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AperTO - Archivio Istituzionale Open Access dell'Università di Torino

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21 October 2022 Original Citation:

Come si fugge da Salò? Potere sovrano e soggettività resistente in Sade e Pasolini

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Mimesis

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E

RNESTO

C. S

FERRAZZA

P

APA*

COME SI FUGGE DA SALÒ?

Potere sovrano e soggettività resistente in Sade e Pasolini

Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità.1

Introduzione

Sul Salò di Pier Paolo Pasolini, trasposizione cinematografica delle 120 journées de Sodome calate in un’Italia in procinto di liberarsi dalla morsa fascista, si è a lungo esercitata l’analisi filosofica. La struttura stessa che Pasolini conferisce alla sua opera ne rivela, sin dai titoli di testa, la robusta grana concettuale. Indizio decisivo in questo senso, la bibliografia – vero e proprio hapax della cinematografia italiana e non – che Pasolini inserisce tra i titoli di testa: Sade mon prochain di Klossowski, Lautrémont e Sade di Blanchot, Faut-il brûler Sade? di de Beauvoir, Sade, Fourier, Loyola di Barthes e L’ecriture et l’expérience des limites di Sollers.

È un’opera, insomma, che si presta – così come la sua matrice – a essere motivo di suggestione per la riflessione filosofica. Salò rappresenta la ripro- posizione mediata dal dispositivo cinematografico di un testo, quello sadia- no, che ha messo a tema in maniera parossistica alcuni luoghi cruciali del pensiero filosofico e politico: la negazione dell’autodeterminazione dei sog- getti; l’intreccio di potere e violenza; il lato perverso e sadico della sovrani- tà; il corpo e le sue funzioni fisiologiche come punto di presa eccellente del potere; il diritto non come garanzia di vita ma come annuncio di morte.

Questo contributo esplora il binomio Sade-Pasolini dalla prospettiva cri- tica ed emancipatrice che le loro opere mostrano. È possibile accedere a tale specola solo dopo aver dismesso una lettura poco sorvegliata delle

* Instituto de Filosofía Pontificia Universidad Católica de Chile

1 Discorso inaugurale del Duca Blangis: P.P. PASOLINI, Salò o le 120 giornate di So- doma, in Id., Per il cinema, tomo II, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mon- dadori, Milano 2001, p. 2036.

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configurazioni pratiche che Sade e Pasolini presentano; vale a dire, solo dopo aver rinunciato alla tentazione di leggere le avventure a Sodoma come un’ode alla riduzione dei soggetti a nuda vita uccidibile senza freni.

Per questa ragione, è necessario innanzitutto sgomberare il campo analiti- co da interpretazioni come quella proposta da Giorgio Agamben, che ridu- cono la configurazione di Sodoma a quella di un “campo” ove il potere si para innanzi ai corpi senza mediazioni di sorta. Una volta criticata questa lectio facilior, sarà possibile analizzare le forme di resistenza letteraria or- ganizzate da Sade e le prospettive di resistenza aperte da Pasolini. Il pro- blema filosofico-politico sarà quello d’individuare, all’interno di una con- figurazione disegnata per annichilirla, la potenzialità emancipatrice di una coscienza incatenata.

Incomprensioni agambeniane

Nonostante le differenti versioni, il plot è noto: quattro libertini rapisco- no fanciulli e fanciulle, li segregano in una casa dove, eccitati dalle narra- zioni di quattro esperte ruffiane, abuseranno meticolosamente dei loro cor- pi. Il tutto governato da un regolamento che scandisce, ossessivamente, le vite rinchiuse.

Il castello di Silling, così come il suo pendant, la villa a Marzabotto, sono per Giorgio Agamben il luogo paradigmatico dove si verifica quell’in- crocio tremendo tra logica sovrana e dispositivo biopolitico che rappresen- ta allo stesso tempo il nucleo originario della politica occidentale e il bas- so continuo della sua storia. Secondo la tesi tranchant di Agamben, in Sade è stata pensata per la prima volta “un’organizzazione normale e collettiva (e quindi politica) della vita umana fondata unicamente sulla nuda vita”2. Questo verdetto rientra coerentemente nell’economia generale della teoria agambeniana; ma la sua falsità, la cui dimostrazione è al centro di queste pagine, suggerisce la problematicità del quadro che la legittima.

Per formulare la sua teoria, Agamben compie una infedele ma suggesti- va ricomposizione dei tratti fondamentali della proposta foucaultiana, re- trodatando la politicizzazione della nuda vita – che Foucault aveva riferito alla modernità, interpretata come autentica soglia biopolitica – fino a farne il nucleo originario della politica occidentale. A un tale sconvolgimento pa- radigmatico fa eco una nuova collocazione topologica del potere, che vede

2 G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 149

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nel campo (e non più nella polis) “il paradigma biopolitico dell’Occidente”3, e nell’eccezione la struttura fondamentale dell’inclusione, altamente pro- blematica, degli individui nella vita politica. Il campo, dove si realizza “il punto d’incrocio fra il modello giuridico-istituzionale e il modello biopoli- tico del potere”4, è il luogo dove il paradigma sovrano trova il suo punto di presa nell’individuo considerato in quanto essere vivente. Questa presa sulla nuda vita – o meglio: questa presa che rende la vita nuda – è resa possibile dalla logica della sovranità che Agamben, attingendo da Schmitt, analizza sotto la lente d’ingrandimento dell’eccezione. La struttura dell’ec- cezione, nell’interpretazione agambeniana, è paradossale dal momento che segnala il bordo del diritto, ciò che lo rende possibile sottraendosi: “ciò che caratterizza propriamente l’eccezione è che ciò che è escluso non è, per questo, assolutamente senza rapporto con la norma; al contrario, questa si mantiene in relazione con essa nella forma della sospensione”5.

Nel castello di Silling, paradigma del campo e dominato dall’eccezione, viene celebrata “un’orgia senza limiti e, tuttavia, perfettamente e ossessi- vamente regolata”6. Le vittime dei quattro “amici” sono catturate in questo nesso indistricabile tra la legge e la sua sospensione: la loro esistenza, scan- dita dall’ossessiva regolamentazione stilata dai carnefici, è contemporane- amente sottratta al diritto (“voi siete fuori da ogni legalità” tuona nel di- scorso di benvenuto Blangis) e permeata, plasmata, attraversata da parte a parte da esso. È grazie a questa struttura dell’eccezione, che il castello di Silling in quanto campo incarna, che la nuda vita si configura come “vita umana inclusa nell’ordinamento unicamente nella forma della sua esclu- sione (cioè della sua uccidibilità)”7.

Tuttavia, a differenza di ciò che sostiene Agamben, il potere dispotico che Sade mette in scena si basa esplicitamente sul suo carattere disgiuntivo rispetto alla norma, e non su quello dell’eccezione pensata come struttura topologica dell’indistinzione. Tutto nel testo lascia pensare che la vita uc- cidibile delle vittime sia resa tale proprio in quanto scacciata dalla polis e rinchiusa in un campo, che dunque non rappresentano forme topologiche sostituibili: il campo non sostituisce la polis, ma le si affianca per differen- za di specie. In nessun modo le due logiche topolitiche si lasciano sovrap-

3 Ivi, p. 202.

4 Ivi, p. 9.

5 Ivi, pp. 21-22.

6 Id., Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Verona 2011, p. 17.

7 Id., Homo sacer, cit., p. 12.

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porre: il campo, con le sue dinamiche infernali, ha bisogno di una separa- zione radicale dalla polis affinché i Signori possano esercitarvi la loro signoria, che per questa ragione si configura nella forma di abuso. È solo nella distinzione dallo spazio politico della polis che il potere dispotico può godere dell’impunità cui agogna. Ciò che è vietato nella polis è vietato al- tresì nel campo, ma qui la distinzione spaziale, che i Signori organizzano minuziosamente, lo rende impunibile.

Il castello di Silling è “un rifugio remoto e solitario”8. Come dice nel suo discorso inaugurale il duca Blangis, è l’essere fuori dai confini di ogni lega- lità a fare delle vittime delle specie di morti viventi. Se questo accade, non è perché le vittime vengono sottratte alla forza protettrice del diritto positivo, dal momento che il regolamento stilato dai Signori ne è una caricatura, ben- sì perché allontanate spazialmente, dirottate altrove. Il castello di Silling può diventare il nomos dello spazio politico moderno solo a patto d’ignorare che le vicende che vi hanno luogo trovano la loro condizione di possibilità nella dislocazione spaziale del castello da Parigi, del campo dalla polis, e non nel- la loro indistinzione. La descrizione dell’ambiente che circonda il castello di Silling è in tal senso decisiva; Sade vi dedica diverse pagine, che Barthes ri- assume così: “questo castello è ermeticamente isolato dal mondo mediante una serie di ostacoli che ricordano da vicino quelli che si trovano in certe fia- be: una capanna di carbonai-contrabbandieri (che non lasceranno passare nessuno), una montagna scoscesa, un vertiginoso precipizio che si può var- care solo su un ponte (che i libertini, una volta rinchiusi, faranno distrugge- re), un muro alto dieci metri, un fosso profondo, una porta che, appena entra- ti, si fa murare, e infine una quantità spaventosa di neve”9.

Se “il campo è lo spazio che si apre quando lo stato d’eccezione comincia a diventare la regola”10, tutto nel testo di Sade lavora per escludere il castello di Silling da questa definizione. Sade descrive la topologia di uno spazio irrag- giungibile, laddove per Agamben la collocazione geografica del campo non è in alcun modo rilevante essendosi confuso con la norma. Ma è proprio la ne- cessità di dover “proteggere la lussuria dalle spedizioni punitive del mondo”11 a testimoniare che anche nel castello di Silling la dimensione de iure e quella de facto, lungi dall’indifferenziarsi, non smettono di essere separate.

8 D.A.F. DE SADE, Le 120 giornata di Sodoma o la scuola del libertinaggio, a cura di Marco Cavalli, Rizzoli, Milano 2014, Kindle, pos. 1163.

9 R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Einaudi, Torino 1977, p. 5.

10 G. AGAMBEN, Homo sacer, cit., p. 188.

11 R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 6.

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Impossibilia e sovrani mostruosi

Quella di Agamben è una lectio facilior. Vi è una sottotraccia nel rac- conto di Sade come nel film di Pasolini, che è necessario far emergere per restituire un’interpretazione dei testi che mostri, in controluce rispetto allo strazio cui sono sottoposti i corpi delle vittime, i momenti di resistenza dei soggetti di fronte alla presunzione di assolutezza del potere dei carnefici.

Gli inferni di Sade e Pasolini non sono un’ode alla sovranità violenta del potere, ma una critica che eccede il piano dell’assiologia, configurandosi come critica immanente del funzionamento delle strutture di potere.

Albert Camus ha notato che il progetto di Sade è votato al fallimento. Lo scacco del potere sadico risiede o nella sua incapacità di annichilire del tutto la vittima, o nel gioco che cattura gli stessi carnefici, che fa apparire la loro di- sperata ricerca “una smania d’uomini in ceppi”12. È lo stesso Sade, lungi dal tessere un’ode della sovranità politica statale – che apparirebbe quantomeno bizzarra laddove compilata dalla Bastiglia – a disseminare nel suo testo indi- zi di questo scacco. Due sono le strategie principali utilizzate da Sade per cer- tificare l’incapacità da parte del potere di esercitarsi in maniera assoluta.

In primo luogo, i Signori che Sade descrive sono bestiali, ferini, mo- struosi. I corpi libertini sono un’ode all’animalità mostruosa, figure esem- plari di quella che Foucault ha definito “sovranità ubuesca” o “sovranità grottesca”. Il grottesco è “un discorso o un individuo che detengono per statuto degli effetti di potere di cui, per la loro qualità intrinseca, dovrebbe- ro essere privati”13. Il potere ubuesco massimizza i suoi effetti “a partire dalla squalificazione di colui che li produce”14. In Sade questa squalifica- zione del potente si manifesta, prima ancora che nei gesti (che appartengo- no a una filosofia sadica che i Signori in continuazione cercano di legitti- mare con le loro apparentemente irrefutabili argomentazioni), nei corpi.

Laddove i corpi delle vittime sono risolti in topoi, quelli dei carnefici sono oscenamente dettagliati. Il Vescovo è dotato di “statura modesta e minuta, corpo piccolo e gracile, salute malferma, nervi fragilissimi, una smania pa- rossistica di piacere a fronte di facoltà mediocri, un membro a dir poco or- dinario, se non piccolo”15. E il presidente di Curval è “paurosamente con-

12 A. CAMUS, L’uomo in rivolta (1951), in Id., Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura di Roger Grenier, Bompiani, Milano 1988, p. 669.

13 M. FOUCAULT, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975) (1999), tr.

it. di Valerio Marchetti e Antonella Salomoni, Feltrinelli, Milano 2009, p. 21.

14 Ivi, p. 22.

15 D.A.F. DE SADE, Le 120 giornata di Sodoma, cit., pos. 643-651.

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sumato dal vizio, era ridotto quasi a uno scheletro. Era alto, magro, esile, occhi incavati e spenti, bocca livida e malsana, mento sporgente, naso lun- go. Villoso come un satiro, schiena piatta, natiche flaccide e cadenti, più si- mili a due strofinacci sporchi sventolanti in cima alle cosce, la cui pelle era talmente incallita a forza di frustate che la si poteva attorcigliare tra le dita senza che lui se ne accorgesse”16. Sade mette in scena con lo stesso gesto la sovranità del potere e la ridicolizzazione dei suoi agenti.

Quando non sono orrendi, i corpi dei Signori sono impossibili. Il duca di Blangis ha un corpo iperbolico: un membro asinino che misura 20 cm di circonferenza, consuma 20 rapporti sessuali al giorno, resiste “fino a cin- quanta assalti al giorno”17 e beve 10 bottiglie di vino di Borgogna a ogni pasto. Le azioni del potere assoluto sono sempre realizzate in Sade da cor- pi grotteschi o impossibili.

Il tema degli impossibilia disseminati nell’universo sadiano è centrale nell’analisi semiologica di Roland Barthes, il quale tuttavia non ne trae le dovute implicazioni politiche. L’opera di Sade è un esercizio d’irrealtà:

“quello che accade in un romanzo di Sade è propriamente favoloso, vale a dire impossibile”18. Se nell’universo di Sade le vittime sono letteralmente

“nuda vita”, corpi esposti dinnanzi al potere senza mediazione alcuna, è perché i Signori altro non fanno che “organizzarsi per esercitare, nella loro pienezza, dei diritti che hanno la terrificante estensione del desiderio”19. Ma questa estensione è impossibile da coprire, e Sade, mentre sotto infuria la rivolta e la Bastiglia viene presa d’assalto, restituisce questa impossibi- lità sia sottolineando i tratti mostruosi dei signori, sia nei racconti con cui le quattro ruffiane li allietano, dove umani e non umani si accoppiano e ge- nerano prole per le future carneficine. Il sovrano, per Sade, è colui che pre- tende di poter agire in deroga alle leggi che comandano l’universo, ma non può far altro che verbalizzare questo desiderio. Per soddisfare tutte le figu- re che le “storiche” narrano servirebbe “un corpo multiplo e disarticolato”20. Nei desideri dei Signori anticipati dai racconti delle ruffiane “tutto supera la natura umana”21, dimodoché l’onnipotenza del potere libertino è “un fat- to di linguaggio”22; ma questo significa che il referente reale di questa on- nipotenza discorsiva è vuoto.

16 Ivi, pos. 681.

17 Ivi, pos. 628.

18 R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 25.

19 A. CAMUS, L’uomo in rivolta, cit., p. 667.

20 R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 118.

21 Ivi, p. 123.

22 Ivi, p. 124.

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Nell’universo di Sade il potere sovrano paga in due modi la sua assolu- tezza: con la mostruosità dei suoi agenti e con l’impossibilità delle loro azioni. Queste due strategie letterarie suggeriscono, diversamente dall’in- terpretazione fornitane da Agamben, che l’opera letteraria di Sade non va interpretata come testimonianza della violenza sulla nuda vita, ma come la critica del potere che pretenderebbe di esercitarla.

Ezio, o la soggettività resistente

Anche in Salò la sovranità del potere è frustrata, incontra nel suo cam- mino annientatore figure che ne certificano l’irrealizzabilità. Roberto Espo- sito ha molto acutamente notato che Pasolini mette in scena una potente tattica per sfiancare il delirio dei libertini fascisti. Riprendendo un tema che attraversa tutta la letteratura critica sul sadismo, Esposito sottolinea la figu- ra tremenda della vittima complice, che con obbedienza servile accetta la frusta. In uno degli scritti corsari, Pasolini rilevava che “non c’è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima”23: la vittima docile, che rispetta il suo carnefice e acconsente a ogni sua voglia, finisce con il godere della violenza che gli viene inflitta, intrattenendo con il suo tormentatore un’oscena liaison che gli consente di sopravvivere. In questo modo, al potere sadico viene tolto il suo punto di presa, ossia fare a un cor- po ciò che il soggetto non vuole gli venga fatto, cosicché la norma sadica viene disattivata dal “colpito che non può e non vuole più schivare i colpi”24. Difatti, per Esposito “il fervore masochista della vittima sottrae al sadico l’oggetto del suo piacere, mettendo a nudo l’originaria impotenza che sta alla base del delirio di onnipotenza”25.

23 P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Mondadori, Milano 1999, p. 481.

24 D. GIGLIOLI, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, nottetempo, Roma 2014, p. 44.

25 R. ESPOSITO, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, p. 205. È da notare che questa linea interpretativa regge fintanto che si mantiene la coerenza dell’unità sadomasochista, ossia finché sadismo e maso- chismo sono interpretati l’uno il rovescio dell’altro. Non è qui il luogo, ma sareb- be interessante sondare una prospettiva isolata sul tema, quella di Deleuze. Nella sua presentazione ai testi di Sacher Masoch, Deleuze cerca di mostrare la sconnes- sione tra sadismo e masochismo, che per lui si reggono su logiche differenti e rap- presentano due universi chiusi, autonomi e non comunicanti. Cfr. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), tr. it. a cura di Giuseppe De Col, SE, Milano 2007.

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L’interpretazione di Esposito s’inspessisce analizzando la scena fi- nale del film, laddove i Signori osservano a turno con un binocolo le se- vizie mortali inflitte alle vittime. Questa variante sul tema rispetto al te- sto di Sade sarebbe nient’altro che la riprova che il godimento illimitato cui agognano è impossibile, puramente osservabile, oggetto teoretico: “le frustate in aria del Monsignore, o la danza frenetica dei carnefici intorno ai cadaveri delle vittime, divengono lo stemma tragi- co dell’inconsistenza del potere – il crollo rovinoso del trono sovrano.

Così come la circostanza che le torture non vengono effettuate diretta- mente dai Signori, ma solo contemplate da lontano, alla fine attraverso un binocolo, significherebbe l’impossibilità del loro orgasmo, e dunque l’autodistruzione del potere”26.

La lettura di Esposito, per quanto suggestiva, sembra tuttavia forza- ta. Il Monsignore non frusta in aria, ma sferza con precisione la schie- na delle vittime; l’assenza di orgasmo non rileva in alcun modo ai fini del rapporto sadico, e anzi potrebbe essere letta come l’unica possibili- tà per procrastinare all’infinito la violenza sui corpi27; le torture vengo- no portate a termine direttamente dai Signori mentre uno di loro, a tur- no, ammira, assiso come un Re, gli amici e i tormenti. È vero che l’introduzione di una mediazione di sguardi attraverso il binocolo è fi- losoficamente rilevante e segna una differenza rispetto alla lezione sa- diana, ma un’analisi attenta proprio delle scene richiamate da Esposito ne smentisce l’interpretazione28.

Il problema rimane la costituzione di una soggettività rivolta a un processo di liberazione, a partire da una configurazione che impone alle coscienze solamente i ceppi. In una dinamica quale quella disegnata in

26 R. ESPOSITO, Pensiero vivente, cit., pp. 205-206.

27 Si noti che, dei quattro Soci originariamente descritti da Sade, solo due sono in grado di avere erezioni, a riprova che il nucleo del rapporto sadico è precisamen- te il differimento della fine della violenza, dimodoché il fine della sopraffazione non le sia esterno: “Salò si basa su un’accumulazione degli atti di profanazione e mortificazione dei corpi, e sulla procrastinazione indefinita del loro momento esi- ziale/orgasmico” (S. MURRI, PIER PAOLO PASOLINI: Salò o le 120 giornate di Sodo- ma, Lindau, Torino 2000, pp. 10-11).

28 Diversamente dall’interpretazione di Esposito, il tema del binocolo, ossia il diffe- rimento ottico della violenza, non va riferito alla relazione tra carnefici e vittime, ma a quella tra il film e lo spettatore. Non è un caso che il binocolo venga intro- dotto solo al termine della rappresentazione. Pasolini suggerisce, con un gesto di gran maestria cinematografica, l’idea che, così come il Signore di turno contem- pla le sevizie sui corpi innocenti, allo stesso modo lo spettatore le ha contempla- te. In un universo corrotto, il ruolo di spettatore è già un ruolo colpevole.

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Salò, come si innesca il processo di liberazione dalle maglie del potere?

Quale gesto consacra lo spazio di emancipazione del soggetto nono- stante le sbarre di un potere che lo imprigiona? In un episodio del film il potere sovrano, nella sua volontà di esercitare l’onnipotenza annichi- lendo le vittime, s’inceppa e mostra tutte le sue debolezze. In seguito a una catena di accuse reciproche (a testimonianza della contagiosità del male, in grado di sporcare anche l’innocenza delle vittime), i Signori scoprono l’unione amorosa tra Ezio e una “serva nera”. Colti in flagran- te, i due verranno uccisi, ma Ezio morirà mostrando ai Signori il pugno chiuso, a testimoniare in punto di morte la sua fede comunista opposta al loro credo fascista.

La morte di Ezio, come dichiara Pasolini, è “il punto culminante del film”29. Non certo perché il rapporto sinceramente amoroso tra la guardia e la serva puntelli di sentimentalismo un film insostenibile, ma perché viene disegnato un altro schema politico, che si incista in quello che i Signori avevano meticolosamente organizzato e ne squaderna le debolezze. Ad af- frontarsi sono qui nemici politici, comunisti opposti a fascisti: Ezio, a dif- ferenza del resto del serraglio, non muore perché infrange una regola, né perché destinato alla morte. La sua non è una vita puramente uccidibile.

Muore perché rivendica uno spazio di libertà all’interno di una configura- zione che pretende di assegnare alle coscienze unicamente la testa china pronta per la lama. Non è un sacrificio eroico il suo, ma l’imposizione di una volontà da parte di un soggetto prigioniero disposto a scontare il prez- zo della sua rivendicazione.

Il gesto rivoltoso di Ezio disorienta gli “amici”, che lo crivellano di col- pi. Costringendo i Signori a giustiziarlo per la sua fede politica, Ezio si sot- trae al rituale che celebra le fantasie dei padroni. Ed è proprio il rifiuto del rituale verticalmente imposto dal potere, che se riconosciuto e accettato trasforma i soggetti in nuda vita, a restituire il soggetto alla dimensione po- litica dalla quale era stato alienato. Ezio morirà, ma sottraendosi al deside- rio del carnefice, e anzi precipitandolo dentro al tempo storico, dentro al conflitto tra soggetti politici dal quale i Signori si erano estraniati.

Ezio rappresenta la figura estrema della resistenza al potere. Resistenza estrema perché esercitata a partire da una configurazione concreta organiz- zata per scongiurarla, e per questo destinata a un epilogo tragico. Ma il pu- gno chiuso alzato, la pretesa di morire da nemico politico e di subire la morte per fucilazione (riservata, appunto, ai nemici politici) rivelano il ge- sto pienamente moderno ch’egli compie. Certo, Ezio muore. Ma non è la

29 P.P. PASOLINI, De Sade e l’universo dei consumi, in Id., Per il cinema, cit., p. 3021.

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morte di una “debole creatura incatenata”, bensì quella di una “soggettivi- tà che scalpita”30, che osa agire la propria libertà e rivendica la politicità della sua morte.

La modernità di Ezio, figura tragica che sconta con la morte la ribellio- ne, sta tutta nel processo di soggettivazione che lo consegna a un improv- visato patibolo. Il pugno chiuso, che disarma i libertini dei loro desideri senza storia e li ripiomba nel ruolo che avevano dismesso, quello di nemi- ci politici, inaugura una nuova soggettività. Il cerchio è ormai spezzato, la ritualità del potere interrotta: la vittima non porge più il collo, e bisognerà sparargli a distanza.

Non vi è più alcuna complicità tra vittima e carnefice. Se Ezio può effet- tivamente disarmare la logica dei Signori, è perché manifesta la potenziali- tà di un’eccedenza nei confronti del potere che può sempre essere rivendi- cata poiché inseparabile dal soggetto che la impugna. Il pugno chiuso di fronte ai carnefici è la negazione della loro sovranità e, come pendant, il ri- fiuto a essere ridotto a nuda vita. Un gesto che è una soggettivazione, che fa esplodere la coscienza imprigionata, riconsegnandole, almeno simboli- camente, un primato dell’azione e una rivalsa contro il potere bestiale che la calpesta.

30 F. TEDESCO, Eccedenza sovrana, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 56. Il tema con- clusivo dell’eccedenza del soggetto rispetto alla sovranità del potere è ripreso da questo saggio.

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