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Capitolo IV

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Diffusione della decorazione a grottesche

4.1 Il XV secolo: Perugino, Pintoricchio, Signorelli e Filippino Lippi

I nomi dei primi pittori del Rinascimento che si calarono all’interno delle “grotte” della neo-scoperta Domus Aurea sono tutt’oggi dibattuti: secondo Vasari fu Morto da Feltre il primo, ma secondo altre fonti furono altri i primi esploratori. Quel che è certo, invece, sono gli artisti che resero celebri la decorazione a grottesche, prendendo per primi spunto dalle pitture neroniane per dar vita ad un nuovo stile: Perugino, Pintoricchio, Signorelli e Filippino Lippi.

Piero Vannucci, noto come il Perugino, non fu tra questi quattro il maggior promotore del nuovo genere, eppure giocò un ruolo fondamentale nella sua diffusione. Egli, infatti, venne chiamato alla corte papale in un momento storico particolare: nel 1478 era avvenuta la congiura dei Pazzi a Firenze ed i rapporti tra il papa Sisto IV e i Medici non si stabilizzarono fino al 1480; in questo lasso temporale il pontefice si trovò costretto a cercare pittori che non fossero fiorentini. Il Perugino, rispetto ad altri suoi contemporanei, godeva del vantaggio d’essere umbro ma formatosi, almeno in parte, in una ben nota bottega di Firenze: quella di Andrea del Verrocchio. Grazie a tali caratteristiche, venne privilegiato nella scelta ed ebbe l’incarico nel 1479 di dipingere la Cappella della Concezione in San Pietro. Sfortunatamente, quest’opera non è giunta ai giorni nostri, ma tramite le fonti è possibile conoscere il grande successo che riscontrò all’epoca e che probabilmente incoraggiò il Papa a chiedere al pittore umbro di dipingere, assieme ad altri celebri artisti, la Cappella Sistina che contribuì a renderlo ancor più famoso e richiesto. Tra i

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pittori che lavorarono nella cappella progettata da Baccio Pontelli, solo alcuni vennero influenzati dalle pitture della Domus Aurea; è ampiamente dibattuto se questo sia riconducibile o meno alla data in cui la residenza di Nerone venne rinvenuta. Il Perugino stesso sembrò interessarsi alla nuova decorazione desunta dall’antica domus con un certo ritardo rispetto ad alcuni suoi colleghi.

Le grottesche che dipinse sembrano derivare da quelle di Pintoricchio, ed appaiono meno fantasiose e dinamiche rispetto a quelle del più giovane artista umbro persino nella sua opera più celebre realizzata con un ampio uso di grottesche, vale a dire la volta della Sala dell’Udienza del Collegio di Cambio a Perugia (fig. 1). La decorazione della volta fu verosimilmente dipinta dagli allievi di Perugino, ma si esclude la presenza della mano di Raffaello. Secondo la Dacos, le grottesche che impreziosiscono la Sala dell’Udienza mostrano una certa arcaicità e staticità per le quali il pittore sembra non riuscire a tener testa alle composizioni dinamiche e fantasiose del Pintoricchio, ma al contempo risulta interessante l’attento studio del dettaglio archeologico (figg. 2-3). Le fonti visive a cui il Perugino fece riferimento però sembrano essere in primo luogo di origine plastica e, solo secondariamente, pittoriche; ad esempio, il modello usato per la Venere incorniciata da un manto rigonfiato dal vento mentre se ne sta in piedi su un carro trainato da candide colombe, che nel Collegio di Cambio appare all’interno del medaglione centrale, risale al bassorilievo Borghese.

Il pittore di grottesche maggiormente influenzato dal Perugino fu Giannicola di Paolo, il quale dipinse la cappella di S. Giovanni nel Collegio di Cambio e mantenne l’uso dell’oro che dà alla pittura un tocco un po’ arcaizzante.

Nonostante a lungo si sia creduto che Bernardino di Betto, noto col nome di Pintoricchio, fosse allievo di Perugino1, secondo studi recenti è stato dimostrato che il giovane pittore ebbe rapporto solo di collaboratore nella Cappella Sistina con l’artista più anziano, ma si era già precedentemente formato nella sua città natale ed

1 Ad indurre in errore gli storici fu il Vasari che nelle Vite indicò il Pintoricchio come discepolo del

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aveva dipinto opere importanti a Roma ancor prima di iniziare a lavorare a fianco del Perugino2. Il Pintoricchio, agevolato nello studio pittorico degli ornati grazie all’apprendistato come miniatore3

e, forse, ancor prima come decoratore di maioliche4, e contraddistintosi per la velocità di esecuzione, probabilmente fu indirizzato dal Perugino stesso, il quale selezionava scrupolosamente i suoi collaboratori ponendo attenzione alle attitudini di ciascuno, ad intraprendere uno studio più approfondito dell’apparato ornamentale.

Indubbiamente, il Pintoricchio fu il grande protagonista di fine XV e inizio XVI secolo in materia di grottesche. Egli seppe, meglio d’altri, rendere i decori parietali della domus neroniana nuovamente attuali e diede loro, durante la sua carriera, una nuova valorizzazione e un nuovo posto nell’arte pittorica. Proprio a lui sembra spettare il primato nell’utilizzo della decorazione a grottesche in un’ opera di un certo rilievo e, di certo, fu il primo ad usare tale ornamento in ambiente sacro: la Cappella di San Girolamo a Santa Maria del Popolo (fig. 4) commissionata da Domenico Della Rovere (1477-’79). Fino a pochi anni fa la decorazione di questa cappella veniva datata verso la fine degli anni ottanta, in linea con la diffusa convinzione che la Domus Aura fosse stata scoperta attorno al 1480; ma quando Strinati nel 1995 per primo propose una retrodatazione, si presentarono nuove difficoltà, tra cui il possibile paradosso di una cappella ornata con decori desunti da un’antica domus che a quella data non era stata ancora scoperta. Successivamente, La Malfa, grazie ad un’attenta osservazione delle parti che compongono la cappella, accreditò la proposta del Strinati suggerendo una realizzazione dell’opera in più fasi, di cui l’ultima è quella che vide nascere l’affresco della parete d’altare raffigurante l’Adorazione con il Bambino e San Girolamo che avvenne verosimilmente attorno al

2 A Perugia, peraltro, risulta iscritto all’Arte dei Pittori già dal 1481.

3 Il Pintoricchio partecipò, infatti, ad una commissione di corali per la chiesa di San Pietro a Perugia.

Vedi Garibaldi 2008, p. 37.

4 È stato ipotizzato che, prima di andare a bottega dal miniatore Giapeco Caporali, Pintoricchio abbia

effettuato un breve apprendistato da Giacomo de Marino detto “Cavalla” che operava vicino alla residenza d’infanzia del Pintoricchio stesso. Ibidem, p. 38.

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1479 in occasione della promozione di Domenico Della Rovere5 al titolo di San Clemente. Questa nuova datazione comporta due importanti conseguenze: innanzitutto risulta plausibile che la scoperta della domus neroniana sia avvenuta circa un decennio prima di quanto si era creduto, inoltre il ruolo giocato da Pintoricchio nell’uso e nell’elaborazione delle grottesche fu ancor maggiore di quanto precedentemente ipotizzato. Egli potrebbe essere il primo pittore che inserì i decori fedelmente copiati dalla Domus Aurea in un’opera moderna6

e tra i primi a rielaborarli per creare un nuovo stile7(fig. 5).

Tramite le imprese pittoriche del Pintoricchio possiamo apprezzare l’evoluzione delle grottesche stesse: notiamo ad esempio che queste avevano un ruolo del tutto marginale nella Cappella di San Girolamo, dove, similmente al decoro a candelabri del XV secolo dalle quali discendono, ornano la struttura architettonica che incornicia i dipinti principali dell’ambiente, mentre nella successiva Cappella Bufalini (1483-‘85) in Santa Maria Aracoeli (fig. 6) entrano all’interno delle scene per raggiungere gradualmente la “qualità osmotica” che contraddistinse le grottesche del Pintoricchio8. Inoltre, vediamo le figure che compongono tale decorazione trasformarsi da ornamenti quattrocenteschi, desunti perlopiù da sarcofagi romani, a copie fedeli delle pitture della Domus Aurea, ad una interpretazione sempre più libera (fig.7).

Sia nella Cappella Bufalini che nella Villa o Casino del Belvedere (1487), dipinto per volere del papa Innocenzo VIII ed oggi facente parte del complesso del Museo Chiaramonti, le grottesche sono ancora considerate una tipica decorazione per parti architettoniche usate come ripartizioni degli spazi. Nel caso del Belvedere, infatti, le

5 Domenico Della Rovere, nonostante il suo cognome induca a pensare altrimenti, non era parente del

papa Sisto IV del cui entourage comunque faceva parte e sotto il cui pontificato divenne un importante mecenate delle arti ed il protettore dell’accademia di Pomponio Leto.

6 Le grottesche che appaiono nella Cappella di San Girolamo sono desunte dagli antichi decori del

cryptoportico della Domus Aurea. Vedi La Malfa 2009 pp. 39-76.

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Il riferimento è alla Cappella Bufalini in Santa Maria in Aracoeli a Roma.

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grottesche-candelabre ornano i pilastri che scandiscono i paesaggi come un trompe

l’oeil. A proposito dell’origine dell’illusionismo delle pitture parietali del Casino di

Innocenzo VIII, è d’obbligo una breve parentesi che ci riporta a quanto detto al paragrafo 3.5. Attorno agli anni sessanta del XX secolo due studiosi, Sandstrӧm e Schulz, sostennero per primi che le fonti d’ispirazione di Pintoricchio per il Belvedere fossero dei dipinti classici del Secondo Stile Pompeiano. Questa proposta, molto contestata in quanto nel medesimo edificio il pittore perugino lavorò a fianco del Mantegna il quale poteva essere una più che facile risorsa per quel che concerne la pittura di paesaggio, assume nuova credibilità grazie alla retrodatazione della decorazione del Palazzo di Domenico Della Rovere, sempre ad opera del Pintoricchio, che dimostrerebbe un uso di tale tecnica precedente all’arrivo del celebre padovano. In tal caso, il pittore perugino sarebbe anche uno dei più importanti promotori dell’illusionismo prospettico che contribuì in modo determinante a diffondere quest’ennesimo riferimento all’antico nella pittura moderna.

Pintoricchio ornò di figure simili a quelle facenti parte del repertorio delle grottesche anche il cosiddetto Soffitto dei Semidei del Palazzo Della Rovere in Borgo9 (fig. 8), ma senz’altro le sue opere più celebri adorne del tipico decoro desunto dalle antiche pitture romane sono la Libreria Piccolomini (figg. 9-10) e Palazzo Petrucci a Siena. Mentre nella Libreria le grottesche invadono tutta la volta del soffitto, nella Sala Maggiore di Palazzo Petrucci ne impreziosivano anche il pavimento (fig. 11). Questo stadio raggiunto dalla nostra decorazione è il passo che precede la libera estensione delle grottesche a tutta la superficie: nella volta della Libreria, così come in quella della sala di Palazzo Petrucci, tale decoro è ancora suddiviso in poligoni regolari, uno schema che viene ripreso dalla Volta Dorata della Domus Aurea ma che verrà abbandonato nel XVI secolo. Presumibilmente, Pinturicchio non giunse mai a questa

9 Si sottolinea che in questo caso non si può propriamente parlare di “decorazione a grottesche” in

quanto la suddivisione del soffitto in cassettoni impedisce la continuità, l’unità e la costante evoluzione metamorfica che sono le caratteristiche salienti di questo tipo di ornamento.

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decisiva evoluzione dell’ornamento antico; sebbene Vasari nelle Vite10

abbia accennato a stanze interamente dipinte con questo ornamento a Castel Sant’Angelo, purtroppo non essendoci pervenuta quest’opera del Pinturicchio non è possibile attestare se fu lui il primo a liberare completamente la forza decorativa delle grottesche.

Una peculiarità riscontrabile in buona parte delle opere di Pintoricchio è il coordinamento della decorazione di pavimenti e soffitti. L’arredamento coordinato diverrà una caratteristica molto di moda nel XVI secolo, ma il Pintoricchio, forse seguendo il suo predecessore perugino Benedetto Bonfigli, mostrò particolare attenzione all’abbinamento dei decori preposti alle varie parti delle stanze commissionategli11. Se nella Cappella Bufalini non poté affrontare questo discorso a causa di una pavimentazione marmorea preesistente ai suoi affreschi, nell’appartamento Borgia è già presente una scelta oculata delle mattonelle lustrate, direttamente provenienti da Valencia, e decorate con lo stemma del Papa spagnolo in una doppia celebrazione del committente. Allo stesso modo potremmo elencare varie opere, come il torrione borgiano a Castel Sant’Angelo e la Cappella Basso della Rovere, ma l’esempio più illustre è senz’ombra di dubbio quello senese: vale a dire, lo spettacolare coordinamento del pavimento maiolicato della Libreria Piccolomini che riprende i colori del soffitto ed è decorato con le lune dello stemma famigliare, ed anche il virtuosistico e complesso pavimento di Palazzo Petrucci.

Grazie alla Dacos, oggi sappiamo molto di più anche dei collaboratori di Pintoricchio: sembrava effettivamente irrealistico credere che avesse potuto affrescare da solo opere imponenti come, tra tante, gli appartamenti di papa Alessandro VI. In particolare, è stata ricostruita la biografia e le opere di Michele Angelo di Pietro Membrini che, sebbene nativo di Pistoia, si firmò all’interno del

10 Vasari 1963, in Vita di Bernardino Pinturicchio pittore perugino,vol. III, p. 279.

11 Benedetto Bonfigli fu l’artefice degli affreschi della Nuova Cappella dei Priori a Perugia nel 1454,

ed aveva sovrinteso anche alla decorazione del pavimento ceramico, delle vetrate delle finestre e degli arredi liturgici.

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criptoportico della domus neroniana come “Michelangolo da Luca”. Questo pittore, assieme al lucchese Vincenzo Frediani, fu uno dei collaboratori adibiti alla decorazione delle grottesche; alla sua mano sono state ricondotte varie parti della Sala dei Santi e lo sguancio della finestra della Sala del Credo dell’appartamento borgiano (figg. 12-13), ma anche alcuni ottagoni facenti parte del soffitto a cassettoni del Palazzo Della Rovere in Borgo, per poi ritrovarlo attivo a Lucca dove, dal 1501 fu uno dei maggiori artisti fino all’arrivo del bolognese Amico Aspertini12

.

I collaboratori ed in generale i pittori che rimasero profondamente influenzati da Pintoricchio furono tanti, basti citare Morto da Feltre, l’enigmatico artista che secondo Vasari fu tra i primi a calarsi nelle rovine della residenza neroniana e a trascorrervi lunghi periodi che gli valsero il funereo soprannome, oppure Jacopo Ripanda che condivise molte opere pintoricchiesche, il celebre Baldassarre Peruzzi e il già citato Aspertini (fig.14).

Per quel che concerne Filippino Lippi, l’apporto innovativo di questo pittore non risiedette tanto nell’estensione delle grottesche su ampie superfici come nel caso dell’artista precedentemente analizzato, quanto piuttosto alla sua estrema creatività che diede vita ad un’interpretazione originalissima delle singole figure studiate nella Domus Aurea. Sappiamo che il giovane Lippi, a differenza del padre, visitò Roma due volte: la prima in vece di collaboratore di Sandro Botticelli nella Cappella Sistina (1481) ed una seconda volta raccomandato da Lorenzo il Magnifico al cardinal Oliviero Carafa per affrescare la cappella di quest’ultimo a Santa Maria sopra Minerva (1488-‘93)13. In queste occasioni, l’artista fiorentino colse l’opportunità per visitare la neo-scoperta residenza di Nerone, attestata anche dalla presenza della sua firma e da due disegni oggi conservati agli Uffizi14, da cui trasse ispirazione per le

12 Garibaldi 2008, p. 86.

13 La data di conclusione dell’opera pittorica di Filippino Lippi, in questo caso, è stata ricostruita

dall’accreditabile ipotesi della Catitti che suggerisce la data della festa dell’Annunziata nel marzo del 1493, come occasione di inaugurazione della cappella in concomitanza della visita alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva di papa Alessandro VI. Vedi Catitti 2004 p. 87.

14 I due disegni menzionati sono nel Gabinetto Disegni e Stampe inventariati come E 1255v, Orn.

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grottesche che adornano sia la Cappella Carafa che quella di Filippo Strozzi a Santa Maria Novella a Firenze. Filippino Lippi studiò anche i modelli architettonici dell’Antichità che poteva ammirare ancora integri nella Città Eterna, ma rielaborò le sue fonti, sia pittoriche, sia scultoree e architettoniche, come una dotta citazione di

exempla conforme al concetto di “pluralismo dei modelli” di Leon Battista Alberti.

Premettendo che l’originalità d’invenzione di Filippino Lippi non si limitò solo alla decorazione a grottesche, ma che ci si soffermerà unicamente ad analizzare questo tipo d’ornato in quanto argomento principale della tesi, vediamo come l’artista fiorentino consideri le opere antiche come punto di partenza per una libera elaborazione.

Nella Cappella Carafa (figg. 15-16), dedicata alla Vergine e a San Tommaso d’Aquino15

, le grottesche sono in grisaille ed ornano i pilastri in modo apparentemente del tutto conforme all’uso delle proto-grottesche ancora legate alla decorazione a bassorilievo da cui provengono. La fantasia del Lippi si vede nelle metamorfosi operate nei dettagli: le deformità dei mostri vengono accentuate, le stravaganze moltiplicate. Inoltre, nonostante le regole della simmetria e della specularità siano solitamente rispettate dalla decorazione a grottesche, in questo caso si riscontra un’osservazione solo apparente a tali norme: infatti osservando ogni singolo motivo è evidente che ogni figura è diversa dalle altre (fig. 17).

Secondo Kommerell, nelle grottesche presenti in questa cappella non si può parlare soltanto di decoro disgiunto dal tema principale, vale a dire quello della Vergine; in particolare, propone dei rimandi sia a livello cromatico (il fondo scuro su cui si stagliano le grottesche e la bara della Vergine nell’affresco centrale), che a livello

15 Una della singolarità di questa cappella è l’equiparazione tra la Vergine e un santo che vengono

raffigurati entrambi come protagonisti. Tale anomalia è stata spiegata tramite la presunta discendenza da San Tommaso che il cardinal Carafa vantava ed al fatto, non meno trascurabile, del ruolo di protettore dell’ordine domenicano che aveva e che ben si accordava alla scelta di Santa Maria sopra Minerva che è la chiesa principale dell’ordine domenicano a Roma.

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iconografico (il fuoco del candelabro in riferimento all’ascesa di Maria al Paradiso, ecc.)16.

Nella Cappella Strozzi a Santa Maria Novella a Firenze (figg. 18-19) la fantasia creativa di Filippino Lippi non si limitò all’elaborazione del tema centrale di S.

Filippo che scaccia il demonio dal tempio di Marte, ma investì anche le grottesche le

quali adornano il muro di fondo che è ispirato all’arco di Costantino e su cui si librano, invadendo la parete intera ed integrandosi con la decorazione. Anche in questo caso, la peculiarità che contraddistingue il decoro a grottesche di Filippino Lippi è un’attenzione spasmodica per il dettaglio e una capacità inventiva che permette al fruitore di osservare a lungo le sue creazioni senza stancarsi mai.

Filippino Lippi fu il pittore che sfruttò maggiormente la lezione di Pintoricchio: infatti anche lui non si limitò ad una copia fedele delle decorazioni parietali della Domus Aurea, ma le rielaborò liberamente (fig. 20). Probabilmente, la Cappella Bufalini del Pintoricchio fu per lui un’importante fonte d’ispirazione, tanto che elementi come l’abbandono della policromia per privilegiare un’imitazione del marmo su fondo blu, giunta ad un sistematico abbandono della riproduzione del modello antico, appartengono anche alle grottesche della Cappella Carafa del Lippi. Tra gli artisti che risentirono maggiormente dell’influenza pittorica di Filippino Lippi, specie per quel che concerne le grottesche, furono indubbiamente: Raffaellino del Garbo e Andrea di Cosimo Feltrini. Il primo, fu suo collaboratore nella Cappella Carafa e, definito da Zeri come uno degli “eccentrici fiorentini”17

, dipingeva esseri ibridati ancor più bizzarri e improbabili di quelli del Lippi. Mentre Andrea di Cosimo Feltrini, sebbene il Vasari scrisse che apprese la decorazione a grottesche da Morto

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Sebbene Kommerell proponga nuove interpretazioni iconografiche, come quella della sfinge, a parer mio contestabilissima, che lui sostiene essere un rimando al cardinal Carafa piuttosto che alla Vergine, l’idea di un significato allegorico preciso delle grottesche di questa cappella è una tesi spesso riproposta da diversi studiosi, basti ricordare come già Cosmo sostenesse che la frutta che compone la cornice in stucco dell’Annunciazione fosse un’ allegoria delle opera buone (da un paragone nelle

Confessioni di S. Agostino).

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da Feltre, viene indicato dalla Dacos come pittore sotto la profonda influenza del Lippi del quale studiò probabilmente gli affreschi della Cappella Strozzi a Firenze18. Una piena consapevolezza dell’uso della decorazione a grottesche giunse un po’ tardi nella carriera di Luca Signorelli. Nel 1499 stava lavorando nel chiostro di Monteoliveto Maggiore vicino a Siena quando venne chiamato dall’Opera del Duomo di Orvieto affinché completasse gli affreschi della Cappella di San Brizio, nota anche come Cappella Nova (figg. 21-22). Tale cappella, infatti, era stata iniziata nel 1447 da Beato Angelico e i suoi collaboratori (tra cui Benozzo Gozzoli)19, ma era rimasta incompiuta nonostante i vari tentativi di trovare un artista celebre che accettasse l’incarico di completarla.20

Probabilmente, il pittore cortonese venne indicato e scelto dall’ arcidiacono Antonio Albèri il quale, oltre ad essere il più importante referente del Fabbrica del Duomo orvietano, era al seguito del vescovo senese Francesco Todeschini Piccolomini. Proprio ad imitazione della splendida biblioteca che il Piccolomini volle adiacente alla cattedrale della sua città, nacque anche la biblioteca del Duomo d’Orvieto; di dimensioni più modeste, fu commissionata proprio dall’arcidiacono Albèri che, evidentemente, subiva l’influenza del colto senese.

Dopo lungo tempo, venne quindi chiesto a Signorelli di portare a termine la decorazione della volta della seconda campata seguendo il progetto originario di Beato Angelico. Quand’ebbe finito questo primo incarico, si cercò altrove una fonte a cui ispirarsi per creare il programma iconografico ed affrescare anche le restanti pareti della cappella. Non ci dilungheremo troppo sulla complessa iconografia di questo ciclo pittorico: è noto come la lettura di questi affreschi sia stata a lungo dibattuta, ma ci si soffermerà con più attenzione sulle grottesche. La fascia inferiore del ciclo pittorico è composta proprio da questo ornamento che si staglia sul fondo

18 Dacos 1969, pp. 79-80.

19 Beato Angelico, per andare a lavorare nel Duomo d’Orvieto, dovette persino chiedere il permesso

papale poiché a quel tempo era già impegnato a dipingere la cappella niccolina in Vaticano.

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oro e incornicia degli oculi fittizi dai quali sembrano sporgersi realmente poeti e filosofi (fig. 23). Notiamo quindi che in questo caso la decorazione a grottesche è usata anche per creare un maggior contrasto tra la superficie piatta e l’improvviso sfondamento di questa, esaltando l’effetto trompe l’oeil.

È interessante notare la quasi contemporaneità di capolavori come la biblioteca senese del cardinal Piccolomini, il Collegio del Cambio a Perugia e la Cappella Nova orvietana. Questo dimostra l’improvvisa fortuna di cui godette la decorazione a grottesche che occupa un posto di rilievo in tutte e tre le opere citate. Rispetto a quelle di Pintoricchio e Perugino, le grottesche di Signorelli si sviluppano con maggiore libertà sulle pareti e si allontanano ancor più dal modello originario della Domus Aurea. Il pittore cortonese non si fa scrupoli nell’attingere al repertorio della miniatura medievale, creando esseri ibridati che risultano archeologicamente “meno esatti”, ma già proiettati verso la loro prossima rivisitazione cinquecentesca. Rispetto ad altre grottesche realizzate nello stesso periodo, è molto più complicato riconoscere le fonti esatte da cui il pittore ha attinto: mentre prima si poteva indicare la stanza della domus neroniana a cui il pittore aveva fatto riferimento, ora il rimando è molto generico. L’uso dell’oro già richiama alla mente l’arte medievale, ma gli strani esseri che popolano questo mondo aureo sono particolarmente vicini alle drôlerie. Anche la Dacos sottolineò la loro insolita “terribilità” come una delle peculiarità che le distingue da quelle contemporanee di altri pittori21. Allo stesso modo, l’Acidini ha evidenziato la “fitta trama”, gli “agguati”, gli “scontri furibondi” in mezzo ai quali lo schema simmetrico delle candelabre sembra scomparire22.

Infine, è d’obbligo ricordare la singolare proposta di Chastel, il quale indicava la fascia decorata a grottesche come rappresentazione del Purgatorio; questa interpretazione, secondo l’autore francese, è suggerita dal fatto che negli affreschi che sovrastano il nostro ornamento compaiono sia il Paradiso che l’Inferno23

. Se tale proposta interpretativa fosse corretta, le grottesche avrebbero l’insolito ruolo di

21 Dacos 1969, p. 74. 22

Acidini Luchinat 1981, p. 123.

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rappresentare, in un modo quasi un po’ astratto, le sofferenze umane patite nel regno intermedio prima di giungere al Paradiso. Avrebbero perciò una funzione simile a quella dei gargouilles che adornavano i capitelli delle chiese medievali.

Fra gli artisti maggiormente influenzati dal modo di dipinger grottesche proprio del Signorelli spicca il nome di Gaudenzio Ferrari; il pittore lombardo, infatti, conobbe probabilmente la Cappella Nova di Orvieto in uno dei suoi viaggi per andare a Roma e contribuì alla diffusione di questo genere, arricchendolo di una nuova gamma cromatica più “nordica” e fredda24

.

4.2 La querelle attorno all’uso improprio delle grottesche

La decorazione a grottesche, oltre ad ottenere un grande successo, specialmente nel XVI secolo, sollevò anche un acceso dibattito. Questa querelle, in realtà, fece parte di un più esteso dibattito che vide contrapporsi i sostenitori del mimetismo contro quelli della libera creatività dell’artista, non solo per quel che concerne la grottesche, ma anche nel campo della letteratura e del teatro. Com’era d’uso in quel periodo, i teorici citavano i testi antichi per avvalorare la propria tesi, sottolineando come le loro idee derivassero da quelle dei più illustri autori classici, affinché si accreditassero le loro opinioni.

La storica diatriba che vedeva contrapporsi la regola della verosimiglianza alla fantasia, nel campo letterario - teatrale si basava principalmente sugli studi fioriti nel Cinquecento sulla Poetica di Aristotele da cui si tentava di desumere delle regole che ben si accordassero con le idee espresse da Orazio nel suo Ars poetica; mentre,

24 Tra gli artisti che usarono questa stessa gamma cromatica si ricordano il Sodoma e i due principali

allievi di Gaudenzio Ferrari: Giulio Cesare Luini e Caravaggio Fermo Stella. Vedi Dacos 1969, pp. 86-90.

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invece, i testi chiave del dibattito artistico inglobavano anche il trattato di Vitruvio che nel 1521 vide la sua prima traduzione in italiano, divenendo accessibile ad un pubblico più vasto.

Mentre i letterati erano combattuti sulla necessità di seguire le regole della mimesis imposta dagli antichi piuttosto che soddisfare le richieste del pubblico25, nel caso delle grottesche, ci si trovò di fronte ad un dilemma: due indiscussi autori dell’Antichità, come Vitruvio e Orazio, sostenevano la funzione mimetica dell’arte ma, al contempo, era proprio quella stessa arte antica che fungeva da modello incontrastato per tutte le creazioni cinquecentesche che proponeva una decorazione anti-classica all’interno di celebri monumenti come la Domus Aurea, la Villa di Adriano e il Colosseo. Ovviamente, come è facile intuire, i sostenitori del mimetismo artistico facevano leva sull’autorità del testo vitruviano e di quello oraziano, mentre chi appoggiava l’uso delle grottesche faceva presente che queste avevano avuto origine proprio nell’Antichità e quindi costituivano un’apprezzabile fonte d’ispirazione.

Il poeta latino Orazio, durante il governo del primo imperatore Augusto, paragonò nell’Ars poetica la libertà compositiva del poeta a quella del pittore; tale passaggio venne in seguito citato sia dal Cennini26 che dal De Hollanda27 per avvalorare le loro idee a proposito dello status dell’artista.

Credo sia d’uopo specificare, invece, che Vitruvio scrisse il De Architectura nel I secolo d.C. e nel suo trattato criticava aspramente l’uso delle decorazione fantastica in voga all’epoca augustiana e di derivazione ellenistica. Il teorico latino auspicava ad un ritorno all’arte come imitazione della natura, ma le sue opinioni non vennero sempre seguite nemmeno nei periodi immediatamente successivi: in epoca neroniana tornò in auge questo tipo d’ornato ed ancora riapparve sotto il dominio adrianeo.

25

A questo proposito si ricordano, fra tante, le opinioni divergenti del Castelvetro e del Grazzini detto il Lasca per quel che concerne l’ambito critico italiano e le idee espresse da Cervantes e Lope de Vega per la critica spagnola. Vedi M. Carlson, Teorie del teatro, Il Mulino, Bologna, 1997.

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Vedi Cennini 2003.

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Vitruvio lamentava proprio le incongruenze che caratterizzano le grottesche: le strutture architettoniche sostenute da sottilissime colonne, gli ibridi animali e vegetali, gli equilibri precari, ecc.

Anche il Medioevo, pervaso dai pensieri religiosi di illustri filosofi come Sant’Agostino e San Bernardo da Chiaravalle, influì prepotentemente nel creare quell’associazione che vedeva la pittura, e l’arte in genere, come strumento utile per

delectare con lo scopo di docere e movere28. Le grottesche sono state spesso interpretate come puro divertimento, senza un fine educativo: in realtà, spesso avevano dei significati allegorici volti ad esaltare le virtù contro i vizi, perciò sarebbe scorretto affermare che siano totalmente prive di fini didascalici. Il problema risiedeva su “come proporre” tali insegnamenti: era ormai ben radicata l’idea di derivazione oraziana che fosse necessario seguire le regole del decoro e della convenienza e, tali regole, nei secoli, erano andate ad identificarsi con la mimèsi proposta da Aristotele.

Nonostante queste opinioni a favore di un’arte che imitasse la realtà, la decorazione a grottesche godette di grande fortuna nella prima metà del XVI secolo e solo con il Concilio di Trento la critica negativa ottenne maggiore attenzione; infatti, se le prime traduzioni con i relativi commentari del trattato vitruviano erano semplici trascrizioni delle parole usate dall’autore latino, quando fu la volta di Daniele Barbaro le cose assunsero un peso diverso.

Barbaro era un ecclesiastico, patriarca di Aquileia e rappresentante della Repubblica veneziana presso il Concilio, ed il suo commentario al De Achitectura del 1556 presentava una dura critica alle grottesche. Il pittore di tale ornato veniva paragonato ad un sofista che mescola il vero, con il falso ed il verosimile29.

28 I concetti di delectare e docere derivano dagli scritti di Cicerone e di Orazio, mentre movere è

un’aggiunta più tarda dovuta al Minturno.

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Sempre dall’ambito ecclesiastico scaturiscono altre riflessioni inerenti il decoro preso in esame nella presente tesi: è il caso, ad esempio, di Giovanni Andrea Gilio, nato a Fabriano, canonico di San Venanzio che dal 1579 si ritirò sull’eremo di Suavicino per divenire infine priore di San Domenico Loricato. Durante la sua vita, l’intellettuale fabrianese si dedicò intensamente allo studio delle cose più svariate che mise a frutto con la stesura di alcuni trattati tra i quali non potevano mancare delle considerazioni riguardo la pittura30.

Secondo il Gilio, in linea con le nuove istanze controriformistiche, il primato assoluto in pittura spetta ovviamente alle storie sacre del Vecchio e del Nuovo Testamento oltre a quelle agiografiche corrette ed epurate dalle fantasticherie medievali che erano andate ad inficiare l’attendibilità delle storie dei santi31. Nel dialogo dedicato ad Alessandro Farense ed intitolato Dialogo nel quale si ragiona

degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’istorie pubblicato nel 1564 egli sostiene

che la mancata conoscenza dei precetti oraziani abbia indotto gli artisti a credere che il poeta latino incoraggiasse alle creazioni fantastiche, mentre invece egli intendeva ῾che in tutte le cose si deggia servare l’ordine de la natura᾿32

. Mentre le metamorfosi presenti nella mitologia greco-romana, in quanto parte delle favole antiche, potevano essere autorizzate, non lo erano altrettanto i mostri in quanto non venivano menzionati in alcun testo antico33. Il teorico fabrianese, in particolare, indicava l’ibridazione di piante incompatibili tra loro come una follia da evitare di rappresentare; ma ciò che più colpisce è che, al contempo, proponeva le decorazioni delle Logge Vaticane quale supremo modello da imitare, nonostante in queste fossero presenti proprio quegli ibridi condannati dal Gilio34. Ma ciò che

30

Dizionario Biografico Treccani ad vocem Giovanni Andrea Gilio (a cura di) Michele di Monte, 2000.

31

Il Gilio fu tra i primi intellettuali ad interessarsi alla rimessa appunto del genere agiografico cattolico affinché questo potesse reggere il confronto con quello antipapale stabilito dai protestanti. In particolare, si ricorda La vita di Sant’ Atanasio patriarca di Alessandria del 1559, dove il santo viene proposto quale modello possibile di vescovo virtuoso. Ibidem.

32 Gilio 1564, p. 21. 33 Morel 1997, p. 118. 34

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contraddistingue la posizione dell’intellettuale fabrianese, malgrado il suo coinvolgimento nelle riforme tridentine, è la volontà di imporre delle limitazioni ma senza condannare completamente l’uso della decorazione a grottesche.

Una posizione più radicale, invece, fu presa dal cardinal Gabriele Paleotti che dedicò una parte importante del suo trattato, Discorso intorno alle imagini sacre et profane, per spiegare le ragioni controriformistiche secondo le quali le grottesche andavano abolite. Il cardinale bolognese, evidentemente, considerò la questione molto importante se vi dedicò ben sette capitoli della sua opera; in questi egli riprese tutte le disquisizioni fatte fino a quel momento sul tema, da Orazio e Vitruvio fino ai suoi giorni, e le commentò punto per punto. La novità apportata dal suo trattato rispetto ai precedenti consiste in una delle motivazioni che il cardinale attribuisce alla condanna delle grottesche, vale a dire, la loro origine legata agli antichi culti ctoni che, come tali, erano intesi come culti inquietanti e satanici35. Inoltre, in linea con le idee vitruviane secondo le quali la decorazione dev’essere attinente alla funzione del luogo, il Paleotti sosteneva che, essendo le grottesche costituite perlopiù da ibridi mostruosi, l’origine di tale ornamento dovesse intendersi come decoro preposto agli dèi degli inferi.

La Controriforma religiosa imponeva all’arte un ritorno alla funzione didattica; si riproponevano quindi problemi simili a quelli che erano sorti nel Medioevo e si discuteva della presunta dannosità dell’ornato fantastico e mostruoso presente nei luoghi sacri. Così come Bernardo da Chiaravalle condannava illa ridicula monstruosita’ presente nei capitelli e in altri elementi architettonici, allo stesso modo il Paleotti trova la decorazione a grottesche non idonea ai luoghi di culto cristiano ed appena accettabili in quelli profani. La sua avversione a questo tipo d’ornato risulta più chiara se si tiene conto dell’importante ruolo che giocavano le immagini nel Cinquecento; non solo venivano intese come vincolo della memoria, da cui la prolifica produzione di libri mnemotecnici che contraddistinse quel periodo, ma

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erano anche fondamentali per l’apprendimento. Il cardinal Paleotti sostenne nel suo trattato che le immagini erano da considerare superiori al testo scritto poiché rimangono impresse più facilmente nella memoria rispetto alle parole ed inoltre possono racchiudere in poco spazio ampi e difficili concetti che implicherebbero altrimenti molte pagine scritte. Quando però il Cardinale attua una distinzione tra le immagini naturali e quelle artificiali, costituite da imprese ed emblemi, comprendiamo meglio perché egli si opponeva con tanta energia alla decorazione a grottesche che, come è stato esposto nel paragrafo 2.3, comprendeva anche questi elementi tra i suoi componenti. Il Paleotti, infatti, era enormemente favorevole verso le immagini sacre che risultavano immediate ed istruivano i credenti, ma contrario all’uso di emblemi e imprese che necessitavano di un’interpretazione e quindi di un mediatore tra immagine e fruitore incolto36.

Fin ora abbiamo trattato brevemente dei teorici che si opponevano all’uso della decorazione a grottesche, ma tale decoro godette di grande fortuna anche grazie al sostegno di qualche illustre erudito, tra cui in primis Giorgio Vasari.

L’artista e teorico fiorentino con le Vite contribuì prepotentemente nel determinare presso i posteri la valutazione critica, sia positiva che negativa, di molti artisti. È probabile che anche la sua opinione sulle grottesche abbia giocato un ruolo importante nella querelle sorta attorno a questo ornamento. Il Vasari sosteneva che le grottesche erano valutate tanto più belle quanto più estrose; a dimostrazione che la creatività dell’artista era tenuta in considerazione come elemento di merito durante il Manierismo. Inoltre, il biografo fiorentino, quale artista lui stesso, pone in rilievo l’utilità di questa decorazione sottolineando che è perfetta per ornare quelle parti architettoniche “scomode” per le quali altrimenti sarebbe difficile trovare un altro tipo di decoro adatto37.

A Pirro Ligorio dobbiamo invece lo spostamento d’interesse verso i significati nascosti contenuti nella decorazione a grottesche. L’erudito napoletano, che fu anche

36

Galassi 2012, pp. XIX-XXI.

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celebre architetto durante il papato di Paolo Carafa e successivamente durante quello di Pio IV, aveva conoscenze approfondite delle antichità romane38 e scrisse il Libro

dell’Antichità elaborato verso il 1570 che, però, non venne mai pubblicato ed ancor

oggi è noto perlopiù grazie al suo manoscritto autografo che si conserva nella Biblioteca di Torino. All’interno di questa sorta di enciclopedia egli dedica un articolo alle grottesche nel quale sostiene che la gente comune non riesce ad apprezzare quest’ornamento poiché ai loro occhi sembra solo frutto delle sfrenata fantasia dell’artista, mentre invece gli elementi che lo compongono non sono casuali bensì sono simboli ricchi di significato. Ligorio attribuisce all’ignoranza dei fruitori il mancato riconoscimento dei riferimenti mitologici antichi e di quelli derivanti dalle favole di Esopo; inoltre, dà un’interpretazione dei miti greco-romani in chiave moralizzante, sostenendo che le grottesche con le sue allegorie possano essere intese come una pittura che tratta di insegnamenti sopra i vizi e le virtù tale essere decifrata solo da pochi eruditi. L’architetto napoletano, quindi, lamenta che alcuni artisti contemporanei dipingano grottesche senza conoscerne i reali contenuti simbolici, rendendo vana la funzione primaria di tale ornamento.

Ligorio, inoltre, fornisce una ricca serie di spiegazioni inerenti i significati allegorici specifici di ogni storia mitologica, persino di ogni animale, delle antiche pitture romane e di quelle cinquecentesche che vengono poste sullo stesso piano ed interpretate alla stessa maniera. Ad ogni mito e ad ogni elemento egli attribuisce un senso spesso frutto della sua cultura rinascimentale, quindi senza quel distacco scientifico tipico dell’archeologo odierno; secondo l’erudito napoletano tutte le grottesche nascondono significati profondi desunti dai pensieri di quei filosofi antichi che si sono distinti per il loro interesse verso le metamorfosi, in particolare: Empedocle, Esopo e Pitagora.

In linea con il pensiero di Ligorio, Giovan Paolo Lomazzo sostenne che le grottesche, sotto l’apparenza fantastica, nascondevano significati profondi espressi in

38 Si ricorda che Ligorio divenne “antiquario” a Ferrara nel 1568, occupando il posto che prima era di

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geroglifici. Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, il teorico milanese espose delle idee simili a quelle di Ligorio, tanto che alcuni studiosi credettero si potesse trattare di un’influenza degli scritti dell’architetto napoletano su quelli di Lomazzo, ma tale ipotesi appare improbabile dato che, come precedentemente accennato, il

Libro dell’Antichità rimase inedito.

Nonostante i tentativi di alcuni teorici di difendere la decorazione a grottesche, questa venne progressivamente svuotata di contenuti e relegata alla mera funzione di riempitivo: tale effetto si ebbe soprattutto a causa della condanna esercitata dal Concilio di Trento. La Toscana e l’Emilia furono le ultime ad abbandonarne l’uso, ma già il XVII secolo vide delle grottesche ripetitive e spesso composte da una struttura molto semplificata rispetto a quelle del secolo precedente. Nel Settecento, il Milizia non solo condannò l’uso delle grottesche, ma scrisse persino che Raffaello (anche Raffaello dormì) ne insalsicciò le logge Vaticane, ora tanto promosse a dispetto di Vitruvio, e del senso comune.’ Solo con il Neoclassicismo la critica verso questo ornamento tornò ad essere più positiva.

4.3 Giovan Paolo Lomazzo

All’interno del dibattito critico suscitato dalla decorazione a grottesche Giovan Paolo Lomazzo prese una posizione di difesa.

Il pittore milanese, infatti, scrisse dei trattati grazie ai quali ancor oggi è noto, dato che la cecità che sopraggiunse a soli trentatré anni gli impedì di diventare celebre per i suoi dipinti. Prima di addentrarci in una breve analisi delle idee di Lomazzo sulle grottesche è bene premettere alcune precisazioni biografiche, inerenti l’artista e teorico, affinché ci aiutino a comprendere meglio il suo punto di vista.

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Lomazzo è un artista formatosi in ambiente lombardo e, pertanto, il suo stile era improntato su quello di Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari. Un artista, il Lomazzo, imbevuto di cultura umanistica che visse durante la dominazione spagnola e che vide a capo delle maggiori accademie locali degli stranieri che imponevano delle linee guide che si discostavano da quelle che avrebbe desiderato. A causa di questa mal sopportata dominazione nacque l’Accademia della Val del Bregno nel 1560, composta da artisti e intellettuali che si opponevano alle accademie “ufficiali”. Tale accademia aveva scelto provocatoriamente come modello ideale lo stereotipo del portatore di vino, un provincialotto dal comportamento rude e grezzo che si esprime per lo più in dialetto. Per quel che concerne il tema della tesi, però, è interessante notare che l’Accademia, oltre ad eleggere come idiomi privilegiati quelli di koiné, era anche imbevuta di cultura magico-esoterica. Questo aspetto “mistico” appare anche nelle idee che si sviluppano nei trattati di Lomazzo, il quale non solo partecipò attivamente alla vita di questa Accademia, bensì ne divenne persino abate nel 1568. Tale propensione all’esoterismo si espresse anche a riguardo del tema principale di questa tesi: come è stato già esposto nei paragrafi 2.2 e 2.3, Lomazzo nel Discorso intorno al sileno (1568) sosteneva che le grottesche dovessero intendersi come un linguaggio poetico che, tramite la ricca iconografia che gli pertiene, meraviglia e stupisce il suo lettore-fruitore; per questa ragione l’autore auspica che la decorazione sia il più possibile piena di imprese ed emblemi, con lo scopo d’aggiungere una più alta densità di significati39

.

Gli scritti principali di cui fu autore sono: il Libro dei Sogni (1563) che rimase un manoscritto incompiuto, il Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura pubblicato nel 1584 e che . Von Schlosser definirà la Bibbia del Manierismo’40,

Rime ad imitazione dei grotteschi (1587) e Rabisch (1589) che sono entrambi

poemi, L’idea del Tempio di Pittura (1590) e Della forma delle muse (1591).

39

Morel 1997, p. 67.

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Il Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura e L’idea del Tempio di

Pittura nacquero insieme e, solo in un secondo momento, vennero scisse dando

origine a due opere autonome. Gli argomenti trattati in questi due libri, quindi, sono spesso comuni e la decorazione a grottesche è un argomento che compare sia nell’opera del 1584 che in quella del 1590. Nel primo libro Lomazzo sottolinea la capacità di questo ornamento di rappresentare un’incredibile molteplicità di concetti. Inoltre, viene specificato che a guidare la creazione di grottesche devono esserci due principi basilari: la “bizzaria”, vale a dire la capacità di sorprendere e meravigliare il fruitore con nuove invenzioni figurative; e l’ “arte”, cioè l’armonia stabilita entro una composizione che fa sì che si percepisca un senso d’equilibrio e di ordine nell’opera41

.

Successivamente, si pone il problema di difendere le grottesche dagli attacchi di altri teorici contemporanei. In particolare, Lomazzo, insorse contro le critiche del cardinal Barbaro che aveva definito le grottesche “sogni e capricci dell’artista”; se fossero stati tali, sosteneva il pittore milanese, sarebbero stati realmente condannabili, ma lui, in pieno accordo con Pirro Ligorio, patrocinava l’idea che questa decorazione sotto una parvenza di superficiale divertissement nascondesse profondi significati che solo pochi intellettuali sapevano cogliere e interpretare42.

Le critiche di sovente vertevano sulla eccessiva antimimeticità di questa decorazione; a questo proposito, Lomazzo, sceglie di rivalorizzare i caratteri più verosimili delle componenti delle grottesche affinché questo ornamento risulti un accettabile compromesso tra mimesis aristotelica, decorum controrifrormistico e amore per il capriccio manierista. Quindi, per soddisfare quest’esigenza, Lomazzo sostiene che, non solo i racemi vegetali dovrebbero seguire i dettami delle regole di verosimiglianza, ma persino l’eterogenea iconografia che l’arricchisce dovrebbe rispettare la reciproca proporzione, evitando i “fanciulli più grandi de gl’uomini”

41

Martinelli 1992, p. 44.

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oppure “uccelli più grossi dei leoni” o ancora “pesci senz’acqua nell’aria”43. Oggigiorno sembra paradossale cercare di giustificare la decorazione a grottesche tentando di valorizzarne gli aspetti mimetici; ma è importante ricordare in quale contesto storico Lomazzo scrisse i suoi trattati.

Innanzi tutto, il nostro autore scriveva pensando alle grottesche più “classicistiche” dell’atelier di Raffaello; sebbene infatti i suoi trattati sono degli anni ’90 del XVI secolo, il pittore aveva iniziato a perdere la vista già attorno al 1570 ed è noto che era diventato totalmente cieco nel 1572, perciò le sue esperienze visive si riferiscono obbligatoriamente ad un periodo anteriore a questa data. Inoltre, come è già stato sottolineato nel precedente paragrafo, la necessità di seguire la regola della verosimiglianza permeava tutta la critica del XVI secolo, non solo quella pittorica, ma anche quella letteraria e teatrale. Questa regola, secondo la quale artisti, scrittori e drammaturghi dovevano rappresentare o descrivere solo cose reali o possibili, imponeva delle scelte particolari; ad esempio, si consigliava di evitare la rappresentazione di battaglie e scene cruente in una tragedia data l’impossibilità di ricrearle in modo attendibile, oppure si auspicava l’eliminazione delle rappresentazioni di eventi soprannaturali a meno che non fossero giustificate dalla mitologia classica o dalla Bibbia. Questa critica fiorente nel XVI secolo voleva stabilire delle regole che in realtà non vennero sempre seguite dagli artisti, né dagli scrittori, né tanto meno dai drammaturghi44.

Per quel che concerne L’idea del Tempio di Pittura, invece, vediamo che ha una particolare struttura, ripresa da quella dei trattati mnemonici. In quest’opera, infatti, Lomazzo conduce i suoi lettori attraverso un tempio immaginario contenente tutti i

43Queste citazioni sono tratte da G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et

architettura (1584), in “Scritti sulle arti”, a cura di P. Ciardi, Firenze 1973, vol. II, pp. 367.

44 Basti pensare alle più celebri commedie e tragedie del XVI secolo per rendersi facilmente conto che

tali idee teoriche spesso non venivano rispettate. La necessità di stabilire delle norme era tanto sentita che durante il XVI secolo si formularono le cosiddette regole aristoteliche che, nonostante il nome induca a pensare altrimenti, non erano state formulate dal filosofo greco, sono: l’ unità d’azione, tempo e luogo. In realtà, solo della prima Aristotele parla ampiamente all’interno del suo trattato, della seconda c’è solo un accenno e della terza regola non v’è neppure traccia.

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saperi inerenti l’arte pittorica e “visualizzabili” sotto forma di statue rappresentanti i sette artisti principali (secondo il giudizio dell’autore), i quali riassumono in sé tutte le caratteristiche di un determinato stile pittorico. Il profondo legame con l’astrologia e il misticismo a cui si è sopra accennato è nuovamente evidente nelle connotazioni che Lomazzo attribuisce ad ogni statua-artista influenzato da un pianeta che ne determina il carattere e, conseguentemente, lo stile pittorico.

Anche in questo trattato l’artista e teorico milanese fa numerosi riferimenti alle grottesche ma, ora, non per difenderle, bensì per spiegarne il ruolo nell’arte pittorica. Un primo accenno compare a proposito della statua di ferro di Polidoro da Caravaggio, posto sotto la protezione del dio Marte; l’autore loda l’artista per la sua capacità d’inventar grottesche con tanta “facilità” che nessuno gli era rivale. Successivamente, passa a ricordare che tale decorazione si è sviluppata studiando le pitture antiche della Domus Aurea e che quest’ultime sono giunte fino ai suoi tempi così ben conservate solo perché i pittori romani usarono la tecnica ad affresco per realizzarle. Lomazzo, dopo essersi dilungato in disquisizioni sulla resistenza degli affreschi nel tempo e in tanti altri argomenti concatenati fra loro, nel ventiquattresimo capitolo, quando tratta dell’aspetto più pratico della pittura, spiega che la “composizione” secondo lui è suddivisa in sette parti. È interessante notare come le grottesche vengano poste dall’autore nella quinta categoria: la composizione funzionale. Tale parte, secondo Lomazzo, provvede di decorazioni utili per adornare le architetture e, non a caso, le grottesche si trovano assieme a “fregi”, “mostri”, “ritratti”, ecc. Nel capitolo successivo, l’autore elenca le otto forme rappresentabili in pittura: anatomiche (uomini e animali), contemplative (santi, angeli), significative (i quattro elementi, i segni zodiacali), naturalmente visibili (paesaggi, mari, fiumi), immaginabili (dèi pagani, ninfe e satiri), fabbricate (architetture antiche e moderne), spirituali (diavoli, Lucifero, Caronte), accidentali (fulmini, saette, fuochi e comete). Le grottesche appartengono alle cosiddette “invenzioni fantastiche” ma, tra queste, è l’unica che può contenere tutte le forme sopraccitate in in sé. Sebbene infatti Lomazzo affermi che anche il fogliame ornamentale, i fregi e i trofei siano anch’essi

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“invenzioni fantastiche”, solo le grottesche possono inglobare animali, uomini, santi, paesaggi, divinità, templi, ecc45.

Concludo sottolineando la stretto rapporto che il pittore milanese aveva individuato tra la decorazione a grottesche e la poesia; tale legame, in realtà, era già stato messo in evidenza da Orazio, ma l’artista cinquecentesco per dimostrare la validità della sua tesi scrisse persino due poemi, Rime ad imitazione dei grotteschi e Rabisch, i quali, come si intuisce dai titoli, sono esperimenti poetici nei quali i versi che cercano di riprodurre la libertà compositiva delle grottesche. L’antica gerarchizzazione delle arti esigeva, semmai, il contrario: la pittura che imita la poesia. Quello che opera Lomazzo è, perciò, un totale ribaltamento che gli permette di esprimersi in poesia con la stessa varietà e bizzarria che connotano anche le grottesche46.

45

Chai 2013, pp. 97-105.

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