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La povertà assoluta fa bene alla chiesa e alla società?

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Academic year: 2022

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Francesco Lamendola

La povertà assoluta fa bene alla chiesa e alla società?

L’ideale e la pratica della povertà assoluta sono un bene o un male per la Chiesa e per la società degli uomini? Quante volte si sente dire che se la Chiesa fosse povera, se tutti i ministri di Dio vivessero con coerenza evangelica l’ideale della povertà, le cose andrebbero molto meglio sia per la Chiesa stessa, sia per il mondo nel quale essa vive ed opera. E si citano gli scandali finanziari vaticani, lo scandalo dei cardinali che vivono in case lussuose, dei vescovi che percepiscono stipendi fuori misura. Poi si getta uno sguardo all’indietro, si cita Dante e la sua condanna del clero simoniaco, si cita lo stile di vita vizioso e spendaccione di papi come Alessandro Borgia e si conclude, forse un po’ troppo semplicisticamente, che tutti i problemi nascono da lì: dall’incapacità del clero di osservare il precetto cristiano della povertà. Ma esiste, un tale precetto? Gesù ha raccomandato la povertà assoluta? Ha immaginato una società dove tutti rinunciano ai loro beni e scelgono la via della povertà, in pratica ha prefigurato la società comunista?

Noi crediamo che ci sia un grosso malinteso dietro simili interrogativi. È vero che Gesù parla continuamente dei poveri e li porta a modello da imitare, ma i “poveri” dei quali parla non vanno intesi in senso esclusivamente, o principalmente, economico. La povertà da prendersi a modello è la povertà dello spirito, intesa come semplicità del cuore, e sinonimo di “povero” in tal senso è

“piccolo” (Mt 18, 1-5):

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. 5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.

Gesù non ha mai condannato la ricchezza in se stessa; piuttosto, ha ammonito che la ricchezza diviene una trappola mortale per quanti se ne fanno dominare (Mt 6,19-21):

19 Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; 20 accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. 21 Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.

È vero che Gesù chiede al giovane ricco di dare tutti i suoi beni ai poveri e di seguirlo: ma quella richiesta viene fatta a una persona precisa, la quale aveva manifestato il desiderio di voler seguire totalmente Gesù (Mc 10, 17-27); ed è allora che Gesù prorompe nella famosa esclamazione che è più facile che un cammello (o una gomena, secondo la traduzione dal testo greco) passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. Non è una raccomandazione che si possa generalizzare: Gesù non si rivolge a tutti, ma ad una persona specifica. Del resto, il gruppo dei discepoli viveva grazie alle sovvenzioni di alcuni ricchi seguaci, in particolare alcune nobildonne; e Giuda Iscariota teneva la cassa (e rubava). Inoltre, quando si parla della “povertà evangelica”, non la si dovrebbe contrapporre alla ricchezza: fra i poveri e i ricchi ci sono i membri delle classi medie, cioè la stragrande maggioranza della popolazione di allora e di oggi, che vivono dignitosamente del proprio lavoro. E non è corretto suggerire l’idea che Gesù disapprovi questo tipo di “ricchezza”, che non è tale, ma semplicemente il tenore di vita di quanti, lavorando, hanno raggiunto un certo grado di autonomia e la relativa agiatezza, e che, grazie alle loro attività commerciali, artigianali o imprenditoriali, creano lavoro anche per gli altri e tengono in piedi l’economia della società. Perché, gira e rigira, il nodo della questione è tutto qui: si può proporre il modello della povertà assoluta,

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sapendo benissimo che se qualcuno non produce un po’ di ricchezza la società implode, e i poveri sarebbero ancor più abbandonati a se stessi, ad esempio privati delle cure mediche in caso di bisogno?

E tuttavia, obietteranno quei sedicenti cattolici che vorrebbero equiparare il cristianesimo al comunismo, negli Atti degli Apostoli (2,44-45) si dice che nella primissima comunità cristiana la proprietà privata era stata abolita: 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Però, oltre al fatto che l’abolizione della proprietà privata è cosa diversa dal rifiuto della ricchezza, resta il fatto che quella fu una scelta individuale, quando la Chiesa nascente stava ancora muovendo i primi passi e cercava, a tentoni, la giusta via da seguire nel mondo, attraversata da opposte tensioni interne: quella verso l’attesa escatologica, ritenuta di breve durata perché la rivelazione del Regno di Dio era creduta imminente, e quella verso una sorta di accomodamento con la dimensione terrena, cioè con la necessità di seguitare a lavorare e a guadagnare per poter sostenere se stessi e i membri più bisognosi della comunità, come le vedove e gli orfani. Se tutti avessero rifiutato il lavoro e spregiato i beni materiali in vista della Parusia, che ne sarebbe stato di costoro? La Chiesa dunque, fin dalle origini, dovette fare una scelta: e fece la scelta giusta, quella di arrivare a un ragionevole compromesso fra legittime necessità materiali e la dimensione spirituale, insofferente di lacci e condizionamenti derivanti dai bisogni economici. Avrebbe potuto fare una scelta diversa, e di fatto fu ciò che fecero prima il manicheismo, con la “coda” del bogomilismo, poi il catarismo. Alla base dell’atteggiamento pro o contro un certo grado di compromesso con il mondo c’era, e c’è, la concezione più o meno radicale e intransigente del regno di Dio come realtà totalmente separata e contrapposta al mondo. Se c’è un tale radicalismo, allora non solo il denaro, ma tutte le cose di quaggiù, a cominciare dalla sessualità e la riproduzione, vanno rifiutate, quanto meno se si vuol essere “perfetti”: e tale fu l’assurda dottrina dei catari, oggi tanto sbandierati come esempio di uomini puri liberi contro la Chiesa corrotta, mentre la verità è che si trattava di fanatici odiatori della vita, che consideravano lasciarsi morire di fame come il massimo della purificazione dalla lordura di questo basso mondo materiale. Con buona pace degli storici strabici, che pur di dare addosso al cattolicesimo esaltano anche le eresie più aberranti, fu una gran fortuna che il catarismo sia stato sradicato in maniera totale dalla civiltà europea, perché, se si fosse imposto, avrebbe condotto l’intera società al suicidio.

Tornando al discorso della povertà, sta di fatto che l’aver accettato di essere Chiesa nel mondo, e sia pure per convertire il mondo e non certo per farsi convertire da esso (cosa che purtroppo è accaduta e sta accadendo, a partire dal Concilio Vaticano II) ha causato una serie di sbandamenti e una progressiva corruzione, specie dell’alto clero, perché si è verificato puntualmente ciò contro cui Gesù aveva ammonito: che accumulando tesori, i consacrati si fecero prendere la mano dai beni materiali, destinati originariamente a sovvenire le necessità della Chiesa e quelle dei poveri, e ne divennero schiavi, dando gravissimo scandalo alle anime. Le cose erano giunte a questo punto, e la sola alternativa possibile allo scandalo di un clero corrotto e sempre più avido di ricchezze pareva quella degli eretici valdesi e degli anticattolici catari, quando sorsero contemporaneamente due campioni della fede quali Francesco d’Assisi e Domenico di Guzmán, fondatori dei rispettivi ordini mendicanti, che sposarono l’ideale monastico della povertà insieme a quello della vita nel mondo, a differenza del monachesimo “ufficiale”, che, sul modello benedettino, aveva scelto la via della separazione dal mondo (sia pure una separazione relativa, perché furono i benedettini a rivitalizzare l’economia europea nei secoli del grande crollo demografico e produttivo). Infatti francescani e domenicani fondarono i loro conventi in città e non nelle campagne, attirando molte vocazioni fra i membri delle classi sociali emergenti, come nel caso di Francesco che era figlio d’un ricco mercante e anche in quello di Domenico, che veniva da una famiglia agiata). Con ciò la Chiesa riacquistò credibilità e tolse di mano agli eretici il principale argomento di polemica contro di sé.

Il più grande storico della Roma medievale e della civiltà cristiana dell’età di mezzo, Ferdinand Gregorovius, fa queste osservazioni sulla nascita degli ordini mendicanti (da: F. Gregorovius, Storia

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della città di Roma nel Medioevo, a cura di Luigi Trompeo, Roma, Editrice Frezza, 1941, vol. 8, pp.

126-130 e 138-140):

Una dottrina fanatica, nemica mortale di ogni società pratica e di ogni civiltà, che gli uomini hanno in orrore come la peste, fece allora la sua comparsa per la seconda volta nel mondo [il pauperismo dei catari, riproposizione del dualismo manicheo]; prese forma di idealità religiosa, ed accese d’entusiasmo gli animi più pii. Il principio della povertà assoluta, considerata virtù dei veri successori di Cristo, era preso come base dogmatica dalle sette di eretici di quell’epoca, fra i quali pericolosi soprattutto alla Chiesa erano i “poveri di Lione”, cioè i valdesi. Quella dottrina pare tuttavia al indo verità apostolica, e dette un’arma poderosa ai nemici della monarchia pontificia.

Allo spettacolo delle pompe, delle ricchezze e della potenza non apostolica della Chiesa, si ridestò il desiderio dell’idea cristiana, e gli eretici evangelici ne contrapposero il purissimo esemplare di fronte a ciò che era divenuto sconcia realtà. Il papato romano, venuto in lotta contro il sentimento, che s’era diffuso, della riforma della quale aveva bisogno la Chiesa, sarebbe caduto nell’estrema decadenza, se questa non avesse potuto trovare di nuovo in se stessa l’impulso della abnegazione cristiana, e se non l’avesse fatta rifiorire come pensiero cattolico e suo proprio. All’ora propizia, dal suo grembo sorsero due uomini mirabili, profeti della povertà apostolica, e d’un tratto infusero nuova forza nelle vene della Chiesa; ai lati di Innocenzo III si eressero Francesco e Domenico, figure celebri di quest’epoca. La leggenda rappresentò le relazioni che ebbero con la Chiesa in una visione che sarebbe apparsa in sogno al papa; nel sonno per due volte egli scorgeva due uomini di miserabile apparenza puntellare con le loro mani il Laterano crollante; e al risveglio riconosceva subito in essi i due santi. La loro repentina comparsa, la loro indole leggendaria, la loro operosità tra le battaglie della vita pratica del mondo, la loro influenza religiosa, sono vero fenomeni nella storia della religione. (…)

I due patriarchi del monachesimo mendicante, le due lampade di luce che splendono sul monte, così li chiama la Chiesa, furono a fianco di Innocenzo III gli apostoli della nuova religione universale ecclesiastica; furono ciò che era stato il monaco romano Benedetto accanto a papa Gregorio: Mentre i fondatori di ordini più antichi avevano creato degli eremitaggi o delle abbazie in cui i monaci convivevamo vita contemplativa; mente gli abati, ammassando ricchezze, dominavano su vassalli, come principi dell’impero e come feudatari, Francesco e Domenico, al contrario, sdegnarono un sistema che aveva traviato l’istituto monastico dai suoi principî, ridicendolo ad una cosa secolaresca. La loro riforma consistette nell’idea di far rivivere l’idea dell’abnegazione e della povertà, e al tempo steso nel bandire il sistema di una vita puramente eremitica. Il nuovo monacato piantò le sue tende nel mezzo della città, si mescolò fra tutte le classi del popolo, accolse in sé perfino dei laici sotto forma di terziari. Queste relazioni pratiche multiformi, che gli ordini mendicanti ebbero con ogni cerchia della vita umana, diedero loro una forza immensa. Gli ordini antichi erano diventati aristocratici e feudali; Francesco e Domenico ridussero il monachesimo ad un istituto democratico; e in ciò consistette la potenza davvero portentosa di quei due uomini Le dottrine degli eretici, lo spiriti democratico delle città, il sorgere delle classi lavoratrici e di tutti gli elementi volgari, fin nella lingua, avevano preparato il terreno all’opera di quei due santi. I loro insegnamento furono accolti come manifestazioni dell’indole popolare, ed il popolo li ritenne riforme della Chiesa, sicché si poteva imporre silenzio alle giuste accuse degli eretici Il popolo oppresso vide infatti sublimata sugli altari la disprezzata povertà, la vide sollevata alla gloria del cielo, perciò grandissima fu la moltitudine di quelli che s’arruolarono nei nuovi ordini. Già nel 1219, in una riunione generale tenuta ad Assisi, Francesco poteva contare cinquemila fratelli che, con entusiasmo, seguivano il suo vessillo; e presto l’erezione di frati mendicanti diventò nelle città cosa così importante, come forse oggi sarebbe l’applicazione di qualche nuovo trovato che recasse una rivoluzione alle necessità della vita. Uomini illustri e gente minuta entrarono in quei conventi, e moribondi di ogni ceto si fecero vestire della tonaca di san Francesco per avere sicuro transito in paradiso.

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In poco tempo gli ordini mendicanti esercitarono un grande ascendente su tutti gli ordini sociali:

Nei confessionali e sui pulpiti soppiantarono il clero secolare; ebbero cattedre nelle università, e monaci mendicanti furono i maggiori maestri di scolastica, quali Tommaso di Aquino, Bonaventura, Alberto Magno, Bacone. Sedettero nel collegio dei cardinali, e, papi, salirono alla santa sede…

Benché la sua prospettiva sia viziata dai tipici pregiudizi luterani verso il cattolicesimo, qui il Gregorovius si mostra abbastanza obiettivo. In effetti, sarebbe difficile sopravvalutare il ruolo decisivo svolto dalla nascita degli ordini monacali medicanti nell’Europa fra il XII e XIII secolo: è stato senza dubbio il fatto più notevole nell’arco di mille anni della storia della Chiesa fra la riforma benedettina e la rivoluzione protestante. È molto difficile dire cosa sarebbe accaduto se non vi fossero state quelle due eccezionali vocazioni alla santità e quella straordinaria intuizione, di portare il monachesimo in mezzo al mondo associandolo a uno stile di vita improntato alla povertà assoluta, cosa che rendeva autorevoli quei monaci, in contrasto col disprezzo riservato dai fedeli al clero mondanizzato della Curia pontificia e delle corti vescovili. Se poi si aggiunge che proprio da quei due ordini uscirono i massimi teologi, filosofi e studiosi del basso Medioevo, improntando di sé tutta la cultura del loro tempo e dando alla dottrina cattolica un indirizzo preciso, nel quale ragione e fede potevano e dovevano andare di pari passo, si comprende come tutta la successiva storia d’Europa e della Chiesa sia stata influenzata in modo radicale dalla nascita e dalla straordinaria espansione degli ordini mendicanti.

Resta comunque la domanda: quel modello è replicabile, è ulteriormente espansibile, è adeguato alle necessità materiali e soprattutto spirituali del nostro tempo? Torna sempre la vecchia, ineludibile domanda: la povertà radicale è il modello vincente della dimensione cristiana? Per essere credibile, la Chiesa deve essere radicalmente povera e deve scegliere i poveri (in senso materiale) quali interlocutori privilegiati? A noi sembra che la Chiesa è stata viva e vitale fino a quando ha tenuto il punto dell’indissolubile unità fra la propria missione spirituale e la necessità di sovvenire i bisogni dei poveri, facendosi povera anch’essa, ma sempre in una prospettiva spirituale, mai in una prospettiva materiale o, peggio, materialista. Per “aiutare” i poveri in senso materialista bastano le ideologie progressiste della modernità, dal liberalismo al marxismo. Ciò che rende unico il messaggio cristiano non è la sollecitudine verso i poveri intesi in senso economico, ma verso la povertà complessiva di un mondo senza Cristo, che è prima di tutto povertà spirituale, poi anche povertà materiale. In altre parole: non si aiutano i poveri riempiendo loro lo stomaco, ma indicando loro la via per vita di grazia, che comprende la santità del lavoro e la legittima aspirazione a un giusto grado di sicurezza materiale. La Chiesa fallisce, e tradisce la propria missione, sia quando si disinteressa dei bisogni materiali degli uomini, sia quando riduce tutti i loro bisogni al solo aspetto materiale. Nel quale aspetto materiale rientra, ovviamente, anche la salute; e ciò che sta accadendo in questi mesi con lo stravolgimento del Vangelo in senso vaccinista, dove alla salvezza di Gesù Cristo si sostituisce la salvezza portata da Pfizer e dalle altre multinazionali farmaceutiche, ne dà la tremenda testimonianza. Quel che accade oggi è un ammonimento: se la Chiesa si uniforma al mondo sino a chiudere fuori i fedeli non vaccinati e ad escluderli dalla santa Comunione, in nome di un salutismo totalitario, essa perde la propria ragione di esistere. Questo è il tremendo capolavoro del diavolo: aver insinuato nella Chiesa l’idea che la dimensione materiale è così importante, che chi non la riconosce, chi non s’inginocchia davanti ad essa, chi non l’adora, come Cristo avrebbe dovuto adorare lui, nel deserto, in cambio del potere, non ha un vero spirito cristiano (come dice Bergoglio: chi non si vaccina non ha la carità cristiana). Orribile stravolgimento, ma del tutto prevedibile. Se la Chiesa dimentica di essere annuncio, fatto nel mondo, del Regno di Dio, che non appartiene a questo mondo, a nulla le giova l’essere ricca, con le ignobili speculazioni della banca vaticana e le sconce ostentazioni di certi cardinali, né l’essere povera, come vogliono i tanti, troppi teologi e preti in odor di marxismo e d’indigenismo, primitivismo, ecologismo, come gli adoratori della Pachamama e quei missionari che si vantano di non aver mai convertito né battezzato un solo

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indigeno. Perché il problema non è la ricchezza o la povertà, ma lo spirito con cui la Chiesa vive l’ideale e la pratica del Vangelo: che si rivolge all’uomo integrale, e non al solo homo oeconomicus.

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