bilità di reperire tempestivamente un interprete, ricorrendo in tale eventualità un caso di forza maggiore che non impedisce la decisione del giudice sulla legittimità dell'operato della polizia giudiziaria»11.

Nessun percorso interpretativo, quindi, anzitutto dell’art. 143 c.p.p. che, come la stessa Corte ricorda, ha imposto, in attuazione della Direttiva UE 2010/64, l’assistenza per l’imputato di un interprete al fine di «seguire il compimento degli atti e delle udienze cui partecipa» e «per le comunicazioni con il difensore prima di rendere interrogatorio». E nessuna interpretazione dell’art. 178, comma 1, lett. c, c.p.p., che sanziona le mancanze che dovessero manifestarsi in questo ambito con la nullità dell’atto, poiché simile garanzia è senz’altro posta al fine di realizzare la partecipazione dell’imputato al processo e di renderne possibile l’assistenza12.

Queste due norme non sono poste in discussione (le norme sulla nullità non sono neppure nominate nell’intero provvedimento) e la loro portata applicativa esce intatta dalla sentenza. Soltanto, la Corte di cassazione innesta un elemento di fatto, la “forza maggiore”, connessa con la “funzione” del magistrato (quella di accertare la legittimità dell’azione della polizia giudiziaria), che mette fuori gioco i testi, e non certe loro interpretazioni. Nonostante quelle norme siano applicabili al caso e tale garanzia debba tutelare l’imputato nel frangente dell’udienza di convalida e dell’interrogatorio, a pena di nullità, ciò non accade e quella prote- zione non assiste più l’imputato senza che ne derivino conseguenze processuali.

Causa di simile esito è l’introduzione di un elemento di fatto, la forza maggiore, che non si rintraccia nella fattispecie di alcuna norma applicabile all’ipotesi con- siderata. Esso non orienta in un certo modo l’interpretazione del testo, ma ne impedisce l’approccio. Il procedimento prosegue come se gli artt. 143 e 178,

10 Si tratta di una giurisprudenza che meriterebbe di essere catalogata e razionalizzata sebbe- ne, come ben s’intuisce, tagli trasversalmente tutto il processo penale. Ai nostri fini, basteranno po- chi esempi, utili solo per cogliere i metodi.

11 Cass., IV, 15 gennaio 2015, P.M. in proc. Baatar e altro, Ced rv. 262034.

12 Sulle garanzie linguistiche dell’alloglotta, D.CURTOTTI NAPPI, Il problema delle lingue nel processo penale, Milano, 2002, p. 233 ss e 393 ss. individuava una nullità generale a protezione delle garanzie linguistiche dell’imputato anche prima che l’art. 143 c.p.p. fosse modificato ad opera del d.

lgs. 4 marzo 2014, n. 32. All’Autrice si deve la segnalazione di questa giurisprudenza e degli altri atti inerenti a tale specifica tutela che verranno presi in considerazione nel prosieguo del lavoro.

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comma 1, lett. c, c.p.p. non esistessero13. Per evocare una felicissima metafora, che negli ultimi anni ha ben inquadrato le difficoltà interpretative attuali e gli esi- ti applicativi spesso non condivisibili che esse determinano, non abbiamo “un giudice nel labirinto”, né un giudice che ne evade sorvolandolo a mo’ di Icaro14; qui il giudice semplicemente non entra nel labirinto.

Non ne varca le soglie neppure il giudice che afferma: «Non può trovare ap- plicazione la legge penale modificativa più favorevole entrata in vigore dopo la sentenza della Corte di cassazione che dispone l'annullamento con rinvio ai soli fini della determinazione della pena, ma prima della definizione di questa ulterio- re fase del giudizio, poiché i limiti della pronuncia rescindente determinano l'ir- revocabilità della decisione impugnata in ordine alla responsabilità penale ed alla qualificazione dei fatti ascritti all'imputato»15. Apparentemente più controllato, il percorso argomentativo del giudice, anche in questo caso, non affronta il nodo interpretativo cruciale. L’assunto è chiaro: per l’art. 624 c.p.p. la sentenza ha «au- torità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata», e la Corte di cassazione indica, nella sentenza di annullamento con rinvio, quali parti del provvedimento cassato diventano «irrevocabili». Dun- que, intervenuta una legge modificativa in senso favorevole della fattispecie pena- le dopo l’annullamento con rinvio, essa non può influire sul giudizio, siccome la

“parte” della sentenza che prende posizione sull’an della responsabilità ha già

«autorità di cosa giudicata». Dunque, poiché l’art. 2 c.p. fissa nella pronuncia della «sentenza irrevocabile» il limite oltre il quale non rileva una norma penale solo modificativa, non può essere applicata la fattispecie incriminatrice più mite nel giudizio di rinvio che debba occuparsi solo della quantificazione della pena.

A fronte di simile ragionamento16, sembra che l’estromissione dalla sfera giuridica dell’imputato della garanzia basilare offertagli dalla legge penale derivi proprio dalla scelta di soffermarsi a lungo sull’interpretazione dell’art. 624 c.p.p., senza

13 Rilievi simili, a proposito dell’art. 111, comma 4, Cost., si trovano nell’intervento di D.NE- GRI nella tavola rotonda su “Il processo penale italiano a venticinque anni dalla riforma del codice”, in questa Rivista, p. 219 ss., per il quale, talvolta, la Corte di cassazione decide come se quella rego- la non esistesse, ignorandola del tutto.

14 V.MANES, Il giudice nel labirinto, cit., specialmente p. 22 ss., e p. 34 ss. per l’efficace allusione a Icaro, come monito a non voler eludere il problema delle difficoltà interpretative agganciandosi a principi o, peggio, a valori, che permettano di “sorvolare”, invece di percorrere, il labirinto.

15 Cass., S.U., 27 marzo 2014, C., in Ced rv. 258654, e anche in Giur. it., 2014, p. 1224; qui la commenta, in ordine ad altri profili ma evocando già nel titolo la compressione di diverse garanzie fondamentali dell’imputato, G.SPAGHER, Un’altra violazione del divieto di reformatio in peius (…e non solo), p. 1231, il quale fa un cenno a questa giurisprudenza, proprio in tema di preclusioni, an- che in G.SPANGHER, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Torino, 2015, p. 131.

16 Il quale suscita, già di per sé, molteplici perplessità, soprattutto in ordine alle determinazio- ni chiare di Corte E.D.U., sent. 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia e all’art. 49 della Carta dei di- ritti fondamentali dell’Unione Europea.

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mai affrontare la lettura critica della reale norma di riferimento, cioè quella che pone la garanzia: l’art. 2 c.p. Non è una determinata lettura di questa disposizio- ne che orienta la decisione: questa è permessa, nei suoi contenuti specifici, dal fatto che il significato del sintagma «sentenza irrevocabile» nell’art. 2 c.p. non venga mai né chiarito né esplicitato. Infatti, il senso che la Cassazione attribuisce al termine «irrevocabile» sta sempre e tutto nell’art. 624 c.p.p., che ovviamente non si occupa affatto della garanzia sostanziale offerta all’imputato quando so- pravvenga una fattispecie incriminatrice più mite17. E ciò viene svelato dalla stessa Corte, quando individua (forse inconsapevolmente) proprio il punto cruciale del- la questione: «il riconoscimento della autorità di cosa giudicata, enunciato, in te- ma di annullamento parziale, dall’art. 624 c.p.p., con riferimento alle parti della sentenza che non hanno connessione essenziale con la parte annullata, non si rife- risce né al giudicato cosiddetto sostanziale, né alla intrinseca idoneità della deci- sione ad essere posta in esecuzione, ma soltanto all’esaurimento del potere deci- sorio del giudice della cognizione». Ma la Corte non esplicita mai se l’art. 2 c.p., al contrario, faccia riferimento proprio a quei diversi significati del termine «irre- vocabilità» che sono esclusi dall’art. 624 c.p.p., invocando solamente, quindi, il passaggio in giudicato dell’intera sentenza.

Ancora una volta, la violazione della legge (art. 2 c.p.) che annulla la garanzia non passa attraverso un’interpretazione che supera i limiti semantici della dispo- sizione o che si serve di metodi fallibili. Essa, invece, passa dal non detto: la lettu- ra critica della norma che regola la fattispecie è semplicemente evitata in modo radicale, e la Cassazione non giustifica in alcun modo questa scelta.

Allo stesso modo, la lettera della legge posta a protezione dell’imputato cade, senza la pur minima disputa interpretativa, se fattori esterni orientano i compor- tamenti del singolo giudice. Sempre in materia di garanzie linguistiche, il Presi- dente del Tribunale e il Presidente della Corte d’Appello di Milano hanno elabo- rato delle linee guida, sotto la forma della “raccomandazione”. Sebbene, in attua- zione della direttiva UE 2010/6418, l’art. 143, comma 2, c.p.p. pretenda la tradu- zione delle sentenze se l’imputato è alloglotta, tali raccomandazioni prescrivono, ad esempio, la traduzione della sentenza di patteggiamento «solo se richiesta e-

17 In tutto il provvedimento, infatti, non si usa mai l’espressione «sentenza irrevocabile», ma se ne adottano sempre di diverse: «sentenza ormai irrevocabile sul punto», «sentenza definitiva sul punto», «porzione qualificante della sentenza non annullata che assume i connotati del giudicato»,

«intangibilità della porzione di risultato raggiunta». E ciò accade sebbene l’art. 2 c.p. blocchi la ga- ranzia dell’applicazione della legge favorevole solo al cospetto di una «sentenza irrevocabile».

18 La quale pretende anch’essa, all’art. 3, comma 2, la traduzione delle sentenze, senza alcuna condizione.

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spressamente dall’imputato»19. Qualora simili testi orientassero ed uniformassero il comportamento di tutti i giudici degli uffici in questione, a fronte di una sen- tenza di patteggiamento sarebbe vana ogni proposta di semplice lettura dell’art.

143 c.p.p., senza neppure il bisogno di una interpretazione che ne limiti la porta- ta. Quella prescrizione sarebbe semplicemente superata, ed al giudice sarebbe permesso di evitare persino la ricerca di un suo significato normativo. Non si fa- rebbe questione se quella norma imponga o meno la traduzione di tutte le sen- tenze, poiché è pacificamente così; la norma sarebbe semplicemente ignorata a favore di una soluzione alternativa imposta in via di prassi.

Non sembra un fenomeno diverso quello per cui, spesso oramai, quando ri- corrono determinate nullità, il giudice non le dichiara se, in concreto, pur essen- do stata indiscutibilmente violata la norma, non si ravvisi un «pregiudizio effetti- vo» alle posizioni dell’imputato “astrattamente” tutelate dalla legge20. Anche in questo caso, non è pensabile che ci si trovi di fronte ad una ricostruzione inter- pretativa del sistema delle invalidità; esso è semplicemente disinnescato dal rifiu- to di trarre dall’integrazione della fattispecie processuale le inevitabili conseguen- ze giuridiche, giustificato dall’introduzione di un elemento di sistema, se così si può chiamare, che il medesimo sistema non contempla. Ancora una volta, tutto si regge su una notevole ambiguità: una fattispecie normativa, integrata in tutti i suoi elementi, non produce tuttavia le conseguenze previste. Così, in sostanza,

19 Punto III lett. C della “raccomandazione” in oggetto. Per l’intero testo si veda Le linee gui- da del Tribunale e della Corte di Appello di Milano in materia di interpretazione e traduzione nei pro- cedimenti penali, in www.penalecontemporaneo.it, 19 giugno 2014.

20 Per esempio si veda Cass., S.U., 29 settembre 2011, Rossi, in Ced rv. 251497 che scatenò un acceso dibattito in dottrina, negando la nullità per violazione dei diritti difensivi a fronte della man- cata attribuzione dei termini ex art. 108 c.p.p., poiché la continua sostituzione del difensore da par- te dell’imputato assumeva i connotati di una condotta processualmente scorretta. Sul punto, si ve- da, tra gli altri, F.CAPRIOLI, Abuso del diritto di difesa e nullità inoffensive, in Cass. pen., 2012, p.

2444 ss., il quale, una volta escluso che fosse possibile non rilevare la nullità, propone soluzioni al- ternative volte a scongiurare l’“abuso” basate sull’interpretazione dell’art. 108 c.p.p. Ma espressio- ne del medesimo disegno è quella giurisprudenza, oramai granitica, per cui la nullità, generale (ma al contempo espressamente prevista all’art. 522 c.p.p.) che colpisce la sentenza che condanna per un fatto diverso da quello previsto nell’imputazione, non va riconosciuta se l’imputato abbia effetti- vamente avuto occasione di difendersi sulle circostanze della diversità del fatto poi recepito in sen- tenza. Da ultimo, Cass., V, 16 settembre 2014, Sommariva in Ced rv. 261420. A. CAPONE, L’invalidità nel processo penale. Tra teoria e dogmatica, Padova, 2012, p. 151, ritiene, senza mezzi termini, che debba essere l’art. 111, comma 1, Cost. a dover «espellere dall’area del costituzional- mente consentito il recidivante impiego della teorica del c.d. “pregiudizio effettivo”». Per una ri- flessione generale, che punta al ripensamento delle invalidità processuali, non potendosi più pre- scindere dal nuovo paradigma incentrato su criteri sostanzialistici di valutazione, M.CAIANIELLO, Premesse per una teoria del pregiudizio effettivo nelle invalidità processuali, Bologna, 2012, spec. p.

174 ss.

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l’interprete che opera nel processo dovrà giocoforza fare sempre meno affida- mento sul meccanismo stesso su cui si regge la forza precettiva della legge21.

Anche i principi introdotti dal diritto europeo o dalle sentenze della Corte E.D.U. o della Corte di Giustizia sarebbero idonei a fungere da “ponte”, sì che il giudice possa passare sopra le disposizioni nazionali e non valutarne interpreta- zione, significato e forza precettiva22. Anche in questo caso, le fonti superiori pos- sono essere usate come strumenti dal giudice nazionale per omettere l’atto inter- pretativo, come sopra s’è detto. In realtà, sono molto più frequenti i casi in cui è l’interpretazione combinata delle due fonti (europea e nazionale) che desta per- plessità e giunge ad esiti a volte non condivisibili23. Se, ad esempio, si considera la giurisprudenza della Corte E.D.U. in materia di dichiarazioni rese da persone con cui non è stato possibile instaurare il contraddittorio, si nota poi come simili de- cisioni siano usate dal giudice italiano per provocare flessioni notevoli della disci- plina probatoria interna. Si deve alle Sezioni Unite della Corte di cassazione l’assunto per cui, quando un testimone si sia volontariamente sottratto all’esame,

21 Pur essendo il giusto processo, val la pena di ricordarlo, «regolato dalla legge» (art. 111, comma 1, Cost.).

22 Inquadra bene il fenomeno S. ALLEGREZZA, Il “caso Pupino”: profili processuali, in L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, a cura di F. Sgubbi, V. Manes, Bologna, 2007, p. 74: è «proprio l’interazione fra ordinamento comunitario e giustizia penale […] a creare ulteriori frizioni: ai giudici nazionali si chiede di abbandonare lo schema piramidale classico del diritto penale e di adottare un sistema reticolare, in cui la norma di riferimento è il precipitato, dai contenuti talvolta fluidi, dell’interpretazione fra fonti interne e fonti sovranazionali». Le “rela- zioni pericolose” tra diritto interno e diritto europeo sono ben inquadrate da molti autori, i quali si soffermano su aspetti di volta in volta diversi delle dinamiche interpretative, mettendo tutti in luce, però, i rapporti tra norma nazionale e norme europea, le quali quindi sono comunque sempre en- trambe considerate nell’operazione esegetica. V.MANES, Il giudice nel labirinto, cit.; di recente, con felice sintesi, R.BIN, A discrezione del giudice, cit.; e, in particolare sul processo penale, tra i tanti, P.FERRUA, La dialettica regola-eccezioni nell’impianto dell’art. 111 Cost.: il quadro sistematico, in Eccezioni al contraddittorio e giusto processo. Un itinerario attraverso la giurisprudenza, a cura di G.

Di Chiara, Torino, 2009, p. 3 ss.; D.NEGRI, Corte europea e iniquità del giudicato penale, in Dir.

pen. proc., 2007, p. 1229; S.ALLEGREZZA, L’incidenza del diritto dell’Unione europea sul diritto pro- cessuale penale, in L’incidenza del diritto dell’unione europea sullo studio delle disciplina giuridiche, a cura di L.S. Rossi-G. Di Federico, Napoli, 2008, p. 345 ss.

23 Accadde con le sentenze Cass., I, 12 luglio 2006, Somogyi, Ced rv. 235035 e Cass, I, 12 lu- glio 2006, Dorigo, Ced rv. 235447, che dichiararono “ineseguibile” il giudicato di condanna a fron- te della violazione, accertata dalla Corte E.D.U., sent. 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia, o, in uno di questi casi, da Rapport de la Commission, 9 settembre 1998, (Requête n. 33286/96) come rileva D.NEGRI, Corte europea e iniquità del giudicato penale, cit., p. 1229, senza che alcuna norma di di- ritto interno lo consentisse. Ma è facile notare che qui a cadere fu il giudicato di condanna, metten- doci del tutto fuori dalla prospettiva dell’attacco giudiziale al garantismo. Tuttavia, fu il procedi- mento interpretativo (se si vuol chiamar così), a destare fondate preoccupazioni (tanto che quell’Autore intitolò evocativamente il primo paragrafo di quello scritto “Timeo Danaos et dona ferentes”) poiché – in piena sintonia con il fenomeno che qui si cerca di criticare – il giudice rimos- se quei giudicati in assenza di «un’apposita fattispecie rituale» (p. 1231).

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il giudice deve verificare l’esistenza di riscontri probatori alle sue dichiarazioni, che altrimenti non potranno assumere alcun valore probatorio24. Dunque, il divie- to d’uso recepito dall’art. 526, comma 1 bis, c.p.p. (che genera, in realtà, dall’art.

111, comma 4, Cost.) non vale più ad escludere la prova fornita da chi rifiuta il confronto, ma serve solo a non fare di simili fonti l’elemento conoscitivo prepon- derante: il criterio – estraneo alla norma codicistica e costituzionale – è usato dal- la Corte E.D.U. nella valutazione dell’equità del processo secondo l’art. 6 C.E.D.U., e non è in alcun modo imposto agli ordinamenti nazionali quando, come il nostro, prevedano una più ampia tutela del contraddittorio, che passi at- traverso il divieto di valutare quelle fonti, per quanto affiancate da altri elementi conoscitivi del medesimo segno25. Eppure, evitando sforzi esegetici che potessero giustificare davvero quella decisione26, la Cassazione “importa” la regola meno garantita, innestandola semplicemente sull’art. 526, comma 1, bis c.p.p. il quale esige invece l’esclusione di certe prove, a prescindere dalla configurazione del re- sto della piattaforma probatoria27.

Volgendo lo sguardo al resto della giurisprudenza, tuttavia, va notato come, di solito, le acrobazie interpretative – e, talvolta, il totale accantonamento di una fat- tispecie normativa processuale – fungano da (pur discutibile) mezzo per attribui- re, e non togliere, all’imputato le garanzie previste in sede europea28.

È la combinazione del diritto europeo con la norma interna che porta quest’ultima ad una notevole torsione interpretativa e a soluzioni talvolta distanti dal modello legale disegnato dal diritto interno. Ma, in simili ipotesi, è un proble- ma, spesso, di ardua gestione della pluralità delle fonti – che pure porta a risultati

24 Cass., S.U., 25 novembre 2010, De Francesco, in Ced rv. 250197 ma quest’affermazione torna nella giurisprudenza più recente (Cass., V, 22 dicembre 2014, Capozzo, in Ced rv. 261825).

25 Nei riguardi dell’Italia la Corte E.D.U. si è espressa in questi termini con sent. 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, e sent. 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia.

26 È una motivazione «particolarmente faticosa, oscura», come rileva M.L.BUSETTO, Il dibat- timento penale, Trento, 2012, p. 51.

27 Penetrante l’analisi di M.L.BUSETTO, Il dibattimento penale, cit., p. 51 ss. il quale esprime chiaramente il fenomeno, più che di interpretazione, di trasfigurazione normativa che subisce l’art.

526, comma 1 bis, c.p.p.: «La Corte di cassazione interpreta, applica […] l’art. 526, comma 1 bis, c.p.p. come se non prevedesse un caso di inutilizzabilità» (corsivo mio).

28 E tuttavia, non vanno dimenticati i rischi connessi al metodo, che con questo lavoro s’intende criticare, di crear regole senza fattispecie. Oltre al monito, testé ricordato, di D.NEGRI, Corte europea e iniquità del giudicato penale, cit., p. 1229, si veda, più di recente, l’osservazione generale di G.SPAN- GHER, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, cit., p. 131: «Non può del tutto escludersi che il riconoscimento a livello europeo della violazione dei diritti (ad un giusto processo) spettanti alle vitti- me del reato che abbia condotto ad un proscioglimento dell’imputato non possa indurre i giudici eu- ropei – percorrendo l’itinerario del passato e superando quindi la logica risarcitoria – a ritenere neces- saria la riapertura del processo, aprendo le strade ad una revisione in malam partem».

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comprensibilmente imprevedibili e spesso non soddisfacenti29 – e non di disappli- cazione “secca” della norma che pone la garanzia30.

In ogni caso, non vanno addossate troppe responsabilità al diritto di prove- nienza europea: rispetto alla diffusa pratica di “non leggere la legge”, esso si po- trebbe porre quale uno dei possibili fattori da introdurre nel ragionamento per scalzare la norma, ma di certo non determina il problema, che pare tutto interno, e non sembra aggravarlo particolarmente31.

In tutti i casi descritti, le garanzie legali, annullate dall’ambiguità32, cadono in modo dolce e silenzioso. Diventa quindi assai difficile che possano risollevarsi,

29 Ad esempio, della dinamica tra le decisioni della Corte E.D.U. e diritto interno si occupa, trat- teggiandone le linee generali, P.FERRUA, La dialettica regola-eccezioni nell’impianto dell’art. 111 Cost.:

il quadro sistematico, cit., p. 3 ss. In materia di diritto europeo, in relazione alla disciplina nazionale del processo, S.ALLEGREZZA, L’incidenza del diritto dell’Unione europea sul diritto processuale penale, cit., p. 345 ss. e in particolare, p. 368 ss.

30 Accadde con la vicenda dell’estensione delle ipotesi di incidente probatorio oltre i limiti dell’art. 392 c.p.p., sospinta, a tutela di soggetti particolarmente vulnerabili, da Corte Giust. UE, 16 maggio 2005, Pupino, seguita poi da alcune sentenze della Corte di cassazione che ammettevano quell’allargamento proprio in forza della decisione del giudice europeo, come Cass., VI, 11 marzo 2008, Messina, in Ced rv. 240321. Sebbene il vulnus alla tassatività della prescrizione interna fosse evi- dente e – va detto – non fosse neppure estranea a questa soluzione una certa diminuzione delle garan- zie dell’imputato in ordine alla formazione dibattimentale della prova, l’esito scaturì da una certa lettu- ra della norma interna, non del tutto scalzata, ma combinata con le statuizioni della Corte di giustizia.

Sul punto, tra i tanti, S.ALLEGREZZA, Il “caso Pupino”: profili processuali, p. 53 ss e M.CAIANIELLO, Il caso “Pupino”: riflessioni sul nuovo ruolo riconosciuto al giudice alla luce del metodo adottato dalla Corte di Giustizia, p. 89 ss., entrambi in L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, cit. Quest’ultimo, poi, si sofferma proprio sui limiti che incontra il giudice nell’adattare la propria in- terpretazione alle fonti dell’Unione (p. 97 ss.).

31 Interpellando le banche dati in cui è raccolta la giurisprudenza non è facile imbattersi in una garanzia interna del tutto messa fuori gioco ad opera soltanto del diritto dell’Unione direttamente ap- plicabile o dei principi derivati dalle sentenze delle Corti europee. Come testimonia la vicenda che ha riguardato la confisca in assenza di condanna, è stata la nostra Corte costituzionale (sent. 14 gennaio 2015, n. 49), ad esempio, a degradare la presunzione d’innocenza, anzitutto scolpita nell’art. 27, com- ma 2, Cost., e poi nell’art. 6, comma 2, Conv. E.D.U., chiaramente affermata, invece, dalla Corte E.D.U. (Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi e altri c. Italia , Corte EDU, 29 ottobre 2013, Varva- ra c. Italia). Per una sconsolata considerazione generale D.NEGRI, Delle procedure penali criminali:

parte della legislazione così principale e così trascurata, in Cass. pen., p. 3950, il quale nota come

«l’attacco al paradigma tradizionale del processo governato dalla legge sia cominciato ben prima che il fenomeno dell’egemonia giudiziaria vestisse l’abito soffice e seducente dell’europeismo penale».

32 Che la tensione tra la legge ed il giudice sia concettualmente e storicamente riferibile all’ambiguità emerge in modo chiaro da un’illuminante pagina di M.NOBILI, Principio di legalità, proces- so, diritto sostanziale, in Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, 1998, p.185: «si danno buo- ni sistemi costruiti sul primato (della qualità) del giudice ed altri, basati invece sul primato della legge.

[…] Tuttavia oggi, in Italia, registriamo una sfasatura: nell’effettività ci si spostati assai vistosamente verso il primo dei due sistemi (il governo di uomini), ma nell’ambito di una intelaiatura, di una struttura orga- nizzativa ed istituzionale, di un approccio alle questioni, rimasti “come se” l’apparato penale fosse ancora del tutto il “governo della legge”. La macchina vien dunque presentata, giustificata, organizzata secondo

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poiché si spegne ogni dibattito o controversia interpretativa che tenga vivo il te- ma. Sarebbe più rassicurante un’interpretazione sbagliata o discutibile dei testi;

una lettura palesemente errata si offrirebbe al contrattacco argomentativo33 e la questione resterebbe dibattuta e sempre passibile di nuove soluzioni34. La ferita più pericolosa per le garanzie sta nei silenzi e nell’ambiguità della giurisprudenza;

gli attacchi frontali alle disposizioni poste a tutela dell’imputato sono, dunque, di certo preferibili35.

3. Nessun garantismo senza le regole

Le dinamiche appena descritte non manifestano, dunque, un calo di garanzie contestualizzato in un disegno normativo o interpretativo. Banalmente, esse atte- stano la “scomparsa” di talune prescrizioni dalla disciplina processuale, che sono improvvisamente sottratte dal corredo di norme a tutela dell’imputato se il giudi- ce del processo le veda, invece, come ostacoli ad un certo modo di procedere, o

quest’ultimo modello, mentre per molti versi funziona con la prevalenza di quel “contro-potere”, postu- lato come di per sé affidabile. Forse sta proprio qui il vero nodo problematico».

33 Per cogliere l’importanza del contributo argomentativo delle parti nel processo si veda il saggio di R.ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, 4ª ed., Torino, 2010, p. 3 ss.

34 Che il dibattito, quale che sia il suo esito, sia sempre preferibile a silenzi o arroccamenti su certi testi (che determinano silenzi su altri testi o su altri elementi dell’interpretazione) emerge bene dalle poche parole di F.PALAZZO, Intervento, cit., p. 5: «perché, insomma, non provare a riflettere sul fatto che certezza ed eguaglianza potrebbero essere assicurate meglio dalla visibile corposità di argomentazioni valutative che dal fragile schermo di un legalismo testuale?». Mettere sul campo tutti i fattori che influenzano la ricerca della regola del caso, includendo i testi di legge e le esigenze che oggi portano il giudice ad ignorarli, porterebbe di certo a soluzioni scopertamente problemati- che, ma frutto di un dibattito che lascia comunque vive tutte le esigenze rilevanti.

35 Anche se in questo lavoro non ci si occupa, programmaticamente, delle garanzie compresse ad opera del legislatore, occorre evidenziare come pure la legge preferisca l’ambiguità alla negazione per sottrarre garanzie al soggetto. Un esempio si può ricavare osservando come soffochi spesso la presun- zione d’innocenza nelle pieghe delle formule di proscioglimento. Il tema, oggetto di studi precedenti, è approfondito in F.MORELLI, Le formule di proscioglimento. Radici storiche e funzioni attuali, Torino, 2014, p. 434-437. Purtroppo, il medesimo metodo di annullamento delle garanzie è adottato dalla Corte costituzionale; si veda la sent. 14 gennaio 2015, n. 49 sulla quale V.MANES, La “confisca senza condanna”

al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza, in www.penalecontemporaneo.it, 13 aprile 2015. Molto precisamente, l’Autore intravede un «corto circuito garantistico» (p. 27) nell’elemento che, secondo la Corte costituzionale, legittima la confisca: «l’accertamento della colpevo- lezza individuale […] che dovrebbe trovar spazio anche in una sentenza di proscioglimento» (p. 24). Per l’appunto, un elemento connotato da una strutturale ed ineliminabile ambiguità, soprattutto se si tiene conto che la sentenza non affronta mai il tema dei limiti e degli effetti della presunzione d’innocenza po- sta dall’art. 27, comma 2, Cost. che, «sino alla condanna definitiva» assiste l’imputato.

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ad un certo contenuto dell’accertamento36. Ciò produce due effetti immediati sul- la posizione dell’imputato.

Da un lato, viene meno la tutela assicurata dalla legge. Nell’agone processuale, l’accusato perde chances dal contenuto preciso, o patisce deficit di protezione, dovendo subire proprio quelle conseguenze che le garanzie processuali invece scongiurerebbero.

Ma, dall’altro lato, accade qualcosa che – paradossalmente – è molto più gra- ve, poiché avvolge di nebbia tutto il percorso che l’imputato deve intraprendere:

quando la disciplina viene così modulata nei suoi contenuti, e la tutela dell’imputato cade senza neppure che la relativa disposizione venga affrontata e interpretata, diventano del tutto imprevedibili gli sviluppi del processo. Se la ga- ranzia non è assicurata all’imputato, e questi non sa se ciò che la legge dispone avrà concreto effetto nella sua vicenda processuale, diventa impossibile pianifica- re strategie, scegliere uno tra più possibili percorsi difesivi, in definitiva, modella- re l’intera attività processuale che gli compete.

La corrente giurisprudenziale per cui resta non applicata la nullità della sen- tenza che condanni per un fatto diverso rappresenta un buon esempio di quanto si cerca di esprimere37. La nullità, secondo la Cassazione, non esplica effetti quando l’imputato si sia comunque difeso in ordine ai fatti materiali che avrebbe- ro dovuto essere riversati in una nuova imputazione. Ebbene, basta scorrere le massime raccolte sul punto per avvedersi che ogni imputato, in definitiva, argo- menta e adduce prove sulle circostanze del fatto che il dibattimento riveli oltre i confini dell’imputazione; ma, poi, deduce sempre la nullità della sentenza che lo condanni per il fatto diverso mai contestato. Del resto che fare? Un passo indie- tro nel contraddire su elementi di fatto non recepiti dall’accusa potrebbe essere fatale se poi quella nullità non intervenisse a togliere di mezzo una sentenza che non corrisponda all’imputazione. Tuttavia, una difesa effettiva su quegli stessi e- lementi sarebbe da un lato imprudente (perché scongiura l’invalidità, pur pre-

36 M.NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo – teoria dello Stato – epistemologia, in Ind.

Pen., 1997, p. 32 introduce un elemento che aiuta a spiegare bene una crisi così radicale della legali- tà processuale: «ci si è spostati dal punire ‘dopo’, verso il punire con il procedimento». Medesime riflessioni in M.NOBILI, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, cit., p. 195 ss. Così anche, con molta efficacia, R.ORLANDI, Effettività della sanzione penale e principi processuali, in Critica dir., 1997, p. 212. Per una diagnosi storico-culturale sulla preminenza del momento giurisdizionale R.ORLANDI, Giustizia penale e ruolo dello stato: un rapporto in crisi, in Il mulino, 2002, p. 868: «Il primato della legge, nella versione tramandata dal pensiero giuridico europeo-continentale a partire dal XVIII secolo, presupponeva, infatti, una certa fissità dei valori e un ancoramento degli stessi ad interessi prevalentemente superindividuali: se – come oggi accade – queste condizioni vengono me- no, è chiaro che la sede giurisdizionale diventa il luogo più adatto per dar la risposta ad esigenze particolaristiche; di per sé esposte alla volubilità dei bisogni individuali tipici di una società oltre- modo dinamica ed esposta alle spinte centrifughe del multiculturalismo».

37 Per i riferimenti in materia si veda la nota 18.

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scritta) e dall’altro alquanto malagevole: fin dove difendersi? Come evolverà il tema del fatto di cui non siano stati fissati i confini attraverso le parole? Senza che la pubblica accusa abbia esplicitato la sua lettura della realtà, quale contenuto es- sa concretamente assume nel processo? È una difesa necessariamente confusa, per via dei contorni sfumati della contestazione. Ancora una volta l’ambiguità soffoca le garanzie, anche quando non è compressa la possibilità della difesa in sé. Questa chance non manca formalmente, poiché la Cassazione esclude la nullità a patto che ci si sia difesi sul punto non recepito dall’imputazione: ciò nondime- no, non essendo prevedibile la sorte del provvedimento finale che condanni per il fatto non contestato, nell’alternativa tra la norma scritta e la giurisprudenza che quella norma ignora, anche la difesa ed il contraddittorio escono strozzati, e pure quelle garanzie non si espandono come dovrebbero poiché, in definitiva, manca la certezza che la regola verrà applicata pur essendosene verificati tutti i presupposti.

Si potrebbero fare molti altri esempi, ma le conclusioni sembrano sempre le medesime: l’affievolimento della prevedibilità circa le conseguenze giuridiche di atti o fatti – che le regole (strutturalmente, si può dire) assicurano – porta ad una gestione delle attività processuali giocoforza nebulosa, sì che le parti (l’imputato, dalla nostra prospettiva) non potranno usufruire appieno di nessuna delle prero- gative loro riconosciute dal sistema processuale. Semplicemente, prima di giocare al gioco si fissano le regole, così che tutti possano esprimersi al meglio e avere possibilità effettive di ottenere il risultato sperato.

Indubbiamente, il valore della prevedibilità delle conseguenze determinate dalla legge è maggiormente sentito nel diritto penale sostanziale, poiché cono- scendo le condotte incriminate e le relative sanzioni, il privato può orientare i suoi comportamenti. Ma se, quando si parla di ciò che è reato, poter contare sull’applicazione della legge nutre ed espande la sfera delle libertà del soggetto, nell’ambito processuale questa certezza assume un diverso e importante valore, funzionale rispetto a tutte quelle attività che tendono all’obiettivo finale dell’accertamento, o meglio di un accertamento giusto38. Il diritto di difesa, il con- traddittorio, la presunzione d’innocenza, la garanzia del giudice naturale preco- stituito per legge, tra gli altri, sono sì diritti che proteggono l’imputato limitando l’esercizio d’autorità che è il processo, ma costui non gode passivamente di queste

38 Della prospettiva per cui la legalità è direttamente connessa alla giustizia dà conto J.RAWLS, Una teoria della giustizia, Milano, 1971, p. 233: «un tipo di azione ingiusta è rappresentato dall’incapacità dei giudici e di altre autorità di applicare la norma appropriata, o di interpretarla correttamente». Ancora, specificamente sull’affidamento: «nel caso in cui queste norme sono giu- ste, esse stabiliscono una base per le aspettative legittime. Costituiscono il fondamento su cui pog- gia la reciproca fiducia delle persone e in base a cui possono avanzare giuste obiezioni quando le loro aspettative non vengano soddisfatte. Se le basi di queste pretese sono incerte, altrettanto lo sa- ranno i confini delle libertà umane».

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tutele; al contrario, è anche sulla base della disciplina condizionata da questi principi che egli deve decidere, programmare, attuare ogni sua attività nella scena processuale39. Poter confidare nell’applicazione delle regole significa per l’imputato semplicemente poter giocare, poter stare nel processo essendo effetti- vamente in grado di ricoprire il ruolo attivo assegnatogli40.

Per questo motivo, la crisi del garantismo maggiormente incisiva non è quella che guarda al grado di attuazione delle tutele. Al contrario, la vera crisi è quella che coinvolge la certezza circa l’applicazione delle tutele pur riconosciute dalla legge:

quali esse siano devono essere assicurate, di certa applicazione, immancabili.

La certezza dell’applicazione di una norma di garanzia è elemento costitutivo della garanzia medesima. Il fatto stesso di non avere la sicurezza che la norma verrà applicata attenua l’effetto della protezione, anche se, poi, quella tutela verrà alla fine riconosciuta. Non si vedono dunque alternative che possano rivitalizzare il garantismo fuori dalla tenuta delle regole, perché ogni altra forma di compen- sazione all’incertezza sulla disciplina, per funzionare davvero, avrebbe – parados- salmente – bisogno di disciplina41. Non sembrano esistere, dunque, antidoti ga- rantistici fuori dalla legalità.

Del resto, se i principi ed i valori più autentici, che animano le garanzie, resta- no “nebulizzati” senza tradursi in regole (da intendersi qui come norme dotate di

39 M.NOBILI, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, cit., p. 201 ss. tracciando le dif- ferenze del concetto di legalità sostanziale con quello, molto meno studiato ed elaborato, di legalità processuale evidenzia bene la specifica funzionalità di quest’ultimo: ossia quella di regolare, scandi- re, il «rito», le forme del procedere, con la loro «natura di garanzia non solo individuale». Si veda anche E.AMODIO, Crisi della legalità processuale, filosofia della rassegnazione e autorevolezza dei giuristi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, che, contro il diritto processuale «quotidianamente “servito”

dai magistrati con forme che rivelano forzature e anomalie, chiaramente funzionali alla tutela di in- teressi repressivi, talvolta manifestamente sganciati dai binari della legalità» (p. 433), rivendica un processo penale che «reclama la pienezza di tutela racchiusa nell’ordine e nella certezza delle pre- scrizioni legislative» (p. 439).

40 Per capire quanto pesi l’affidamento dell’imputato circa la disciplina del processo, si veda la recente analisi di B.GALGANI, Diritto probatorio e successione di leggi nel tempo. Tempus regit ac- tum?, Torino, 2012, specialmente p. 194 ss.

41 Questa l’osservazione preliminare (e qui sta il dato interessante) formulata prima della de- scrizione dei due famosi modelli processuali (Crime Control Model e Due Process Model) enucleati da H.PACKER, I limiti della sanzione penale, Milano, 1978, p. 153: «alcuni dei nostri organi di pro- duzione giuridica – in modo particolare la Corte Suprema degli Stati Uniti – hanno cominciato ad aumentare moderatamente le prescrizioni di legge volte a regolare la funzione del processo penale.

Questo sviluppo è diventato, in questi ultimi anni, esponenziale in misura e velocità. Siamo di fron- te ad un interessante paradosso: più conosciamo come è il processo penale, più ci rendiamo conto di come dovrebbe essere, e tanto maggiore sembra diventare la differenza fra come è e come dovreb- be essere». Il sentiero che porta dal processo come è al processo come dovrebbe essere (o, più vero- similmente, come si vorrebbe che sia) è, in definitiva, lastricato di regole: è il solo metodo, quale che sia il modello a cui si tende, salvo che si tratti di un modello sostanzialmente tirannico.

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fattispecie precise che innescano precise conseguenze giuridiche)42 potrebbero rappresentare garanzie molto poco funzionali. Si può osservare come – senza la pretesa di identificare i tratti distintivi rispetto alle regole – i principi, e i valori, sono uno strumento nelle mani del giudice, e da questi variamente modulati, pla- smati, bilanciati. Escono dunque dal patrimonio delle garanzie dell’imputato per entrare tra gli strumenti di decisione del giudice. Anche quando esprimono una tutela intensa, quindi, i principi non riescono a cristallizzare una garanzia autenti- ca, poiché le conseguenze giuridiche della loro applicazione sono difficilmente preventivabili, nell’an e nel quomodo: essi interagiscono, con più facilità di norme maggiormente determinate, con il sistema processuale e, soprattutto, con le sva- riate esigenze che, in relazione al caso singolo, il giudice si pone43: aumenta, così, il numero delle decisioni possibili e la variabilità del loro contenuto44. Maneggiare

42 È evidente che i due termini, “principi” e “regole” sono consapevolmente utilizzati in senso evocativo, piuttosto che tecnico, non essendo affatto chiaro quale sia il significato tecnico di en- trambi. Basti, però, ai nostri fini, adottare la prospettiva “soggettiva”, si può dire, di R.GUASTINI, Diritto mite, diritto incerto, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2, 1996, p. 521, per capire a quali atteggiamenti giudiziali ci si riferisce parlando di regole e principi: «non si potrà dire che nel diritto vi siano norme e principi, ma si dovrà dire, più modestamente, che alcuni giuristi al- cune volte trattano alcune disposizioni come principi, altre come norme».

43 Che restano per la maggior parte dei casi inespresse. Si sofferma sull’ambiguità dei provve- dimenti giurisdizionali, tra silenzi e troppa loquacità, F.GIUNTA, La legittimazione del giudice pena- le tra vincolo di soggezione alla legge e obbligo di motivazione, in Giust. pen., I, c. 277 ss.

44 Nota G.SPANGHER, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, cit., p. 106 che le ope- razioni basate sui principi sono «sempre pericolose, non potendosi escludere di ricondurre, sotto lo scudo di un supposto principio, elementi ad esso estranei ovvero che la dilatazione del suo raggio di operatività conduca a scorciatoie interpretative o a forzature ricostruttive. È muovendo dalle norme che si ricostruisce il sistema e non operando in senso inverso. È facile sostenere l’esistenza di un principio riconducendovi ciò che vi è coerente ed escludendo ciò che si ritiene ad esso estraneo.

Ovvero operare anche in senso contrario, muovendo da altre premesse per escludere la riconduci- bilità di una previsione a quella regola generale e configurare la natura eccezionale di una previsio- ne. Ovvero, ancora, affermare la natura singolare di una previsione che non si vuole né configurare come estrinsecazione di una regola, né come una sua eccezione». Un prezioso scritto del passato ci mostra, in concreto, quanto possa essere venefico un principio: O.DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 736 ss. Per ap- prezzare la potenzialità lesiva delle ragioni dell’imputato che l’applicazione diretta dei principi può determinare basta osservare il ragionamento, di segno opposto rispetto a quelli finora evocati, qui non condiviso ma di certo limpido e onesto, di F.M.IACOVIELLO, Procedimento penale principale e procedimenti incidentali. Dal principio di minima interferenza al principio di preclusione, in Cass.

pen., 2008, p. 2190: il “principio di preclusione” si ricava da norme determinate che pongono, in effetti, preclusioni alle attività delle parti ed ai poteri decisionali del giudice. Se ne fa, però, in nome di altri principi (quello, tratto dalla Costituzione, di ragionevole durata del processo, e quello, deci- samente più etereo, di «razionalità processuale che assicuri una efficienza garantita») un «principio generale del processo» (p. 2214). Quindi, quella regola preclusiva risulterebbe improvvisamente ed imprevedibilmente applicabile, senza che una norma lo dica mai, a qualunque fattispecie in cui il singolo giudice ritenga che debba ricorrere una preclusione, ossia un impedimento per la parte ad esercitare le facoltà assicurategli dalla legge in una specifica fase processuale, solo perché essa le ha

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