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Alta pressione

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Academic year: 2021

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Alta pressione

Fabian Peeters aveva male ai polmoni. Bè, no, in realtà aveva male lì, a sinistra, dove il sangue pompa vita natural durante, ma era più difficile ammetterlo. Allora preferiva dire che erano i pettorali o i polmoni, così non c’era niente di cui vergognarsi. Seduto sul letto, con il quaderno a spirale aperto davanti a sé, Fabian Peeters non poteva fare a meno di rivedere la scena di quel pomeriggio, quando Cynthia aveva lasciato l’allenamento tra le braccia del grande Geoffrey. Un biondo selvaggio e abbronzato, massiccio come un bilanciere, oliato come una cyclette. Si tenevano per mano. Cynthia l’aveva guardato così forte e a lungo che aveva dovuto vedergli attraverso, tanto il tizio era vuoto. Così non aveva visto il vetro della porta d’entrata richiudersi, e per poco non ci era finita dentro, come se fosse così scialba che la sua silhouette non impressionava più neanche le cellule fotoelettriche. Fabien aveva il cuore sottosopra. Un maremoto, un tornado. Un uragano. Afferrò la Bic e le parole iniziarono a scorrere una dopo l’altra:

Te ne sei andata tugudùm tugudùm Via da me

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Oé oé

Non sono più niente, eh, Cynthia Non sono più niente

Per te?

Te ne vai tugudùm tugudùm Attraverso i vetri

Oé oé

Ti riprendi la tua libertà, eh, Cynthia Non sono più niente

Per te?

Io lo metto al tappeto tugudùm tugudùm Quel Geoffrey là

Oé oé

Geoffrey è KO, mi dispiace Cynthia Non posso più far niente

Per te

Oh, andava già molto meglio per Fabian, il suo cuore batteva a un ritmo più ragionevole. Ormai Cynthia non era più altro che quello che avrebbe dovuto essere sempre: una tipa tutta autoabbronzante e capelli decolorati, più trafficata di una raccordo autostradale, che aveva passato più tempo sul lettini solari che sui banchi di scuola. Fabian si gettò a terra, appoggiò il palmo delle mani sulla moquette, i piedi uniti sul bordo del letto, e iniziò una serie di cinquecento piegamenti per rimettersi in forma.

Quella sera, si sarebbe rinfrescato le idee. Sarebbe sceso in città per una serata a Bruxelles-les-Bains. Avrebbe indossato i suoi jeans attillati e una tee-shirt bianca, chiamato Youssef e Luigi e tutti e tre insieme avrebbero passato una serata da urlo, e se avessero incrociato Geoffrey gli avrebbero spaccato la faccia quanto basta a forza di ginocchiate. E se avessero incontrato Cynthia, le avrebbero urlato che aveva il culo grosso e che le si vedeva la cellulite attraverso la gonna, così si sarebbe depressa per il resto della settimana.

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Non avrebbe più osato mettere piede fuori dalla sua mansarda, non prima di avere ritrovato la linea.

Una tempistica perfetta: con il caldo che faceva a Bruxelles da qualche settimana a quella parte, il suo mezzanino doveva essere una specie di sauna.

Yvon Kempeneers era fuori di sé. Era venerdì sera, quasi le otto, e lui era ancora seduto alla sua scrivania di corso Louise. Era da due anni che ne aveva le palle piene del suo lavoro: essere responsabile di campagna per dei grandi gruppi farmaceutici, dopo quindici anni di carriera, era peggio ancora della miniera o della fabbrica. O perlomeno è quello che si diceva lui, Yvon Kempeneers. A tal punto che il solo atto di infilarsi la camicia e annodarsi la cravatta la mattina gli provocava un riflusso di succhi gastrici e un tanfo di bolo che a volte lo facevano vomitare, ancora a digiuno, prima di mettersi al volante. Il suo lavoro lo stava usurando. Da quando la relazione con la segretaria del direttore artistico era finita, le giornate gli sembravano interminabili. Non aveva più idee, né la voglia di trovarne, né l’energia per averne voglia. Si sentiva usurato, ecco tutto. E l’usura, in un ufficio dove si adorano gli spiriti creativi, battaglieri, i winners, è ancora peggio della morte. Perché sei ancora abbastanza vivo per assistere al tuo funerale.

Yvon Kempeneers guardò l’orologio. Aveva appuntamento con un amico, un ex collega diventato capo di un’agenzia concorrente. Dovevano trovarsi dopo il lavoro: per decenza, non poteva presentarsi prima delle nove e mezza. Sarebbe stato un disastro per la sua immagine.

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Ma non poteva neanche passare un’altra ora a guardare l’orologio e a cliccare sulle icone del suo iMac: così sarebbe stato fatale per il suo morale. Allora decise di andare a bere qualcosa al pub irlandese accanto all’ufficio e poi di prendere la macchina e parcheggiarla lontano, vicino al Botanique, e camminare con calma fino all’hotel. Era un evento straordinario. Era da anni che non si spostava a piedi in città. Bè, certo che a volte gli capitava di dover attraversare un marciapiede, tra parcheggio e ristorante. Ma una vera passeggiata attraverso la città, no, questo doveva risalire all’epoca dei suoi studi all’ULB, quando prendeva i mezzi pubblici e mangiava spaghetti nei bar vicino alla Borsa. Si sentiva quasi felice all’idea di usare le proprie gambe. Ma fu un’impressione fugace, la nuvola grigia che fluttuava sulla sua testa non si dissipò che per qualche istante. La zona di depressione riprese il sopravvento non appena si fu insgabellato al bancone del bar. Una birra cacciò l’altra. Ne fece secche tre. Dei mezzi litri piatti, senza schiuma, proprio come la sua vita smorta: colore brunastro e zero movimento. Il barman gli offrì un whisky, era di un altro temperamento. Sentì l’alcol scendergli nelle gambe e riscaldargli le tempie. Guardò l’ora: non c’era più tempo, la camminata a piedi sarebbe stata per un’altra volta. Doveva darsi una mossa: aveva giusto il tempo di arrivare guidando a tavoletta e lasciando la macchina al parcheggiatore.

Aveva appena preso il volante e liberato i cavalli della sua Audi dagli interni in cuoio, che subito detestò il mondo che sfilava dall’altra parte dei vetri. Ce l’aveva con la vecchia che attraversava la strada in tutta calma, con i semafori che gli sembravano interminabili e le strade che gli facevano schifo, dava dei colpi d’acceleratore in attesa

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che il rosso diventasse verde, prendeva le curve troppo larghe e filava a tutta velocità sui rettilinei.

Dall’autoradio, il best of dei ZZ Top diffondeva peli di barba e accordi di chitarra in tutto l’abitacolo.

Alla stazione Saint-Guidon, il convoglio successivo era annunciato con sei minuti di attesa. Fabian Peeters si accomodò sul sedile di plastica. Giocava con la punta della scarpa da ginnastica contro il pavimento in caucciù. Qualche metro più in là, un vecchio si stava accendendo una Belga.

- Ehi, lei, è proibito fumare nella metro. - Cosa dice?

- Non si può fumare qui.

Alla seconda osservazione, il vecchio capì. Voleva rispondere, ma dando un’occhiata a Fabian da seduto si rese conto che in piedi doveva misurare almeno due teste più di lui, e che i soli muscoli delle braccia erano più spessi del suo torso di vecchio fumatore e delle sue cosce di pescatore della domenica. Spense la sigaretta e buttò il mozzicone giù tra i binari, lasciando scappare una minuscola cometa di luci rossi.

L’indicatore annunciava cinque minuti.

Sul sedile accanto a Fabian c’era una busta. E nessuno, nel raggio di dieci metri, a cui potesse appartenere. Fabian la toccò con la punta delle dita, era di carta da pacchi, di grande formato. C’era un nome: Edmon Deltour, e un indirizzo a Saint Gilles. Il mittente: le Editions de Minuit.

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Un catalogo di biancheria intima, ecco di cosa si tratta, fu la deduzione di Fabian. Impugnò la busta e se la posò sulle ginocchia con un gesto rapido. Nessuno batté ciglio. Né il vecchio della sigaretta, né la vecchia seduta più in là con il suo carrellino a scacchi, ancora meno i due tizi con il berretto che ascoltavano la musica dallo stesso walkman. Quando la spia luminosa si spostò per indicare quattro minuti d’attesa, Fabian infilò una mano nella busta. Che delusione. Si aspettava uno sfoggio di pizzi e latex su pagine di carta patinata, e invece non trovò altro che un mucchio di fogli A4 rilegati e dattiloscritti, accompagnati da una lettera. “Gentile Signore/a, abbiamo ricevuto il suo manoscritto ma siamo spiacenti di informarla che non potremo accoglierlo nelle nostre collezioni…”. Il resto erano solo forme di cortesia e scuse. Il tabellone annunciava due minuti d’attesa. Fabian fu tentato di dare un’occhiata al fascicolo allegato alla lettera. C’era un titolo, Un cane pazzo, e il nome dell’autore: Edmond Deltour. Voltò la pagina, ed ecco che il testo iniziava di colpo e proseguiva di fila per più di sessanta pagine di piccoli caratteri battuti su una vecchia macchina da scrivere, senza foto, senza titoli, senza spazi per respirare. Ha l’aria seria, si disse Fabian, e iniziò la lettura dalle prime righe. “Ti amo come un cagnetto pazzo come un treno che fischia come un mattino che si desta ti amo attraverso le pianure attraverso le tende a destra e a manca ti amo sopra le montagne sotto le cascate ti amo con le bolle ti amo con i denti non sono che un cane pazzo sono un mondo selvaggio ho i piedi in dentro ho degli occhi velenosi ma ti amo te e le tue dita così fini ti amo te e la tua fronte così dolce ti amo…”. Il treno entrò in stazione

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in un interminabile stridio di freni, le porte si aprirono, grrrrrrr cloc. Fabian balzò dentro, il manoscritto in mano, gli occhi incollati al testo, le porte si richiusero mentre si sedeva. Stava ancora leggendo quando il trenò lasciò la stazione: “ti amo perché la campana suona ti amo perché il pane è bianco ti amo te lo dico ti amo come una fanfara come un ramo di bosso come un cane rabbioso ti amo quando non sono cosciente ti amo con le dita…”.

Yvon Kempeneers uscì da rue du Trône con i nervi a fior di pelle. Girò a destra e raggiunse la piccola cintura, stringendo il volante a due mani. La notte stava già calando, ma non abbastanza da cacciare definitivamente il giorno. Faceva caldo. Troppo caldo. Era dall’inizio di Luglio che faceva troppo caldo. Grazie all’aria condizionata della sua Audi, Yvon non lo pativa per niente e, anzi, contribuiva volentieri a rendere le estati sempre più insopportabili per il resto del pianeta. Un po’ più di CO₂, un po’ di meno, che differenza c’è. Mentre 22 gradi in un sedile di cuoio è la temperatura ideale, e per questa non c’è prezzo che valga. Yvon guidava sempre in superficie: la paura degli ingorghi, nonché vecchi residui di claustrofobia gli impedivano di prendere i tunnel. Non che guidare in superficie lo distendesse, anzi. Malgrado l’ora avanzata, dovette rallentare più volte. In avenue des Arts, diede gas, da qualche parte tra l’ambasciata degli Stati Uniti e la libreria Filigranes, in questa no pieton’s land dove le macchine rombavano su non meno di otto carreggiate. Dovette rallentare qualche centinaio di metri più in là: davanti a lui arrancava una lumaca di Renault.

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Una targa francese: probabilmente il conducente stava cercando dove andare e guidava troppo lentamente per i gusti d’Yvon, che gli sfanalò. La Renault manifestò l’intenzione di voltare a sinistra in rue de la Loi, lampeggiando sollevata come uno che si lasci alle spalle un pirata della strada. Proprio allora, Yvon diede un’accelerata brusca, superò la Renault da destra e si chinò per far capire al Francese tutto il suo disprezzo, ma non ne ebbe l’occasione. Uno urto sordo e improvviso riempì l’abitacolo dell’Audi.

Vide il corpo prendere il volo dal bordo del marciapiede, traversare il campo visivo del parabrezza e rimbalzare sul cofano della macchina. Inchiodò, spense il motore e si precipitò fuori. Aveva appena investito un ragazzo. Il povero cristo sembrava sotto shock e vacillava sulle gambe. Eppure doveva essere un tipo tosto: muscoloso e abbronzato, capelli corti, una maglietta bianca. La macchina era ferma su un passaggio pedonale, non poteva lasciarla lì in mezzo all’incrocio. Yvon si mise a riflettere, al massimo della velocità che gli concedevano i suoi neuroni. Non c’erano testimoni diretti, le macchine filavano via senza fermarsi. Il giovane non era morto, e il suo stato non sembrava richiedere cure mediche. Yvon aveva ben più dei 0,5 mg di alcol autorizzati nel sangue. La macchina apparteneva all’agenzia. Aveva appena provocato un incidente nel quale era coinvolto un pedone, su un passaggio pedonale per di più. Gli avrebbero ritirato la patente, avrebbe dovuto dare delle spiegazioni, tutto questo non gli andava per niente a genio. Il tempo stringeva. Si sentì pronunciare queste parole:

- Tutto bene? Non ha niente di rotto?

Il giovane fece segno di no con la testa. Un mezzo sorriso. Sembrava funzionante.

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- Sposto la macchina. Salga, starà meglio dentro.

Aiutò il ragazzone a prendere posto sul sedile del passeggero, richiuse la portiera e fece il giro dell’Audi. Le macchine rombavano su rue de la Loi, e i fari, a due a due, squarciavano il buio della sera che tendeva all’arancio. Si sedette al volante e allacciò la cintura. Non sentiva più l’effetto dell’alcol, gli eventi gli avevano fatto smaltire la sbornia.

Sul sedile del passeggero, il giovane ronfava felice e beato.

Questo Yvon non se l’aspettava. Non poteva certo spostare la macchina e lasciare il giovane così, addormentato, sul ciglio della piccola cintura. E d’ogni modo era troppo pesante perché Yvon potesse spostarlo. Quando l’aveva invitato a salire, aveva intenzione di… Di cosa, esattamente? Non ne era più sicuro. Di discutere? Di risarcirlo? Di riaccompagnarlo a casa? Yvon fece un respiro profondo. Doveva calmarsi. Le cose si sarebbero messe a posto. Non c’erano morti. Eppure… Di colpo, Yvon sentì il sangue raggelarglisi nelle vene. Perché questo giovane pieno di muscoli si addormentava come un sasso? Non era naturale. A meno che l’alcol…? Yvon si chinò per annusare l’alito del giovane, ma fu bloccato dalla cintura. Riprese il movimento con più calma. La bocca era aperta e Yvon fu disgustato dal respiro pesante che usciva dalle labbra. Fece un respiro profondo, ma non sentì nulla. Anch’io ho bevuto – pensò – non sentirei nulla comunque. Eppure non aveva l’impressione che il tizio avesse bevuto.

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Soffriva forse di disturbi del sonno? Chissà! O forse era più semplicemente il contraccolpo dello shock? Era molto più probabile. Yvon aveva le mani sudate. Chi gli diceva che il ragazzo non ci stesse tirando le cuoia, lì sul suo sedile del passeggero? L’Audi l’aveva colpito sul fianco. Aveva toccato un organo vitale, lì, all’interno, e come una gallina alla quale venga tagliata la testa, il tizio aveva giusto continuato a dare l’immagine di essere in vita, quando invece lo stava già prendendo la morte, si era seduto per riflesso e ora se ne stava andando all’altro mondo, una volta per tutte. Che catastrofe! Era ancora peggio del reato e del ritiro della patente. Il cuore di Yvon batteva a un ritmo sfrenato, come un paio di tergicristalli sotto una pioggia torrenziale. No, era assurdo. Il giovane non era morto. Si era semplicemente addormentato. Non era successo nulla. Yvon controllò il respiro. Una vecchia tecnica yoga ereditata dalla moglie tempo prima che divorziassero. Fece scendere l’aria fino ai piedi, chiuse gli occhi, contò fino a diciassette e li riaprì dolcemente. Il mondo era ancora lì, e il giovane continuava a ronfare, con un sorriso stampato sulle labbra socchiuse. La situazione sarebbe potuta essere ben più grave. L’Audi avrebbe potuto ucciderlo, o paralizzarlo a vita, e invece no, l’aveva giusto urtato, e tutto sarebbe andato per il meglio. Naturalmente a patto che Yvon reagisse in modo organizzato e da adulto. Da dove cominciare? Chi era questo tipo che aveva investito? Un duro, capelli corti, naso dritto e sopracciglia spesse, mascella squadrata, dei jeans blu perfetti e una maglietta bianca. Tutto questo non gli era molto d’aiuto. E un profumo, molto profumo, uno che sa di bosco, o di mare, poco importa, in fondo di profumi lui non ne capiva nulla. Rifletté a tutta velocità. Quando uno sa di profumo vuol dire che sta uscendo di casa per andare da qualche parte, in pubblico. Un vernissage, una cena…

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Un colpo di claxon lo fece sobbalzare.

Ancora non aveva spostato la macchina, era sempre lì in mezzo alla strada. Avviò il motore dell’Audi e partì. Dove stava andando? Non lo sapeva. Si spostava perché la sua immobilità attirava l’attenzione. Pensò di tornare a casa, ma l’idea gli sembrò indecente. Non si porta a casa di forza uno sconosciuto per assicurarsi che stia bene. Con un rapimento ci si assicura semmai che le cose andranno a finire male. La cosa migliore da fare sarebbe stata andare di corsa in ospedale, ce n’era uno a due passi, subito dopo il Passaggio 44, ma Yvon non aveva nessuna voglia di ritrovarsi ad aspettare sotto i neon accanto a un letto di freddo metallo. Potrei lasciarlo in un posto qualsiasi, in fondo non mi ha visto quasi, un istante appena, non ci sono testimoni, non avrà che un ricordo approssimativo della mia faccia e della macchina - niente di compromettente, insomma - e tutta questa faccenda finirà per aggiustarsi. È sicuramente la cosa più semplice da fare, la meno rischiosa - concluse, fiero del suo ragionamento. Ma anche quella più da vigliacco. E Yvon non aveva nessuna voglia di essere un vigliacco. Era meglio aspettare che il giovane si risvegliasse. Lasciò il raccordo e girò in tondo finché non trovò un parcheggio. Sistemò l’Audi lungo il marciapiede di boulevard Pachéco, all’ombra della città delle finanze, e spense il motore. Accese la radio. C’era un’aria di jazz, clarinetto, vibrafono e batteria leggera. Mancava solo un Martini perché si immaginasse al bar di un hotel di lusso italiano. Non era certo il momento di lasciarsi andare. C’erano molte cose che avrebbe dovuto spiegare di lì a poco al suo passeggero, se non voleva spaventarlo una volta per tutte. Si chinò verso destra. Il tipo continuava a ronfare. Il suo respiro era pesante, lento. Ogni tanto si fermava e il cuore di Yvon, trascinato dallo stesso movimento, si bloccava di colpo. E se fosse morto lì,

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sul sedile di cuoio, eh? Yvon aveva bisogno d’aria. Uscì dal veicolo e il calore gli finì addosso come se da ore a quella parte non avesse aspettato altro. La canicola a Bruxelles fa impazzire la gente. C’è bisogno di pioggia, di aria fresca. Non siamo fatti per delle estati così. Si piegò sul cofano, c’era un bozzo. Non molto visibile, è vero, ma c’era. E di certo non sistemava le cose. Andò avanti e indietro sul marciapiede due o tre volte, poi si disse che potevano benissimo osservarlo da una di quelle finestre e chiedersi cosa diavolo stesse facendo con un giovane addormentato in macchina, un tipo muscoloso come un lottatore di wrestling che dorme come un bebè. Insomma, la cosa puzzava di bruciato. Chiunque avesse dato un’occhiata alla scena si sarebbe fatto delle domande, e la sua passeggiata sul posto attirava l’attenzione. Rientrò in macchina. Alla radio c’era ancora il jazz. Una voce calda si era aggiunta agli strumenti. È assurdo – si riprese – va tutto bene. Non passerò certo la notte in macchina ad aspettare che il ragazzo si svegli solo perché l’ho sfiorato con il paraurti. Lo lascio qui, contro il muro, anzi no, lo porto al pronto soccorso, è più prudente, è da lì che avrei dovuto iniziare, così non avrò quasi nulla da rimproverarmi, almeno avrò la coscienza tranquilla. Sarà meglio così.

Yvon girò la chiave di accensione e il motore ronzò. Nello stesso momento, nella macchina si diffuse una melodia. Era la sigla di Miami Vice, una serie televisiva che Kempeneers aveva seguito anni addietro con il suo figlio maggiore, Christophe. Ormai doveva avere la stessa età di quel ragazzo. Da quanto tempo era che non guardavano un programma insieme? La sigla continuava, era la suoneria di un cellulare, quella del russatore. Ma il ragazzo non reagiva. Dormiva più che profondamente.

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La suoneria non si fermava. Al terzo ritornello, Yvon tese il braccio, afferrò l’apparecchio alla cintura del ragazzo e guardò lo schermo: c’era una cornetta che lampeggiava, circondata dal nome “Luigi”. Yvon esitò due secondi, inspirò profondamente e rispose.

- Che cazzo stai facendo, Fabian? Urlò colui che doveva rispondere al nome di Luigi. È da mezz’ora che ti stiamo aspettando, siamo in ritardo!

Ci fu un secondo di silenzio. Non di più. Appena una frazione di secondo dopo, Yvon sentì la propria voce risuonare nell’Audi.

- Senta, non so chi stia cercando ma ha sbagliato numero. Riagganciò in men che non si dica.

Aveva il cuore che gli batteva a una cadenza infernale, e l’impressione che la temperatura in macchina si fosse alzata al di sopra del tollerabile. Eppure, il cruscotto indicava sempre 22 gradi in cifre digitali. Tirò un respiro profondo e aprì il finestrino elettrico. Ebbe l’impressione di aver infilato la testa in un forno a legna per tirar fuori i cornetti. Allora schiacciò il pulsante nero, cosi che il motore richiudesse il finestrino. Mise la freccia per rimettersi in strada, esitò un istante, l’istante di troppo, quello che fece precipitare tutto, spense il motore e riabbassò la leva della freccia. Harold Faltermayer fece risuonare di nuovo i titoli di coda di Miami Vice. Yvon non aveva certo intenzione di rispondere un’altra volta. Era Luigi, di nuovo. E il tizio addormentato continuava a non reagire. Yvon gli piazzò il telefono contro l’orecchio. Ancora nessuna reazione. Bisognava reagire velocemente. Ma non è che ci fosse una gran scelta. Rifiutare la chiamata o rispondere? Spesso la vita si riassume in questa alternativa: fare come se le cose non esistessero o affrontarle?

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Yvon schiacciò il tasto verde e, assumendo il tono più calmo che passasse il convento, annunciò:

- Benvenuto su Belgacom Mobile, Welcome by Belgacom Mobile. Per continuare in francese, premere 1; for English, press 2,…

- Senti, testa di cazzo, hai fatto la cazzata della tua vita fregando il cell di un amico. Se gli hai torto anche solo un capello, ti troveremo ovunque tu sia, e ti rifaremo quella faccia di merda in modo che neanche tua madre o il dentista potranno più riconoscerti.

Yvon chiuse la conversazione. E spense il cellulare. Tremava. Aveva il fiato corto. Non aveva fatto niente. Aveva giusto investito un tizio, insomma, non proprio investito, diciamo che l’aveva urtato, di sicuro non l’aveva messo sotto. Era dietro il volante, non l’aveva visto arrivare, non voleva male a nessuno, non potevano rimproverargli di aver… Si era proprio cacciato nei casini. Perché non era andato semplicemente al commissariato o all’ospedale? Sarebbe stato tanto più semplice! Avrebbe dato tutto quello che aveva per essere restato una mezz’ora di più in ufficio, per non aver fatto tappa al pub irlandese, per aver rallentato dietro alla Renault, per non aver girato la testa al momento sbagliato, per essere a casa, con i piedi al caldo, il pigiama, una bottiglia di vino sul tavolo e il telecomando in mano.

Ora la notte era scesa veramente, e non si sarebbe levata per un bel po’, di sicuro non prima dell’indomani mattina. Yvon era esausto. Ne aveva combinate troppe per una serata sola. Era ora di tornare a casa e mettersi a dormire. Ma non con quello sconosciuto nel posto del passeggero. Ritornava alla sua prima intenzione: mollarlo lì, sul marciapiede.

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Dopotutto, Kempeneers non vedeva perché dovesse fargli da badante mentre quell’adolescente cresciuto si faceva un riposino.

- Che diavolo ci faccio qui?

La voce proveniva dal sedile del passeggero. Il tizio aveva ripreso conoscenza.

- Mi dispiace, si scusò subito Yvon. Mi chiamo Yvon Kempeneers, e l’ho investita con la macchina qualche minuto fa. Non aveva l’aria molto in forma, così, visto che si era addormentato, ho aspettato che riprendesse conoscenza.

- Okay, bè, ho l’impressione che mi abbia fatto bene ‘sta dormita. E mi scusi se le ho occupato il sedile del passeggero.

- No, no, sono io che mi scuso. - Che ora è?

- Le dieci e venti.

- Cazzo! Sono in super ritardo. Scappo, devo filare.

- Vuole che la porti da qualche parte? Lo faccio con piacere. Dopo tutto, è colpa mia se è in ritardo.

- Non si preoccupi, so camminare.

- Sì, ma non vorrei che si facesse investire un’altra volta.

- Pensa che sia più al sicuro nella sua macchina? Dopo tutto, è lei che mi ha messo sotto, no?

- Su, non faccia il testardo, mi dica dove posso portarla. - Avevo appuntamento al parc Royal.

- Allora andiamo, si parte!

- Ma non so se saranno ancora lì. Li chiamo.

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Mentre Fabian accendeva il cellulare, Kempenners riprese la strada. Gli altri due non erano più al parco, erano già sul canale. L’Audi ridiscese lungo l’avenue du Jardin Botanique, l’avenue du Boulevard e tutte quelle altre arterie dai nomi troppo faticosi da ricordare che, una dopo l’altra, in fila, costituiscono la piccola cintura. Fabian riagganciò. Non guardava più l’autista con gli stessi occhi.

- Ha risposto al mio telefono mentre dormivo? - Perché mi fa questa domanda?

- Perché non risponde onestamente a una domanda così semplice? Almeno avrebbe potuto avvertirli che stavo dormendo qui accanto a lei!

- Non sono molto portato per il telefono.

- Ok, bè, io scendo qui. Non so cosa ha fatto mentre dormivo e in fin dei conti non ci tengo a saperlo. Le va di culo che ho la testa come un punching-ball, se no le rifilerei un bel pugno nel muso, così per essere pari.

- Senta, ecco il mio biglietto da visita. Se ha bisogno di qualcosa, un favore, una raccomandazione, io conosco un bel po’ di gente. Mi chiami, a qualsiasi ora. Sarò contento di aiutarla. Non esiti.

Fabian richiuse la portiera e sprofondò nella notte, in direzione del canale.

Quella notte Yvon dormì malissimo. Quasi per niente, a dire il vero. Non aveva fatto che parlare di questo, con Jean-Michel.

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Il suo ex collega aveva cercato di rassicurarlo, ma non ci era riuscito. Yvon si sentiva uno schifo. Non capiva perché fosse stato allo stesso tempo così vigliacco e maldestro. Nel corso della notte si fece tre docce: non riusciva a liberarsi dell’impressione di sporcizia che lo impregnava dalla testa ai piedi. Soprattutto la testa. La doccia era inutile. La casa gli sembrava troppo grande, la sua vita troppo piccola, un fallimento. Lui, il vecchio cinico, aveva messo sotto un giovane pieno di promesse, in pieno slancio, pieno di quell’avvenire che lui non avrebbe più avuto. Manco si era preso il disturbo di scusarsi, e di dirgli che gli dispiaceva. Un’idea fissa aveva preso posto nella testa di Kempeneers: la sonnolenza, subito dopo l’urto, era un sintomo quanto meno allarmante. Indicava il peggio. Era possibile che l’urto l’avesse ucciso a scoppio ritardato. Forse il ragazzo era morto durante la notte. Ma Yvon non lo sapeva, non conosceva neppure il nome della vittima, figuriamoci il suo indirizzo. Com’era stato maldestro! Perché non gli aveva proposto di chiamarlo l’indomani per avere sue notizie? Perché non gli aveva domandato semplicemente un numero di telefono, un nome, qualcosa per rimettersi sulle sue tracce? Non aveva niente a cui appigliarsi. Meglio così, pensava a tratti: se avesse avuto un numero di telefono, avrebbe già chiamato cinque volte senza neanche aspettare l’alba, giusto per tranquillizzarsi.

Quando il mattino fu finalmente arrivato, ascoltò uno dopo l’altro i notiziari flash. Non si parlava di nessun decesso brutale verificatosi nel bel mezzo della notte, né di un pirata della strada assassino, gli unici titoli riguardavano la canicola e un incidente verificatosi in Lituania, in un hotel di Vilnius, dove avevano ritrovato Marie Trintignant in coma e accusato Bertrand Cantat, il suo compagno, di colpi e ferite mortali.

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Si trattava di una caduta, secondo le prime informazioni. Di un urto mortale, in altri termini. Yvon si sentiva sempre peggio.

Si guardò allo specchio. Era grigio. Il suo colorito era così pallido, gli occhi così incavati che qualunque medico, incrociandolo in tram, gli avrebbe prescritto una settimana di riposo. Ma i medici non usano mai i mezzi pubblici. E neanche lui, se è per questo.

La mattinata in ufficio fu atroce. I minuti non passavano più. Il lavoro sembrava privo di senso: che motivo c’era di cambiare ancora una volta il logo delle aspirine effervescenti? O di tentare di arraffare qua e là alla concorrenza delle briciole di mercato, dei clienti non meno insignificanti e voraci di quelli che avevano già? La sola faccia della modella per i lassativi gli dava la nausea. Avrebbe voluto assegnare una raffica di sberle alla maggior parte dei colleghi che incrociava nei corridoi. E pisciare nei loro bicchieri durante la riunione del pomeriggio.

Verso le sedici, suonò il telefono: - Signor Kempeneers? - In persona.

- È l’ospedale Erasme. Abbiamo ritrovato il corpo senza vita di un giovane di una ventina d’anni. Non aveva nessun documento. L’unico elemento che permetta di identificarlo è un biglietto da visita su cui compare il suo nome.

- Lo so. - Lo sa?

- No, voglio dire che so che il mio nome è impresso sui miei biglietti da visita, è a questo che servono.

- Sa di chi si tratta? Seguì un lungo silenzio.

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- Dovrà venire per l’identificazione del corpo. - Ma io non ho la più pallida idea di chi sia!

- Neanch’io, Signore. Ma non è mio il biglietto da visita ritrovato nella tasca della spoglia, è suo. Se fossi in lei, mi mostrerei collaborativo.

- Mi dica cosa devo fare.

- Venga stasera allo Sheraton a bere qualcosa e a distrarsi un po’ con il più idiota dei suoi amici.

- Jean-Michel!

- Bè, sì, chi pensavi che fosse? - L’ospedale, guarda un po’!

- Su, sta’ tranquillo, non gli è successo nulla al tuo ragazzino. Ha già dimenticato quello che è capitato ieri. Allora, vieni stasera?

- No, no, torno a casa a dormire. Ieri notte non ho chiuso occhio. - Fa’ come vuoi, ma non fissarti con questa storia, non ne vale la pena. Yvon Kempeneers non aveva nessuna voglia di “fissarsi”. Non chiedeva altro che di poter voltare pagina, guardarsi un porno, farsi secca una bottiglia di whisky e dormire nel divano della sala, ma appena chiudeva gli occhi, appena lasciava vagabondare il pensiero, ecco che ricadeva sulla stessa immagine. Il corpo che rimbalza sul cofano della macchina. Si sentiva in colpa. Quando si metteva a tavola, il bianco dei piatti gli ricordava la maglietta. Azionava la lavastoviglie, e il ronzio dell’elica e dell’acqua assomigliava al russare del ragazzo nell’Audi. Non ne sarebbe venuto fuori mai. Doveva distrarsi. Uscì dalla villa e salì in macchina, con il profumo che aveva impregnato il poggiatesta di cuoio.

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Per tranquillizzarsi, cercava di convincersi che in fondo non era successo nulla. Il ragazzo si era fatto una dormitina sul sedile del passeggero, e se ne era andato via in piena forma. Kempeneers guidava alla cieca, lasciando alle mani il controllo del volante. Guidava come un matto, con i pensieri che gli si accavallavano in testa: sarebbe stato tutto così facile se gli avesse chiesto il nome, se avesse frugato nel suo portafoglio mentre dormiva e dato un’occhiata alla carta d’identità. Luigi al telefono aveva pronunciato un nome strano, ma lui non aveva fatto lo sforzo di memorizzarlo, non pensava che sarebbe stato importante, in quel momento cercava solo di sbarazzarsi il prima possibile dell’interlocutore. Di Luigi dovevano essercene delle centinaia a Bruxelles. E i tipi di una ventina d’anni con i capelli neri e i jeans, quelli dovevano contarsi a decine di migliaia. Parcheggiò l’Audi in boulevard Pachéco. Solo una volta spento il motore si rese conto di cosa stava facendo. Stava tornando sul luogo del crimine. Come un assassino – pensò – ma io non ho ucciso nessuno, sono innocente. Mi sento colpevole, ma passerà. Ripartì al rallentatore, si lasciò scivolare nella sua grossa macchina scura, non sapendo dove continuare il suo giro. Ora che guardava la strada, nulla pareva più naturale. Si disse che già che c’era sarebbe sceso verso gli argini. Parcheggiò davanti all’officina della Citroën, appena prima del canale. Continuò a piedi, verso destra. Raggiunse il luogo in cui il giorno prima aveva lasciato il ragazzo. Era già scesa la notte, di nuovo. Ogni giorno lo stesso fenomeno e ogni giorno la stessa oscurità. Prese la strada in cui aveva visto il giovane allontanarsi. Quanti anni aveva di preciso? Venti? Un po’ di più? Un po’ di meno? Ai piedi di una colonnina elettrica, c’era una pozza di vomito spiaccicata sui sampietrini del marciapiede.

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Non poté fare a meno di chinarsi per guardare più da vicino. C’erano delle tracce rosse. Del sangue? Le gambe gli facevano giacomo giacomo, un tremito si impossessò dei suoi polpacci. La pozza non era fresca, si era seccata al sole. Non c’era dubbio, era stato lui, il giorno prima. Yvon sentì un sudore freddo scivolargli lungo il corpo, sotto la camicia. Era venuto lì per tranquillizzarsi ed ecco che si faceva prendere dal panico. Doveva riprendersi. Fece ritorno alla macchina a grandi falcate, si sedette al volante, affondando la testa nelle spalle, e si mise a spiare il marciapiede. Cosa sperava? Che il giovane ricomparisse a sua volta, di ritorno sul luogo della commozione cerebrale, che i genitori di lui in lutto venissero lì ai piedi della colonnina, soli o accompagnati dal figlio - questa volta in una bara – a depositare un mazzo di fiori? Gli brontolava l’intestino. Era stanco morto. Aveva le mani umidicce. Finì per chiamare un amico medico. I suoi timori erano fondati: in caso di shock traumatico, il vomito può seguire un periodo di sonnolenza. Questo può indicare molte cose. Delle lesioni interne? Sì. Uno può morire? Sì, certo, ma i sintomi erano troppo vaghi perché si potesse stabilire una diagnosi. Kempeneers ringraziò, riagganciò con calma e morse il volante. Di gusto. Ripartì in direzione della sua grande villa silenziosa. Pensava ai figli. Che potevano benissimo farsi investire in qualsiasi momento. Che forse si era fatti investire e non l’avevano nemmeno avvertito. E di sicuro non sarebbe stata la sua ex moglie a chiamarlo per metterlo al corrente. No di certo. Dov’erano tutti e due in quel momento? Soli nel loro kota Louvain? Ubriachi a una festa, cannati in un parcheggio…? Ancora un’immagine di macchine? Yvon non riusciva a venirne fuori. Si fece secca una bottiglia di whisky e poi finì il Bailey’s.

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La miscela non gli riuscì e terminò la serata in bagno, soffrendo come un cane, come uno con un trauma cranico, come un ragazzo che non ha chiesto nulla a nessuno e si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Finalmente, arrivò il sonno. Un sonno agitato. Sudato. Estenuante.

Yvon si svegliò con una faccia da cadavere e l’alito di un beccamorto. Gli occhi incavati, la barba che spunta da tutti i pori e un colorito da sudario. Si fece due uova strapazzate, buttò giù due tazze di caffè, una dopo l’altra, un colpo di rasoio, in fretta e furia, e via con la cravatta. Sarebbe arrivato in ritardo in ufficio. Non poteva permetterselo. Fuori faceva già caldo. Come tutti i giorni. Calore di mattina: la sofferenza si avvicina. Calore di sera: la disperazione è ogn’ora più nera. Yvon si svestì e buttò la giacca nell’Audi. Richiuse la porta e partì come un razzo.

È allora, al momento di riprendere la giacca, che vide la busta beige. Era scivolata laggiù, tra il sedile del passeggero e la portiera, una grande busta color crema strappata in fretta e furia. Yvon l’afferrò, in preda ad un’agitazione febbrile. C’era un indirizzo. Si diede un’occhiata intorno: non c’era nessuno che gli prestasse attenzione, a lui, un Signor X in giacca e cravatta in piedi davanti alla sua macchina rispettabile. Si fece scivolare la busta sotto un lembo della giacca e corse in ufficio.

La mattinata volò via in un baleno. Yvon non pensava ad altro che all’indirizzo. E alla busta. All’indirizzo sulla busta. L’aveva nascosta nel cassetto in basso della sua scrivania. Non poteva fare a meno di aprirlo per rileggere il nome: Edmond Deltour, rue de Rome a Saint-Gilles. Aveva ritrovato il suo giovane sventurato.

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Non solo: aveva tra le mani, o piuttosto tra le assi della scrivania, un eccellente pretesto per ritrovare il ragazzo, andare a suonare a casa sua e chiedere sue notizie. Editions de Minuit. Nonostante tutto, questa storia lo intrigava. Dopo due ore passate a fare finta di lavorare, Kempeneers si chiuse in bagno con la busta. Scorse velocemente la lettera e si buttò sul manoscritto. Era più che della semplice curiosità, era lancinante come una pancia vuota, straziante come un taglio al piede, era più forte di lui, doveva assolutamente leggere quel testo.

Restò in bagno un’ora e mezza. Aveva letto tutto d’un fiato. Era sconvolto.

- Ti rendi conto – spiegava a Jean-Michel – ho rischiato di mettere sotto un genio! È formidabile, ‘sto libro.

- Ma l’editore l’ha rifiutato.

- Quello non ci capisce nulla. Ti dico che è formidabile.

- Cos’è, adesso sei un esperto di letteratura? Vuoi abbandonare la farmacia?

- Sii un po’ serio per due minuti. Non c’è mica bisogno di essere un intenditore per leggere un romanzo. Credi veramente che uno deve essere esperto di effetti speciali per spassarsela davanti a Guerre Stellari? O un compositore per apprezzare Tchaïkovski ?

- Cieco chi ?

- Ok, basta ! Non puoi proprio fare a meno di ridere di tutto, tu.

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- Yvon, sei tu che sei un po’ troppo serio in questi ultimi tempi. Hai una brutta cera. Secondo me dovresti farti una scopata, ti aiuterebbe a rilassarti. E lascia perdere il tuo autore in fuga, tutto questo non ti porterà da nessuna parte. Hai avuto notizie dei tuoi figli, ultimamente? Dovresti chiamarli, sai…

- Questo testo mi ha sconvolto. Mi ha toccato nel profondo. E mi ha fatto venire un’idea.

- Per una volta che non rubi quella di un altro !

- Jean-Michel, stai diventando pesante. Mi sono detto che per me dovrebbe essere più facile convincere un editore. Alla sua età, non deve saperne granché.

- Mentre tu, invece… tu non ne sai nulla.

- Ma conosco della gente che conosce della gente che…

Se c’erano due cose che Luigi proprio non sopportava era che lo prendessero per il culo e che gli riagganciassero in faccia. E Yvon Kempeneers le aveva fatte tutte e due in un colpo solo. Luigi non aveva apprezzato. Durante la serata a Bruxelles-les-Bains, quando ebbe chiaro che Fabian non aveva nessuna intenzione di dare la caccia al suo pirata della strada in Audi blu scuro per regolare i conti, Luigi aveva avuto una sola idea in testa: sottrarre il biglietto da visita e sistemare questa storia personalmente, in solitaria.

Ci era riuscito abbastanza facilmente. Profittando della ressa durante il concerto, nel momento in cui cercavano di aprirsi un varco verso le prime file, si era incollato a Fabian e aveva fatto scivolare il cartoncino

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dalla tasca dietro dei jeans di lui alla tasca davanti dei suoi. E via, gliel’aveva fatta ! Era molto fiero di questa operazione. Aveva continuato a divertirsi con gli altri come se nulla fosse. Avevano bevuto, saltato, urlato. Si erano rotolati nella sabbia e, sulla via del ritorno, avevano continuato a spingersi contro i sacchi della spazzatura.

Ma ecco che al suo risveglio, l’indomani a inizio pomeriggio, Luigi si rese conto che i jeans erano spariti. Eppure non erano lontani. Li ritrovò, stirati di fresco e piegati con cura, tra le braccia di sua madre, che lo guardava sorridendo.

- Ti sei divertito ieri sera?

- Sì.

- C’è della pasta per te in cucina.

Luigi si era fiondato sui jeans, aveva fatto scivolare la mano nella tasca e ne aveva tirato fuori un cartoncino scolorito, distrutto, lavato, asciugato, ridotto a brandelli. La sola cosa ancora riconoscibile era una parte dell’indirizzo « …ussels ». Tutto il resto era ormai illeggibile. Preso dalla rabbia, Luigi buttò gli spaghetti nel lavello.

Era la terza volta che Yvon componeva il numero quella mattina. L’aveva trovato tramite il servizio informazioni. Una volta che hai un indirizzo e un nome, trovare il numero di telefono è un gioco da ragazzi. Ancora una volta, a rispondergli fu la segreteria. « Belgacom. L’utente da lei contattato non è disponibile. Si prega di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico ».

Kempeneers riagganciò. Non sapeva cosa dire. Era così eccitato quella mattina, da quando finalmente aveva ricevuto una lettera entusiasta,

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la prima risposta positiva dopo una raffica di cortesi rifiuti. Era un piccolo editore di Bruxelles, che non nascondeva il proprio entusiasmo:

« Il suo testo ha suscitato molte discussioni all’interno della nostra casa editrice: lei non dice nulla ma parla di tutto, o più esattamente il contrario, non parla di niente ma riesce a dire tutto. Vorremmo incontrarla per determinare le modalità di pubblicazione del suo primo romanzo all’interno della nostra collezione letteraria ».

Ora doveva ritrovare al più presto il suo Edmond per annunciargli la lieta novella. Le settimane erano passate e Yvon aveva iniziato da solo le operazioni di marketing. Aveva fotocopiato il testo in quindici esemplari e redatto una bella lettera d’accompagnamento con l’aiuto di uno dei suoi redattori pubblicitari, una lettera un po’ in stile melodramma da quattro soldi, ma non troppo. Aveva leggermente forzato sul pathos, senza tuttavia superare i limiti del verosimile: orfano da quando aveva tre anni, picchiato dal padre adottivo, a dodici anni aveva dovuto iniziare a lavorare per mantenersi ed essere indipendente. Un cane pazzo era il suo primo romanzo. Quello almeno non era falso, si era detto scrivendo la lettera, ma ora che c’era una risposta concreta, Yvon si rendeva conto che in fondo non ne sapeva nulla. Nonostante l’eccitazione, questo pensiero non mancò di tormentare l’esperto in comunicazione farmaceutica, ma molto meno del suo principale dilemma da quando aveva ricevuto quella lettera entusiasta: da un lato, non vedeva l’ora di annunciare all’autore, il tizio che aveva messo sotto con la macchina, che lui, col suo testo, aveva messo sottosopra un’intera casa editrice. Ma dall’altro, temeva il momento in cui avrebbe dovuto spiegare in che modo il manoscritto era finito nelle mani dell’editore e perché lui, Yvon, non l’avesse restituito subito dopo averlo trovato. È vero che se lo domandava pure lui,

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e che anche Jean-Michel dal canto suo non mancava di chiederglielo. Il rimorso aveva sicuramente il suo peso in questa decisione: Yvon si sentiva in colpa per l’incidente e voleva allo stesso tempo sparire per sempre dalla vita del ragazzo e riuscire nell’impossibile – compensare quella brutta botta in testa con una bella botta di fortuna. Voleva portare a compimento un piccolo miracolo, fare un regalo che avrebbe fatto veramente piacere. Ma al momento di entrare in contatto con il giovane, Yvon recalcitrava.

Così si spiegava che avesse chiamato quattro volte senza lasciare neanche un messaggio.

Quasi sei. Alla settima, finì per lasciare la seguente traccia sul server dell’operatore telefonico:

« Buonasera, sono Yvon Kempeneers. Probabilmente non si ricorderà di me. Ho una notizia eccellente per lei e il suo romanzo. Mi chiami al più presto. » Quindi lasciò il suo numero di telefono e restò in attesa, più in ansia che mai.

Due giorni erano passati e il telefono non aveva ancora squillato. Yvon aveva i nervi a fior di pelle. Iniziava ad avercela sul serio con questo ragazzino che non rispondeva ai messaggi né alle chiamate, giorno o notte che fosse. Richiamò, e lasciò altri due messaggi. Il primo furioso, offensivo, in cui rinfacciava ad Edmond di essere arrogante e superbo, il secondo penoso, nel quale si scusava e rimpiangeva che non ci fosse un servizio Belgacom per cancellare i messaggi registrati. Ma queste due comunicazioni non ebbero affatto più successo di quelle precedenti. Yvon passava in rassegna le ipotesi nella sua mente: Edmond Deltour era andato in vacanza, in ritiro a Orval per prepararsi agli

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esami di Settembre, stava custodendo il castello dei suoi nelle Ardenne mentre loro erano a Malaga, era inviato speciale a Baghdad per un giornale universitario. Ma nessuna di queste opzioni lo soddisfaceva realmente, e non riusciva a togliersi dalla testa questa storia della commozione cerebrale a scoppio ritardato. Edmond era passato all’altro mondo, ormai era certo. Non avevano chiuso la linea telefonica, i genitori erano distrutti dal dolore, mica c’era stato il tempo di sistemare i dettagli pratici, il nastro girava ancora ma tutto il resto si era fermato. Doveva vederci chiaro. E poi no, questa storia del nastro non stava in piedi, le segreterie telefoniche della Belgacom si trovavano nella centrale e non erano altro che delle carte SIM digitali, i nastri non si usavano più da anni. Era il terzo giorno senza notizie, a Vilnius avevano appena interrogato un’altra volta Bertrand Cantat, mentre New York era immersa nel buio per una notte intera e in Europa la canicola non accennava a attenuarsi e gli incendi nei boschi erano ancora più devastanti che gli incidenti al ritorno dalle vacanze. Approfittò della pausa di mezzogiorno e, con il pretesto di un pranzo d’affari, filò a prendere l’Audi. Era appena partito che già se ne pentiva. Da avenue Louise a rue de Rome a piedi ci avrebbe messo otto minuti, mentre in macchina continuò a girare in tondo per un quarto d’ora prima di trovare un posteggio. Alla fine parcheggiò in un posto riservato ai pompieri in rue Hôtel des Monnaies e mise le frecce di emergenza. La casa la trovò senza sforzo e senza fascino. Era una costruzione stretta e interminabile, in cattivo stato, con una decina di campanelli. Dev’essere un kot, ne dedusse lui, fiero dei suoi talenti di detective che stava scoprendo proprio allora. Avrò contribuito a trasformare un semplice studente in un grande scrittore, in fondo non avrò sbagliato tutto, si diceva,

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aspettando una risposta alla sua citofonata. Risposta che non venne. Né al primo tentativo, né al quinto. In compenso, al quarto piano comparve una testa.

- La porta è aperta. Salga e lasci in pace quel citofono, è all’ultimo piano.

Yvon ringraziò la vecchia dai capelli rossi e non si fece pregare. Si mise gli occhiali da sole in tasca. Nell’edificio faceva caldo come fuori. Il corridoio era ingombro di biciclette e di sacchi della spazzatura di tutti i colori. Con il calore, quell’insieme emanava un tanfo insopportabile. C’era una sola scala, Yvon la prese senza esitare. Salì con calma e, una volta arrivato all’ultima rampa, fece una pausa. Aveva chiamato e non rispondeva nessuno. Aveva suonato e non c’era stata risposta. Cosa sperava di ottenere salendo fino alla porta? Di lasciare un messaggio di più all’eterno assente ? Di scorgere un dettaglio che l’avrebbe aiutato a ritrovare le tracce del suo protetto? Quell’arrampicata su per le scale gli aveva lasciato delle chiazze di sudore sotto le ascelle. La fronte gli si mise a gocciolare a sua volta. Se restava lì in piedi sulle scale, rischiava di sciogliersi. Raggiunse il pianerottolo finale. La porta di destra era sfondata e dava su una minuscola cameretta mansardata, abbandonata da settimane. Su quella di sinistra non c’era assolutamente nulla, a parte una grossa serratura all’antica e una maniglia di plastica rossa a buon mercato. Yvon chiuse gli occhi un secondo, tirò fuori la lettera dell’editore e bussò educatamente.

Visto che non aveva ottenuto risposta – al citofono come alla porta – visto che iniziava ad avere un bruttissimo presentimento,

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visto che l’odore nella tromba delle scale lo indisponeva, visto che la pausa pranzo non poteva durare per tutto il giorno, visto che aveva provato a dare un’occhiata nel buco della serratura ma non aveva visto assolutamente nulla perché c’era la chiave dentro, visto che a questo punto il cuore gli si era messo a palpitare da far paura, visto che il calore rendeva impossibile ogni forma di riflessione evoluta, visto che non dormiva come si deve da più di dieci giorni, Yvon Kempeneers girò la maniglia e constatò che la porta non era chiusa a chiave. Di colpo, sentì freddo in tutto il corpo.

L’appartamento era minuscolo e, malgrado il sole di mezzogiorno, le tende chiuse lo immergevano in una penombra aranciastra. L’odore era ancora più insopportabile che nella tromba delle scale. Yvon si mise a cercare a tentoni l’interruttore e lo scovò, sul muro di sinistra. Esitò un istante e poi accese la luce, premendo forte con il palmo sul muro. La luce lo accecò leggermente, ma è lo scenario che lo aspettava di lì a poco che gli avrebbe fatto sgranare gli occhi per davvero. C’era un tavolino, sotto il lucernario, dove troneggiava una vecchia macchina da scrivere circondata da pile di carta ingiallita. E c’era disordine ovunque, vestiti polverosi sulle sedie, uno spazzolino da denti nel lavandino, un angolo doccia che serviva da ripostiglio per una pila di sacchetti di plastica. Ma soprattutto c’era, nella parte bassa del sottotetto, su un vecchio letto di legno cerato, una forma umana avvolta nelle coperte. Yvon ebbe un orribile presentimento. Si avvicinò a passi lenti, afferrò una scopa, tenendola per il manico, e la usò per picchiettare sulle coperte. Tutto questo gli ricordava il suo tentativo di risvegliare il ragazzo in macchina.

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Il corpo non si mosse. Con l’estremità del manico, Yvon sollevò la coperta. No. Si trattenne. Sapeva fin troppo bene cosa avrebbe trovato lì sotto. E non aveva nessuna voglia di vedere quella realtà in faccia. L’odore la diceva già lunga. Si immobilizzò. Che pessima idea aveva avuto andando fin là ? E perché si era messo in testa di inviare quel manoscritto agli editori? Per chi si era preso? E come avrebbe spiegato tutto questo? Ora era un assassino. Involontario, certo, ma c’erano così tanti indizi che lo inchiodavano: i messaggi sulla segreteria telefonica, la lista delle chiamate ricevute dalla vittima prima o dopo la morte, tutto questo sarebbe stato verificato dalla polizia, l’avrebbero interrogato, lui avrebbe finito per ammettere l’incidente, avrebbero notato l’ammaccatura sul cofano, Luigi avrebbe testimoniato, e così la vecchia con i capelli rossi, e poi c’erano le sue impronte sul manico della scopa, sull’interruttore. Insomma, era spacciato. Non aveva fatto niente, eppure era nella merda. Omissione di soccorso, questo bastava per accusare Cantat e tenerlo in prigione. E adesso che era penetrato nella camera del morto, Yvon non aveva più dubbi. Sapeva dove tutta quella storia l’aveva portato, e ora doveva reagire, ritrovare le forze. Doveva chiamare il pronto soccorso, al più presto. Ma non da lì, così avrebbe aggiunto un’altra serie di impronte, era meglio evitare. Spense la luce, strofinò l’interruttore con il fazzoletto come l’aveva visto fare nei film, tirò la porta e scese le scale. Compose il 112. Diede le coordinate dell’appartamento e chiese di poter confessare un incidente mortale. Lo pregarono di passare al commissariato. Annunciò che stava arrivando. Chiamò la segretaria per avvisarla che non sarebbe stato in ufficio quel pomeriggio, poi camminò fino al comune. Il sole batteva più forte che mai. Per la prima volta da molte settimane a quella parte,

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un venticello leggero correva lungo le facciate dei palazzi. Le vent nous portera, pensò Yvon, spingendo la porta del commissariato.

Luigi non credeva ai suoi occhi. Era la terza volta che un’Audi blu scuro passava davanti alla panchina su cui era seduto, il tutto in meno di quattro minuti. A bordo, un tipo grassoccio, da solo. Non poteva trattarsi di una coincidenza. Doveva essere un segno del destino. Quante Audi A3 di quel blu scuro potevano esserci a Bruxelles? Quante guidate da tripponi pelati? Forse tutte, ma Luigi stentava a immaginarlo. Per lui, era quella giusta. Quella che la fortuna gli serviva su un piatto d’argento. Quella del cafone che gli aveva riagganciato in faccia. Così, non appena il tizio aveva girato l’angolo, Luigi aveva tirato fuori il suo coltellino e gli aveva lacerato le gomme. Poi, prima di allontanarsi, aveva sistemato per bene il parabrezza con un ultimo calcio rotante. Uno pari, palla al centro, aveva mormorato. Luigi si era sentito sollevato. Così sollevato che, al momento di attraversare la strada, non si era accorto che un camion stava per centrarlo in pieno.

Raccontò tutto nei dettagli. L’incidente all’incrocio Arts-Loi, il panico che si era impadronito di lui, la dormita del giovane e infine la sua partenza precipitosa. Mentì su molti dettagli. Sostituì il manoscritto con una semplice busta, e disse che si sentiva sempre più inquieto, e che proprio per questo aveva chiamato più volte il ragazzo e alla fine si era deciso a recarsi sul posto.

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Spiegò che non aveva mai dormito così male come dopo l’incidente, che era logorato dai rimorsi, che la sua vita era distrutta, che non si sarebbe ripreso mai più. Il funzionario gli fece firmare la deposizione e lo pregò di restare a disposizione della giustizia.

- Ma come, non mi arresta ?

- Lei non costituisce un pericolo pubblico, e difficilmente cercherà di scappare in Venezuela. Se risponde alle convocazioni del giudice, non vedo ragione di ingombrare le prigioni con della gente onesta.

Dopo aver lasciato che l’angoscia lo logorasse per più di dieci giorni, ora Yvon Kempeneers era un po’ deluso. Pensava di valere più di una semplice deposizione. Il suo nome non sarebbe apparso sui giornali, la sua vita non sarebbe diventata un inferno, nulla sarebbe cambiato, in fondo. Forse non avrebbe neanche mai pagato per quel delitto, lui, il pirata della strada, questo assassino a motore e a scoppio ritardato. Non lo giudicavano pericoloso, nemmeno veramente colpevole, se ne rendeva conto.

E tutto questo lo tormentava.

Tornò alla macchina. Il parabrezza era sfondato e tutte e quattro le ruote forate. Fu preso da un conato di vomito. Si appoggiò sul cofano, e vomitò sulle sue scarpe inglesi. Ritornò al commissariato per presentare un’altra deposizione. Dovette aspettare una ventina di minuti, seduto su una panca di legno accanto a un fattorino dell’Ikea a cui tremavano le mani. I poliziotti avevano una specie di sorrisetto sulla faccia mentre digitavano alla tastiera. Quanto a lui, il meccanico di Touring Secours non aveva mai visto un macello tale.

- Ci vuole meno di un minuto a un vandalo per distruggere una macchina, e delle ore per rimetterla a posto.

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- È la stessa cosa quando si mette sotto un pedone, no ? mormorò Yvon.

Non si aspettava una risposta.

Tornò a casa e cercò di mandare giù dei resti di bastoncini di pesce, ma non c’era verso. Si sedette sul divano e non accese la televisione. Restò a guardare il soffitto per delle ore.

Nei giorni a venire lo interrogarono. Fu convocato, torchiato. Non c’era nulla che quadrasse. Nell’appartamento di rue de Rome avevano trovato la spoglia di un vecchio di novantatré anni. C’erano pile di manoscritti e lettere di rifiuto accumulate per un buon mezzo secolo, ma i poliziotti non ci fecero caso. Il vecchio era stato vinto dal calore. Complice la cattiva idratazione e un tasso di ozono allarmante in tutta Bruxelles, il cuore aveva ceduto definitivamente al ritorno dalla spesa, dopo la fatale salita delle scale. Il frigo era pieno: tre bottiglie di Bardolino dovevano aver avuto la meglio su quel povero scrittore in erba, che ormai di erba avrebbe visto solo quella del cimitero. La polizia non sapeva cosa farne della confessione di Kempeneers. Il vecchio Edmond non aveva nessuna traccia di contusioni, tanto meno di una commozione cerebrale. Non potevano certo fargli un’autopsia per sostenere le tesi penose di un ciccione in completo tre pezzi. I poliziotti gli consigliarono di riposarsi. Spiegò che tutto questo era impossibile, che aveva trascorso una serata con Edmond Deltour e che lui era giovane e muscoloso, aveva scritto un capolavoro, non poteva essere morto così.

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Il vecchio non aveva parenti. Svuotarono il suo appartamento. I manoscritti furono evacuati insieme ai cartoni per la raccolta differenziata.

Yvon Kempeneers non aveva più granché a cui aggrapparsi. Iniziò a bere sempre più presto, e il pomeriggio non si presentava più regolarmente al lavoro. Bastava un nulla per irritarlo. A volte piangeva per una notte intera. Quando l’editore chiamò per sapere perché la lettera non avesse mai ricevuto risposta, dichiarò che non conosceva il destinatario della busta e chiese che non lo importunassero più con questa storia.

A New York era tornata l’elettricità, Marie Trintignant riposava al Père Lachaise e Fabian Peeters, più in forma che mai, stava pensando seriamente di comprarsi un cellulare i-mode.

Le radio non diffondevano più le canzoni dei Noir Désir. E Un cane pazzo sarebbe rimasto per sempre un manoscritto inedito.

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