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Prima tappa 10, Il cieco di Gerico

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Prima tappa 10,46 invece [di quella] di molti

La preposizione «¢ntˆ» esprime un complemento di contrapposi- zione (in cambio di, invece) e non d’appartenenza (di). Mc insomma contrappone il valore/prezzo della libera scelta di Gesù a quello della vita escatologica di «molti» (non di tutti), che sono poi coloro che nei fatti accolgono l’invito messianico e quindi raggiungono la vita senza termine. Il Nazareno non svende il suo servizio messianico a tutti.

Non pare infatti accettabile che la divina Sapienza abbia progettato che la vita del Figlio diletto sia come un valore immenso buttato alla cieca, ossia un prezzo pagato anche per chi rigetta, deride e/o calpesta l’invito alla salvezza escatologica.

2.2.6. Il cieco di Gerico La sezione marciana sull'illuminazione della sequela autentica, ini- ziata col racconto del miracolo simbolico della guarigione del cieco di Betsaida (8, 22-26), si conclude con una narrazione analoga: la guari- gione del cieco di Gerico (10, 46-52). Sembra confermato così il pro- getto dell’agiografo d’offrire un’unità redazionale sulla luce che deve illuminare il cammino del seguace (cf. Sl 146(145),8: «Javè ridona la vista ai ciechi»), il cui chiarore è il mistero della sofferenza, morte e risurrezione del Signore, ossia la condizione del Figlio diletto venuto per servire e non per essere servito. Questo racconto conclude la pri- ma grande tappa del pellegrinaggio di Gesù, che ha avuto per oriz- zonte geografico principale la Galilea. Il Messia è giunto alle porte di Gerusalemme e sta per iniziare la seconda tappa redazionale del suo santo viaggio. Questo racconto marciano è riferito anche, con alcune particolarità, sia da Lc (18, 36-43) sia da Mt (20, 29-34).

[46] Ed arrivarono a Gerico. E mentre usciva da Gerico lui e i disce-

poli di lui ed una discreta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, un cieco

mendicante, stava seduto lungo la strada. [47] Ed avendo sentito che

Gesù il nazareno c‟è, cominciò ad urlare e dire: “Figlio di David, Ge-

sù, abbi pietà di me”. [48] E lo rimproveravano molti per farlo tace-

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re. Quello invece molto più urlava: “Figlio di David, abbi pietà di me”. [49] Ed essendosi fermato il Gesù disse: “Chiamatelo”. E chia- marono il cieco, dicendo a lui: “Fatti coraggio, alzati, ti sta chia- mando”. [50] Quello, avendo gettato via il mantello suo, essendo balzato su, s‟avvicinò al Gesù. [51] Ed avendo soggiunto a lui il Ge- sù disse: “Che cosa a te vuoi che abbia fatto?”. Il cieco gli disse:

“Maestro mio, affinché veda di nuovo”. [52] Ed il Gesù gli disse:

“Mettiti in cammino, la fede tua ha salvato te”. E subito recuperò la vista e lo seguiva nella strada.

[46] Ed arrivarono a Gerico. E mentre usciva da Gerico lui e i discepoli di lui ed una discreta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, un cieco mendicante, stava seduto lungo la strada

arrivarono a Gerico

Gesù, ragionando coi Dodici dopo la richiesta dei figli di Zebedeo, raggiunge la terra giudaica, a circa 30 Km da Gerusalemme, nella lo- calità che secondo Dt (34,7) è la «città delle palme», di recente mo- dernizzata (ellenizzata) ed abbellita.

Pare che Gerico fosse a quel tempo abitata da molti sacerdoti e leviti (cf. Lc 10, 31- 32). Mc non racconta cosa fa il Nazareno con i Dodici a Gerico. Lc (19, 1ss) riferisce invece l’episodio di Zaccheo proprio durante il cammino del Maestro da Gerico a Gerusalemme. Gerico è la porta d‟ingresso di Israele nella terra della promessa (cf. Gs 6).

mentre usciva

Mc colloca la narrazione all’uscita di Gesù da Gerico, accompa- gnato dai discepoli e da una piccola folla di probabili curiosi.

L’incontro col non-vedente secondo Lc (18,35) accade mentre stanno entrando nel villaggio. La diversità tra Mc e Lc della collocazione del racconto fa ipotizzare fonti orali diverse ai cultori delle fonti (non reperibili!); può essere però un buon indizio della natura midrascica del testo. Mc potrebbe voler indicare un’uscita dal buio del- la falsa idea di Messia che i discepoli hanno coltivato fino a questo punto per entra- re nella luce dell’autentica missione salvifica, dal Maestro suggerita per 3 volte.

Bartimeo

Questa ripetizione con loquela aramaica del figlio di Timeo sugge-

risce l’intento di voler precisare di quale Timeo si tratta. Era insomma

un personaggio noto nei pressi di Gerico e quindi si tratta di notizia

realistica oppure è glossa d’un amanuense posteriore?

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Prima tappa 10,47

Lc che più volte, a differenza di Mc, assegna nomi ai protagonisti delle sue narra- zioni, in questo caso invece ignora il nome del non-vedente, quasi voglia avvertire che il suo racconto è recepito da Mc. Timeo è nome greco che allude forse all’elle- nizzazione recente di Gerico, per cui fa capolino anche il sospetto che Mc possa a- ver voluto dare un nome all’infelice per informare i cristiani di Roma di prove- nienza politeista sulla certezza per cui l’illuminazione di Gesù è a disposizione an- che degli idolatri, oltre che degli abramiti (cf. 8, 22ss). Il racconto parallelo di Mt (20, 29-30) ha come protagonisti 2 ciechi anonimi all’uscita da Gerico.

mendicante

Si tratta di persona emarginata per un duplice motivo. Era del re- sto normale nell'antichità che ad una grave menomazione facesse compagnia l’emarginazione e la miseria dell’esistenza. Siffatte perso- ne erano ritenute percosse da un severo castigo del Dio (cf. Gv 9,1) che aveva promesso prosperità all’amico giusto Abramo, per cui si tendeva a sbarazzarsi di loro anche per timore d’offendere la divinità con la solidarietà per gli infelici (cf. Gv 9, 20-21).

Risulta da un documento di Qumran che ai non-vedenti era precluso persino l’in- gresso nel tempio, perché la loro mera presenza era considerata non compatibile col luogo sacro. La cecità insomma comportava anche l’emarginazione religiosa.

stava seduto

Quest'annotazione conferisce singolare forza alla narrazione se- guente (v. 52) d’una persona che balza in piedi per avvicinarsi a Gesù che chiama.

La postura d’accovacciato sulla strada esprime la condizione d’abbandono e scon- forto della persona che si reputa abbandonata dal Dio e dagli uomini.

lungo la strada

Era la «strada» che congiungeva Gerico con Gerusalemme e che per questo era molto frequentata e dunque ricca di opportunità per un mendicante.

[47] Ed avendo sentito che Gesù il nazareno c‟è, cominciò ad urlare e dire:

“Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me”

il nazareno

Mc utilizza di nuovo qui la voce «nazarhnÕj (nazareno)», ossia la

sua appartenenza galilaica, e dunque non era uno dei numerosi vi-

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582 Prima tappa 10,47

andanti sacerdoti e leviti che andavano al Tempio e poi tornavano a casa (cf. Lc 10, 31-32). Gesù è un laico (cf. Eb 7,14).

I cristiani palestinesi delle origini con l’aggettivo nazarhnÕj alludevano infatti alla natura laica del messianismo di Gesù (cf. 1,24). Pare anche ovvio che per Mc l’appellativo popolare figlio di David, col quale ci si riferiva al Messia (politico) atte- so e lo stesso Bartimeo sta per utilizzare, non aveva alcuna valenza genealogica, perché Gesù è «nazareno», non betlemita del casato di Jesse.

cominciò ad urlare

Si riteneva che la preghiera ad alta voce (urlata) avesse maggiore probabilità d’efficacia, forse perché, immaginando che la divina Di- mora fosse al di sopra della cupola dei cieli, molto lontana dalla sede dell’uomo (cf. Rm 8,15), era necessario tentare di fare giungere alle orecchie divine il suono della preghiera.

figlio di David

Mc dà per scontato che il cieco di Gerico fosse persona che aveva sentito parlare d’un Messia originario di Nazaret, che di sicuro in- tendeva però in senso politico come tutti e quindi «figlio di David».

1. Gli esseni in particolare prevedevano 2 consacrati (o 2 dignità messianiche) per i giusti d’Israele: uno sacerdotale, figlio d'Aronne, e l'altro laico/politico, «figlio di David». La letteratura apocalittica annunciava l’arrivo imminente del Messia «fi- glio di David», visto che la Scrittura promette al celebre sovrano una regalità inde- finita nei suoi discendenti (cf. 2Sa 7,16; Sl 89(88),30; 132(131),12 ecc.). Ciò significa- va per il movimento apocalittico volontà divina di ripudio per la dominazione ro- mana dei tempi di Gesù, che il Messia atteso avrebbe realizzato.

2. La natura tipologica dell’ascendenza davidica di Gesù è forse espressa da Mc in maniera ironica proprio dal protagonista cieco di questo episodio. Egli, essendo sta- to informato del passaggio di «Gesù il nazareno», decide d’attirare la sua attenzio- ne qualificandolo come «Figlio di David» e quindi, in quanto tale, appartenente al- la tribù di Giuda (cf. Lc 3, 30-31). È proprio un non-vedente a proclamare l’identità messianica scritturistica di Gesù di Nazaret, respinta invece dai maestri che scruta- no le Scritture (cf. Gv 7, 41-42).

3. Mc inoltre evoca il titolo davidico tipologico di Gesù (cf. Lc 3,23) in prossimità della tragedia di Gerusalemme. L’intronizzazione del Messia davidico più volte vaticinato dai profeti d’Israele ed atteso dalle scritture apocalittiche del tempo sta per realizzarsi infatti nella Città/Dimora divina con la risurrezione del Nazareno.

Ciò conferma pure che il pellegrinaggio di Gesù alla Città santa è l’autentico san-

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Prima tappa 10,48

to viaggio alla Casa del Dio creatore e salvatore che porta a verità compiuta tutti i pellegrinaggi prescritti agli israeliti maschi dal loro Dio (cf. Dt 16,16).

4. L’espressione ebraica ãåã ïá, ossia figlio di David, si può leggere anche figlio diletto, poiché il lemma ãåã significa di per sé diletto. Ciò significa che l’appellativo teofani- co uƒÒj ¢gaphtÒj potrebbe essere letto in lingua ebraica anche figlio di David, dando origine alla leggenda genealogica di Gesù discendente davidico, come raccontata all’inizio del testo di Lc e ripresa poi da Mt. I racconti di Lc e Mt presentano del re- sto notevoli difficoltà anche a livello storico e di coerenza esegetica con alcune af- fermazioni riferite addirittura da questi stessi autori (cf. commento a 1,9).

abbi pietà di me

Questa richiesta sulle labbra d’un infelice poteva significare di per sé domanda d’una moneta o d’un po' di cibo. L’espressione del non vedente tuttavia è forse citazione marciana d’una formula rituale del- la comunità credente in preghiera (Kyrie eleison), ben nota ai lettori, per cui potrebbe significare anche invocazione della luce della fede messianica, la cui assenza costituisce la vera disgrazia estrema, di cui la condizione di questo mendicante è una perspicua immagine.

Il riferimento ad un’invocazione di battesimo, sacramento dell'illuminazione, era anzi forse del tutto ovvia e palese per i primi lettori di Mc.

[48] E rimproveravano quello molti per farlo tacere. Quello invece molto più urlava: “Figlio di David, abbi pietà di me”

per farlo tacere

Non si tratta questa volta di tentativo per tacitare una dichiara- zione di messianismo per Gesù (cf. 1,25 ecc.). Mc, aldilà d’una banale preoccupazione di disturbo per il Maestro, vuol forse alludere all’in- tolleranza infastidita di chi, a quel tempo, convinto di non essere cie- co, rigettava con sicumera il messianismo del Nazareno e pretendeva d’azzittire le acclamazioni dei suoi seguaci, come attestato ad es. da At (4,18; 5, 28.40).

È la prima volta tuttavia in Mc che Gesù non interviene a tacitare una proclama- zione del suo messianismo. È forse perché il Maestro si trova ormai nei pressi della manifestazione totale della sua consacrazione in Gerusalemme.

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molto più urlava

Un pizzico almeno di dispetto ironico non sembra estraneo in quest’annotazione del narratore.

figlio di David

L’insistenza sul titolo davidico serve forse a Mc per far intendere al lettore che la richiesta del non-vedente non ha finalità soltanto ter- rene contingenti (cibo, integrità fisica, benessere ecc.). È un’implicita robusta richiesta di soccorso messianico.

[49] Ed essendosi fermato il Gesù disse: “Chiamatelo”. E chiamarono il cie- co, dicendo a lui: “Fatti coraggio, alzati, ti sta chiamando”

chiamatelo

Il disagio e la preghiera dell'infelice arrivano all’attenzione ed al- l’orecchio di Gesù che fa un’ulteriore sosta nel suo cammino. L’offerta di disponibilità del Messia è ad ogni modo mediata dai seguaci.

L’offerta della divina benevolenza è quindi affidata anche alla testimonianza ed all’impegno dei discepoli, attraverso l’annuncio della «buona notizia» ed i segni sacramentali.

fatti coraggio

La voce verbale «q£rsei (fatti coraggio)» è tradotta di solito con la sintetica esclamazione «coraggio!» che trascura l’esplicitazione dell’

invito gioioso apostolico ad aver fiducia in Gesù, a prescindere dall’

attesa d’ottenere qualche beneficio terreno.

Il verbo greco q£rsein infatti significa essere coraggioso nel senso di aver fiducia (in qualcuno). Potrebbe essere un riferimento alla natura del messaggio apostolico che nella sostanza immediata è annuncio/invito a fidarsi di colui che chiama.

alzati, ti sta chiamando

L’espressione può essere intesa come un incitamento ai battez- zandi in età adulta, perché si risveglino a vita nuova per il suono della voce del Salvatore.

Mc non dice qui se Gesù ha pronunciato il nome personale Bartimeo precisato all’inizio del racconto. È noto che l’incontro col Figlio diletto durante il rito battesi- male comporta la dichiarazione del nome personale che il Risorto farà risuonare nell’eternità e risveglierà il battezzato defunto a vita immortale.

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Prima tappa 10,50-51 [50] Quello, avendo gettato via il mantello suo, essendo balzato su, s‟avvici- nò al Gesù

gettato via il mantello

È un particolare narrativo che evidenzia in maniera efficace l'esul- tanza d'un infelice emarginato che si rende conto d'aver catturato l' attenzione del figlio di David, ossia del Messia. La voce verbale all’ao- risto («¢pobalën – gettato via»), che definisce in genere l’azione pun- tuale nel passato, allude forse a qualcosa di definitivo, come nel caso, ad es., dei figli di Zebedeo in risposta alla chiamata del Nazareno (cf.

1,20).

Il «mantello» era una delle pochissime proprietà del mendico (v. 46), l’unica sua proprietà; di sicuro la più preziosa (cf. 13,16), la sua abitazione forse, addirittura la sua pelle (cf. Es 22, 25-26). Bartimeo quindi esce dalla sua casa, dalla sua pelle, come Gesù sta facendo da Gerico, e mostra di realizzare di slancio la met£noia (cambia- mento radicale) che il pio ricco giudeo accomodato sulla sua opulenza non ha inteso fare (cf. vv. 17-22). Il gesto illustra poi in maniera plastica il concetto di met£noia predicata da Gesù, ossia trasformazione risolutiva della condizione esistenziale ter- rena e tuffo entusiasta nella luce salvifica.

essendo balzato su

Esprime la straripante gioia del non-vedente, segno simbolico di un nuovo cammino che esige entusiasmo. La met£noia definitiva e to- tale è proprio il balzo che porta a planare nella luce della vita di risur- rezione.

[51] Ed avendo soggiunto a lui il Gesù disse: “Che cosa a te vuoi che abbia fatto?”. Il cieco gli disse: “Maestro mio, affinché veda di nuovo”

che cosa

La domanda del Signore costringe il mendicante a precisare l'og- getto della sua urlata invocazione di misericordia (cf. vv. 47-48).

maestro mio

La voce «∙abbounˆ (maestro mio)» del testo greco è trascrizione del- la dizione aramaica, carica di sicura emozione, ma anche di confiden- ziale fiducia genuina (cf. Gv 20,16).

Mc vuol forse suggerire con siffatta invocazione confidenziale che quest'esemplare discepolo ultimo e sofferente è anche un vero complice del Messia pellegrino in pro-

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586 Prima tappa 10,52

cinto d’impegnarsi nell’atroce battaglia letale che lo condurrà alla trionfale risurre- zione dopo aver sgominato la perennità del morire umano.

affinché veda di nuovo

L’oggetto dell’invocazione è il ritorno alla luce. Bartimeo non chie- de qualcosa che rechi un po’ di sollievo alla sua indigenza e penosa condizione terrena. Chiede di poter vedere di nuovo, vale a dire desi- dera riavere quella porzione di vita, di cui è privo per la grave me- nomazione visiva. Chiede insomma la luce della vita integra, metafo- ra a questo punto della vita di risurrezione.

1. L'allusione simbolica d’un desiderio d’integrità di vita sembra più che ovvia, co- me è ovvio che Mc non è di per sé interessato a riferire un semplice episodio di schietta cronaca d’umanità solidale. Bartimeo (verità o midrasc che sia) per Mc è modello del vero discepolo del Messia che sta entrando nella sua sofferenza, pro- prio agli antipodi dell’ambizione dei Dodici e degli altri che hanno reagito in ma- niera maldestra alla luce dell'insegnamento 3 volte ribadito in questa sezione.

2. Il Messia, e quindi ogni suo discepolo autentico, non ha il compito di depredare i poveri della loro beatitudine (cf. Lc 6,20), bensì l’incombenza di portare luce messia- nica al loro santo viaggio sulla strada che porta a Gerusalemme. La collocazione marciana del racconto all’uscita da Gerico sulla strada di Gerusalemme (v. 46), compiendo la narrazione scritturistica (cf. Gs 6), a questo punto propone un signi- ficato simbolico anche del sacramento dell’illuminazione (battesimo) come avvio della sequela del figlio di David crocifisso e risuscitato appunto a Gerusalemme, u- scendo con met£noia dalla propria condizione di mendicante di vita piena.

[52] Ed il Gesù gli disse: “Mettiti in cammino, la fede tua ha salvato te”. E subito recuperò la vista e lo seguiva nella strada.

mettiti in cammino

Non è annotato per questo caso nessun gesto esorcistico (cf. inve- ce 8,23). L’energia risanatrice e restauratrice della vita è tutta nel suo- no della voce del Messia che invita il mendicante ad intraprendere un

«cammino» al seguito del suo salvatore pellegrino, invece di tornare seduto lungo la strada (v. 46).

«È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce» (Sl 36(35),10). Gesù per dare luce è Luce, non dà qualcosa di diverso da Sé (cf. Gv 1,4; 8,12 ecc.). La luce è accesa dalla Luce, come il fuoco dal fuoco. L’agiografo poi sembra voler ora mani- festare al lettore in termini diretti la motivazione didattica del suo racconto su Bar- timeo: la luce recuperata deve servire ad intraprendere il pellegrinaggio alla divi-

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Prima tappa 10,52

na Dimora. La valenza fondamentale del verbo Øp£gein nella forma transitiva è condurre sotto, aggiogare; nella forma intransitiva è mettersi sulla strada. Si preferisce leggere con questo secondo significato il testo greco marciano.

la fede tua

La richiesta della luce fatta da Bartimeo è stata intesa da Gesù come professione di «fede» autentica e quindi efficace di salvezza messiani- ca, che è la meta finale d’un cammino di sequela del messia pellegri- no a Gerusalemme. Il non-vedente, considerato maledetto, ossia pu- nito dal Dio della vita, ha invece mostrato «fede»/fiducia (fides qua) nella divina Benevolenza rivolgendosi al Messia. Il prodigio non è la causa che produce la «fede» di Bartimeo, bensì il suo effetto.

È possibile che con questa risposta di Gesù al non-vedente Mc faccia riferimento alla dottrina paolina per la quale con la fede abramitica nel Consacrato del Dio si consegue l’accredito della giustificazione che diventa salvezza messianica in chi intraprende la sequela nel percorso terreno (cf. ad es. Rm). La salvezza dalla morte perenne, disponibile per ogni adamita, diventa effettiva per chi rinuncia ai suoi dubbi ed alle sue certezze, più o meno presunte, e s’affida al Dio creatore e salvato- re della vita con la met£noia del morire al mendicare certezze e benessere terreno.

subito recuperò la vista

La luce questa volta, nei pressi ormai di Gerusalemme, è «subito»

totale e non progressiva come quando ci s'accinge ad intraprendere la sequela (cf. 8,24). Il testo utilizza (cf. anche v. 51) il verbo ¢na- blšpein che in apparenza indica proprio il ritorno della funzione di vedere, ossia il recupero della porzione di vita smarrita forse per di- sgrazia; Bartimeo non era secondo Mc una persona nata carente della funzione visiva (cf. invece Gv 9,1).

L'intervento di Gesù ad ogni modo fa ritornare l'adamita alla condizione d'esistenza progettata in origine dal Creatore (cf. Gn 2,25). S’affaccia pertanto a questo punto un'altra valenza forse implicita nel verbo ¢nablšpein (vedere di nuovo), che può si- gnificare infatti anche guardare in su, ossia percepire il progetto divino che viene dall'alto, quello della divina Benevolenza, e dalle origini della creazione dell’uomo esente da sofferenza e da morte. Il non-vedente di Gerico insomma ha conseguito per la sua fede nel messia figlio di David l’accredito della giustificazione (secondo il linguaggio paolino) che lo renderà vivente cittadino della creazione nuova.

lo seguiva nella strada

È in concreto la «strada» che porta a Gerusalemme, come s’è det-

to, vale a dire il viaggio santo del Messia che, superata la passione e

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588 Prima tappa 10,52

la morte, entrerà Risorto nella divina Dimora. La forma verbale dell’

imperfetto («ºkoloÚqei – seguiva») evidenzia la scelta del cammino/

sequela al seguito del Consacrato pellegrino. Bartimeo aderisce all’in- vito di Gesù che gli restituisce la funzione visiva (v. 52).

1. Gesù non impedisce quindi a Bartimeo di seguirlo, come invece aveva fatto in altri casi (cf. 5,19; 8,26), forse perché questo mendicante per Mc è un modello del discepolo autentico che segue il Pellegrino sulla «strada» proprio di Gerusalemme.

Le prime comunità col termine scritturistico strada/via (êøã - ÐdÕj; cf. Dt 9,12 ecc.) intendevano il modello del comportamento conforme all'insegnamento di Gesù (cf.

At 9,2; 19, 9.23 ecc.). Si tratta in realtà della «strada» che i discepoli nel corso di tut- to il santo viaggio del Nazareno hanno cercato di contestare e modificare.

2. Sembra dunque chiaro che la fiducia incondizionata in Gesù, come quella del non-vedente di Gerico, dà la capacità d'accogliere come progetto divino (guardare in su) gli eventi decisivi che attendono il Messia nella Città santa, meta del suo pel- legrinaggio. La sola fede autentica (abramitica) rende discepoli veri, vale a dire per- sone che accompagnano il cammino del Nazareno, senza ambire e pretendere favori e privilegi. Quella del vero discepolo non può essere una sequela imposta da paura o tradizione o quieto vivere o formalità abitudinaria ecc.

3. La mancanza poi d’ogni riferimento alla croce nei 3 annunci sul traguardo spa- zio/temporale (storica) della vicenda del figlio dell‟uomo rende avvertiti che la se- quela messianica non è di per sé necessaria esperienza di truculenta violenza subi- ta. Deve essere tuttavia scelta volontaria del rango quotidiano degli ultimi, proprio in conformità al modello esistenziale terreno del Pellegrino, la cui meta effettiva furono appunto i fatti di Gerusalemme. Non può essere diversa la testimonianza credibile a favore d’un Messia senza potere terreno, a servizio efficace dell’umanità adamitica soggiogata e legata al destino incombente di morire per sempre.

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SECONDA TAPPA

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L’INSEGNAMENTO NUOVO

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La proclamazione e l’annuncio della «buona notizia» della liberazio-

ne dalla morte definitiva, vale a dire la promessa della risurrezione,

si compiono con gli eventi ultimi che riguardano Gesù, giunto alla me-

ta della sua salita/pellegrinaggio alla Città santa. La narrazione mar-

ciana d’ora in poi sembra distribuita in 7 giornate simboliche del Pel-

legrino (una settimana come la durata della prima creazione), che

rimandano alla profezia sulla fine dell’economia mosaica di Dn (9,27)

e quindi alla proclamazione del nuovo inizio: ottavo giorno della crea-

zione nuova con cieli nuovi e terra nuova. Un'altra allegoria del ciclo

settimanale è forse proposta da Eb (3, 18-19 ecc.): la salvezza messia-

nica è ingresso in quel riposo del Dio, che seguì all'opera creativa in 6

giorni. La risurrezione di Gesù è insomma evento metastorico che

porta a compimento totale la parola scritturistica sul riposo del Creato-

re, raggiunta dopo 6 giorni di predicazione e sofferenza tra la gente

di Gerusalemme, meta sacra del pellegrinaggio simbolico narrato a

tappe parziali di fatti e detti del Nazareno (cf. 1, 12-13). Mc divide la

simbolica settimana in 2 tridui, cui segue il giorno della tomba svuo-

tata con la teofania celeste che annuncia la risurrezione del Signore

(16, 1-8) e quindi evento dell’insediamento del Risorto alla destra del

Padre (cf. Eb 1,3; 8,1; 10,12; 12,2) per intercedere salvezza dalla morte

perenne a favore dei suoi seguaci (cf. Eb 7,25). Si tratta di ovvie gior-

nate allegoriche e pertanto non sono da considerarsi specifici giorni

di 24 ore e neppure proprio quelli che costituiscono la sequenza set-

timanale. Gli altri 2 Sinottici assumono nella sostanza l’impostazione

marciana con soppressioni, ritocchi, aggiunte ed ampliamenti coeren-

ti con i rispettivi punti di vista cristologici. Gv non è sviluppato se-

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594 Seconda tappa 11,1

condo la struttura redazionale di Mc, col quale converge da testimo- ne diretto soltanto sui temi definitivi dei processi, esecuzione capitale e risurrezione del Nazareno.

1. Ingresso messianico in Gerusalemme

La prima giornata del primo triduo è dedicata all’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme (11, 1-11), che per Israele è il centro cultuale della sua religione, la rocca dell’ortodossia ufficiale e la garanzia del- la propria elezione sacrale. È il luogo della presenza di Javè, la sua Dimora unica ed esclusiva in terra, che la predicazione profetica ce- lebra come futura sede del culto autentico di tutti i popoli. È ritenuto segno indiscutibile della predilezione divina per la progenie abrami- tica. La Città santa dunque non può non costituire il luogo specifico e proprio per accogliere il consacrato Figlio diletto del Dio dei padri (cf.

1,11), promesso al popolo dell’elezione (cf. Sl 15(14)). L’ingresso di Gesù in Gerusalemme è descritto da Mc come un gesto profetico pro- cessionale e trionfale. L’episodio è narrato anche dagli altri 3 Vangeli (Lc 19, 29-45; Mt 21, 1-16; Gv 12, 12-19).

[11,1] E quando s‟avvicinano a Gerusalemme a Betfage e Betania da- vanti al monte degli ulivi manda 2 dei discepoli suoi [2] e dice loro:

“Avvicinatevi al villaggio che [è] davanti a voi e subito entrando in esso troverete un puledro legato, sul quale nessun ancora di uomini si sedette; scioglietelo e portate. [3] E se qualcuno a voi abbia detto

„Perché fate questo?‟, dite „Il Signore di quello ha bisogno e subito lo

manda di nuovo qui‟ ”. [4] E andarono e trovarono un puledro legato

davanti a una porta all‟esterno sulla strada e lo slegano. [5] Ed al-

cuni di quelli che lì stavano dicevano a loro: “Cosa fate slegando il

puledro?”. [6] Essi risposero a loro come disse il Gesù e li lasciarono

[andare]. [7] E conducono il puledro al Gesù e mettono sotto a lui i

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Seconda tappa 11,1 mantelli loro e si sedette su quello. [8] E molti i mantelli loro diste- sero sulla strada; altri poi tappeti di fogliame avendo strappato dai campi. [9] E coloro che precedevano e coloro che seguivano gridava- no: “Osanna; benedetto colui che viene nel nome di Javé; [10] bene- detto il regno che viene del padre nostro David; osanna nei luoghi al- tissimi”. [11] Ed entrò in Gerusalemme nel Tempio; ed avendo guar- dato in giro tutto, tardi già essendo l‟ora, uscì [per andare] a Beta- nia con i Dodici.

[11,1] E quando s‟avvicinano a Gerusalemme a Betfage e Betania davanti al monte degli ulivi manda 2 dei discepoli suoi

s‟avvicinano

Gesù non viaggia da solo; è accompagnato dai discepoli e forse an- che da Bartimeo e da una piccola comitiva, come tante altre (cf. Lc 2, 44) che salivano a Gerusalemme in occasione delle festività giudaiche fondamentali (la Pasqua, le Capanne e la Dedicazione del Tempio).

L’autore in questo modo suggerisce, per così dire, anche la strut- tura narrativa di pellegrinaggio del suo lavoro.

Mc non specifica intanto la circostanza pasquale di questo pellegrinaggio di Gesù, fors’anche perché diversi fatti e detti qui registrati riguardano altri tempi e circo- stanze della vicenda del Nazareno. L’occorrenza pasquale sarà menzionata invece all’inizio del secondo triduo, quello della sofferenza (14,1). Gv (12, 1.12) sembra collocare invece questo episodio proprio in prossimità della pasqua ebraica, colle- gandolo (cf. Gv 11) con la risurrezione di Lazzaro a Betania, che avendogli procu- rato un notevole successo ed ammirazione della gente insospettisce ed irrita assai l’autorità di Gerusalemme. Il Nazareno allora si rifugia ad Efraim (ad una ventina di Km da Gerusalemme) con i discepoli forse in attesa della festa pasquale. Torna infatti in Città all’approssimarsi della pasqua ed è accolto in maniera festosa, ac- clamato Messia, da tutti quelli che conoscono il fatto di Lazzaro.

Betfage e Betania

«Betfage» (ossia casa dei fichi) era, come pare, un sobborgo della

periferia orientale di Gerusalemme; «Betania» (casa dell‟afflizione o del

povero) invece sorgeva sul pendio sud-orientale del Monte degli ulivi a

circa 3 Km dalla Città santa. Pare che questo villaggio non fosse attra-

(18)

596 Seconda tappa 11,2

versato dalla strada che da Gerico saliva a Gerusalemme; quella stra- da attraversava invece Betfage.

Il percorso (Gerico – Betfage – Betania – Gerusalemme), che il testo marciano sem- bra indicare, appare quindi abbastanza illogico ed innaturale. Qualcuno ipotizza che i nomi dei 2 villaggi potrebbero essere un'aggiunta successiva, fatta da persona inesperta dei luoghi; l’autore di Mc infatti, se fu Giovanni Marco compagno di mis- sione di Paolo (cf. At 12,25), era persona con grande probabilità esperta dei luoghi.

Altri ipotizzano che la comitiva di Gesù seguendo la strada proveniente da Gerico raggiunse in un primo momento la cima del Monte degli ulivi, dove era situata Be- tfage, e di lì ripiegò su Betania, ospite degli amici Lazzaro e sorelle (cf. Gv 12,1), prima di raggiungere Gerusalemme. Sembra tuttavia che la narrazione midrascica voglia giustificare la tappa di Betania a motivo di Lazzaro e quella di Betfage per il racconto dell’albero di fichi senza frutti (vv. 12-14).

monte degli ulivi

La menzione di questa collina (tale è la mole del «Monte degli uli- vi») sembra fatta per richiamare un oracolo profetico sul carattere messianico dell’ingresso di Gesù nella Città santa (cf. Zc 14,4).

manda 2 dei discepoli

È lo stesso Maestro ad organizzare il suo ingresso trionfale nella Città santa secondo questo racconto marciano.

Lc (19,29) e Mt (21,1) ribadiscono il racconto di Mc. Gv (12,18) invece sostiene che l’entusiasmo della folla quando Gesù entra in Gerusalemme è suscitato dalla noti- zia della risurrezione di Lazzaro.

[2] e dice loro: “Avvicinatevi al villaggio che [è] davanti a voi e subito en- trando in esso troverete un puledro legato, sul quale nessun ancora di uo- mini si sedette; scioglietelo e portate

al villaggio

Mc non specifica il nome di questo «villaggio».

Potrebbe trattarsi di Betfage, dove Gesù sarebbe tornato da Betania per entrare in Città, secondo l’improbabile lettura storico/topografica degli eventi narrati.

un puledro

È un asinello (Ñn£rioj) secondo Gv (12,14) che cita un vaticinio profetico (cf. Zc 9,9).

La precisazione giovannea intende avvertire che non può essere un guerriero chi cavalca un asinello; il guerriero cavalca cavalli adulti. L’entrata messianica del Na-

(19)

597

Seconda tappa 11,3-7

zareno in Gerusalemme non ha e non ostenta finalità bellicose. Gv ribadisce ciò che dai discepoli è stato sempre contestato lungo il cammino.

nessun ancora di uomini

Tutto ciò che appartiene al culto di Javè non dev'essere stato uti- lizzato in precedenza dall'uomo, secondo la Scrittura (cf. Nm 19, 2ss;

Dt 21,3).

Ciò che Gesù sta per adempiere è dunque celebrazione rituale del Volere divino salvifico che non ha per scopo regolamenti di faccende terrene, con buona pace del- la comune aspettativa apocalittica.

[3] E se qualcuno a voi abbia detto „Perché fate questo?‟, dite „Il Signore di quello ha bisogno e subito lo manda di nuovo qui‟”

il Signore

È l'appellativo col quale la chiesa post-pasquale indirizza le sue invocazioni al Risorto.

Le eventuali persone che chiederanno spiegazioni ai discepoli si suppongono dal lettore del tutto ignare, a ragione, dell’identità di codesto «Signore». La loro previ- sta protesta serve di nuovo allo scrittore per evidenziare l’inatteso carattere messi- anico del racconto. S’ipotizza intanto, come s’è detto, che la fonte originaria di que- sta narrazione simbolica possa essere stato un testo liturgico, come del resto sugge- riscono anche le precedenti e seguenti citazioni scritturistiche, perlopiù implicite.

[4] E andarono e trovarono un puledro legato davanti a una porta all‟ester- no sulla strada e lo slegano

andarono

Il racconto si snoda prolisso e ripetitivo: è cosa del tutto insolita per la scrittura marciana.

È forse il sintomo d’un contributo assunto da rubriche d’un canovaccio liturgico. Il racconto (drammatizzato?) degli ultimi eventi della vita di Gesù pare fosse prassi consueta nelle celebrazioni settimanali dell’Eucaristia nelle primissime comunità.

[5] Ed alcuni di quelli che lì stavano dicevano a loro: “Cosa fate slegando il

puledro?”. [6] Essi risposero a loro come disse il Gesù e li lasciarono [anda-

re]. [7] E conducono il puledro al Gesù e mettono sotto a lui i mantelli loro e

si sedette su quello

(20)

598 Seconda tappa 11,8-9

si sedette

Era prescritto ai pellegrini ebrei di recarsi a piedi alla Dimora divi- na gerosolimitana. La decisione del Nazareno d'avvicinarsi al Tem- pio cavalcando un puledro ha pertanto la caratteristica d’un gesto pro- fetico di realizzazione consapevole dei vaticini scritturistici e dunque di un’autenticazione divina della sua identità messianica.

Si riscontra anche un’allusione al cerimoniale descritto per la consacrazione regale di Salomone (cf. 1Re 1,33), il re sapiente d’Israele. Gesù infatti per Gv (1,1) è il divi- no lÒgoj (Discorso), per 1Co (1,24) è «di Dio sapienza (sof…a)» ecc.

[8] E molti i mantelli loro distesero sulla strada; altri poi tappeti di fogliame avendo strappato dai campi

i mantelli loro distesero

È il gesto che secondo 2Re (9,13) accompagnò la proclamazione ufficiale del re Jeu († 814 a. C.) e quindi il gesto narrato è una profes- sione del messianismo (regalità) di Gesù.

Questa citazione sembra avallare l’opinione di Eb (7, 15-16; 10,10) secondo cui la consacrazione messianica effettiva e piena di Gesù non coincide con l’incarnazione del Verbo e neppure col suo battesimo nel Giordano, bensì con i fatti ultimi di Ge- rusalemme ed in particolare con la sua risurrezione.

tappeti di fogliame

Pare che il termine utilizzato da Mc («stib£daj») indichi alcuni strati di vegetazione su cui deve incedere il messia e non soltanto sui mantelli dei molti. Gli improvvisati «tappeti di fogliame» con materia- le fornito dalle piante circostanti, sono forse intesi come un’iniziativa di altri a seguito dell’omaggio costituito dall’annotazione del tappeto di mantelli distesi.

Il sostantivo st…baj infatti non significa ramoscelli, fronde (nonostante la Vulgata tra- duca appunto frondes), bensì giaciglio o coperta composti con fogliame di vario genere.

Il riferimento che alcuni fanno a Sl 118(117),27 sembra in realtà del tutto non perti- nente; nel Sl infatti non v’è traccia alcuna del termine st…baj e neppure dell’incede- re festoso d’un qualche personaggio tra sventolio di ramoscelli.

[9] E coloro che precedevano e coloro che seguivano gridavano: “Osanna;

benedetto colui che viene nel nome di Javé

(21)
(22)

600 Seconda tappa 11,10

spettato dal Maestro e dell’esito tragico di quest’ingresso nella Città santa, che Egli aveva pure previsto e comunicato ai discepoli.

benedetto colui che viene

Prosegue la citazione letterale del v. 26 del Sl 118(117). È una per- fetta professione dell’identità messianica riconosciuta al Nazareno che entra in Gerusalemme dove si realizzerà il suo trionfo sulla pe- rennità dello sceòl e dunque il compimento dell’esodo mosaico.

Si conferma il sospetto d’un puntuale adattamento a posteriori d’un testo scritturi- stico, fatto a tavolino da esperti ed utilizzato dalla liturgia cristiana a giustificazio- ne escatologica degli eventi messianici terminali di Gesù. Gv (12, 12ss) descrive l’intero evento come un’iniziativa di Gesù 5 giorni prima della pasqua che intende celebrare a Gerusalemme, pur consapevole della fine tragica che l’attende, parten- do dalla casa di Lazzaro da Betania ed accompagnato da folla testimone ammira- trice del prodigio strepitoso a favore dell’amico.

[10] benedetto il regno che viene del padre nostro David; osanna nei luoghi altissimi”

il regno

L’acclamazione della folla si riferisce alla promessa divina che as- sicurò a David una casa aldilà della sua morte (cf. 2Sa 7,12; Ge 23,5; Sl 89(88); 132(131) ecc.), identificando quindi in Gesù proprio il germo- glio giusto promesso dagli oracoli profetici (cf. Ge 23,5; 33,15).

Questa acclamazione corrisponde in pieno all’invocazione di Bartimeo (10, 47-48).

Ribadisce la convinzione della gente per la quale il Messia atteso avrebbe ripetuto le imprese davidiche a vantaggio della stirpe abramitica a livello socio/politico, nonostante le ripetute precisazioni di Gesù sulla natura del proprio messianismo, ribadite dal testo parallelo di Gv..

del padre nostro David

Il regno atteso da questa folla è insomma di per sé politico e quin- di festeggia Gesù come supposto prossimo liberatore dall’occupazio- ne romana, che prende possesso della Città santa, e sovrano legittimo della terra della promessa divina ad Israele, secondo l’insegnamento apocalittico corrente, condiviso persino dagli stessi discepoli.

«David» allora è menzionato soltanto in funzione del solo supposto impegno poli- tico del Nazareno. Un collegamento biologico tra Messia e David non sembra argo- mento qui stabilito ed affermato. Si noti il profetico termine germoglio (¢natol¾ non

(23)

601

Seconda tappa 11,11

uƒÒj). Questa stessa folla poi non intenderà di certo ripudiare il «padre David»

quando tra poco, delusa e sobillata dalle autorità legittime, urlerà al palo al palo con- tro il Nazareno infamato come re dei giudei (15, 13-14). Il collegamento tipologico tra David ed il Messia Gesù era tuttavia convinzione certa e professione della primiti- va comunità cristiana che leggeva ad es. il Sl 89(88), dove è magnificato David ed è promesso un suo regno perpetuo. La narrazione marciana sulla folla che acclama il Messia davidico potrebbe quindi essere una mera citazione del detto salmo e di altri testi analoghi a prescindere dall’intento d’affermare qualsiasi legame biologico e politico del Nazareno con l’antico celebre re israelita (cf. commento a 1,9).

nei luoghi altissimi

Sono i luoghi della divina Dimora, secondo l'immaginario scrittu- ristico, nei quali risuona appunto l’invocazione della salvezza in lin- gua sacra (osanna) da parte del Risorto sempre in vita al fine dell‟incon- trare il Dio per noi (cf. Eb 7,25).

Le affermazioni della vera identità messianica di Gesù, come si vede, sono presenti, anche se talvolta implicite. Questa circostanza potrebbe costituire un altro sintomo del modello liturgico che forse sta a monte della presente sezione marciana.

[11] Ed entrò in Gerusalemme nel Tempio; ed avendo guardato in giro tut- to, tardi già essendo l‟ora, uscì [per andare] a Betania con i Dodici

nel Tempio

La meta del pellegrinaggio del Nazareno non è di per sé la Città gloriosa, ma il suo Tempio, dimora di Javè. La letteratura profetica da parte sua aveva annunciato l'apparizione del Messia proprio nel Tempio, come preludio del nuovo eone (cf. Ml 3,1).

La processione della memoria annuale della Dedicazione si concludeva del resto nel Tempio. Giovanni Marco, se è l’autore di Mc, di sicuro non ignorava questa cir- costanza. Gv non ricorda alcun ingresso trionfale nel Tempio, ma una sorta di fuga del Nazareno dalla folla giubilante (cf. Gv 12,36).

avendo guardato

Questa osservazione che a prima vista appare immotivata e senza

significato, potrebbe invece voler esprimere una sorta di solenne pre-

sa di possesso messianico dell’edificio che, secondo l'insegnamento

comune, comportava la sua purificazione da ogni profanazione e la

sua dedicazione rinnovata al Dio della salvezza messianica.

(24)

602 Seconda tappa 11,11

Il rito della festa della Dedicazione prevedeva in effetti la purificazione del Tempio a conclusione della solenne processione.

tardi già essendo

È presumibile che si tratti d'un espediente redazionale di Mc che rimanda al giorno/paragrafo seguente la sua narrazione della simbo- lica e significativa purificazione della struttura sacra.

a Betania

Questo villaggio era ritenuto compreso nel recinto sacro di Geru- salemme, per cui Gesù chiude la giornata senza interrompere la pra- tica cultuale del pellegrinaggio alla Città santa, tornando forse ospite di Lazzaro e sorelle. L’accompagnano soltanto i Dodici questa volta, come in diverse altre occasioni.

2. Superamento del culto levitico

La seconda giornata del triduo dell’annuncio è dedicata ad altri 2 ge- sti profetici del Messia: la maledizione dell’albero di fichi (vv. 12-14) e l’iniziativa spettacolare, segno prolettico dell’esaurimento della funzione cultuale del Tempio (vv. 15-19). Mc propone 2 gesti di Gesù assai dirompenti nel senso che manifestano il carattere di rinnova- mento rivoluzionario radicale del suo messianismo: cieli nuovi e terra nuova.

2.1. La maledizione dell’albero privo di frutti

Il primo gesto profetico della giornata è la maledizione dell’albero di

fichi privo di frutti (vv. 12-14). L’insegnamento messianico del gesto

è spiegato da Mc all’inizio del racconto della seconda giornata gero-

solimitana (vv. 22-26). Lc (13, 3-8) narra una parabola sul medesimo

argomento e lascia inespressa la reazione finale (l’insegnamento) del-

l’insoddisfazione del proprietario dell’albero. Mt (21, 18-22) invece

(25)

603

Seconda tappa 11,12-13 racconta di seguito evento ed esortazione alla fede efficace nel gior- no seguente al fatto del Tempio.

[12] Ed il giorno seguente, essendo usciti quelli da Betania ebbe fame.

[13] Ed avendo visto un albero di fichi da lontano che aveva foglie si avvicinò se dunque qualcosa troverà su quello. Ed essendosi avvici- nato a quello trovò se non foglie; il tempo infatti non era di fichi.

[14] Ed avendo soggiunto disse a quello: “Mai più nel tempo lungo da te qualcuno un frutto possa mangiare”. E ascoltavano i discepoli di lui.

[12] Ed il giorno seguente, essendo usciti quelli da Betania ebbe fame il giorno seguente

La scansione della narrazione sullo schema d’una giornata è evi- dente. È il secondo giorno del primo triduo.

uscito […] ebbe fame

Questo bisogno di cibo così improvviso ed ingovernabile appena uscito da Betania sembra un chiaro pretesto redazionale per intro- durre il racconto che segue come un fatto a sé e metafora dell’indi- spensabile consenso genuino al Consacrato/messia.

Mt (21,18) sembra insinuare che la «fame» è collegata alla meta (Gerusalemme) e non al suo distacco dalla città con la morte.

[13] Ed avendo visto un albero di fichi da lontano che aveva foglie s‟avvicinò se dunque qualcosa troverà su quello. Ed essendosi avvicinato a quello trovò se non foglie; il tempo infatti non era di fichi.

un albero di fichi da lontano

Non era insomma possibile rendersi conto della presenza o meno di frutti e quindi occorreva avvicinarsi. È possibile immaginare che la piccola comitiva si stava approssimando a Betfage, ossia alla Casa-dei- fichi, sobborgo di Gerusalemme.

Potrebbe essere stato proprio questo racconto il motivo della citazione di Betfage nell’itinerario d’avvicinamento di Gesù a Gerusalemme nella prima giornata del

(26)

604 Seconda tappa 11,14

raggiungimento della meta (v. 1), come s’è detto. L’albero era sulla strada, secondo Mt (21,19).

se non foglie

La giornata allegorica in cui Mc sta situando l'evento suppone la vicinanza della festa di pasqua, per cui l'albero di fichi non poteva di norma essere rivestito di foglie. Si sarebbero dovute vedere sui rami al massimo soltanto delle tenere foglioline, essendo un inizio di pri- mavera (cf. 13, 28-29).

La condizione dell’albero rivestito di foglie rimanda piuttosto alla stagione autun- nale inoltrata, a meno che non si trattasse di albero senza frutti, perché sterile, ed in tal caso dovrebbe essere primavera inoltrata (e non inizio di primavera) sino alla fine dell’autunno. Lc (13, 6-9) trasforma in parabola questo racconto, recuperando forse la forma originaria di un’allegoria utilizzata dal Nazareno per annunciare la sorte d’Israele, albero senza frutti di glorificazione per il Dio salvatore (cf. Mi 7,1).

L’albero di fichi, essendo assai diffuso nella regione, era stato facile tema allegorico anche per la predicazione profetica veterotestamentaria (cf. Gl 1, 7.12; Ab 3,17 ecc.).

il tempo

La stagione dei fichi va da luglio a settembre, mentre Mc colloca l’evento, come s’è già osservato, in prossimità delle feste pasquali.

Non è pensabile che Gesù ignorasse che in prossimità della festa di Pasqua in Pale- stina è troppo presto per trovare fichi sugli alberi e pertanto occorre intendere il suo eventuale gesto come citazione d’un testo scritturistico (Ab 3,17). Il profeta in- fatti nel suo oracolo dell’avvento terribile e devastante di Javè salvatore del suo po- polo peccatore indica proprio la mancanza di frutti della terra (anche dei fichi) co- me segno del furore divino imminente. Il parallelo di Mt ignora l’inciso sul tempo dei fichi.

[14] Ed avendo soggiunto disse a quello: “Mai più nel tempo lungo da te qualcuno un frutto possa mangiare”. E ascoltavano i discepoli di lui

disse a quello

La reazione delusa ed irata di Gesù «a quello» sembra rivolta ad

una persona (prosopopea retorica) che possa ascoltare. Sono invece

altri coloro che devono ascoltare ed ascolteranno la motivazione del

gesto profetico all’inizio della giornata seguente (cf. vv. 20ss).

(27)

605

Seconda tappa 11,14 mai più

L'invettiva, in apparenza assurda, è insomma rimando ad un giu- dizio divino, contro chi opprime Israele, simboleggiato con la sterilità dell’albero di fichi. L'infedeltà d'Israele è infatti paragonata dalla pre- dicazione profetica alla sterilità di uomini, animali e piante (cf. Os 9, 11-17).

La collocazione redazionale dell'invettiva contro l'albero agevola intanto il collega- mento allegorico col gesto seguente di Gesù nel Tempio. Il racconto del Tempio si può infatti, secondo la tecnica redazionale marciana d’abbinamento di eventi con significato analogo, nella narrazione riguardante l’albero privo di frutti.

ascoltavano

Il tempo imperfetto del verbo indica una certa continuità/insi- stenza dell’insegnamento. Le parole del Maestro all’albero non sono pertanto una passeggera reazione collerica, ma piuttosto un avverti- mento ai discepoli che stanno per condividere in maniera anche vio- lenta l’ostilità d’Israele contro il Consacrato del Dio.

2.2. Fine simbolica della divina Dimora terrena

Il secondo gesto profetico di questa seconda giornata per Mc è il ter- mine simbolico definitivo della divina Dimora in Gerusalemme (vv.

15-19), che comporta in concreto la fine dell’esclusivismo cultuale ri- vendicato da Israele. L’episodio è presente anche negli altri vangeli canonici (cf. Lc 19, 45-46; Mt 21, 12-13; Gv 2, 13-25) e ciò significa con buona probabilità la natura basilare d’un argomento della predica- zione di Gesù. Gv però, a differenza dei Sinottici, situa l’evento in oc- casione del primo pellegrinaggio pasquale del Nazareno predicatore della «buona notizia» a Gerusalemme e quindi all’inizio della sua at- tività apostolica, reduce dall’esperienza nell’ambito del Battezzatore.

Siffatta collocazione suggerisce forse un qualche legame con le dot-

trine esseniche della predicazione di Gesù ad es. su sommisacerdoti,

scribi e farisei (e non solo). C’è da osservare che il testo giovanneo in

nostro possesso fu pubblicato, come pare, tra l’85 ed il 100 d. C., ossia

(28)

606 Seconda tappa 11,15

quando da tempo era accaduta la catastrofe del Tempio (agosto del 70) in seguito alla conquista della Città santa ad opera di Tito. La col- locazione marciana dell’episodio alla fine del pellegrinaggio di Gesù (ripresa poi da Lc e Mt) sembra ad ogni modo avere una sua perfetta logica redazionale. L’agiografo intende raccontare detti e fatti del Na- zareno come fasi ideali d’un unico viaggio santo alla casa terrena del Padre. La conclusione della funzione cultuale del Tempio gerosolimi- tano è perspicua metafora della fine della sua umanità terrena (come annota appunto Gv 2,19; 4,21) e l’inizio dei cieli nuovi e terra nuova che saranno la nuova abitazione gloriosa della divina Maestà e del suo Figlio diletto (cf. Ap 21, 1-5). Sembra quindi essere questa la fase fon- damentale ed illuminante del santo cammino di Gesù, che prepara l’esplosione totale della «buona notizia», oggetto specifico del lavoro di Mc. C’è forse da dire che Lc e Mt, pur assumendo in linea di mas- sima il medesimo schema marciano dell’unico pellegrinaggio del Na- zareno a Gerusalemme, in realtà svuotano la logica del progetto di Mc, perché assegnano significato alquanto diverso al salire del Pro- tagonista del loro lavoro alla Città santa.

[15] E vengono a Gerusalemme. Ed essendo entrato nel tempio co- minciò a cacciare quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio ed i tavoli dei cambiamonete e le sedie di quelli che vendeva- no le colombe rovesciò. [16] E non lasciava che alcuno trasportasse un oggetto attraverso il tempio. [17] Ed insegnava e diceva a loro:

“Non è stato scritto che la casa mia casa di preghiera sarà chiamata

per tutte le genti? Voi invece avete fatto quella una caverna di la-

droni”. [18] Ed ascoltavano i sommi sacerdoti e gli scribi e cercava-

no come possano ucciderlo; temevano infatti quello; tutta infatti la

folla era colpita per la dottrina di lui. [19] E quando tardi diventò

uscivano fuori della città.

(29)

607

Seconda tappa 11,15 [15] E vengono a Gerusalemme. Ed essendo entrato nel tempio cominciò a cacciare quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio ed i tavoli dei cambiamonete e le sedie di quelli che vendevano le colombe rovesciò.

cominciò a cacciare

Mc riferisce l'episodio non tanto come un fatto puntuale, ma piut- tosto come inizio («cominciò - ½rxato») di un'impresa protratta nel tempo; sembrano suggerire la stessa cosa anche i verbi all’imperfetto dei seguenti vv. 16 e 17. Il gesto poi di Gesù non è una semplice pun- tuale azione didattica secondo Mc; è qualcosa che indica un inse- gnamento innovativo, un cambiamento radicale (metanoia), insegnato e perseguito per tutto il tempo della sua azione/pellegrinaggio.

1. La narrazione di Gv (2, 13-25) sembra più attendibile sotto il profilo cronologico degli eventi ed è in certa misura una specie di rettifica della collocazione del rac- conto sinottico e del gesto profetico del Nazareno nel Tempio. È noto che nel luogo sacro era presente la vigilanza sagace dei romani, soprattutto in prossimità delle feste più solenni come la Pasqua, per cui sembra abbastanza inverosimile un pro- trarsi, sia pure nel solo periodo festivo, d’una così clamorosa contestazione di Gesù nel luogo sacro, senza un intervento romano, ad es. con l’immediata sua cattura.

Occorre quindi ipotizzare che Mc, ispirandosi ad alcuni testi profetici (ad es. Os 8, 5.13; 9, 4-5; Ml 3,3 ecc.), abbia voluto proporre sotto forma di gesto profetico l’inse- gnamento complessivo e fondamentale di Gesù sull’avvento della nuova creazione, vale a dire del regno del Dio salvatore dalla perennità della morte ( cf. 1,15), in quanto argomento decisivo per il raggiungimento della meta del suo pellegrinag- gio. Gv (2, 13-25) in effetti parla in modo anche esplicito di nuova creazione, giustifi- cando l’episodio (con parole attribuite a Gesù) come metafora della risurrezione.

2. L’insegnamento fondamentale sull’avvento della nuova creazione, anche a pre- scindere dalla storicità più attendibile della collocazione giovannea, emerge poi come sfondo implicito dalla presenza costante del sospetto e dell’avversità degli scribi, dei farisei e del clero contro il Nazareno per tutto il tempo della sua attività pubblica secondo i Sinottici. La stessa condanna di Gesù d’altro canto non si può pensare scaturita in maniera improvvisa dalla sua presenza a Gerusalemme e dagli insegnamenti nei pochi giorni terminali della sua vita terrena. Farà riferimento, se- condo lo stesso Mc, proprio a questo gesto, e di certo non a caso, l'addebito grave dei sinedriti contro Gesù durante il processo (cf. 14,58) e l’insulto dei passanti al Crocifisso (cf. 15,29), che menzionano alla lettera le parole dette da Gesù in questa circostanza, secondo Gv (2,18). Paolo, d’altra parte, insegna più in generale che le prescrizioni della Legge (e quindi lo stesso culto levitico) non giustificano l’uomo

(30)

608 Seconda tappa 11,15

adamitico, ossia non producono un diritto alla salvezza messianica (cf. ad es. Rm 3,28; Lc 18, 10-14), che è e rimane offerta gratuita della Benevolenza.

3. I Sinottici infine evidenziano i soli momenti di preghiera solitaria del Signore e in nessun caso, ad es., una sua partecipazione esplicita alle celebrazioni rituali e sa- crificali nel Tempio. Mt (17, 24-27), che pure è tra i Vangeli quello più vicino alle opinioni dei giudaizzanti, narra l’episodio della sollecitazione a saldare la tassa del Tempio, che rivela quanto meno un entusiasmo piuttosto gelido, anzi assente, di Gesù sull’argomento. Il gesto insomma qui narrato da Mc sembra autentica ester- nazione profetica del giudizio messianico per il quale l’Israele incredulo che è un albero privo della possibilità di dare frutti utili alla vita, è un popolo che s’è privato con la sua incredulità del privilegio d'ospitare ancora nel suo territorio la dimora di Javè. Iddio non ha cancellato la sua predilezione per gli abramiti, perché non si ri- prende mai i suoi doni. È però il popolo prediletto a rinunciare al suo privilegio, rigettando l’inviato Messia. Il gesto profetico di Gesù nel Tempio è in altri termini annuncio perentorio della fine dell'istituzione cultuale tradizionale (cf. Gv 2,19;

4,21) per le infedeltà e l’incredulità d’Israele (cf. Rm 9,30-11,36). La letteratura apo- calittica invece attende ed auspica soltanto una purificazione della struttura sacra, non la sua abolizione. Lc (19, 45-48) e Mt (21, 12-13) si limitano infatti a rendere il gesto di Gesù una sorta di polemica moralistica ed essenica nella sostanza per l’attività commerciale e profana che si svolgeva nel Tempio ed in questo senso si seguita a leggere il racconto fino ai nostri giorni nel più serioso dei casi.

quelli che vendevano

I commercianti che vendevano animali, ed in particolare le colom- be, ed altra merce necessaria per i sacrifici prescritti occupavano il cortile, dove erano ammessi infatti anche i pagani. La porzione sacra vera e propria della struttura era riservata a leviti e sacerdoti.

Non pare quindi corretto intendere l’iniziativa di Gesù come protesta per la profa- nazione del luogo sacro vero e proprio; commercianti e gabellieri oltre tutto erano autorizzati, almeno in maniera implicita, dalle autorità del Tempio ad esercitare la loro attività utile ed anzi indispensabile per l’esercizio del culto. Il gesto di Gesù insomma ha di mira proprio la finalità sacrale del loro servizio, ossia l’offerta di ciò che era indispensabile per l’esercizio del culto tradizionale (cf. Gv 4,21).

quelli che compravano

Gesù caccia via non solo i commercianti, ma anche i loro clienti.

Il suo intento, come si vede bene, è proprio quello di bloccare la prassi cultuale e non soltanto di renderla pulita, rispettosa e non disdicevole.

(31)

609

Seconda tappa 11,16 cambiamonete

Le offerte in danaro al Tempio dovevano essere fatte con moneta non profana, perché erano destinate all’approvvigionamento della merce necessaria per l’adempimento quotidiano del culto di Javè.

1. Gli addetti al cambio occupavano anch'essi il cortile esterno, dove potevano ac- cedere anche i non-israeliti. È dunque chiaro anche da questo particolare l’intento di smantellare il culto del Tempio. Iniziò di fatto la sospensione effettiva del sacri- ficio quotidiano nel Tempio il 6 agosto 70 d. C. con l’irruzione dei romani idolatri nel Luogo sacro.

2. Il gesto profetico annuncia insomma un radicale cambiamento di rotta della di- vina volontà («né su questo monte né a Gerusalemme», cf. Gv 4, 21-24). La nuova dimora terrena scelta da Dio è il «corpo» del Risorto (cf. Gv 2, 14-22), ossia la fede dei seguaci in Lui e nel suo evento. Il culto gradito al Creatore della vita non pre- vede più offerte d'animali e di altri prodotti terrestri, bensì l’adesione personale li- bera di fede nel Risorto che entra e rimane per sempre nella dimora celeste del Pa- dre con l'offerta del suo sangue/vita di uomo morto e risorto (cf. Eb 9, 6-14). Lo smantellamento inoltre del culto a Gerusalemme comporta di necessità il supera- mento totale e definitivo del sacerdozio aronitico (cf. Eb 7, 23-27; 10, 9.18). Si tratta di vera rivoluzione radicale.

3. Il comportamento violento del Nazareno in questo racconto sembra in netto con- trasto con la sua consueta mitezza nel rapporto ad es. coi peccatori, con gli infermi, con i suoi giudici, con i suoi aguzzini. La sua predicazione è del resto sempre un invito accogliente e mai una minaccia terroristica. Siffatta considerazione avverte forse il lettore a considerare la natura simbolica della narrazione marciana (gesto profetico) e non una mera annotazione notarile cronologica di fatti accaduti.

[16] E non lasciava che alcuno trasportasse un oggetto attraverso il tempio non lasciava

Il cortile del Tempio era utilizzato, per la sua collocazione topo- grafica, come passaggio per entrare e uscire dalla città. Ciò compor- tava un viavai di gente che trasportava anche all’occorrenza i suoi at- trezzi di lavoro, animali, raccolti ecc., la quale usanza era giudicata disdicevole, com’è ovvio, dall'opinione comune dei giudei più devoti.

Il presente v. ed il seguente sembrano in contrasto con quelli che li precedono, per- ché non certificano una volontà d’abolizione da parte di Gesù come nel caso dell’e- spulsione di venditori, compratori e cambiamonete. Il tenore dei vv. 16-17 sembra avallare la lettura dell'episodio come finalizzato a preservare la sacralità del luogo

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610 Seconda tappa 11,17

(purificazione) e non a smantellare il culto tradizionale. Alcuni pensano pertanto che questi vv. siano una glossa della corrente giudaizzante, inserita per tempo nel testo marciano, quando lo scempio del Tempio di Gerusalemme non era stato ancora consumato. I giudaizzanti infatti, reputando l’osservanza della Torà come tramite obbligato per la salvezza cristiana, ritenevano che Gesù col suo gesto non poteva aver annunciato l’abolizione del culto nel Tempio. La sola purificazione del Tempio del resto si riteneva dai maestri (esseni e non) uno dei compiti fondamentali del Messia, come era accaduto già ai tempi di Giuda Maccabeo nel 167 a.C., quando il luogo sacro degli ebrei era stato profanato da Antioco IV Epifane († 164 a.C.) con sacrifici alle divinità idolatriche (cf. 1 Ma 4, 36-51). Gli stessi primi discepoli nei primi giorni dopo la risurrezione del Maestro seguitarono a frequentare il Tempio ogni giorno e di solito sotto il portico di Salomone (cf. At 2,45; 3,1; 5, 12.20-21.42).

Questi vv. pertanto potrebbero essere anche una sorta di giustificazione della pras- si dei primissimi discepoli di Gerusalemme, che usavano ritrovarsi negli spazi del Tempio, dove aveva anche operato il Maestro, non avendo ancora ben assimilato il suo insegnamento sulla creazione nuova (cf. Gv 2,19; 4,21) o addirittura concedendo- si una sorta di dilazione dei termini della notizia messianica per una funzione ac- cessoria dell’Edificio a beneficio dei primi discepoli del Signore.

[17] Ed insegnava e diceva a loro: “Non è stato scritto che la casa mia casa di preghiera sarà chiamata per tutte le genti? Voi invece avete fatto quella una caverna di ladroni”

insegnava

L’iniziativa del Nazareno qui narrata è dunque per Mc un gesto profetico costitutivo d’un insegnamento prolungato.

Il tempo imperfetto (™d…dasken kaˆ œlegen) denota ripetitività nel passato

. è stato scritto

Si citano 2 testi scritturistici con i quali s’evidenzia che nei tempi messianici la dimora di Javè accoglierà anche i non-ebrei (Is 56, 6-8), ma non potrà essere un nascondiglio per ladri (Ge 7, 9-11).

Il gesto di Gesù è dunque per l’ipotetica glossa il segno dell’apertura del Tempio anche agli idolatri, ma non sarà più nascondiglio per i gestori ladri del Tempio. Si ribadisce insomma l’idea della purificazione della funzione sacrale pregressa per l’accoglienza anche delle genti, come prevedevano e s’aspettavano i giudaizzanti.

casa di preghiera

L’abitazione del Dio è luogo in cui si celebra la sua lode (cf. Eb 12,

28-29) e si chiede l’avvento del suo regno/signoria escatologica.

(33)

611

Seconda tappa 11,18

L’argomento iniziale della giornata seguente (vv. 24-25) è appunto esortazione a fidarsi e condividere il Volere divino salvifico, il regno del Dio.

per tutte le genti

Mc soltanto utilizza in questa citazione anche l’accenno a «tutte le genti» presente nell’oracolo del Tritoisaia (cf. Is 56, 6-8). È un altro e- lemento dottrinale caratteristico della predicazione paolina recepito dalla narrazione marciana.

Il gesto di Gesù è in ogni caso annuncio di un’autentica svolta del Volere divino che si dice attento alle esigenze cultuali di tutte le etnie umane e dunque a motivo dell’universalismo salvifico dichiara superato l’esclusivismo religioso d’Israele, che imponeva ai non-ebrei, con divieto assoluto, d’oltrepassare una certa barriera nello spazio sacro (cf. At 21, 27-29).

caverna di ladroni

La metafora per definire la strumentalizzazione affaristica dell’at- tività esercitata nel Tempio e del suo decoro, affidato alla cura di re- sponsabili del clero, è perspicua ed efficace. Il luogo che dovrebbe es- sere destinato alla glorificazione del Dio non può essere utilizzato come caverna/nascondiglio di gente affaccendata a realizzare i pro- pri profitti mercantili e politici (cf. Gv 2,16), consumando così una rapina sacrilega della Gloria divina.

La metafora della «caverna» è di Ge (7,11) che denunciava con la sua predicazione il fatto per cui la classe sacerdotale, cui peraltro apparteneva, utilizzava il Tempio come zona franca per trasgredire il divino Volere come egli, inascoltato, andava predicando. È questa l’unica esplicita citazione di Ge nel lavoro marciano; pare pe- rò non esservi dubbio alcuno sulla consapevolezza delle comunità primitive so- prattutto palestinesi sulla similitudine tipologica della vicenda del Nazareno con quella del grande profeta veterotestamentario.

[18] Ed ascoltavano i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano come possano ucciderlo; temevano infatti quello; tutta infatti la folla era colpita per la dot- trina di lui

ascoltavano

La citazione di Ge serve a Mc come aggancio ai progetti omicidi dell’autorità clericale e dottrinale d’Israele contro il Nazareno.

L’autorità, secondo la versione giovannea (cf. 2,18), esige da tempo una prova cele- ste, un segno, a sostegno e garanzia di legittimità per quanto va predicando e facen-

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