La dignità umana:
concezioni e genealogie
The most remarkable of this kind are the sects, founded on the different sentiments with regard to the dignity of human nature; which is a point that seems to have divided philosophers and poets, as well as divines, from the beginning of the world to this day.
(David Hume, Of the Dignity or Meannes of Human Nature)
Introduzione
La dignità umana è ormai diventata una categoria imprescindibile del dibattito pubblico contemporaneo. Lo dimostra la sua grande diffusione sul piano giuridico, iniziata nella prima metà del novecento e proseguita negli anni successivi alla seconda guerra mondiale: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo [1948], la Legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca [1949], la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina [1997], la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [2000] conferiscono alla dignità il ruolo di norma fondamentale, collocata al vertice dell’ordinamento. L’interesse per la dignità si è affermato nel clima di rinascita del giusnaturalismo che ha fatto seguito alle esperienze dei crimini contro l’umanità compiuti nel corso della seconda guerra mondiale1 e si è progressivamente esteso all’ambito filosofico, dapprima tedesco e poi anglosassone, italiano e francese.
Nel suo uso etico e giuridico oggi più consueto il concetto di dignità esprime un’idea intuitivamente chiara: quella dell’eguale valore di ciascun essere umano a prescindere da qualsiasi circostanza di carattere contingente, come, ad esempio, la sua collocazione sociale, razziale, di genere, la sua età o le sue condizioni di salute. Intesa in questa accezione molto generale, la dignità possiede una dimensione che è al contempo morale e ontologica2. Morale perché si tratta di un attributo che conferisce valore e implica che debba essere accordato rispetto a colui che ne è il portatore: per descrivere l’affermarsi giuridico e culturale dell’ideale della dignità umana, Hans Joas ha parlato – utilizzando un’espressione presa a prestito da Durkheim – di “sacralizzazione della persona”3.
1 Cfr. M. Reichlin, Dignità umana: ragioni di un paradigma morale, in E. Furlan, Bioetica e dignità umana.
Interpretazioni a confronto a partire dalla Convenzione di Oviedo, Milano, FrancoAngeli, 2009, p. 144.
2 Cfr. R. Debes, Dignity. A History, Oxford, Oxford U.P., 2017, pp. 2-3, che sottolinea come l’uso odierno sia recente. Sino alla metà dell’ottocento, infatti, la dignità veniva ancora intesa nel senso tradizionale, come eccellenza legata al merito e alle prestazioni, e non come valore morale, condiviso e non acquisito, che accomuna l’intero genere umano. 3 Cfr. H. Joas, La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani, Milano, FrancoAngeli, 2014.
Ontologica perché tale attributo viene pensato come inalienabile e intrinseco a ciascun essere umano per il semplice fatto di essere umano: Elisabeth Anscombe ha definito la dignità una qualità “inespugnabile” (impregnable), una dotazione che esprime un valore che non può mai andare perduto, sebbene possa essere violato4.
Non appena si scenda da questo livello di riflessione molto generale e astratto e si cerchi di dare una dimensione più concreta al concetto iniziano le discussioni. Discussioni, innanzitutto, attorno alla fondazione e ai segni esteriori della dignità: in che cosa consiste e come può essere individuata quella proprietà che eleva l’essere umano al di sopra di tutti gli altri esseri viventi e ne fa l’oggetto di un rispetto particolare? Razionalità, libertà, autonomia, vulnerabilità, capacità di cura, sono solo alcune tra le tante risposte possibili a questa domanda. Discussioni, in secondo luogo, attorno al soggetto di riferimento: la dignità è un attributo proprio dei soli esseri umani o dovrebbe essere estesa ad altri entità, animate o inanimate? Discussioni, infine, riguardo a una definizione univoca o quantomeno condivisa di che cosa significhi, in concreto, violare la dignità umana.
Insomma, malgrado il suo ruolo decisivo all’interno della cultura contemporanea, il concetto di dignità non è ovvio: esso conserva infatti un contenuto estremamente indeterminato, a tratti persino paradossale5. Non è un caso che nel dibattito pubblico vi si ricorra per giustificare posizioni tra loro contrapposte. In campo bioetico, per esempio, la dignità è invocata sia dai sostenitori sia dagli oppositori di pratiche molto diverse, dall’eutanasia alla sperimentazione su embrioni. E a seconda di come venga intesa e declinata, essa si presta a legittimare pretese normative (e giuridiche) addirittura antitetiche: esemplare a questo proposito è la discussione riguardo al rapporto tra dignità e autonomia, vale a dire tra una concezione della dignità che tutela ed esprime l’autodeterminazione individuale, sino quasi a coincidere con essa, e una concezione della dignità che al contrario a tale autodeterminazione pone un limite6. Per la dignità sembrerebbe valere qualcosa di analogo a ciò che Paul Ricoeur ha sostenuto a proposito del riconoscimento7: sebbene sul piano pratico e lessicale il concetto sembri chiaramente definito (pur nella pluralità dei suoi significati), sul piano filosofico si registra una dispersione che rende il suo statuto semantico assai dubbio. Questa divaricazione di piani può forse essere spiegata con il fatto che, mentre la riflessione filosofica sulla dignità umana ha una storia lunga e articolata, il suo uso giuridico è molto più recente. Sebbene il linguaggio dei
4 G.E.M. Anscombe, The Dignity of the Human Being, in id. Human Life, Action and Ethics, ed. M. Geach and L.
Gormally, St Andrews Studies in Philosophy and Public Affairs, vol. IV, Exeter, Imprint Academic, 2008.
5 Cfr. M. Dupuis, Dignité, in L. Lemoine, É. Gaziaux, D. Müller, Dictionnaire Enciclopédique d’Éthique Chrétienne, Paris, Cerf, 2013, pp. 595-606.
6 Cfr. U. Vincenti, Diritti e dignità umana, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 5. Sul problema del rapporto tra dignità e autonomia cfr. anche R. Dworkin, La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 64-96.
diritti sia antico, infatti, l’utilizzo costituzionale della dignità come fondamento dei diritti è stato introdotto solo nel novecento8.
Probabilmente anche a causa della sua estensione concettuale, la nozione di dignità è stata sottoposta a varie critiche: oltre a quella, ricorrente, che insiste sulla sua mancanza di significato definito9, va ricordata quella per cui la dignità sarebbe un concetto ridondante10, contradditorio11 e specista12. Le opinioni divergono: secondo alcuni quello di dignità è un concetto troppo debole per poter essere utilizzato con profitto, una mera finzione giuridica che andrebbe abbandonata. Altri giungono a conclusioni opposte: il solo modo di rivalutare la dignità è quello di fondarla come un principio metafisico e normativo assoluto, una sorta di trascendentale che può essere descritto ma non dimostrato13. La sua indeterminatezza, sostengono, deriva dal fatto che soprattutto sul piano giuridico l’uso del termine è sempre più indipendente da teorie filosofiche sulla natura umana, e si riduce a un accordo pragmatico, per definizione precario e instabile, finalizzato alla fondazione di determinati diritti, siano essi diritti della persona, diritti di rapporto tra gruppi, diritti politici o religiosi, diritti economico-sociali. La necessità di rinunciare a una fondazione metafisica del concetto di dignità potrebbe però diventare una ricchezza e non un limite – la storia giuridica recente sta lì a dimostrarlo – a patto che, anziché in termini di indeterminatezza, si inizi a ragionare in termini di flessibilità14. La pluralità di significati del termine può consentire di salvaguardare e conciliare alcuni principi fondamentali che in diversi ambiti dell’esperienza umana talora entrano in contraddizione, come l’autodeterminazione, l’uguaglianza e la solidarietà. Non si tratta dunque di abbandonare la dignità, quanto di valorizzarne la ricchezza semantica, con un gesto non
8 Cfr. S. Darwall, Equal Dignity and Rights, in R. Debes, Dignity, cit., pp.181-202. Cfr. anche S. Moyn, The Secret History
of Constitutional Dignity, in “Yale Human Rights and Development Journal”, Vol. 17, 2014, pp. 39-69.
9 Cfr. D. Birnbacher, Ambiguities in the Concept of Menschenwürde, in K. Bayertz (ed. by), Sanctity of Life and Human
Dignity, Dordrecht, Kluver, 1996, pp. 107-122.
10 Cfr. R. Macklin, Dignity is a useless Concept. It means no more than Respect for Persons or their Authonomy, in “British Medical Journal”, 327/2003, pp. 1419-1420: secondo Macklin, il contenuto della nozione di dignità rinvia interamente a un altro valore, l’autonomia.
11 Cfr. A. Margalit, La dignità umana tra kitsch e deificazione, in “Ragion Pratica”, 2/2005, p. 507: Margalit, che pure non rifiuta la nozione, ricorda come esista una parentela tra un certo modo di intendere la dignità e l’onore aristocratico. 12 Cfr. P. Singer, Liberazione animale, Milano, il Saggiatore, 2009: la dignità fa parte di quell’armamentario filosofico che, nato per evitare la discriminazione tra esseri umani, ha finito per giustificare la disuguaglianza tra uomini e animali. 13 Cfr. a questo proposito, R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, Torino, Lindau, 2011 e F. Viola, I
volti della dignità umana, in A. Argiroffi, P. Becchi, D. Anselmo, Colloqui sulla dignità umana, Roma, Aracne, 2007,
pp. 101-112.
14 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 179-199, secondo cui la dignità è uno strumento utile, perché flessibile e storicamente determinato, per coniugare valori differenti attorno alla nuova centralità assunta dalla nozione di persona. In maniera analoga, J. Malpas e N. Lickiss (Perspectives on Human Dignity, Dordrecht, Springer, 2007, p. 2) ricordano come l’estensione concettuale e l’indeterminatezza della dignità siamo comuni a molti altri concetti fondamentali della filosofia.
meramente pragmatico e neppure metafisico, bensì ermeneutico e genealogico, nel senso in cui questo approccio metodologico è stato inteso e illustrato da Charles Taylor o Hans Joas15.
Dignità e onore
Proprio perché sono d’accordo con chi sostiene che una riflessione sul concetto di dignità debba necessariamente iniziare con la ricostruzione della sua storia16, non ho intenzione di esporre e difendere una particolare concezione di dignità. Mi limiterò a rilevare alcuni grandi modelli e alcune linee di continuità all’interno di una tradizione complessa che ha visto diverse concezioni intrecciarsi e ibridarsi le une con le altre. Un buon punto di partenza per cogliere la nascita, le trasformazioni e l’attuale configurazione del concetto di dignità è analizzarne il rapporto con una categoria che in parte la precede cronologicamente e in parte le si sovrappone: l’onore. In un celebre articolo degli anni ottanta, diventato un riferimento canonico, Peter Berger sostiene che la modernità ha segnato la fine dell’onore e l’ha sostituito con la dignità17. Analogamente ad altre virtù declinanti nelle società contemporanee, come la castità, l’onore avrebbe perso la rilevanza giuridica e sociologica che aveva in epoca premoderna. Esso è ridotto a essere parte integrante della visione del mondo esclusivamente di classi particolari e legate al passato, come le professioni militari. A ciò si accompagna l’accresciuta sensibilità della cultura moderna per la tutela, e le violazioni, della dignità di esseri umani e di gruppi sociali. Secondo Berger, le differenze tra una virtù classica come l’onore e una virtù moderna come la dignità sono essenzialmente due: l’uno è verticale e sociale, l’altra orizzontale e ontologica. Figlio degli antichi codici eroici e cavallereschi, l’onore è un concetto aristocratico, legato all’idea di una società fortemente gerarchizzata e all’esistenza di
15 Mi riferisco, in particolare, al modo in cui Taylor ricostruisce la genesi del concetto-valore di autenticità in id., Il disagio
della modernità, Roma-Bari, Laterza, 2006. Ma anche al tentativo di Joas (id., La sacralità della persona, cit.) di superare
la separazione tra argomenti fondativi e riflessione storica in merito alla giustificazione della validità dei diritti umani. Secondo Joas, chi va alla ricerca di una fondazione filosofica dei diritti umani – per esempio di stampo kantiano, nella versione rawlsiana o habermasiana – finisce per ridurre la storia a una serie di errori, o quantomeno a una sorta di preambolo in cui solo alla fine del percorso viene scoperto un fondamento che sin dall’inizio era dotato di una validità perenne. Chi si occupa della genesi storica dei diritti e della dignità umana, al contrario, non sembra in grado di dire nulla di significativo riguardo alla loro pretesa di validità normativa. Il fatto che la riflessione filosofica non sia in grado di accedere a un universo di valori eternamente e oggettivamente dato non dovrebbe tuttavia condurre ad ammettere che la fondazione dei diritti umani sia semplicemente il frutto di un accordo e di una creazione volontaria. A tal fine, Joas riprende e capovolge un concetto in voga nella filosofia contemporanea, quello di genealogia. Nella tradizione che va da Nietzsche a Foucault il gesto genealogico viene inteso in senso critico e decostruttivo: esibire la storicità di un valore significa metterne in discussione la validità atemporale e innescare un processo di erosione del nostro legame nei confronti del valore stesso. Al contrario, Joas intende la genealogia in senso “affermativo”: pensare il processo di scoperta e di elaborazione dei diritti umani come un evento contingente non significa ridurlo a un atto di creazione arbitrario, che potrebbe essere revocato per mezzo di un atto di epochè intellettuale. Sulla genealogia affermativa in relazione al tema della dignità, cfr. C. Hübenthal, Human Dignity: can a historical Foundation alone suffice? From Joas’ Affirmative
Genealogy to Kierkegaard’s Leap of Faith, in M. Düwell, J. Braarvig, R. Brownsword, D. Mieth (ed. by), The Cambridge Handbook of Human Dignity. Interdisciplinary Perspectives, Cambridge, Cambridge U.P., 2014, pp. 208-214.
16 Cfr. per esempio M. Rosen, Dignità. Storia e significato, Torino, Codice, 2013.
17 P. Berger, On the Obsolescence of the Concept of Honor, in S. Hauerwas, A. MacIntyre (eds.), Revisions: Changing
legami di solidarietà tra individui che appartengono allo stesso gruppo18. La dignità appartiene all’individuo isolato ed è legata alla scoperta che esista “un’umanità dietro e oltre i ruoli e le norme imposti dalla società”19. Nel mondo dell’onore l’identità individuale è legata al ruolo sociale, che la rivela: l’identità di un cavaliere si mostra nel suo avanzare in battaglia ornato. Nel mondo della dignità l’identità individuale retrocede oltre il simbolismo sociale, concepito come una maschera che la nasconde e da cui è necessario emanciparsi per scoprire il proprio sé autentico. La Dichiarazione dei Diritti dell’uomo, conclude Berger, implicitamente presuppone una sociologia e un’antropologia che considerano le diversità biologiche, storiche e sociali tra esseri umani come irrilevanti ai fini del rispetto. La scoperta moderna della dignità implica che qualsiasi individuo, a prescindere dalla sua collocazione sociale e dalla sua dotazione biologica, sia portatore di diritti e bisognoso di tutela e protezione.
La lettura di Berger si basa su due ipotesi che in parte si sovrappongono, ma che conviene tenere separate: la prima – per comodità la chiamerò tesi della contrapposizione – è che dignità e onore siano differenti e per certi versi addirittura opposti; la seconda –la chiamerò tesi della sostituzione – è che l’onore sia antico e la dignità moderna. Questa netta distinzione può sembrare eccessivamente schematica. L’onore come valore morale, e il senso dell’onore come forza motivazionale restano ampiamente diffusi nelle nostre società. Si tratta però di un’obiezione che non coglie nel segno: ciò di cui si discute non sono l’onore e la dignità come valori individuali, ma come fonti normative di diritti e soprattutto come forme primarie dell’identità umana. La forza dell’interpretazione di coloro che, come Berger, insistono sulla discontinuità, consiste nello stabilire un legame tra l’ascesa e il declino di uno specifico valore morale e quell’insieme variegato di criteri di giudizio etico-antropologici che, con una terminologia presa a prestito da Charles Taylor, potremmo definire un “quadro di riferimento”20. In questa prospettiva onore e dignità, benché abbiano in comune il fatto di essere due attributi che esprimono il valore e impongono il rispetto del soggetto che li possiede, appartengono a universi storico-concettuali profondamente differenti. La specificità del concetto di dignità diventa comprensibile nel quadro di un mutamento epocale di carattere etico e antropologico, caratterizzato da almeno due elementi fondamentali. In primo luogo la nascita del senso moderno dell’individualità, connesso alla rottura dell’ordine cosmico proprio
18 Ivi, p. 174. 19 Ivi, p. 176.
20 Cfr. Ch. Taylor, Radici dell’io, Milano, Feltrinelli, 1993 pp. 24-38. Con tale espressione, Taylor intende lo sfondo, talora implicito, delle nostre intuizioni e dei nostri giudizi morali, che stabilisce la gerarchia e il valore reciproco delle cosiddette “fonti di moralità”. Hannah Arendt si riferisce a qualcosa di simile quando parla dei “giudizi storici delle comunità politiche” che determinano quali attività dovessero essere mostrate in pubblico e quali nascoste in ambito privato (H. Arendt. Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989, p. 57).
del pensiero antico, che come vedremo sopravvive ancora in un autore come Pico21; in secondo luogo, non meno importante, quel rovesciamento della gerarchia classica delle attività umane – esemplarmente messo in luce, tra altri, da Hannah Arendt – che lo stesso Taylor ha definito “rivalutazione della vita comune”. Tutta una rete di attività che la tradizione antica aveva considerato basse e servili, come il lavoro, l’attività economica, gli affetti familiari, e più in generale tutto l’ambito della sfera domestica, vengono nobilitate, cioè elevate al rango di forme della “vita buona”. Come ha messo in luce Nietzsche, criticandola aspramente, questa rivalutazione comporta un livellamento delle forme di esperienza umana destinato ad aprire la strada al riconoscimento del loro eguale valore: si pensi solo a un’idea, quella di “dignità del lavoro”, oggi costituzionalmente riconosciuta in molti ordinamenti, e in passato letteralmente inconcepibile. Questo riconoscimento, a sua volta, si lega a una critica sempre più insistente all’etica dell’onore e della gloria, intese non solo come passioni conflittuali e potenzialmente distruttive – secondo un topos tradizionale – ma come passioni narcisistiche e autocompiaciute, figlie di una vanitas fondata sul desiderio di apparire e non su quello di essere.
Il difetto principale di molte ricostruzioni storiche dedicate al tema della dignità umana in realtà dipende dall’incapacità di distinguere con chiarezza tra due significati del termine. In un primo senso, dignità coincide genericamente con “valore”. Quando ci chiediamo, per esempio, quale sia stata la concezione della dignità umana dei greci – dimenticando che in greco non esiste una parola sola che corrisponda al latino dignitas, il cui significato rimanda piuttosto a una costellazione di termini – in realtà ci stiamo semplicemente chiedendo che cosa conferisse valore alla vita umana secondo i greci e, nel farlo, stiamo proiettando retrospettivamente la nostra risposta: dignità. In un secondo senso, filosoficamente più preciso, dignità è, al pari dell’onore, una specifica risposta alla domanda sul valore dell’umano, che chiama in causa un’antropologia particolare e un modo particolare di pensare il rapporto tra essere e apparenza. In questo senso specifico, nella loro forma compiuta, onore e dignità sono fenomeni differenti. Il mondo della dignità è legato a filo doppio a una concezione dell’io come elemento che si costituisce prima e al di là di qualsivoglia ordine metafisico o ruolo sociale e, in quanto caratteristica ontologica del soggetto a cui appartiene, la dignità è intrinseca e inalienabile. Nel mondo dell’onore l’identità individuale è data dalla collocazione sociale pubblicamente riconosciuta all'interno di un ceto di una società ordinata e, in
21 Secondo Taylor l’idea di “io” è storicamente determinata ed è un riflesso linguistico del culto moderno dell’interiorità e della riflessività radicale che la contraddistingue: “Adottare un atteggiamento di distacco verso sé stessi …vuol dire definire una visione nuova dell’agente umano e dei suoi poteri caratteristici. E con essa anche nuove concezioni del bene e nuove collocazioni delle fonti di moralità: un ideale di auto-responsabilità, le nuove e conseguenti definizioni di libertà e ragione, nonché il senso di dignità che ne è l’espressione” (Ch. Taylor, Radici dell’io, cit., p. 227).
quanto proprietà acquisita tramite il riconoscimento della propria eccellenza, l’onore si può perdere. La risposta più corretta alla domanda su quale fosse la concezione della dignità umana dei greci è che i greci non possedevano una concezione della dignità perché pensavano il valore dell’umano in termini di onore22.
Una prospettiva storica
Sebbene sembri plausibile, dunque, la tesi di Berger deve però essere integrata e corretta, o comunque precisata, per almeno tre ordini di ragioni. La prima ragione rinvia al fatto che, se anche volessimo mantenere la distinzione tra onore come fenomeno antico e la dignità come fenomeno moderno, sembra difficile individuare un punto di svolta preciso tra il momento in cui la dignità è ancora concepita come legata all’onore e al merito e il momento in cui, invece, essa viene pensata su un piano ontologico e morale. Più che di sostituzione, occorrerebbe piuttosto parlare di lenta transizione. Nel corso di questo processo di transizione, anche all’interno della tradizione principale che dal mondo antico conduce al concetto di dignità odierno persistono a lungo motivi legati all’uso tradizionale del termine.
Se ripercorriamo brevemente la nascita e le trasformazioni del concetto di dignità dal mondo antico sino ad oggi, è innegabile che le origini della nozione attuale affondino le proprie radici nella filosofia classica. Martha Nussbaum ha messo in evidenza come il cosmopolitismo cinico e stoico, come riconoscimento “dell’eguale e incondizionato valore di tutti gli esseri umani fondato sulla ragione e sulla capacità morale e non su caratteristiche che dipendono da circostanze fortuite di carattere naturale e sociale”, abbia profondamente influenzato i pensatori moderni23. L’immagine del valore dell’essere umano che emerge dalla vita e dall’insegnamento di Diogene – valore fondato su ciò che unisce e non su ciò che divide gli uomini, e che Nussbaum non esita a definire “immagine della dignità umana che emerge dalla nudità, senza essere oscurata dalle false pretese del rango”24
22 Si veda a questo proposito la distinzione di E. Dodds (id. I greci e l’irrazionale, Milano, Rizzoli, 2009) tra civiltà di vergogna e civiltà di colpa, formulata a proposito della transizione tra la civiltà omerica e l’epoca della lirica tragica. Dodds riprende tale distinzione dagli studi di R. Benedict sulla cultura giapponese (cfr. id. Il crisantemo e la spada.
Modelli di cultura giapponese, Roma-Bari, Laterza, 2009). Per giustificarne la legittimità, Dodds utilizza il concetto di
“schema di civiltà”, inteso come la specifica configurazione che un fenomeno universale – per esempio il sogno – assume all’interno di una cultura data, la sua specifica cristallizzazione concettuale (cfr. cap. IV, pp. 149 ss.). Applicando il concetto di schema di civiltà a dignità e onore, potremmo dire che in una civiltà della vergogna non esiste una specifica concezione della dignità umana.
23 M. Nussbaum, The Worth of Human Dignity: Two Tensions in Stoic Cosmopolitism, in G. Clark, T. Rajak (ed. by),
Philosophy and Power in the Graeco-Roman World: Essays in Honour of Miriam Griffin, Oxford, Oxford U.P., 2002,
p. 32.
24 Ivi, p. 33. Va sottolineato qui come Nussbaum applichi in maniera un po’ inconsueta anche al cinismo ciò che si sostiene correntemente degli stoici, ovverossia l’idea che esso possegga una tendenza universalistica e cosmopolitica. “Un maschio greco rifiuta l’invito a definirsi in termini di lignaggio, città, classe sociale, e persino di libera nascita o di sesso. Egli si definisce in base a caratteristiche che condivide con tutti gli esseri umani, maschi e femmine, greci e non greci, schiavi e liberi. … Diogene suggerisce la possibilità di un approccio alla politica che si focalizza sull’umanità che tutti
– sarebbe il primo passo che conduce a Kant, alla sua idea del regno dei fini e di una politica che racchiude l’intera umanità secondo sotto leggi che dipendono dalla libera ragione morale, e quindi al movimento moderno dei diritti umani. E tuttavia, per quanto corretta sul piano della storia delle idee, questa tesi non va sopravvalutata. In epoca premoderna, infatti, il termine dignità viene utilizzato quasi esclusivamente in un’accezione sociale, statutaria ed elitaria. Strettamente collegato ai concetti di onore e di gloria, indica la posizione che un individuo occupa all’interno della vita pubblica – il suo status – e che gli conferisce un valore particolare. La dignità come nobiltà, grandezza d’animo, saper-vivere, forza di carattere del mégalopsuchos si traduce nell’onore riconosciuto a una persona per le sue qualità e le sue prestazioni, ma anche per il suo rango sociale. Pur facendo riferimento anche a una qualità interiore, la dignità classica viene sempre concepita in riferimento alla sua manifestazione esteriore. Gabriel Marcel ha parlato a questo proposito di “concezione decorativa” della dignità. Altri ne hanno messo in evidenza il carattere censitario e “conformista”, che richiama cioè alla convenienza dei comportamenti individuali rispetto alle circostanze esterne e a modelli di comportamento predefiniti25.
Anche in Cicerone, che pure è unanimemente riconosciuto come uno dei precursori del concetto moderno di dignità, l’uso del termine rimane legato a filo doppio alla struttura sociale e alla gerarchia del gruppo26. La dignità è innanzitutto concepita come onore spettante a colui che ha compiuto grandi gesta all’interno della res publica. Cicerone riconosce l’ambiguità e le insidie della ricerca di onore e di gloria: proprio negli individui migliori, il desiderio di voler eccedere in grandezza può portare a perdere il senso della giustizia come sentimento dell’uguaglianza tra simili. E tuttavia, qualora questo desiderio di grandezza si accompagni alla giustizia, si è in presenza della dignità come “prestigio, ascendente e rispetto” che va accordato a coloro che raggiungono l’eccellenza all’interno della vita politica e sociale. Accanto al significato tradizionale, negli scritti filosofici inizia ad emergere il senso di una dignitas fondata sulla natura razionale dell’uomo e sulla sua capacità di controllare gli istinti mediante la ragione, tenendoli a freno27. Ma proprio questa
condividiamo piuttosto che sul marchio dell’origine locale, dello status, della classe e del genere che ci dividono” (ibidem).
25 Cfr. M. Dupuis, cit., p. 598.
26 Cfr. M. Griffin, Dignity in Roman and Stoic Thought, in R. Debes, Dignity, cit., pp. 47-65. Secondo la Griffin, le radici dell’idea di dignità umana come proprietà universale inalienabile solo in un senso assai limitato possono essere fatte risalire alle loro origini romane e stoiche. E questo non solo perché l’uso del termine in senso morale inaugurato da Cicerone rimane in certo qual modo atipico, ma anche per una questione etimologica. Nel passaggio dallo stoicismo greco a quello latino, infatti, il termine dignitas non si riferisce solo al greco axiōma, che è anche la parola utilizzata per
auctoritas, ma al termine timé, solitamente reso con onore (cfr. ivi, p. 48). Cfr. V. Pöschl, Der Begriff der Würde im antiken Rom und später, Heidelberg, Carl Winter – Universitätsverlag, 1989 e J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la Republique, Paris, Les Belles Lettres, 1963.
27 Cfr. M.T. Cicerone, De Officiis I, 106, in id. Opere politiche e filosofiche, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, Utet, 1974, pp. 645-647: “Dal che si capisce che il diletto carnale non è abbastanza degno della superiorità dell’uomo, e che bisogna rigettarlo e tenerlo in dispregio … E anche se vogliamo considerare quale eccellenza e dignità siano nella
dignitas, che esprime l’eccellenza morale dell’umano in quanto tale e la sua superiorità sull’animale, si traduce in un concetto, quello di “decoro”, che indica la capacità di agire con appropriatezza e con misura nelle diverse circostanze sociali, assecondando i dettami della natura umana universale e della propria natura individuale28. Il termine dignitas compare infine in un’accezione estetico-morale (per certi aspetti simile a quella che successivamente sarà di Schiller) per indicare il tipo di bellezza tipicamente maschile, contrapposta alla venustas femminile, che si manifesta, nuovamente, nella capacità di un determinato soggetto di agire in modo “appropriato” all’interno di un determinato contesto pubblico, mettendo in atto comportamenti che non siano né rozzi né eccessivamente raffinati.
Solo con la nascita dell’età moderna la dignità inizia ad assumere più compiutamente le caratteristiche che oggi le vengono generalmente attribuite. Pensata non tanto in riferimento alla dimensione sociale degli esseri umani, quanto alle loro caratteristiche morali e ontologiche, essa non indica più la posizione relativa occupata in società, ma la posizione particolare dell’uomo nel cosmo. Una posizione fondata su una specifica caratteristica che differenzia l’uomo da tutti gli altri esseri viventi, sia essa la libertà – l’uomo come essere morale – o la razionalità – l’uomo come animale razionale. Un passo fondamentale in questa direzione lo si ritrova nel celebre discorso De
hominis dignitate di Pico della Mirandola29. Qui il motivo della dignità umana e della superiorità
dell’uomo sull’animale si lega alla particolare qualità di un essere che è privo di un’essenza o di una natura determinata, che “non è celeste né terreno, né mortale né immortale”, ma che può diventare tutte queste cose attraverso l’uso della sua volontà30. Non avendo un fine predeterminato, l’uomo può liberamente scegliere se abbassarsi verso la vita animale o elevarsi alla contemplazione del divino. Gli interpreti hanno spesso enfatizzato la discontinuità tra medioevo e rinascimento e
[nostra] natura, intenderemo come sia vergognoso guazzare nel lusso e vivere con ogni raffinata mollezza e quanto onesta invece una vita frugale, moderata, continente, severa e sobria”.
28 Sull’accostamento tra dignità e decoro cfr. M. Griffin, cit., p. 55. Similmente cfr. P. Boyancé, Cvm dignitate otium, in “Revue des Études Anciennes”, Tome 43, 1941, n°3-4, p. 188: “La parola dignitas, negli scritti filosofici, è vicina a decus,
laus, honestas, opposte a voluptas. Non si può dire che essa traduca un termine greco determinato. La traduzione
accreditata di το πρέπον, alla quale immediatamente si pensa, è decorum. Ma è indubbio che, se dignitas rimane un termine latino, con il suo duplice valore di merito intimo e di giudizio che lo riconosce, essa ha subito l’influsso di το πρέπον, soprattutto là dove la parola implica dei veri e propri obblighi morali, analoghi a quelli di quod decet”.
29 Cfr. G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. Bausi, Milano, Guanda, 2003.
30 Conviene riportare qui per intero il discorso di Dio ad Adamo, con cui si apre l’Orazione: «O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. La natura ben definita assegnata agli altri esseri è racchiusa entro leggi da noi fissate. Tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo perché da lì tu potessi meglio osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine» (Ivi, 18-23, pp. 11).
stabilito una linea di continuità tra quest’ultimo e l’illuminismo31: l’insistenza sull’uomo e sulla sua libertà, più sistematica e duratura che in passato, rappresenterebbe “uno dei primi passi verso la dissoluzione di quel concetto della grande catena dell’essere che aveva dominato il pensiero occidentale per tanti secoli”32. In realtà, a un esame più approfondito, la concezione della dignità che emerge dalla lettura dell’Orazione presenta dei tratti ambivalenti, tipici di un pensiero che sembra preparare il nuovo in forme concettuali ancora legate all’antico. L’insistenza di Pico sulla libertà di scelta non significa che tutte le scelte siano egualmente buone: la dignità umana è pienamente realizzata solo quando l’uomo sceglie la possibilità di vita più elevata, vale a dire la contemplazione del divino. La libertà umana consiste dunque semplicemente nella possibilità di innalzarsi o di abbassarsi all’interno di un logos cosmico e gerarchico che non è ancora dissolto. A ciò va aggiunto il fatto che l’Orazione presenta un quadro concettuale composito in cui i motivi religiosi cristiani sono prevalenti rispetto ai riferimenti classici. Eugenio Garin ha messo in luce come l’umanesimo sia stato maggiormente influenzato dall’idea del valore spirituale e interiore dell’umano risalente alla patristica che non dalla concezione ancora materialistica dell’uomo come essere naturale tipica dello stoicismo33. All’interno della tradizione cristiana, la dignitas hominis si fonda teologicamente sulla incarnazione di Dio nella Persona di Cristo e sull’idea veterotestamentaria dell’uomo come imago Dei che si trova nel primo racconto della creazione in Genesi I, 26-27, in cui Dio pone l’uomo al di sopra di tutto il creato. Seppur a fatica e in modo non lineare34, l’estensione di tale immagine a tutti gli esseri umani ha consentito alla concezione cristiana
31 Cfr. ad esempio E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, pp. 95 ss. Secondo Cassirer, l’aspetto tipicamente moderno dell’orazione consiste nell’inversione del rapporto tradizionale tra essere e agire. Il rapporto tra Dio e uomo, e tra uomo e mondo, ora, non può più essere compreso attraverso le categorie tradizionali di creazione o di emanazione: “Nel mondo degli oggetti può valere l’antico principio scolastico; la natura e la peculiarità del mondo umano consistono invece nel fatto che in esso vale la regola opposta: non è l’essere a prescrivere una direzione stabilita una volta per tutte al modo di creare, ma è solo la direzione originaria del creare che determina e pone l’essere”.
32 P.O. Kristeller, La dignità dell’uomo, in Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 18. Cfr. anche A.O. Lovejoy, La grande catena dell’essere, Milano, Feltrinelli 1996.
33Secondo Garin, che su questo punto è in polemica con Gentile, l’esaltazione rinascimentale dell’uomo non era un
ritorno all’ellenismo o alla virtus greco-romana, quanto il frutto della rielaborazione di motivi biblici e patristici, tipici del neoplatonismo agostiniano, in polemica con la frattura tra natura e Dio posta dall’aristotelismo scolastico medievale:
“L’accentuazione dell’originalità innegabile del moto umanistico ha invece molto spesso fatto porre in ombra le radici lontane dei motivi ritornanti, le correnti nascoste per cui talora essi avevano in qualche modo continuato ad operare; non sembri quindi inopportuno il porre in rilievo, sia pur sommariamente, quanto la celebrazione quattrocentesca della
dignitas hominis riprenda, dopo il secolare sforzo medioevale, i tentativi di sintesi caratteristici delle prime fasi del
pensiero cristiano. Un esame del genere potrà forse meglio mostrare come non fossero spunti classici ad ispirare in prevalenza le prime esaltazioni umanistiche: non Prometeo infatti, ma Adamo e Cristo, celebrano Giannozzo Manetti, Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Giovanni Pico” (Cfr. E. Garin, La dignitas hominis e la letteratura patristica, in id.,
Interpretazioni del Rinascimento, (a cura di M. Ciliberto), Roma, Edizioni di storia e di letteratura, 2009).
34 Cfr. B. Kent, In the Image of God. Human Dignity after the Fall, in R. Debes, Dignity, cit., p. 95-96, secondo cui la letteratura patristica e scolastica rimarrebbe ancora sostanzialmente estranea al concetto odierno di dignità come proprietà intrinseca e inalienabile dell’uomo per due motivi. In primo luogo perché l’uomo non era ritenuto l’unica creatura in possesso di razionalità e di libertà di scelta (si pensi per esempio agli angeli). In secondo luogo perché l’immagine di Dio, deformata a seguito del peccato originale, richiede l’intervento della grazia di Dio per essere restaurata.
della dignità di acquisire una dimensione universalistica, che cerca di coniugare la rivendicazione dell’eccellenza e la tutela della fragilità umana. Mentre le concezioni classiche dell’uomo, come lo stoicismo, concepiscono la dignità come controllo del pathos, la morte in croce e la sofferenza di Cristo costituiscono un punto di svolta rispetto alle concezioni performative della dignità e danno spazio alla rivalutazione della mortalità e della fragilità dell’umano. Al contrario delle concezioni, classiche o moderne, che insistono in maniera unilaterale sul merito, la forza e le capacità che conferiscono dignità, la tradizione cristiana ha avuto il merito di fondare l’uguaglianza tra gli uomini sull’esperienza di una vulnerabilità che non viene meno neppure in condizioni estreme di debolezza o malattia35.
Se dalla nozione cristiana torniamo a quella secolare il punto di passaggio obbligato non può che essere Kant, che da molti è considerato il padre fondatore della concezione contemporanea della dignità come valore intrinseco. Secondo la maggior parte degli interpreti, Kant, influenzato in questo da Rousseau, pensa la dignità dell’uomo come un valore assoluto, che non dipende tanto dalla sua qualità di essere razionale, ma dalla sua qualità di essere morale che si distingue dalla natura perché libero e autonomo36. Su questo punto Kant sembra prendere le distanze da coloro che, come Pascal, ritengono che la dignità dell’uomo dipenda dalla sua capacità di pensare: la distinzione tra regno della natura e regno dei fini significa che la dignità umana consiste nella capacità di riconoscere il fatto della legge morale, che ci comanda di trattare l’umanità, in noi come negli altri, non come mero mezzo ma anche sempre come fine. Solo un essere in grado di agire sulla base di leggi e di principi possiede una dignità incommensurabile, che va al di là del semplice prezzo. Altre e più recenti interpretazioni, che qui mi limito a segnalare, hanno tuttavia messo in discussione l’interpretazione canonica del pensiero di Kant. Secondo Oliver Sensen, se si seguono le ricorrenze del termine si giunge alla conclusione che persino Kant rimanga prevalentemente ancorato al paradigma tradizionale. Questo perché, nella sua opera, la dignità viene ancora intesa nei termini: di un’elevazione legata al merito e non di un valore intrinseco; di qualcosa che si può perdere o realizzare; di un valore che si pone a fondamento di doveri e non di diritti, come nella concezione attuale; di una proprietà legata a una forma di perfezionismo morale che impone innanzitutto un
35 In età contemporanea, questa idea ha trovato fertili applicazioni nell’ambito dell’etica medica. Cfr. ad esempio D. C. Thomasma e D. N. Weisstub, Human Dignity, Vulnerability, Personhood, in D.C. Thomasma, D.N. Weisstub, Ch. Hervé,
Personhood and Health Care, Dordrecht Boston London, Kluver, 2001, pp. 317-332. Thomasma e Weisstub sostengono
che i doveri e le obbligazioni nei confronti degli esseri umani derivino dalla loro capacità di soffrire e dalla nostra empatia nei loro confronti, e non si fondino su una scala di valori razionale o, peggio ancora, sulla libera scelta dell’individuo. Secondo Edmund Pellegrino, uno dei principali assiomi della pratica medica come attività umana è il principio di vulnerabilità, inteso come dovere di rispettare e proteggere la vulnerabilità di coloro che, all’interno di una relazione umana, sono maggiormente svantaggiati in termini di potere, conoscenza, o mezzi materiali.
dovere verso sé stessi37. Secondo Paolo Becchi, invece, mentre nella Metafisica dei Costumi la fondazione della dignità è strettamente connessa alla seconda formulazione dell’imperativo categorico, nella Fondazione essa sembra essere connessa alla terza formulazione centrata sull’idea della volontà come universalmente legislatrice38. Si tratta di un’oscillazione non priva di conseguenze, non solo riguardo all’interpretazione del testo di Kant, ma anche in riferimento alla ricezione del pensiero kantiano all’interno della tradizione successiva: in questione è se la dignità spetti all’uomo in quanto tale e se si applichi a qualsiasi essere umano, o se sia una proprietà attribuibile unicamente alle persone razionali, o quantomeno coscienti e in possesso della capacità di pensare. Se ciò che è degno di rispetto non è l’essere umano come parte della natura, e neppure l’essere umano concreto, ma l’umanità che alberga in noi e negli altri e che ci rende potenziali legislatori, l’obbligo di rispetto non sembra poter essere applicato né a coloro che non sono più in possesso della ragione e nemmeno, a rigore, a coloro che non lo sono ancora. A questo proposito, occorre richiamare la distinzione tra le cosiddette “teorie della dotazione” – che intendono la dignità come un possesso stabile che deriva dal semplice fatto di essere umani e che non può essere acquisito o perso perché fa riferimento a determinate caratteristiche ontologiche di colui che ne è portatore – e le “teorie della prestazione” che invece fanno riferimento a funzioni o caratteristiche che sono un risultato dell’agire, una conquista che insorge nel corso nello sviluppo temporale dell’identità individuale. Interpretata in questo modo, la teoria kantiana della dignità assume le vesti di una teoria della prestazione e non quelle di una teoria della dotazione.
Questioni contemporanee
Il secondo motivo in base al quale si rende necessario mitigare la tesi della radicale contrapposizione tra dignità e onore è il fatto che, all’interno della pluralità di tradizioni che caratterizzano un concetto così stratificato come quello di dignità, sono esistiti in passato e continuano ad esistere ancora oggi filoni di pensiero che interpretano la dignità in termini legati all’onore. Questa constatazione può contribuire a spiegare la molteplicità degli usi contemporanei della nozione di dignità spesso lamentata dagli interpreti39: a seconda della specifica declinazione che le viene conferita, infatti, la dignità può consentire di fondare l’uguaglianza tra gli esseri umani, garantendo un equo livello di giustizia sociale; di salvaguardare gli individui vulnerabili da strumentalizzazioni; di riconoscere il rispetto del diritto di autodeterminazione di ciascun individuo.
37 Cfr. O. Sensen, Kant on Human Dignity, Berlin/Boston, de Gruyter, 2011, p. 165. 38 Cfr. P. Becchi, Il principio dignità umana, Brescia, Morcelliana, 2009, p. 22.
Agli albori dell’età moderna,la parentela tra la nozione di dignità e quelle di gloria e onore è ancora evidente in Hobbes: la dignità è il “pregio” pubblico di un uomo, il valore attribuitogli dallo Stato, per mezzo di cariche e titoli onorifici. Va ricordato come, per Hobbes, la lotta per l’esistenza nello stato di natura non è solo una lotta per il benessere materiale, ma un conflitto simbolico rivolto a beni immateriali, quali l’onore, la gloria e il prestigio40. Di qui la necessità da parte del potere statuale di istituire pubblicamente la dignità come valore che mette fine alla competizione o quantomeno la regola. L’affermazione di Hobbes secondo cui la dignità si identifica con il “prezzo” di un essere umano significa che essa non può essere intesa come un valore assoluto, perché dipende dal riconoscimento di altri. Successivamente, in continuità con la tradizione marxista, che lega strettamente la dignità al lavoro come attività con cui ciascun essere umano contribuisce al progresso spirituale e materiale della società, Ernst Bloch ha insistito sulla centralità dei rapporti sociali che permettono di realizzare concretamente la dignità presente in ogni uomo, e Martha Nussbaum – mescolando l’antropologia aristotelica con quella dei Manoscritti marxiani del ‘44 - ha ripreso la connessione tra dignità, teoria delle capacità e bisogni fondamentali dell’essere umano41. La tradizione classica, elitaria e verticale, viene riletta da questi autori in senso universalistico e orizzontale, con l’intento di sottolineare la necessità di garantire a tutti gli esseri umani le condizioni minime di eguaglianza materiale che permettono agli individui di esercitare concretamente le proprie capacità e di realizzare pienamente la propria dignità. Nella teoria del riconoscimento di Axel Honneth questi filoni convergono in un sistema coerente, che distingue in particolare la dignità legata al possesso universale dei diritti dalla stima sociale conferita agli individui dall’eticità pubblica in proporzione alle loro prestazioni (lavorative, intellettuali, etc.) a favore della comunità42. Il dibattito sul multiculturalismo, le teorie del riconoscimento e le scienze sociali, dall’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso sembrano aver rimesso centro del dibattito sociologico e filosofico contemporaneo il problema dell’onore e quello dei dispositivi normativi e delle istituzioni che, concretamente, dovrebbero attuare le politiche di riconoscimento43. All’interno di questo c, è riemersa con forza una concezione della dignità che si potrebbe definire una sorta di “democratizzazione dell’onore” e che costituisce una risposta alla domanda, in buona parte inevasa, di riconoscimento e di identità presente nelle società contemporanee44.
40 Cfr. B. Carnevali, "Glory”: la lutte pour la réputation dans le modèle hobbesien, in «Communications», 93, 2013,
pp. 49-67.
41 M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Bologna, il Mulino, 2013. 42 A. Honneth, La lotta per il riconoscimento, Milano, il Saggiatore, 2002.
43 A. Destemberg, L’honneur, un horizon pratique, in A. Destemberg, Y. Potin, Ê. Rosenblieh (ed.), Faire jeunesses,
rendre jutice. À Claude Gavard, Paris, Publication de La Sorbonne, 2015, p. 239
44 Puramente a titolo di esempio, cfr. il recente F. Fukuyama, Identity: The Demand for Dignity and the Politics of
Pur all’interno di un contesto teorico completamente diverso, anche una tra le teorie della dignità più influenti del secolo scorso – quella di Niklas Luhmann – pensa la dignità sul modello dell’onore45. Secondo Luhmann, la dignità ha a che fare con l’autorappresentazione individuale attraverso cui, nel corso dell’interazione sociale, ciascun essere umano si costituisce come individuo. Il portatore della dignità non è una persona astrattamente intesa nella sua costituzione ontologica, ma il soggetto che concretamente decide come rappresentare il rispetto di sé, che sceglie quale immagine di sé mostrare al mondo e che cosa, invece, nascondere. La sua prospettiva, esplicitamente funzionalistica, si fonda sul rifiuto della distinzione tra essere e apparenza e di qualsiasi teoria sostanzialistica dell’identità individuale46. Quel che mi preme far notare, in contrasto con l’interpretazione prevalente del suo pensiero, è come la teoria dell’autorappresentazione di Luhmann, che certo presuppone l’autonomia individuale – nel senso che il soggetto dell’autorappresentazione non deve essere vincolato esteriormente e non deve identificarsi meccanicamente con un ruolo sociale – non si riduca affatto ad essa. A differenza che nel modello antico, nella concezione di Luhmann la rappresentazione di sé contiene un elemento di libera espressione individuale che non si riduce al rango o all’onore del gruppo. Una volta evitati gli opposti estremismi della coercizione e del conformismo, la dignità consiste infatti nella scelta individuale di una possibile mediazione tra la sfera intima e la sfera sociale, che permette a ciascun individuo di rappresentare diversi ruoli sociali producendo una sintesi originale tra le sue diverse appartenenze47. L’autorappresentazione dignitosa, quindi, è maggiormente questione di stile, ovverosia di una caratteristica etico-estetica, che non di ragione o di autonomia: la sua riuscita dipende dalla capacità soggettiva di esercitare un dominio sulle proprie pulsioni, evitando di cadere in preda di impulsi interiori immediati e momentanei e conferendo continuità al gioco della costruzione di sé. Il fallimento dell’autorappresentazione, al contrario, produce un sentimento di vergogna che si accompagna a una violazione del senso del pudore di colui che osserva48. La dignità ha a che fare con la discrezione e il decoro e con quello che si potrebbe definire una sorta di “tatto” con cui ci presentiamo nella dimensione sociale. Ciò che accomuna la prospettiva di Luhmann agli
45 N. Luhmann, I diritti fondamentali come istituzione, Bari, Dedalo, 2002, pp. 99-138.
46 Cfr. ivi., p. 119: “La dignità dell'uomo non è in nessun modo una dotazione naturale, come si presume che siano certe
qualità fondamentali dell'intelligenza. Non è nemmeno semplicemente un “valore” che, in base a una determinata dotazione naturale, un uomo “ha” o “porta in sé””.
47 Il punto di riferimento ultimo di questa concezione rinvia a Simmel e alla sua concezione dell’individualismo moderno. Cfr. G. Simmel, Sociologia, Milano, Edizioni di Comunita, 19xx.
48 L'autorappresentazione è sempre una “prestazione selettiva e, per questa ragione, è minacciata di continuo da
informazioni inconsistenti e, quindi, penose” (ivi, p. 117). Il riferimento di Luhmann, qui, va a E. Goffman, Asylums. Le
istituzioni totali: i meccanismi dell’istituzione e della violenza, Torino, Einaudi, 2010. Dal punto di vista giuridico, la
tutela della dignità personale si traduce nella protezione della privacy dell’individuo da indebite interferenze esterne: “intimo è proprio quel complesso di informazioni che non può essere reso pubblicamente accessibile senza discreditare l'autorappresentazione pubblica” (N. Luhmann, I diritti fondamentali, cit., p. 118).
autori citati in precedenza, e che dimostra una volta di più come la concezione sociale della dignità non rimanga confinata al mondo antico ma si riproponga in età moderna e contemporanea, è il fatto che la violazione della dignità umana sia concepita in un modo differente da quello oggi maggiormente diffuso, che rinvia alla seconda formulazione dell’imperativo categorico di Kant che impone di non reificare un essere umano riducendolo a mero strumento dei nostri fini personali. La violazione della dignità, qui, è invece pensata nei termini dell’umiliazione di un individuo (o di un gruppo di individui) che deriva dal disconoscimento della sua identità. Non a caso il sentimento corrispondente a tale violazione è una nozione che rinvia alla tradizione dell’onore e alla dimensione sociale che la caratterizza: la vergogna49.
Quanto alla terza ragione che sembra rendere problematica la tesi della dicotomia tra dignità e onore, mi limiterò ad accennarvi brevemente, dal momento che apre una serie di problemi che non possono essere affrontati e risolti nello spazio qui a disposizione. In discussione, in questo caso, non è l’esistenza di tradizioni che continuano a intendere la dignità in termini affini all’onore, ma una questione in certo qual modo più radicale. Pur ammettendo che onore e dignità restino categorie complessivamente differenti, è lecito chiedersi se all’interno del concetto stesso di dignità non sopravviva un tratto specifico dell’onore. Secondo Jeremy Waldron, per esempio, la dignità sarebbe un concetto innanzitutto legale e solo secondariamente morale, e in quanto tale inevitabilmente legato allo status e al merito50. Il fatto che i cambiamenti politici e sociali della modernità abbiano portato tutti gli esseri umani ad acquisire un identico statuto giuridico, non muta i termini della questione. Pur essendo cambiato il metro di misura dell’eccellenza, che da eccellenza sociale si è trasformata in eccellenza morale od ontologica, la dignità sembrerebbe conservare un residuo della sua provenienza, ovverosia una dimensione verticale, una polarità alto-basso, che fa sì che reclamare dignità per una classe di individui significhi automaticamente innalzarli al di sopra dei membri di altre classi possibili.
La tesi secondo cui la dignità sia un concetto fondamentalmente gerarchico sta a fondamento di una delle accuse che le vengono rivolte con più frequenza, vale a dire l’accusa di specismo. Ritengo che si tratti di un’accusa non infondata. Se guardiamo alle origini storiche del concetto di dignità, scopriamo come la superiorità dell’uomo sull’animale sia un motivo assai ricorrente: da Cicerone sino a Kant, attraverso Pico, l’idea del valore illimitato di ogni essere umano rimanda sempre a una proprietà – l’anima, la ragione, la libertà, l’autonomia – che garantisce all’uomo un valore speciale
49 Sulla rinascita della riflessione contemporanea sulla vergogna e sulla sua dimensione sociale, cfr. A. Fussi, Per una
teoria della vergogna, Pisa, Edizioni ETS, 2018, p. 13: “Il giudizio negativo della vergogna è mediato dallo sguardo di
qualcuno: se non è quello di un altro concreto può essere lo sguardo di un altro interiorizzato”. 50 Cfr. J. Waldron, Dignity, Rank and Rights, cit., pp. 31-34.
e lo eleva al di sopra di forme di vita considerate inferiori51. A questo proposito, Martha Nussbaum sostiene che l’idea-guida del pensiero stoico nelle sue deliberazioni sia il “bene dell’intera specie”, e ciò in virtù del fatto che ogni essere umano possiede un valore illimitato per il suo carattere morale e razionale52. Il problema è che, se si rinuncia a legittimare questo assunto tramite una forma più o meno mascherata di intuizionismo o tramite una sorta di argomento teologico secolarizzato secondo cui l’uomo è in possesso di una dignità inalienabile perché creato a immagine e somiglianza di Dio, sembra inevitabile ricorrere a un’argomentazione che faccia leva su una proprietà, o su un insieme di proprietà, che distinguono l’uomo dagli altri esseri viventi. La forma più frequente di questo tipo di argomentazione ancora oggi utilizza la nozione di autonomia o quella di razionalità. Il suo difetto consiste in una sorta di inammissibile circolarità. Se la dignità si fonda su una capacità, come è possibile applicare tale attributo a tutti i componenti di un insieme di individui (in questo caso la specie homo sapiens), compresi coloro che non sono mai stati e mai saranno in possesso di tale capacità?53 E, soprattutto, come è possibile negarlo a tutti i membri di un altro insieme di individui che, in casi particolari, sono in possesso di facoltà maggiormente sviluppate rispetto a quelle che appartengono a determinati esseri umani?
Con ciò, non intendo certo sostenere che si dovrebbe negare il rispetto universale agli esseri umani, ma che tale rispetto andrebbe maggiormente esteso ad altre classi di esseri viventi54. Alcuni sostengono che, perché ciò possa avvenire, si dovrebbe abbandonare la nozione di dignità55. Non sono convinto della bontà del loro ragionamento. Può anche darsi che la dignità sia un concetto intrinsecamente gerarchico, ma non è certo un concetto necessariamente specista: che sia specista oppure no, dipende dal tipo di proprietà attraverso cui si pensa la dignità e si fonda il rispetto. La categoria di dignità ha dimostrato, nel corso della sua storia, una flessibilità che le ha consentito di democratizzarsi e di aumentare la protezione di soggetti vulnerabili. La sfida del futuro potrebbe essere quella di utilizzarla per estendere le tutele anche a forme di vita non umana56.
51 A questo proposito, Hume ha fatto notare come l’attribuzione della dignità nasca sempre da un confronto e da una commisurazione: mentre i sostenitori della dignità umana paragonano l’uomo a una categoria che possiede qualità inferiori, come gli animali, i detrattori della dignità paragonano l’uomo a esseri dotati di intelligenza e saggezza superiori, per esempio gli angeli. Cfr. D. Hume, Dignità o viltà della natura umana, in id., Opere, vol. II, Bari, Laterza, 1971, p. 486.
52 M. Nussbaum, The Worth of Human Dignity, cit., p. 36.
53 Il mio ragionamento non riguarda chi non è più in possesso di una capacità che ha avuto in passato e neppure chi non è ancora in possesso di una capacità che potenzialmente potrebbero sviluppare in futuro.
54 Sulla questione del rapporto tra dignità umana e responsabilità nei confronti della natura, cfr. G. Kateb, Human
Dignity, Cambridge Mass. – London, Harvard U.P., 2011.
55 Cfr. P. Singer, Liberazione animale, Milano, il Saggiatore, 2009 e J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni
morali del darwinismo, Milano, Edizione di Comunità, 1996.
56 Questo ragionamento potrebbe essere applicato non solo alle forme di vita animale, ma in un futuro più o meno prossimo anche a forma di vita extraterrestri e persino alle macchine: cfr. John Harris, How to be good. The Possibility