Limiti ed Esaurimento.
È interessante notare come il movimento neoconservatore, salito al potere nel 2001, all’avvento dell’amministrazione Bush, con l’ambizioso obiettivo di consolidare ed ampliare l’influenza e l’egemonia americana nel globo, abbia dato l’avvio ad una serie di eventi che viceversa le hanno seriamente minate e indebolite.
Per un lungo periodo essi sono stati, a tutti gli effetti, i consiglieri del Principe, ed hanno avuto una larga influenza sulle sue decisioni e strategie.
Non sono quindi possibili scusanti o scappatoie: le idee ed i principi portati avanti dai neoconservatori hanno avuto esiti fallimentari e del tutto disastrosi.
Molti di essi ora si lamentano di come le loro indicazioni non siano state completamente seguite, e di come sia questa la
vera causa dei problemi1; ma tali giustificazioni non sono certo
1
Ad esempio essi asseriscono già dal 2003 come in Iraq non sia stato inviato un numero sufficiente di truppe. Ma dato che materialmente tale quantità di soldati non è presente (virtualmente tutto l’organico dispiegabile è già impegnato nel teatro iracheno), e che ciò si sapeva anche prima dell’invasione (e Paul Wolfowitz, uno dei neoconservatori a suo tempo più influenti, è stato Sottosegretario alla Difesa, e ben addentro a tali questioni, avendo contribuito alla pianificazione del conflitto e dell’occupazione successiva), tale asserzione non solo non giustifica il loro operato, ma anzi dimostra la naivetè ed il pressappochismo dell’approccio neocon.
accettabili: nessuna lobby può pensare di poter influenzare completamente l’autorità nazionale, e se l’approccio neocon fosse stato in grado di funzionare solo se adottato
integralmente2, essi avrebbero dovuto essere i primi ad opporsi
ad una sua adozione parziale3; cosa che invece si sono ben
guardati dal fare.
Al contrario essi hanno appoggiato l’azione irachena senza preoccuparsi troppo dei dettagli, salvo poi accusare, ma a posteriori, gli esecutori materiali della strategia in questione (tra
cui il Segretario alla Difesa Rumsfeld4, che comunque non è
certo privo di colpe) di avere “male eseguito” il loro piano magistrale.
I primi colpevoli del fallimento sono invece proprio gli stessi
neoconservatori: prima ancora degli errori compiuti sul terreno5
dai militari e dai politici statunitensi, bisogna infatti notare come sia stata tutta la strategia neoconservatrice, come pure la loro
Weltanschauung, ad essere inefficace e sbagliata.
2
E quindi, come si è visto nel RAD, aumentando a livelli altissimi gli stanziamenti militari.
3
Cioè l’esportazione della democrazia senza fornire il livello di forze adeguato per farlo, e senza la volontà di proseguire tale sforzo indefinitamente.
4
Che è stato anche tra i firmatari dello Statement of Principles del PNAC: http://www.newamericancentury.org/statementofprinciples.htm
5
Che per quanto numerosi, e perfino gravi ed inquietanti, non possono essere discussi in questa sede.
Tali aspetti, pur costituendo specificamente una delle maggiori cause del fallimento iracheno, vanno considerati ed esaminati ad un livello più generale.
Attrito e Resistenza.
Un elemento importante del pensiero neoconservatore6 è
sicuramente il considerare l’azione di forza come risolutiva e decisiva: sostanzialmente non riescono a concepire la possibilità di una resistenza efficace ai loro progetti, o che vi possa essere un attrito dispersivo, in grado di diminuire o anche annullare gli sforzi fatti.
Il mondo viene da loro di fatto considerato come un oggetto amorfo, un qualcosa di passivo, a cui applicare soluzioni e ricette, e non come composto da attori dotati di una propria agenda, di propri scopi ed obiettivi; attori in grado di reagire con flessibilità alle iniziative americane.
Quanto detto non deve essere frainteso: non si intende certo dire che i neoconservatori ritengano davvero impossibile ogni resistenza o reazione; quantomeno però le ritengono inutili, o
6
Naturalmente al suo apogeo nel 2002\2003, prima che i suoi presupposti ideologici venissero smentiti nella realtà.
comunque irrilevanti, in quanto non in grado di fermare l’azione degli USA.
Lo scenario globale è sempre visto in funzione del comportamento statunitense, il che implica che il ruolo altrui non è fondamentale, dato che l’esito finale non può essere modificato da attori esterni, del tutto trascurabili.
Se una tale mentalità permette una grande sicurezza nelle proprie capacità ed una parimenti grande fiducia in se stessi, essa tuttavia impedisce di anticipare e prevedere con efficacia i possibili problemi, o anche solo la possibilità di ricadute negative, così come di valutare obiettivamente le reazioni degli altri soggetti nello scenario globale.
Al contrario tutti questi elementi sono dai neocon spesso sottovalutati, e dal loro punto di vista il pericolo verrebbe più
spesso da una “inazione” dell’America piuttosto che
dall’opposizione del nemico di turno.
Se l’America decide di impegnarsi con tutte le sue risorse, la vittoria finale è certa, qualunque sia il nemico o il compito da affrontare; viceversa la sconfitta più giungere da un indebolimento interno, che la porti a cedere di fronte a forze molto più deboli.
Questa visione del potere degli USA appare, più che una realistica valutazione dei rapporti di forza globali, un’ulteriore sfaccettatura di quella mistica dell’eccezionalismo così tipica del modo statunitense di concepire la propria nazione.
Ritornando alla questione della resistenza ai progetti americani, è semplicemente sconcertante la sorpresa e l’incredulità dei
neoconservatori7 di fronte al drammatico peggiorare della
situazione irachena, da loro assolutamente non previsto: una società frammentata come quella irachena (percorsa da odi etnico-religiosi irriducibili, e tenuta insieme solo manu militari dalle Forze Armate) era prevedibilmente a forte rischio di violenze e guerra civile.
Ma questo non significa che i neoconservatori siano sciocchi o poco riflessivi: se tendono a sottovalutare sistematicamente (e a volte persino a ritenere trascurabile) l’opposizione altrui, è semplicemente perché considerano il potere dell’America invincibile.
Dati questi presupposti, perché dovrebbero curarsi di quello che fanno gli altri? Dopotutto il fatto che questi resistano o meno non farebbe alcuna differenza.
7
E non solo di essi. Molta parte del panorama politico americano ha reagito con sconcerto all’esacerbarsi delle violenze, ed al peggiorare della situazione.
I pericoli derivanti da un simile atteggiamento sono di per sé evidenti: negare rilevanza ai possibili ostacoli spesso conduce a trascurarli, finché non è troppo tardi per porvi rimedio; ma anche in caso di esito vittorioso, una tale mentalità porta inevitabilmente a compiere errori di valutazioni la cui risoluzione comporta dispersione di risorse, che viceversa sarebbe possibile evitare.
E questo ci porta alla questione dell’attrito: ogni azione compiuta in un ambito complesso e caotico come lo scenario globale, è soggetta a tutta una serie di circostanze impreviste, di esternalità negative, di elementi fuori da ogni controllo, che possono rallentare o deviare gli sforzi tesi a raggiungere un determinato obiettivo.
I risultati della suddetta azione non possono essere quindi calcolati a tavolino come un semplice problema matematico, quantificando a priori guadagni, perdite, vantaggi e svantaggi: alla fine le variabili sono così tante che tale calcolo rimane velleitario e fuorviante.
Innanzitutto le informazioni e i dati disponibili sulla situazione non possono che essere parziali: ciò avviene anche nella migliore delle ipotesi, quando cioè le fonti sono attendibili, ed a
maggior ragione avverrà qualora queste fossero “inquinate” da fenomeni come il wishful thinking, oppure da eventuale incompetenza o malafede.
A causa di queste dinamiche, non sarà mai possibile essere sicuri di aver calcolato tutti i fattori in gioco, e di conseguenza non si potrà mai sapere con certezza quali possano essere i risultati di un’azione di forza di vasta portata, la quale, per forza di cose, è mirata a sconvolgere l’equilibrio esistente per crearne uno nuovo, e possibilmente più favorevole.
Inoltre, il fatto di avere il potere necessario a sconvolgere e sbilanciare l’equilibrio esistente, non significa peraltro che esso sia anche sufficiente a controllare e dirigere il susseguente riassestamento, che, come si diceva, può assumere forme imprevedibili.
Tenuto conto di questo, è evidente come sia necessaria una certa cautela nel decidere il corso dell’azione, e di come siano possibili imprevisti anche durante interventi apparentemente semplici e di minore respiro.
Una simile cautela non è assolutamente presente nella mentalità neoconservatrice, che non esita a prospettare e pianificare strategie a larghissima scala, sulla base di analisi
sintetiche e spesso semplicistiche: in pratica i progetti vengono definiti a tavolino e poi se ne propone l’applicazione nella realtà; i risultati dovranno inevitabilmente essere quelli definiti a priori, nessuno spazio è lasciato agli imprevisti, ed ogni critica (persino le più costruttive) è messa da parte con insofferenza.
Con una simile impostazione, non è assolutamente
sorprendente che la risposta neoconservatrice alle difficoltà incontrate in Iraq sia semplicemente quella di aumentare le truppe là dislocate, dato che se si considera ogni possibile problema come solamente aritmetico, la risposta sarà sempre aritmetica: se una data forza non basta la si raddoppia, o triplica, o decuplica, fino a che il problema non viene risolto. L’efficienza e l’attrito, cui ogni applicazione della forza è soggetta, non sono quindi parametri importanti per i neocon, che non attribuiscono un grande valore a concetti come l’economia nell’uso della forza: agire con circospezione e prudenza, misurando le risorse da impiegare, viene da loro descritto come vigliacca titubanza nella migliore delle ipotesi, e vergognosa intelligenza con i nemici della democrazia, nella peggiore.
È interessante notare come questa visione sia esattamente il contrario di quella hobbesiana: infatti l’autorità sovrana nel
Leviatano non agisce nel vuoto, ma può operare in maniera
così incontrastata e assoluta proprio perché il patto ha permesso la costruzione di un contesto in cui tale azione è possibile; ciò implica che in assenza di tale contesto l’azione del sovrano non si può esplicare, e non è neanche possibile per il singolo imporre la propria volontà agli altri, per quanto sia forte e potente.
Quindi per Hobbes le difficoltà nell’imporsi sugli altri da parte di un singolo non sono affatto trascurabili, e possono essere eliminate solo con il patto: grazie a quest’ultimo per il sovrano mettere in pratica la propria volontà diviene facilissimo, in quanto le condizioni in cui egli opera sono tali che nessuna opposizione è di fatto possibile o anche solo efficace. Ma tale contesto è del tutto artificiale e costruito.
Il singolo suddito non ha semplicemente la forza di opporsi al sovrano: non appena lo facesse, verrebbe immediatamente distrutto, ed in maniera pienamente legale e legittima, senza che nessuno possa contestarlo.
Il sovrano in effetti non incontra alcun limite nella sua azione (se non il limite invalicabile delle leggi fisiche): la legge sancisce ogni sua possibile decisione come legale e valida di per sé, qualunque essa sia, e per quanto crudele, arbitraria e violenta appaia.
Il sovrano non è tenuto a seguire alcun consiglio, ad ubbidire a qualsivoglia autorità superiore, o a tenere conto del parere di nessuno. Non ha obblighi verso nessuno degli aderenti al patto, che invece sono totalmente obbligati verso il sovrano.
Il Leviatano non incontra di fatto resistenza, dato che l’opposizione del singolo suddito non può bloccarne l’azione, non più di quanto una formica possa sbarrare il passo ad un essere umano; né incontra attrito, dato che, a causa del patto, la volontà del sovrano è legge, e qualunque impedimento alla sua applicazione è di fatto impossibile (con l’esclusione dei
limiti fisici), mentre qualunque dannosa conseguenza
imprevista può essere immediatamente risolta mediante un semplice ordine.
Ben diverso è il caso del primato americano, come vedremo nel prossimo paragrafo: vedremo infatti come ogni tentativo di accomunare le due situazioni risulti gravemente viziato, e come
il modello del Leviatano hobbesiano non sia applicabile allo scenario globale (cosa del resto esplicitamente esclusa dallo stesso Hobbes), delegittimando quindi la visione espressa da Kagan.
Limiti.
Lo scenario globale si definisce a partire dai rapporti di forza (non solo militare, ma anche economica, culturale, etc.) che lo
rendono possibile: è frutto quindi di un equilibrio8, ed è dovuto
ad una molteplicità di fattori concomitanti, di cui è sostanzialmente l’espressione.
Al mutare di questi rapporti (per il lento evolversi delle situazioni economiche e sociali, oppure, e più velocemente, a causa di guerre o catastrofi globali), muta anche l’equilibrio espresso. Il Leviatano non è invece assolutamente un equilibrio di questo tipo: con il patto gli aderenti accettano di cedere i propri poteri al sovrano e di rinunciare ad una convivenza basata sul reciproco equilibrio dato dai meri rapporti di forza.
Di fatto nel Leviatano l’equilibrio è artificialmente spostato a totale vantaggio dell’autorità sovrana, e, nel Leviatano ideale (in
8
Non è importante il fatto che tale equilibrio sia più vantaggioso per alcuni attori rispetto ad altri, o che vi siano grandi sproporzioni in termini di forza.
cui non vi siano concessioni o indebolimenti dell’autorità sovrana), esso è immodificabile ed invariabile nel tempo: infatti il potere sovrano rimarrà indivisibile, assoluto ed inalienabile, a meno che non fosse il sovrano stesso a decidere
diversamente9, alienando o dividendo i poteri che gli spettano
sulla base del patto10.
I sudditi non hanno invece alcuna speranza di modificare tale equilibrio: non possono coalizzarsi, né contestare apertamente il sovrano, e se vengono scoperti intenti a scopi sovversivi possono essere immediatamente puniti. Il rischio di simili azioni è molto grande, e di fatto solo pochi accetteranno di correrlo: ciò, oltre ad essere illegittimo ed ingiusto (in quanto violazione del patto), garantisce dell’inefficacia di tali azioni sovversive. La forza del sovrano è talmente assoluta che egli costituisce di fatto l’unico vero agente del sistema hobbesiano, mentre tutti gli altri sudditi hanno libertà d’azione solo dove il sovrano non si pronuncia a legiferare.
9
In quel caso però egli condannerebbe lo Stato ad una futura dissoluzione.
10
“Questi sono i diritti che costituiscono l’essenza della sovranità, […] Questi diritti sono infatti
non trasmissibili e inseparabili. […] Ma se trasferisce ad altri le milizie, invano mantiene la giudicatura, poiché manca l’esecuzione delle leggi. Analogamente, se cede il potere di riscuotere tributi, diventa vano il potere militare, e, se rinuncia al governo delle dottrine, gli uomini saranno indotti alla ribellione con la paura degli spiriti. Così, se consideriamo uno qualunque dei suddetti diritti, vediamo subito che il mantenimento di tutti gli altri non ha alcuna efficacia nella conservazione della pace e della giustizia. Il fine per cui gli Stati sono istituiti” cfr. Thomas
Il sovrano ha un potere effettivo su tutti gli appartenenti al sistema (cioè i sudditi soggetti al patto): questi ultimi possono dedicarsi a macchinazioni segrete contro la sovranità, con buone possibilità di non essere scoperti, ma se vengono colti sul fatto non possono sperare di sfuggire al castigo o di sottrarsi ad esso, se non recandosi al di fuori dello Stato (e solo nel caso in cui gli agenti del sovrano non li fermino prima).
Viene insomma creato un contesto dove tutti i problemi derivanti dall’esercitare l’autorità vengono ridotti al minimo o persino annullati.
Nello scenario globale i vari attori sono invece in continua competizione per modificare l’equilibrio a proprio favore: se sentono di mancare di un sufficiente potere materiale possono adoperarsi per rimediare a tali deficienze; chi invece dispone di una cospicua superiorità, non può essere sicuro di conservarla, in quanto gli altri possono coalizzarsi contro di lui, oppure può essere erosa da crisi economiche, sconfitte militari, catastrofi naturali o da una combinazione di questi elementi; può anche accadere che un determinato attore non sia più in grado di
tenere il passo con gli altri, e veda così scemare il suo margine
di superiorità fino a farsi superare11.
Di fatto, per quanto le differenze di forza siano significative (e persino abnormi), ogni singolo attore ha la più totale libertà di azione, e può regolarsi come meglio crede: la sovranità infatti è frammentata tra tutti i singoli stati (e addirittura anche fra le singole entità non statali, cui la tecnologia moderna consente oggi capacità di azione non trascurabili: ad esempio le fazioni terroristiche).
Da questo punto di vista vi è una sostanziale eguaglianza tra i vari Stati, ed anche le differenze di potere sono sancite da semplici dati di fatto (quali i fattori economici, sociali e militari) e non da contratti immodificabili.
Ogni entità sovrana ha quindi un alto grado di indipendenza, e se certamente le entità più forti possono imporsi su quelle più deboli, l’imposizione sarà sempre parziale, e mai totale: di certo non si può paragonare tale capacità coercitiva al potere assoluto di cui il sovrano gode nell’ambito del Leviatano.
11
Basti pensare a quanto successo alla Germania guglielmina o alla Francia della Terza Repubblica (cadute di rango a causa di una sconfitta bellica), o al Regno Unito (pacificamente sorpassato dagli USA).
Se anche a seguito di sconfitte militari uno Stato può trovarsi sotto occupazione da parte di un altro (e quindi trovarsi sotto il totale controllo di quest’ultimo, e a tutti i livelli), tali situazioni rimangono spesso temporanee, ed alla fine la sovranità viene recuperata, sebbene a volte a prezzo di perdite territoriali o del ridimensionamento dello Stato in questione.
Di conseguenza non vi sono le condizioni, per uno Stato, di esercitare sugli altri le stesse prerogative di sovranità che esercita sul proprio territorio.
Gli stati molto piccoli e deboli hanno inoltre modi per resistere alle pressioni delle nazioni più grandi, o comunque per indebolirle, limitando ulteriormente le possibilità coercitive di queste ultime.
Fatte queste premesse, possiamo ora riprendere la questione del primato statunitense: il potere degli Stati Uniti è enorme ed ineguagliato, ma non è paragonabile a quello del sovrano nel Leviatano; in realtà non è qualitativamente diverso rispetto a quello degli altri attori globali; il sovrano nello Stato hobbesiano si trova invece su di un piano completamente differente rispetto al semplice suddito, a prescindere dall’eventuale forza o ricchezza di questo.
Innanzitutto il sovrano ha il dominio diretto su ogni singolo cittadino e su ogni singola porzione del suo regno: come si è visto, la sua volontà è legge; e ha il totale controllo su ogni elemento interno al regno: niente rimane fuori dalla sua giurisdizione.
Per gli Stati Uniti è diverso, in quanto solo una piccolissima parte del globo è sotto il loro diretto controllo: questo non significa che non possano influenzare (anche in maniera pesante) ciò che sta al di fuori dei loro confini, ma influenzare non è certo equivalente a dominare.
Laddove gli USA non esercitano dominio diretto, possono fare pressioni affinché il governo locale muti il suo comportamento; se questo si rifiuta o adempie solo parzialmente a quanto richiesto, possono essere adottate misure sempre più gravi: si parte dal semplice imporre sanzioni, e così in crescendo fino all’intervento militare.
Simili metodi non sono però necessariamente efficaci: delle sanzioni possono non essere sufficienti a convincere un governo riottoso, mentre un’invasione militare può non essere possibile per ragioni politiche o materiali (senza contare la possibilità che conduca a lunghe e sfibranti occupazioni).
Quindi può avvenire che singole nazioni (benché colpite da sanzioni, o soggette ad isolamento internazionale) possano continuare a mantenere atteggiamenti ostili verso gli Stati Uniti, senza con questo pregiudicare la propria esistenza.
Per Hobbes la presenza stessa all’interno del Leviatano di entità ostili al potere sovrano sarebbe del tutto inaccettabile, e renderebbe di fatto inefficace l’assolutezza del potere sovrano
(e di conseguenza porterebbe alla dissoluzione dello Stato)12; lo
scenario globale attuale invece presenta innegabilmente casi del genere, con nazioni che fanno dell’ostilità verso gli Stati Uniti un principio importante della propria politica estera.
Una solida obiezione consisterebbe nel far notare come tali nazioni siano sostanzialmente piccoli paesi, in grado di influenzare gli equilibri globali solo in minima misura; ma a ben vedere tale obiezione non appare valida: se sono così deboli, perché riescono a resistere al potere americano?
Un problema simile lo pongono le nazioni non formalmente ostili, ma che perseguono una propria politica estera non
12
Ad esempio, la presenza di monopoli “quando il tesoro dello Stato, fluendo fuori dal suo corso
regolare, si raccoglie con eccessiva abbondanza in un solo o in pochi individui privati a causa di monopolio o di appalti delle entrate pubbliche”; l’eccessiva grandezza di una città “….la sproporzionata grandezza di un città, qualora sia in grado di trovare all’interno del proprio ambito il numero di uomini e le risorse per armare un grande esercito...”, e tanti altri elementi, in
apparenza anche secondari, ma che, come minuscoli granelli di sabbia, sono in grado di inceppare il meraviglioso e gigantesco meccanismo del Leviatano. Cfr. ibid. , pp.270-271.
coincidente con gli interessi americani; senza contare come anche i più stretti alleati degli USA mostrino di non aderire pedissequamente a tutti gli aspetti della politica estera
statunitense13.
Se un suddito si rifiuta di eseguire gli ordini del sovrano, egli può distruggerlo immediatamente; ma se la Francia si rifiuta di aderire all’invasione dell’Iraq, e si adopera per scongiurarla, gli USA non possono certo invadere Parigi e metterla a ferro e a fuoco (nel Leviatano invece il fatto che vi siano sudditi che possono criticare il sovrano ed ostacolarlo, è già un sintomo di
prossimo dissolvimento)14.
Anche nei casi di paesi decisamente ostili, l’uso della forza militare è drasticamente limitato: la reazione di forza non può avvenire davanti alle piccole provocazioni, altrimenti gli USA sarebbero impegnati in continue guerre in ogni angolo del globo; di conseguenza è paradossalmente possibile agire solo davanti a gravi turbative dell’ordine internazionale (o quantomeno supposte tali, a torto o a ragione), quali
13
E come abbiamo visto, lo stesso Kagan dedica ben due opere a tale problema, mostrando quindi di non ritenere certo trascurabile la cosa.
14
“A ciò (le cause di dissolvimento dello Stato) si può aggiungere la libertà di contestare
l’assolutezza del potere da parte di uomini che pretendono di possedere saggezza politica; i quali, quantunque allignino soprattutto nella feccia del popolo, nondimeno, alimentati da false dottrine, si intrigano continuamente delle leggi fondamentali, con molestia per lo Stato”. Cfr. ibid. , p.271.
l’acquisizione di armi di distruzione di massa, o l’attacco a paesi limitrofi, etc.
In pratica sarebbe come se, nel Leviatano, il sovrano potesse agire solo quando una parte del regno è in aperta rivolta, senza poter agire capillarmente ed in anticipo alle prime avvisaglie di sovversione.
Anche questi soli esempi bastano a squalificare la visione, proposta da Kagan, di un ordine globale governato dagli Stati Uniti, sulla falsariga della visione hobbesiana: al contrario l’ordine e l’equilibrio internazionale sono piuttosto una specie di
stato di natura (piuttosto stabile nel breve periodo, ma a lungo
andare soggetto a mutamenti anche radicali), la cui stabilità, più che ordinata dall’alto, è naturalmente espressa dagli elementi
che lo compongono15.
Gli Stati Uniti sono quindi certamente il più potente dei vari attori globali, ma come tutti gli altri vedono la propria azione soggetta a numerosi ed insormontabili limiti, e a circostanze per loro imprevedibili ed incontrollabili, e non tenerne conto, come fanno i neocon, porta a valutare il loro potere in maniera illusoria ed eccessivamente ottimistica.
15
Anche il Leviatano è espresso dal basso, ma una volta entrato in funzione diviene indipendente dalle spinte bottom-up. La direzione data dal sovrano è inequivocabilmente top-down.
Esaurimento.
Il fatto che l’azione americana possa incontrare resistenza, o che risulti inefficace in molti contesti, non dovrebbe però condurci a pensare che l’egemonia americana sia un bluff inefficace o destinato a scomparire sotto il peso delle proprie contraddizioni: una simile visione sarebbe l’esatto contrario
della visione di Kagan, e sarebbe parimenti errata16.
In effetti il fatto che molti paesi si sottraggano al dominio statunitense, o che altri non seguano sempre e comunque gli interessi statunitensi, non significa di per sé che gli USA non siano una superpotenza, o che non abbiano capacità di influenza.
Vedere come un problema l’ostilità dell’irrilevante Corea del Nord dipende più dall’atteggiamento mentale della leadership statunitense piuttosto che dall’effettivo pericolo costituito dal regime di quel paese, che del resto, per la sua debolezza, viene agevolmente contenuto.
16
Vedasi ad esempio l’interessante disamina dello storico britannico Niall Ferguson sulla possibile valenza imperiale del primato americano. Cfr. Niall Ferguson, Colossus, Mondatori, Milano 2006.
In effetti è piuttosto la visione kaganiana (e neoconservatrice) di
un ordine globale strutturato come il Leviatano di Hobbes17 a
portare l’egemonia statunitense in un vicolo cieco e a determinarne l’esaurimento progressivo.
Infatti questa visione condanna gli USA ad una politica estera per compiere la quale il loro potere è sottodimensionato, e questa sproporzione tra fini perseguiti e mezzi disponibili si ripercuote in maniera negativa sui risultati ottenuti: non solo gli ambiziosissimi obiettivi prospettati non vengono raggiunti, ma si perdono anche i vantaggi ricavabili da politiche meno ambiziose e più realistiche, per le quali le forze disponibili sarebbero invece sufficienti e persino sovrabbondanti.
Il tentativo di “leviatanizzare” il primato americano è velleitario e destinato al fallimento, e piuttosto che richiamare l’autorità sovrana hobbesiana, fa pensare al singolo individuo che, nello stato di natura, tenta di imporre a tutti la propria supremazia: la cosa più probabile è che tutti si coalizzino contro di lui (o
17
Hobbes però non applica volutamente tale approccio alle relazioni internazionali (che considera appunto come una versione in grande dello stato di natura), ed evidentemente non ritiene possibile il predominio di uno Stato su tutti gli altri (se non per conquista diretta, ma non è il caso dei neocon, che puntano al dominio attraverso la democratizzazione): “Ma qualora non fosse mai
esistito un tempo in cui gli uomini isolati fossero in uno stato di guerra gli uni contro gli altri, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana sono, a causa della loro indipendenza, in una situazione di continua rivalità […] fortezze, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e spie che controllano incessantemente i paesi vicini; questo è un atteggiamento di guerra” Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano, op. cit. , p.103.
perlomeno che gli tolgano aiuto ed appoggio), e che alla fine, pur essendo più forte degli altri, si trovi ad essere distrutto, o
comunque a dover abbandonare ogni sogno di dominio18.
Infatti, se si adotta l’approccio di Kagan, l’America è costretta a perseguire una totale supremazia globale: chiunque non si conformi agli interessi statunitensi o non si adatti a seguire le politiche statunitensi, diviene ipso facto un nemico (o comunque viene percepito come ostile).
Non è accettabile alcuna via di mezzo se si segue questa
Weltanschauung: se si persegue la supremazia totale e
l’esportazione del proprio modello politico a tutto lo scenario globale, vi sarà inevitabilmente ostilità con tutte le nazioni che non accettano o non condividono ciò; tale ostilità non cesserà fino a che non saranno state sottomesse, o non avranno
spontaneamente aderito al modello proposto19. Di fatto nessun
accomodamento sarebbe possibile.
Ma una visione del genere mette gli USA in diretta rotta di collisione non solo con gli “stati canaglia”, ma anche con buona
18
“La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente, che, benchè
talvolta si trovi un uomo palesemente più forte, nel fisico, o di mente più pronta di un altro, tuttavia, tutto sommato, la differenza tra uomo e uomo non è mai così considerevole al punto che un uomo non possa rivendicare per sé un beneficio cui un altro non possa pretendere tanto quanto lui. Infatti, quanto alla forza corporea, il più debole ne ha a sufficienza per uccidere il più forte, sia ricorrendo ad una macchinazione segreta, sia alleandosi con altri che corrono il suo stesso pericolo” cfr. Thomas Hobbes, Leviatano, op.cit. , p.99.
19
parte delle potenze mondiali (compresi non pochi alleati): nessuno potrebbe accettare che la propria politica estera sia decisa a Washington.
La natura velleitaria di una simile politica è visibile già al primo tentativo concreto: se il potere americano appare insufficiente anche solo a sottomettere l’Iraq, com’è possibile che si pianifichi una politica di ostilità nei confronti di Cina e Russia? L’obiettivo di una supremazia totale è semplicemente troppo ambizioso, uno standard troppo elevato ed irrealistico, ma il solo fatto di provare a raggiungerlo con mezzi insufficienti porta a creare una diffusa ostilità verso la politica americana, ad allontanare gli alleati, e a coalizzare i paesi ostili. I molteplici impegni intrapresi divengono mano a mano insostenibili e portano ad un’eccessiva dispersione di forze, sfibrandole senza produrre nel contempo risultati apprezzabili (e concludendosi nel fallimento); nello stesso momento i vari rivali dell’America hanno campo libero per portare a compimento le loro agende, relativamente indisturbati.
Quindi questa politica, che nelle intenzioni originali dei fautori
del neoconservatorismo doveva coronare l’egemonia
l’effetto opposto: l’erosione e l’esaurimento progressivo di quella stessa egemonia.
Sebbene la sconfitta in Iraq ne sia il sintomo più perspicuo, le cause di questa erosione sono preesistenti all’intervento, e
sono individuabili proprio nel cocktail proposto dai
neoconservatori: la moltiplicazione degli impegni con risorse insufficienti, l’accantonamento delle alleanze consolidate, la perdita globale di legittimità, nonché l’indifferenza verso la realizzabilità degli scopi prefissi o verso i limiti materiali che vincolano l’agire (sostituiti da un’ingiustificata fiducia nel successo finale e nell’invincibilità dell’America).
È comunque interessante notare come, nonostante Kagan e gli altri neoconservatori abbiano in apparenza così tanti tratti in comune con la visione hobbesiana, alla fine essi trascurino uno dei più preziosi insegnamenti del pensiero di Hobbes: il fine del
potere sovrano è la pace civile20, e tutte le crudeltà del potere
assoluto, i suoi arbitrii, la sua inappellabilità, la sua mancanza di contrappesi, trovano la loro giustificazione nel tenere lontano
20
“La causa finale, il fine o il disegno degli uomini degli uomini (che per natura amano la libertà
ed il dominio sugli altri), nell’introdurre quella restrizione su se stessi sotto il quale li vediamo vivere negli Stati, è la previdente preoccupazione della propria conservazione e di una vita perciò soddisfatta; cioè a dire, di trarsi fuori da quella miserabile condizione di guerra che è un effetto necessario delle passioni naturali degli uomini, quando non ci sia alcun potere visibile che li tenga in soggezione e li vincoli con la paura di punizioni all’adempimento dei loro patti, e all’osservanza delle leggi di natura…” cfr. ibid. , p.139.
dalla società civile il ben maggiore pericolo della guerra civile e dei suoi tremendi orrori.
Il potere del sovrano deve essere così totale, proprio perché in questa maniera si rende impensabile ogni tentativo di rovesciarlo e di gettare lo Stato nel caos.
Il tentativo neoconservatore di “leviatanizzare” il primato americano, è invece destinato a rimanere insufficiente sotto tale aspetto: l’America ha il potere di incrinare l’equilibrio globale, ma manca del potere sufficiente a ricrearlo in maniera migliore: lungi dall’assicurare la pace, essa va a distruggere quegli equilibri consolidati che, pur nella loro assenza di democraticità, hanno quantomeno il pregio di mantenere in qualche modo la pace e la sicurezza.
Considerazioni finali.
Che conclusioni trarre quindi dalla parabola del potere neoconservatore? Cosa ci insegna la loro ascesa ed il loro
attuale declino21?
La più ovvia conclusione che possiamo trarre consiste nel riconoscere la sostanziale irrilevanza della bontà delle
21
intenzioni e della generosità dei progetti, qualora non sia seguita da un’effettiva efficacia nel porli in essere: chi può negare (nel mondo occidentale almeno) che la fine del fondamentalismo e la diffusione della democrazia in Medio Oriente siano un traguardo positivo? Non è forse lodevole anche l’idea di una politica estera fondata su principi etici, e risoluta a difenderli, costi quel che costi?
Ma non è certo la bontà o la generosità di tali progetti a mancare: ciò che manca sono i risultati concreti, e di fronte alla loro assenza (e persino di fronte al netto peggiorare della
situazione) le fantasmagoriche visioni oniriche dei
neoconservatori appaiono nella loro sostanziale irrilevanza ed ingenuità.
Ma questo non è una novità introdotta dai neoconservatori: come si è visto risale al Cold War Liberalism descritto nel primo capitolo, e per tramite di questo persino alla politica estera di F. D. Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale: in un modo o nell’altro i neoconservatori non fanno che riproporre tematiche che innervano tutta la recente storia americana (e per certi versi anche quella precedente fin dalla stessa nascita degli Stati Uniti).
La differenza sta nel fatto che, mentre l’idealismo rooseveltiano ottenne successi innegabili (sconfiggendo la Germania nazista ed il Giappone e creando il contesto per l’egemonia globale statunitense), il bilancio dell’idealismo neoconservatore è largamente in passivo.
Ma questo è dovuto alla radicale differenza del contesto: gli USA degli anni ’40 erano dotati di un potere relativo incommensurabile, e l’ambizione rooseveltiana di riformare il globo (sebbene a suo modo ingenua) risultava persino realistica, di fronte allo sfascio in cui versava tutto il resto del mondo occidentale.
Non sorprende quindi che la stessa visione, e gli stessi presupposti ideologici (ma supportati da un potere relativo molto minore, e davanti a resistenze molto più forti) incontrino oggi un fallimento clamoroso: alla fine si dovrebbe ammettere come il successo ed il fallimento dipendano spesso da fattori al di fuori del nostro controllo, e come la condotta più saggia sia quella di accettare i vincoli posti all’agire, capitalizzando i vantaggi e minimizzando gli svantaggi. I casi in cui si dispone del potere sufficiente a modificare lo stesso contesto in cui si opera sono infatti molto rari (come la supremazia americana nel
1945) e adottare Weltanschauungen adatte solo a tali limitate circostanze è estremamente rischioso.
Non aver compreso ciò, ai neoconservatori è costata una tremenda sconfitta ed il fallimento dei loro progetti.