• Non ci sono risultati.

1.1 Il biofouling 1 INTRODUZIONE

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "1.1 Il biofouling 1 INTRODUZIONE"

Copied!
23
0
0

Testo completo

(1)

1

1 INTRODUZIONE

1.1

Il biofouling

Con il termine fouling si intende quel fenomeno ormai noto che riguarda tutte le superfici immerse in acqua, che porta alla formazione di uno strato incrostante, dovuto all’accumulo e al deposito di sostanze inerti di origine sia organica che inorganica e all’insediamento di organismi viventi, animali e vegetali, sia unicellulari che pluricellulari, il quale, nello specifico, prende il nome di biofouling. La presenza di questo strato incrostante fa sì che il piano in questione subisca modificazioni nelle sue caratteristiche superficiali, quali rugosità e resistenza a sforzi di taglio,con conseguente perdita di efficacia nell’utilizzo (Matin et al., 2011).

Tale fenomeno è particolarmente evidente in mare, dato che qualsiasi oggetto immerso, come carene di navi, tubi di impianti industriali, griglie di ricircolo, gabbie per acquacoltura, reti da pesca ed altre strutture quali piattaforme offshore e ponti, è sottoposto alla formazione dello strato di fouling. Le carene delle imbarcazioni risentono particolarmente di questo fenomeno in quanto l’accumulo di organismi sulla superficie può causare diversi inconvenienti (Brady, 2000). La resistenza al movimento dovuto alle modifiche delle caratteristiche idrodinamiche del natante causata da una maggiore ruvidità dello scafo, ad esempio, porta ad un incremento dell’attrito con l’acqua con conseguente riduzione della velocità e della manovrabilità dell’imbarcazione (Characklis e Marshall 1990). La conseguenza diretta risulta essere un incremento nel consumo di carburante fino al 40%, che genera un aumento delle emissioni nel comparto ambientale e dei costi che possono superare anche il 77% (Study of Greenhouse Gas Emissions from Ships; International Maritime Organization, 2000). La formazione del fouling può inoltre causare un deterioramento del coating che favorisce la corrosione, la perdita di colore e l’alterazione della conduttività elettrica del materiale di cui è composto lo scafo. Si rende necessario pertanto trovare dei rimedi economicamente sostenibili che uniscano all’efficienza la compatibilità ambientale.

(2)

2

In base alle dimensioni degli organismi, viene fatta una divisione in microfouling o biofilm e macrofouling, il cui limite è normalmente 2mm, anche se può variare a seconda degli organismi osservati.

Il microfouling

Il microfouling, chiamato comunemente anche biofilm, si compone generalmente di organismi di dimensioni inferiori a 2 mm che aderiscono sul substrato generando le condizioni ideali per l’intera successione ecologica. Questo accade perché in ambienti naturali, i microrganismi tendono a non rimanere singole cellule isolate ma ad organizzarsi in vere e proprie comunità (films, flocculati e fanghi biologici), distribuendosi in maniera ubiquitaria, sia in ambiente terrestre che in ambiente acquatico. Questi aggregati crescono colonizzando qualsiasi tipo di superficie a disposizione, sia naturale che artificiale, adattandosi a condizioni ambientali anche estreme. Il biofilm marino può essere definito come una matrice organica, formata da biopolimeri poco solubili in acqua, nella quale gli organismi vivono, si riproducono e si succedono nel tempo entrando in competizione fino a stabilire, in un equilibrio dinamico, uno strato biologico che ricopre la superficie (Fig. 1.1). Un biofilm maturo contiene una popolazione mista di organismi che possono organizzarsi in strutture estremamente eterogenee e dinamiche che vengono rimodellate da forze idrodinamiche e dall’attività di grazing dei protozoi (Keevil e Walker, 1992; Costerton et al., 1995).

Fig. 1.1 - Immagini al SEM di alcuni microrganismi presenti in un biofilm marino (a: batteri, b: funghi, c: diatomee, d: protozoi) (Relini, 2003).

(3)

3

Ovviamente la struttura e la composizione specifica di un biofilm dipendono anche dalle caratteristiche di superficie del substrato (Taylor et al., 1994), oltre che dalle condizioni ambientali e dalla regione geografica.

Lo sviluppo del biofilm in ambiente acquatico prevede una prima fase di adsorbimento di molecole organiche su di una superficie, seguito poi dall’adesione, colonizzazione, accumulo ed infine dispersione della componente microrganismica (Fig. 1.2). Tali fasi possono essere modulate da numerosi fattori biologici, fisico-chimici ed ambientali.

Fig. 1.2- Modello di sviluppo del biofilm in 4 distinte fasi: adesione, colonizzazione, crescita e climax. Nella fase climax il biofilm è caratterizzato da un reticolo intricato entro il quale si sviluppano i microrganismi formando cluster o micro colonie separate da vuoti interstiziali.

Le fasi fondamentali dello sviluppo del biofilm sono state descritte in modo approfondito da Hamilton e Characklis (1989): trasporto di molecole organiche e cellule sulla superficie, condizionamento della superficie mediante adsorbimento delle molecole organiche, facilitazione all’adesione di cellule, crescita e un aumento della produzione di sostanze polimeriche extracellulari (EPS). La capacità di attecchimento di microrganismi su una superficie dipende in particolare dalle proprietà della superficie stessa, dallo stato fisiologico dei microrganismi e dalle condizioni idrodinamiche dell’ambiente in corrispondenza della superficie.

La produzione di sostanze polimeriche extracellulari (EPS: polisaccaridi, proteine, acidi nucleici e fosfolipidi) è responsabile delle forze coesive che permettono la formazione della tipica struttura tridimensionale del biofilm. In generale il 60-90% della materia

(4)

4

organica di un biofilm è costituita proprio dalle EPS. La capacità di produrre EPS non è esclusiva dei batteri ma è stata evidenziata anche in numerose alghe e funghi.

La crescita e l’accumulo di biofilms all’interfaccia solido-liquido è un evento che una volta innescato procede in modo quasi logaritmico, seguendo una tipica curva di crescita di popolazione, la curva “k”, una curva sigmoide (Fig. 1.3) che individua tre fasi (Characklis, 1990):

• fase di induzione;

• fase di crescita esponenziale, che prosegue fino a raggiungere un plateau (struttura finale stabile e costante all’interno di oscillazioni regolari);

• fase pseudostazionaria.

Fig. 1.3 - Schematizzazione della curva di crescita del biofilm.

La formazione del biofilm genera solitamente le condizioni favorevoli per lo sviluppo del macrofouling che continua così il processo di colonizzazione della superficie. Tuttavia alcuni biofilms batterici mostrano un elevato effetto inibente nei confronti dell’insediamento di molti organismi del macrofouling che ha spinto diversi autori (De Nys e Steinberg, 2002) ad ipotizzare l’impiego delle sostanze prodotte da tali batteri come sostanze a potenziale azione antifouling.

(5)

5

Ad ogni modo, per le specie che passano dalla fase larvale planctonica a quella di adulti sessili, la scelta del substrato su cui insediarsi diventa fondamentale per la determinazione della sopravvivenza.

La fase di esplorazione del substrato, da parte delle larve, è mediata da una serie complessa di interazioni tra numerosi fattori ambientali sia biotici che abiotici. Entrano così in gioco stimoli chimico-fisici, natura del substrato, luce, temperatura, disponibilità di alimento e presenza di conspecifici, che modificano e regolano i comportamenti larvali di esplorazione ed insediamento di un ampio range di invertebrati marini (Pawlik, 1992; Wieczorek e Todd, 1998; Qian, 1999). In letteratura sembrano esistere pareri contrastanti riguardo al ruolo stimolatorio-inibitorio del biofilm durante il processo di insediamento larvale. La letteratura spesso considera separatamente gli effetti delle proprietà chimico-fisiche del substrato da quelli generati dalla presenza e dallo sviluppo del biofilm. Solo pochi autori (O’Connor e Richardson, 1994, 1996) hanno considerato l’interazione tra questi fattori durante le prime fasi di colonizzazione da parte di macroinvertebrati, sottolineando come l’effetto (negativo, neutro o positivo) del biofilm sull’insediamento larvale, possa dipendere anche dal tipo di substrato in esame.

L’insieme delle interazioni tra fattori biotici (larve e biofilm) ed abiotici (substrato) sono inoltre da considerarsi sottoposte ad altri numerosi fattori chimici, fisici ed ambientali presenti sul campo (Fig. 1.4).

Fig. 1.4- Modello preliminare di interazioni tra larva, biofilm e substrato durante il processo di insediamento (da Faimali et al., 2003).

(6)

6

Le proprietà chimico-fisiche del substrato (interazione larva-substrato) e del biofilm (interazioni larva-biofilm), che agiscono direttamente sull’insediamento larvale (S, B), possono essere modificate da una serie complessa di reciproche interazioni (interazioni substrato-biofilm). Contemporaneamente numerosi fattori ambientali influiscono sull’insediamento larvale.

Queste interferenze dovute, per esempio, alla presenza di molecole segnale da parte di conspecifici o sostanze, anche tossiche, presenti nel sistema naturale che potrebbero essere assorbite dalle EPS prodotte dal biofilm (Decho, 1990), sono in grado di modificare le proprietà chimico-fisiche di superficie alterando l’effetto di interazione tra il substrato e le larve.

Il macrofouling

Il macrofouling si compone invece di organismi di dimensioni superiori a 2 mm, generalmente osservabili ad occhio nudo su ogni superficie immersa in acqua. Solitamente sono proprio tali organismi a causare la maggior parte degli inconvenienti legati alla formazione del biofouling che ha reso necessario trovare rimedi di carattere pratico legati alla prevenzione dell’insediamento (sistemi antifouling). Tuttavia, anche se molti studi, soprattutto storici, sul macrofouling si sono posti come finalità quella di stabilire la composizione e l’evoluzione temporale del popolamento, essi non si limitano solamente alla conoscenza delle successioni ecologiche.

I pannelli, utilizzati per poter rimuovere facilmente senza danneggiare gli habitat circostanti gli organismi del fouling, sono stati ampiamente usati per gli studi di base dei popolamenti sessili sia in ambienti mediolitorali che sublitorali. Ad esempio alcuni studi si sono focalizzati sui fattori di competizione e disturbo ed hanno esaminato come questi influenzano le interazioni tra taxa e stabilità del popolamento (Osman, 1978; Sutherland e Karlson, 1974; Dean e Hurd, 1980; Ayling, 1981; Russ 1982; Kay e Butler, 1983; Butler, 1991). Tali studi hanno condotto a numerose descrizioni delle dinamiche dei popolamenti sessili distribuiti a patch, sia animali (Butler e Chesson, 1990) che vegetali (Kennelly e Underwood, 1993).

(7)

7

Importanti contributi sono stati inoltre forniti dallo studio del macrofouling per la determinazione dei periodi di insediamento larvale e l’analisi delle prime fasi del ciclo vitale di numerose specie.

Dagli anni ‘50 sono state identificate a livello mondiale oltre 4000 specie facenti parte del macrofouling, (Crisp, 1972), numero non sorprendente se si tiene conto che, in rapporto alle condizioni ecologiche di un sito, quasi tutti gli organismi bentonici sono potenzialmente componenti del fouling.

Secondo Pérès (1961) i popolamenti portuali presentano una notevole omogeneità su scala mondiale, con una dominanza di organismi animali; essi sono spesso costituiti da specie molto tolleranti nei riguardi dei fattori ambientali. Allo stock fondamentale delle specie cosmopolite caratteristiche, nitrofile, eurialine, euriecie ed euriterme, si aggiunge un numero più o meno importante di specie tolleranti, proprie della provincia biogeografica nella quale si trova il porto in esame.

Il contingente di specie che può essere considerato tipico del macrofouling portuale Mediterraneo, ed in particolare delle acque italiane, sulla base dei dati di letteratura (Rellini 1980a) è riportato di seguito (Tab. 1.1): si tratta di una quarantina di specie animali, prevalentemente sessili, ed una decina di vegetali. In relazione alla componente vegetale è opportuno ricordare che non tutti gli autori sono d’accordo sulla scarsità di specie algali nelle acque portuali (Belsher e Boudouresque, 1976).

Almeno entro certi limiti, tanto più grande ed antropizzato è un porto, tanto maggiore è la possibilità di rinvenire il popolamento tipico delle acque portuali, ma è anche tanto più facile assistere ad una riduzione del numero di specie e ad un incremento del numero di individui di quelle più resistenti.

(8)

8

Tab.1.1 – Elenco delle principali specie del macrofouling dei porti italiani (da Relini 1980a; nomenclatura aggiornata)

Dallo studio del porto di Genova e di altri dieci porti della riviera di ponente risulta che l’insieme di organismi sessili del fouling meglio adattati ad acque inquinate (in particolare a scarichi urbani) sono: Balanus amphitrite, Hydroides elegans, Ciona

intestinalis, Botryllus schlosseri, Bugula stolonifera, e secondariamente Balanus eburneus, Bugula neritina e Tubularia crocea (Relini 1969).

Questi organismi sono molto resistenti e pertanto la loro scomparsa all’interno di zone inquinate è indice della gravità dello stato di alterazione dell’ambiente (Relini et al., 1972).

(9)

9

Le sequenze di formazione di una comunità possono essere catalogate in diverse tipologie: temporale, cioè legata alla durata dell’ immersione del substrato (Fig. 1.5), stagionale, oppure una successione biotica a più lungo termine.

La sequenza stagionale è in relazione ai diversi periodi di riproduzione ed insediamento degli organismi e si manifesta in modo tanto più netto quanto più le stagioni sono fra di loro differenziate.

Fig. 1.5 - Schematizzazione della sequenza di colonizzazione che porta alla formazione del biofouling. Il pressoché istantaneo adsorbimento di macromolecole è seguito, dopo diverse ore, dal fouling procariotico. Diatomee e protozoi tipicamente si insediano a partire dal secondo giorno di immersione. Seguono larve e spore algali dopo un intervallo da una a diverse settimane (a seconda di latitudine, stagione, etc.) (Wahl, 1989).

Sui periodi di insediamento del fouling nei porti italiani, anche in relazione al tipo di substrato ed alla profondità, esistono molti dati (Relini, 1980b); generalizzando si può affermare che l’insediamento più intenso avviene nel periodo estivo e negli strati superficiali. Nell’ambito di uno stesso gruppo sistematico, le diverse specie possono presentare differenti livelli di profondità preferenziali per l’insediamento, che possono anche variare nel tempo.

Persoone (1971), in base agli studi fatti nel porto di Ostenda (Belgio), riconosce tre fasi nello stadio iniziale di colonizzazione:

a) film primario: si forma nei primi giorni di immersione delle superfici ed è costituito unicamente da batteri e detrito;

b) ricoprimento primario: si costituisce intorno ai quindici giorni e comprende, oltre ai batteri e al detrito, in inverno protozoi e diatomee, in primavera ed estate ciliati peritrichi seguiti da balani, policheti tubicoli, copepodi arpacticoidi e nematodi;

(10)

10

c) ricoprimento secondario: si forma dopo il primo mese di immersione ed è caratterizzato dalla presenza di Balanus improvisus, Balanus crenatus, Balanus

perforatus, Polydora ciliata, Fabricia sabella, Nereis virens, Neanthes succinea, Mytilus edulis.

Nell’ambito di una ricerca svolta nel vecchio porto di Genova è stato possibile confermare che il macrofouling formatosi mensilmente negli ambienti portuali a diverso tipo e grado di inquinamento presenta una diversa composizione del popolamento ed in particolare risulta più povero di specie quanto più intenso è l’inquinamento (Mor et al., 1970; Relini et al., 1975).

Inoltre, si può affermare, anche se sulla base di dati preliminari, che in due ambienti diversamente inquinati sono differenti i ricoprimenti secondario e primario, ed anche il film primario. Il tempo necessario per la formazione del film primario, del ricoprimento primario e di quello secondario varia con la stagione (quindi con il momento iniziale di esposizione del substrato) e con l’ambiente e quindi non sempre è possibile definire la durata di queste fasi (Bonadonna, 2008).

1.2

Sistemi anti-fouling cenni storici

L’utilizzo di metodi anti-fouling risale a tempi molto antichi (Yebra et al., 2004): già i Fenici e i Cartaginesi usavano ricoprire le loro imbarcazioni con guaine di pece, altre civiltà utilizzavano invece cere, pelli e grassi animali. Nei secoli la tecnologia ha permesso di utilizzare metodi sempre più avanzati fino ad arrivare ad oggi, dove, l’interesse sia per l’efficacia delle vernici stesse che per un maggiore rispetto e conservazione dell’ambiente in cui viviamo ha permesso di scoprire metodi sempre più efficaci ed ecosostenibili.

Il rame è stato fin dagli inizi al centro delle più utilizzate tecniche antivegetative, tanto che, a partire dal 1780, l’Inghilterra proibì l’esportazione di questo importante “materiale da guerra”, la cui dissoluzione in acqua, in anni successivi, fu dimostrato essere proprio la soluzione alla formazione delle incrostazioni sugli scafi delle navi.

(11)

11

In seguito all’introduzione delle navi in ferro, a causa degli effetti corrosivi che il rame aveva sugli scafi fu inizialmente sostituito con guaine in piombo, nichel, arsenico, ferro zincato e leghe di antimonio, zinco e stagno.

Importanti progressi nel campo degli antivegetativi avvennero nell’Ottocento, quando iniziò la produzione di un ampia varietà di vernici che avevano come principio d’azione il rilascio di una sostanza tossica da un veicolo polimerico. I principali solventi utilizzati sono stati trementina, nafta e benzene, come leganti, tra i più diffusi, ricordiamo l’olio di lino, la gomma lacca, il catrame e vari tipi di resine, mentre i più popolari prodotti antivegetativi divennero l’ossido di rame, l’arsenico e il mercurio.

Alla fine del diciannovesimo secolo furono introdotte altri due tipi di vernici: le “hot plastic paint” e le “cold plastic paint”. Le prime venivano applicate su una prima mano di anticorrosivo oppure su uno strato di vernice di composizione simile ma priva della sostanza tossica. Richiedevano, tuttavia, costi elevati e presentavano una relativa efficacia e durata delle coperture, senza considerare la difficoltà di applicazione che rendeva necessaria la presenza di impianti di riscaldamento nelle vicinanze dell’imbarcazione. Vennero così sostituite dalle “cold plastic paint” più pratiche ed efficaci nel combattere il fouling.

La vera rivoluzione si ebbe dopo la Seconda Guerra Mondiale quando comparvero i primi composti organostannici e si ebbero importanti innovazioni quali l’invenzione della spruzzatura airless e la sintesi di nuove resine derivanti dal petrolio.

I composti organostannici apparvero come la soluzione definitiva ai problemi dovuti al fouling: erano costituiti da un atomo di stagno legato covalentemente a sostituenti organici che andavano da 1 a 4, rappresentati dalla formula:

R

n

SnX

(4-n)

dove n è compreso tra 1 e 4, R rappresenta un gruppo alchilico o arilico e X la specie anionica che poteva essere un alogenuro, un ossido o un gruppo idrossido. In condizioni ambientali quali presenza di acqua, ossigeno atmosferico e a temperature fino a 200°C, i legami restano stabili, mentre in presenza di radiazioni UV e γ, acidi forti e agenti elettrofili è possibile avere una degradazione dei composti organostannici tramite una

(12)

12

progressiva rimozione dei gruppi organici, che ne diminuisce la tossicità. Gruppi trisostituiti risultano quindi più tossici di gruppi di e monosostituiti: il tributilstagno (TBT), la cui formula chimica è (C4H9)3Sn+ risulta uno tra i più tossici organostannici

trisostituiti sintetizzati, introdotti dall’uomo nell’ambiente marino (Goldberg 1986).

Le eccellenti proprietà antivegetative fecero del TBT il protagonista indiscusso, a partire dagli anni ’60, della produzione di sistemi antifouling. Inizialmente fu impiegato come tossico di supporto nelle vernici a base di rame, in questo caso era contenuto in forma libera (“free-association form”). Successivamente, in base alle caratteristiche chimiche del ligando e al grado di solubilità in acqua, ha dato origine a due nuove categorie di vernici antifouling, le “insoluble matrix paint”, in cui il biocida è legato ad una matrice polimerica insolubile in acqua, dove il pigmento tossico presenta un elevata concentrazione in volume, e le “soluble matrix paint” in cui è prevista la presenza di un legante la cui dissoluzione in acqua di mare permette sia il graduale rilascio dell’agente biocida che lo sfruttamento dell’intero strato di vernice.

Nelle prime l’alta concentrazione in volume del biocida garantisce il contatto tra le particelle favorendo la formazione di una superficie porosa che fa si che l’acqua di mare possa penetrare ulteriormente, incrementando la dissoluzione del biocida. Con l’andare del tempo, tuttavia, il tasso di rilascio decade al di sotto del valore soglia richiesto per prevenire il fenomeno del biofouling dato che il pigmento deve attraversare uno spessore di coating sempre maggiore. Questo fa si che le navi che utilizzano vernici a matrice insolubile siano meno frequentemente soggette ad operazioni di carenaggio, dato che l’inerzia dei polimeri utilizzati come leganti si oppone maggiormente a fenomeni di ossidazione e foto-ossidazione, in questo caso l’azione biocida tende ad avere una durata relativamente breve (12-24 mesi).

D’altro canto le vernici a matrice solubile, presentano un elevata sensibilità dei leganti all’inquinamento da idrocarburi e all’ossidazione, per cui è opportuno che le imbarcazioni siano rimesse in acqua per evitare l’ossidazione a contatto con l’atmosfera. La bassa attività del biocida in condizioni stazionarie rende inoltre queste vernici abbastanza inefficaci su navi a bassa velocità o che rimangono inattive per periodi relativamente lunghi. (Almeida et al., 2007)

(13)

13

La vera rivoluzione nel campo delle antivegetative si ebbe nel 1974 quando Milne e Halis brevettarono il TBT-SPC (TBT self-polishing copolymer) in cui la vernice è costituita da una matrice polimerica acrilica idrofoba in cui il TBT viene incorporato tramite legami estere. Dato che il carbossile-TBT è idroliticamente instabile in condizioni leggermente alcaline, quali quelle dell’acqua di mare, si ha una lenta reazione di idrolisi che libera la frazione di TBT dal copolimero. In questo modo il rilascio del biocida avviene per idrolisi sulla superficie di contatto (Fig.1.6). Si ha quindi un rilascio controllato ed uniforme del principio attivo che rende possibile l’utilizzo dell’intero strato applicato.

Fig. 1.6 – Self Polishing Copoymer System: a contatto con l’acqua di mare la superficie del rivestimento viene lentamente idrolizzata, causando la dissoluzione della matrice polimerica ed il graduale rilascio del biocida.

Considerato che le superfici trattate con le moderne vernici antivegetative copolimeriche a base di TBT sono studiate per assicurare un rilascio giornaliero pari a 1.6 µg di stagno per centimetro quadro e che si può raggiungere anche i 6 µg nel periodo immediatamente successivo all’applicazione (Hoch, 2001), si determina un rilascio praticamente costante nel tempo e indipendente dall’attività della nave. Con le opportune modifiche nella composizione del legame, in base alle particolari esigenze della nave, il rilascio può comunque essere adattato, garantendo massima efficacia in funzione della velocità di navigazione e del periodo di inattività del natante. Navi ad alta velocità potevano essere trattate con coperture a lento rilascio, mentre natanti più lenti o che effettuano lunghe soste in porto, con vernici a rilascio più rapido. Queste vernici inoltre, a differenza di quelle a matrici solubili o insolubili, non necessitano di rimuovere residui porosi o di applicare sigillanti durante le operazioni di riverniciatura. L’efficacia della vernice può rimanere inalterata per 5-7 anni diminuendo così anche la

(14)

14

spesa per gli interventi di carenaggio. E’ noto che nel 1999, data l’estrema efficacia di questo tipo di sistema antivegetativo, circa il 70% delle imbarcazioni utilizzate per trasporto commerciale ne facesse uso, consentendo un risparmio di circa 2.400 milioni di dollari di carburante ed altri costi.

Nonostante gli ottimi risultati ottenuti con vernici a base di TBT, nel corso degli anni si è potuto osservare, attraverso studi opportuni, che l’ambiente marino risentiva in maniera negativa della presenza di questo antivegetativo. Già alla fine degli anni settanta erano evidenti gli effetti del composto su organismi non-target. Un caso ben documentato si ha in Francia nella baia di Arcachon, dove la produzione di un importante allevamento di ostriche venne drasticamente ridotta dalla presenza di elevate concentrazioni di TBT nelle acque, correlata all’intenso traffico marittimo nella zona; gli effetti della contaminazione furono identificati nel fallimento dell’insediamento larvale e in gravi anomalie nella calcificazione della conchiglia degli adulti. Il governo francese a seguito delle pesanti perdite economiche e al forte impatto ecologico introdusse una legge nel 1982 che proibiva l’applicazione delle vernici a base di TBT sulle imbarcazioni con scafo di lunghezza inferiore ai 25 m, e negli anni a seguire lo stesso provvedimento fu preso anche in Inghilterra (1987), negli Stati Uniti (1988), in Canada, Australia e Nuova Zelanda (1989) e nell’intera Unione Europea (1991) (Santillo et al., 2002).

Nel 2001 l’IMO (International Maritime Organisation), impose il divieto mondiale dell’applicazione di vernici a base di TBT su carene di ogni dimensione a partire dal 1° gennaio 2003 e stabilisce la data del 1° gennaio 2008 come il termine ultimo per la rimozione completa delle vernici contenenti stagno dagli scafi delle imbarcazioni, dando così il via allo studio di soluzioni alternative.

Ancora oggi la necessità di soddisfare i requisiti di efficacia, durabilità, costo ed eco-compatibilità sono l’obiettivo prefissato da parte di numerosi centri di ricerca in tutto il globo.

(15)

15

1.3

Il fouling release

Lo studio e lo sviluppo di vernici fouling release è stato ritenuto una tra le più promettenti strategie per contrastare il fenomeno del biofouling senza l’uso di biocidi, in una visione di sostenibilità ambientale. Questo tipo di vernici ha la particolare proprietà di facilitare il distacco delle incrostazioni biologiche aderite ad una superficie grazie alle caratteristiche peculiari dei componenti. I rivestimenti presentano una bassa energia superficiale che diminuisce l’abilità dei microrganismi a formare legami forti con le superfici. In questo modo grazie alla levigatezza della vernice a livello molecolare anche ad una velocità di crociera di 10-20 nodi si registra una rimozione di organismi dagli scafi. (Chambers, 2006).

L’energia superficiale è definita come la tensione meccanica che si sviluppa lungo la superficie di separazione tra un liquido e il mezzo gassoso e dal punto di vista termodinamico è definita come il lavoro necessario per aumentare la superficie del liquido di una quantità unitaria. Questa grandezza dipende dall’entità delle forze coesive: le molecole presenti all’interno del liquido sono circondate in ogni direzione da molecole simili per cui la risultante media delle forze agenti sulla singola particella è nulla, mentre le forze che agiscono sulle molecole in superficie non sono equilibrate verso l’alto per cui queste ultime subiscono una costante attrazione da parte delle particelle vicine. Questo fa si che la superficie del mezzo possieda una energia libera maggiore rispetto a quella che si ha al di sotto di essa. Quando questa situazione si verifica in presenza di due o più fasi è definita tensione interfacciale e si sviluppa lungo la superficie di separazione tra due liquidi o tra un liquido e un solido agendo in funzione delle caratteristiche delle fasi che vengono a contatto e di conseguenza delle loro reciproche tensioni superficiali.

E’ definita tensione superficiale critica (γc) il valore di tensione superficiale al quale un

liquido si espande liberamente sulla superficie di un solido e un’ indicazione di questa grandezza è fornita dall’angolo di contatto che si forma tra il liquido e la superficie definendo la bagnabilità della stessa.

L’angolo di contatto è definito come l’angolo che la tangente alla goccia di liquido forma con l’interfaccia solido-liquido mentre, dal punto di vista termodinamico, rappresenta la grandezza che minimizza l’energia libera superficiale di un sistema. Come evidenzia la curva di Bayer, al minimo della forza di adesione non corrisponde il

(16)

16

minimo dell’energia superficiale, quindi, oltre ad una bassa energia superficiale è importante anche che il rivestimento abbia un basso modulo elastico per far sì che la rottura meccanica dei legami creati tra la superficie e i diversi organismi del biofouling sia facilitata. Nel dettaglio, è necessario che l’adesività relativa risulti linearmente dipendente dal prodotto della radice quadrata del modulo elastico di Young (E) e la tensione superficiale (ãc). (Brady 1999; Brady et al.1987)

Fig. 1.7 - Curva di Bayer che correla la tensione superficiale con l'adesione relativa.

Fig. 1.8 - Relazione tra modulo elastico e adesione relativa

60 50 40 30 20 10 0 Adesione (u.a) 50 45 40 35 30 25 20 15 10

Tensione Superficiale Critica (mN/m)

60 50 40 30 20 10 0 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 (γE)0.5(N / m3 / 2)

(17)

17

Il modulo di Young è definito anche come il rapporto tra lo sforzo applicato a un materiale (σ) e la risultante deformazione (ε):

E=σ/ε.

Un modulo di Young relativamente piccolo quindi, indica che il materiale richiede uno sforzo di modesta entità per ottenere un’unità di deformazione (caratteristica tipica dei materiali elastici). Materiali rigidi presentano un modulo di Young più elevato che indica uno sforzo maggiore per unità di deformazione.

I coatings che possono offrire prestazioni di questo genere, devono avere quindi caratteristiche peculiari: oltre alla bassa tensione superficiale e al basso modulo elastico, è necessario anche un basso valore di energia interfacciale e, a livello nanometrico, tali coperture devono presentare un “impalcatura” chimica lineare e flessibile che impedisca interazioni indesiderate, un numero significativo di gruppi tensioattivi liberi di muoversi in superficie, una superficie liscia a livello molecolare per impedire l’infiltrazione di organismi del microfouling e una struttura molecolare fisicamente e chimicamente stabile per sopportare lunghi periodi di immersione in ambiente marino (Brady e Singer, 2000 ).

Queste caratteristiche si riscontrano principalmente nei fluoropolimeri e nei siliconi. I primi hanno una superficie non porosa con buone caratteristiche antiaderenti ottimizzate tramite l’introduzione di gruppi perfluoroalchilici orientati in modo tale da esporre i terminali CF3, fissandoli permanentemente in questa disposizione per minimizzare la

diffusione molecolare in superficie e il riarrangiamento dopo l’esposizione in ambiente marino.

Un inconveniente dei polimeri fluorurati è rappresentato dalla rigidità delle catene imposta dalle dimensioni degli atomi di fluoro i quali ostacolano la libera rotazione intorno ai legami C-C. Per indebolire il legame organismo-substrato è inoltre richiesto uno sforzo maggiore a causa di un modulo di compressibilità (definito come la capacità di una sostanza a resistere ad una forza di compressione uniforme) più elevato rispetto a quello degli elastomeri. Le incrostazioni che si formano sulla superficie, in queste condizioni, non possono essere facilmente rilasciate.

(18)

18

I siliconi incrementano notevolmente le proprietà antiaderenti dei fluoropolimeri. Noti anche come “polissilossani”, essi sono diventati di ampio utilizzo commerciale a partire dal 2005 e presentano una struttura in cui si ripete il gruppo funzionale R2SiO, dove R2

può indicare un atomo di idrogeno, un gruppo alchilico o un gruppo arilico. Con il termine “silossano” si intende una combinazione di silicio, ossigeno e di un alcano la cui struttura chimica prevede una catena principale, lineare o ramificata, in cui si alternano atomi di silicio e di ossigeno con le catene laterali R legate agli atomi di silicio. Esempi rappresentativi di questi polimeri sono il polidifenilsilossano [SiO(C6H5)2]n e il polidimetilsilossano [SiO(CH3)2]n o PDMS, attualmente il più

utilizzato nella preparazione di coatings ad azione fouling-release, grazie ai bassi valori di energia superficiale, modulo elastico e micro rugosità.

Il PDMS presenta una natura idrofobica dovuta ai gruppi CH3 sulla superficie e presenta

valori degli angoli di contatto in acqua che vanno da 90° a 120°. L’applicazione di una forza deforma la struttura gommosa del materiale promuovendo il distacco del biofouling secondo un processo che avviene più lentamente rispetto ai fluoropolimeri, che presentano una minore energia libera superficiale, ma che richiede meno energia. Per questo è il principale componente della maggior parte delle vernici fouling-release.

1.4

I copolimeri a blocchi

Per migliorare sempre più le capacità di distacco dei microrganismi di queste vernici, a partire dal PDMS si è cercato di modificare la composizione in modo da rendere la superficie del coating meno ideale per le diverse specie colonizzatrici. Al fine di rendere una superficie maggiormente adattabile alle diverse caratteristiche degli organismi, la peculiarità ricercata è stata quella dell’anfifilia. Gli organismi del fouling, infatti mostrano diverse strategie di adesione: Ulva linza (alga verde), per esempio preferisce impiantarsi su superfici idrofile, Navicula perminuta (diatomea) preferisce substrati idrofobici, di conseguenza la presenza di una superficie che contrasta entrambe le preferenze, potrebbe garantire un non attecchimento di entrambe le specie, ottimizzando l’efficacia del rivestimento. Durante la fase di ricerca del substrato ottimale per l’insediamento, i microrganismi valutano le caratteristiche chimiche e morfologiche a

(19)

19

livello nanometrico, è necessario quindi che lo studio dei materiali che agiscono da antifouling o fouling-release sia improntato verso l’ottenimento di superfici aventi disomogeneità chimiche su scala nanometrica, ciò può essere attuato mediante l’utilizzo di molecole anfifiliche. Questo tipo di molecole è costituito da una parte idrofoba e da una idrofila. Se tali molecole sono disperse all’interno di una matrice di opportuno spessore, si possono ottenere nanostrutture superficiali particolari (Callow e Callow, 2011). Queste superfici anfifiliche reagiscono alla presenza di acqua mediante un riarrangiamento superficiale, sia chimico che morfologico, su scala micro-nanometrica, esponendo sia la porzione idrofilica che quella idrofobica della molecola. Per i motivi descritti i sistemi anfifilici studiati maggiormente sono i copolimeri a blocchi formati da poli(dimetilsilossano), detto PDMS, e poli(etilenglicol), detto PEG, in cui il blocco del PDMS è la componente con spiccate caratteristiche idrofobe, mentre il blocco PEG ha caratteristiche fortemente idrofile. Superfici ricoperte con il PEG, avente un’energia superficiale relativamente alta (43 mJ/m2), ma bassa energia interfacciale con l'acqua, si sono dimostrate resistenti all'adesione di cellule (oltre che alle semplici proteine), probabilmente a causa della repulsione sterica esercitata sulle molecole adesive e causata dell'idratazione delle catene del PEG (Luk et al., 2000; Mrksich, 1997; Callow

et al., 2000). Anche le molecole semifluorurate, ovvero contenenti sia segmenti

idrocarburici sia segmenti fluorocarburici, presentano la tendenza a formare microseparazioni. La miscibilità di questi segmenti è in genere molto bassa e ciò porta a separazioni di fase intramolecolari e alla formazione di micro domini di diversa composizione (Rabolt et al., 1992; Hopken, 1988). In aggiunta a questo, i copolimeri a blocchi formati da una parte perfluorurata e da una silossanica, presentano caratteristiche diverse di lipofobia/lipofilia. Le catene fluorurate, infatti, manifestano una marcata lipofobia mentre il blocco silossanico presenta la caratteristica lipofilia (Fig. 1.9). Questa differenza di affinità aiuta la formazione di domini separati che generano disegni nano-microstrutturati.

(20)

20

Fig.1.9 - Esempi di copolimeri a blocchi aventi una parte silossanica ed una fluorurata (Martinelli et al.)

I copolimeri a blocchi possono essere considerati come polimeri formati da due o più blocchi chimicamente omogenei (catene omopolimeriche) uniti attraverso un legame covalente per formare macromolecole complesse. Per semplicità in questo caso, faremo riferimento ai copolimeri a due blocchi. La principale caratteristica dei copolimeri a blocchi risiede nella forte repulsione tra le diverse sequenze dovuta all’incompatibilità tra i blocchi stessi. Tali sequenze sono infatti soggette ad una separazione di fase a livello microscopico, in quanto il legame covalente esistente tra i blocchi impedisce di fatto una separazione a livello macroscopico (come sarebbe possibile, invece, nella miscela dei due rispettivi omopolimeri). La miscibilità tra i due blocchi è fortemente influenzata anche dalle caratteristiche di flessibilità (o rigidità) proprie di ogni blocco. Possono essere, quindi, individuati due tipi di copolimeri, ovvero copolimeri costituiti da blocchi flessibili “gomitolo-gomitolo” e copolimeri costituiti da un blocco rigido e da un blocco flessibile “bacchetta-gomitolo”.

Copolimeri a blocchi con blocchi di differente rigidità possono manifestare sia proprietà di resistenza all’urto, impartite dal blocco flessibile, sia proprietà di resistenza alla trazione e di stabilità termica, dovute al blocco rigido (Singh et al., 1994).

Nel caso di due blocchi avremo quindi delle separazioni in microfasi caratterizzate da microdomini ricchi nell’uno o nell’altro blocco alternativamente. A causa della microseparazione di fase, questi polimeri (polimero A, polimero B) possono assumere diverse morfologie in dipendenza dei seguenti parametri (Schulz et al., 1996).

(21)

21

Grado di polimerizzazione totale (N = NA + NB), ossia numero di unità ripetitive

lungo la struttura del copolimero;

Frazione volumetrica del componente minoritario (ϕ);

Parametro di interazione di Flory–Huggins (χAB), ossia grado di immiscibilità

dei due monomeri.

Il parametro di Flory–Huggins è indice dell’incompatibilità termodinamica dei due blocchi; un valore positivo crescente di χAB comporta un aumento della tendenza delle

due specie a microseparare. Questo parametro è influenzato dalla temperatura e aumenta al diminuire della stessa. Sotto un valore critico χODT (order-disorder transition) il

copolimero a blocchi assume una struttura disordinata ma quando χ raggiunge tale valore ha luogo una transizione da uno stato disordinato ad uno stato ordinato (Fig. 1.10).

Fig. 1.10 - Rappresentazione schematica ordine-disordine.

Per quanto riguarda invece la frazione volumetrica del componente minoritario, essa determina la particolare morfologia presente nel copolimero. Infatti, in funzione della frazione volumetrica di uno dei due componenti, per esempio di A (ϕA), si possono

ottenere le seguenti strutture:

- sfere di A nella matrice B, ϕA ≤ 0,18 – 0,23

- cilindri di A nella matrice B, ϕA ≤ 0,3 – 0,35

- lamelle di A e di B, ϕA < ϕB

(22)

Una rappresentazione schematica è riportata nella Figura 1.11.

Fig. 1.11 - Morfologie più comuni dei copolimeri a blocchi: sfere, cilindri e lamelle.

Produzione dei copolimeri: Atom Transfer Ra

Nel sintetizzare i copolimeri si è cercato di ottenere prodotti di reazione il più possibile omogenei nelle loro proprietà chimiche e fisiche e la classe di reazioni che ha permesso di avvicinarsi sempre più all’ottenimento di macromolecole con predeterminate caratteristiche è la polimerizzazione vivente

Webster, 1991). La maggior polimerizzazione radicalica vivente

radicali in cui sono assenti reazioni secondarie indesiderate e dove tutte le catene polimeriche hanno inizio simultaneamen

reazioni si possono sintetizzare in:

- la cinetica di polimerizzazione è del primo ordine rispetto al monomero

- il grado di polimerizzazione è direttamente proporzionale al rapporto monomero/iniziatore

- sono ottenute strette distribuzioni di pesi molecolari

- la crescita più continuare se viene aggiunto altro monomero.

Per la creazione dei copolimeri studiati è stata utilizzata una reazione messa a punto nel 1995 dal gruppo di ricerca di Matyjaszewski e Sawamo

(Matyjaszewski, 2001; Kamigaito

22

Una rappresentazione schematica è riportata nella Figura 1.11.

Morfologie più comuni dei copolimeri a blocchi: sfere, cilindri e lamelle.

dei copolimeri: Atom Transfer Radical Polymerization

Nel sintetizzare i copolimeri si è cercato di ottenere prodotti di reazione il più possibile loro proprietà chimiche e fisiche e la classe di reazioni che ha permesso di avvicinarsi sempre più all’ottenimento di macromolecole con predeterminate

la polimerizzazione vivente (Szwarc, 1956; Szwarc

1991). La maggior espressione di questa ricerca si è avuta con la polimerizzazione radicalica vivente in cui si ha una reazione di polimerizzazione a radicali in cui sono assenti reazioni secondarie indesiderate e dove tutte le catene polimeriche hanno inizio simultaneamente. Le caratteristiche essenziali di questo tipo di reazioni si possono sintetizzare in:

la cinetica di polimerizzazione è del primo ordine rispetto al monomero

il grado di polimerizzazione è direttamente proporzionale al rapporto monomero/iniziatore

ottenute strette distribuzioni di pesi molecolari

la crescita più continuare se viene aggiunto altro monomero.

Per la creazione dei copolimeri studiati è stata utilizzata una reazione messa a punto nel 1995 dal gruppo di ricerca di Matyjaszewski e Sawamoto: la reazione di ATRP 2001; Kamigaito, 2001). Questa reazione mediante l’uso di Nel sintetizzare i copolimeri si è cercato di ottenere prodotti di reazione il più possibile loro proprietà chimiche e fisiche e la classe di reazioni che ha permesso di avvicinarsi sempre più all’ottenimento di macromolecole con predeterminate 1956; Szwarc et al., 1956; espressione di questa ricerca si è avuta con la in cui si ha una reazione di polimerizzazione a radicali in cui sono assenti reazioni secondarie indesiderate e dove tutte le catene te. Le caratteristiche essenziali di questo tipo di

la cinetica di polimerizzazione è del primo ordine rispetto al monomero

il grado di polimerizzazione è direttamente proporzionale al rapporto

Per la creazione dei copolimeri studiati è stata utilizzata una reazione messa a punto nel to: la reazione di ATRP Questa reazione mediante l’uso di

(23)

23

catalizzatori metallici ed in combinazioni con rapporti leganti, portava ad ottenere una buona distribuzione dei pesi molecolari. Come si può vedere dalla descrizione in figura 1.12 la specie radicalica è generata attraverso un processo redox reversibile che coinvolge un complesso di un metallo di transizione, il quale perde un elettrone e contemporaneamente si lega ad un alogeno della specie dormiente.

Fig. 1.12 - Meccanismo ATRP.

L’ATRP è un sistema multicomponente formato da un monomero, un catalizzatore ed una specie legante. I monomeri più comuni sono stireni, (meta)acrilati, (meta)acrilammidi, acrilonitrile (Hansen et al., 2007; Pattern e Matyjaszewski, 1998; Matyjaszewski, 1999), nel nostro caso, PEG (polietienglicolmonometil etere metacrilato) e AF (1H,1H,2H,2H-perfluorooctil acrilato).

Il catalizzatore è un metallo di transizione, ad esempio rame, nichel o rutenio, che possegga due stati ossidativi separati da un solo elettrone; il rame (Cu+/Cu++) è per il momento il migliore in termini di versatilità e costi. La specie legante deve assicurare sia la solubilità nel solvente organico di reazione che un appropriato potenziale redox del centro metallico, nel nostro caso è stato utilizzato esametiltrietilentetrammina (HMTETA). Pn-X + Mtn-Y/Legante Pn kp + Pn + m/Pn +Pm X-Mtn+1-Y/Legante Monomero kt Pm kact kdeact

Riferimenti

Documenti correlati

Copyright© 2016 owned by Ubaldo Pernigo, www.ubimath.org - contact: ubaldo@pernigo.com Il presente lavoro è coperto da Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale -

3) Collega con una freccia il tipo di legame che tiene unite le molecole nei diversi stati della materia allo stato corrispondente. assenza di legami

Scegliendo a caso una persona da questa popolazione, qual é la probabilitá di imbattersi in una persona con i capelli neri e gli occhi

Fissato un qualsiasi evento B, la funzione P(·|B) è una funzione di probabilità.. Ci sono tre scatole: una con due monete d’oro, una con una moneta d’oro ed una d’argento

Blaxploitation che ha proposto a modo suo una nuova esperienza afroamericana formata da “Pimps, Pushers and Players,” seguita da un periodo dove la commedia ha fatto

(2010) the economic growth assumed in PRIMES 2009 for Italy during the economic recovery is among the lowest of the whole EU-27. This is a further clue of the deep effect of

• Scrivere una formula di MFO che descrive parole in cui ogni volta che c'è un simbolo s, fino a che non compare un simbolo e, il simbolo p si ripete con cadenza periodica, di

BumpMap)