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6. Le molteplici sfaccettature del modello «male breadwinner»: gli uomini tra famiglia e vita lavorativa

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breadwinner»: gli uomini tra famiglia e vita

lavorativa

Famiglie senza padri e cyborgs

«(As I was) watching (my son) John with the machine, it was suddenly so clear. The Terminator would never stop, and it would never leave him, hurt him, or shout at him, or get drunk and hit him, or say it was too busy to spend time with him. It would always be there and it would die to protect him. Of all the would-be fathers who came and went over the years, this thing, this machine, was the only one who measured up. In an insane worls, it was the sanest choise.»

In «Terminator II –Judgment Day» (1991), la madre Sarah Connor descrive il Terminator T-800 come un padre che, nella realtà fatta di uomini in carne e ossa, quasi non esiste più. E’ attento, sempre presente quando c’è bisogno di lui e inoltre si dimostra pronto a proteggere la vita della madre, che alleva da sola il figlio John, anche a costo della propria autodistruzione. Questa macchina, che si sostituisce al ruolo del padre e ne è un surrogato, è caratterizzata da una modalità d’agire tipica del maschile e da una potenza che non è per nulla metaforica. Vuole farci credere che nella società di fine XX secolo, società che appare logorata e caratterizzata da un modello di famiglia disfunzionale, la figura del padre ideale debba tornare dal futuro per poter aiutare i giovani del presente a diventare veri uomini. E proprio grazie a questi uomini e grazie al giovane John Connor (J.C = Jesus Christus) l’umanità potrà essere salvata dal declino e la storia potrà avere una migliore conclusione. Un Cyborg come il Terminator non ha un genere e perciò può incarnare meglio il modello di un padre forte e che sia capace di comportarsi da «vero uomo» (Haraway 1991; Brunotte 1998). Il vasto interesse storiografico nei confronti della famiglia, delle funzioni del padre e del mondo del lavoro rispecchia le problematiche impellenti della nostra epoca. Da questa parte dell’oceano, come anche dall’altra, sono in molti a lamentare

Nuovi padri e nuovi valori familiari

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l’estinzione della specie del padre «buono e giusto». Se da una parte, molti «nuovi padri» collaborano all’educazione dei figli (Sieder 2000), dall’altra, molti altri uomini piantano in asso le loro famiglie oppure, a causa del lavoro, non sono presenti nella vita famigliare (Mitscherlich 1963; Blankenhorn 1995; Bader 2000). Le madri che da sole e senza un vero punto di riferimento maschile allevano i loro figli, i quali spesso sono a loro volta soli a causa dell’assenza di figure genitoriali stabili, non dovrebbero essere considerate semplicemente come l’espressione di un modello di famiglia disfunzionale ma anche come espressione di una profonda crisi. Bisogna dire, inoltre, per quanto riguarda le coppie omosessuali, che queste stanno assumendo un atteggiamento sempre più deciso nei confronti del loro diritto al matrimonio ufficialmente riconosciuto, alla possibilità dell’adozione e della fecondazione artificiale. I critici conservatori credono sia necessario dare avvio ad un’ intensa battaglia sul tema della famiglia nucleare e sul tema dei «family values». Intendono accusare una società che ormai avrebbe perso i suoi punti di riferimento (Kimmel 2000: 111-149; Adam 2003). Il modello della famiglia nucleare appare, nelle ampie discussioni a riguardo, come un ideale al quale aspirare e che rispecchierebbe la concezione dei «ruoli di genere» uomo-donna, come ruoli caratterizzati da naturalità e atemporalità. Soprattutto ai cambiamenti sociali che seguirono il 1968 venne attribuita la colpa del disordine sociale e del disordine dei ruoli di genere oltre che della perdita del modello «positivo»di famiglia. Ma a questa, come anche ad altre deformazioni e trasfigurazioni nostalgiche sulla famiglia del passato, sono state contrapposte, a partire dagli anni Settanta, ulteriori analisi storiche, frutto dello sviluppo di studi con oggetto la famiglia. Micheal Mitterauer ha smascherato il «mito» della famiglia estesa in epoca preindustriale(1976b), Claudia Opitz (1994) si è occupata del concetto di «ganzen Hauses» (Brunner 1968)mettendo in discussione l’idea che questo fosse un modello consolidato nelle società della prima età moderna. Stephanie Coontz ha potuto dimostrare che l’ideale borghese della famiglia nucleare caratterizzata da ruoli di genere stabili, probabilmente, non è mai esistito nella storia. The Way

We Never Were (1992)è il titolo di uno dei suoi libri, nel quale viene data centrale importanza alla discrepanza tra norma e realtà sociale. Nel caso in cui la storia delle maschilità voglia interessarsi al concetto di padre, essa può appoggiarsi a questi e anche ad altri risultati delle ricerche sulla famiglia. Un

Ricerca storica sulla famiglia

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ulteriore punto di riferimento per le ricerche storiche con oggetto il ruolo paterno è costituito dalla storia di genere. Questa si è occupata di tematizzare il femminile e la posizione della donna all’interno della famiglia e delle relazioni sociali. E a riguardo, le ricerche degli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, relativizzano l’idea che, a partire dalla fine del XVIII secolo, uomini e donne abbiano vissuto la segmentazione sociale tra sfera pubblica e privata in maniera nettamente separata. Malgrado per l’uomo e la donna vi fossero possibilità diverse di accesso alle risorse sociali e di partecipazione all’organizzazione politica della società, i confini tra “sfera pubblica e privata” non erano del tutto invalicabili e perciò le donne avevano possibilità d’accesso alla sfera pubblica. Le donne lavoravano per ottenere un salario, gestivano negozi, si esprimevano scrivendo in giornali come i periodici e prendevano parte a movimenti sociali, religiosi, politici o finalizzati alle opere di carità (Hausen 1992; Davidhoff 1993; Weckel 1998). Il superamento del modello di pensiero dicotomico ha comportato non soltanto una maggiore riflessione sulla posizione del femminile nella sfera pubblica ma, viceversa, anche del maschile nella sfera privata. Giudizi sommari o grandi teorizzazioni (Lenzen 1991)vengono messi da parte per dare spazio ad argomentazioni più disparate.

Padri nella prima età moderna

Per approfondire gli aspetti che riguardano la gestione della casa, la famiglia, i rapporti di coppia e le configurazioni di genere nelle società riformate della prima età moderna, gli studi di Steven Ozment (1983), Lyndal Roper (1989) e Susanna Burghart (1999) rappresentano senza dubbio degli strumenti utili per un primo approccio alla ricerca. Il «capofamiglia» è un modello patriarcale che caratterizza l’uomo della prima età moderna. Il suo ruolo di potere e dominio, che si fonda sulla volontà divina, rappresenta il modello fondamentale degli ordini corporativi. Il “pater familias” aveva un ruolo di grande potere ma, allo stesso tempo, era obbligato a preoccuparsi del benessere dei suoi sottoposti. All’interno della comunità, egli era il rappresentante della casa. La «madre di

Padri di famiglia

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famiglia» era invece obbligata alla sottomissione, pur mantenendo un certo grado di autonomia che però non si riduceva ad una sfera precisa.

Recenti ricerche degli anni Novanta del XX secolo si sono occupate di queste rigide prospettive dicotomiche, cercando appunto di ampliarle e colmarle. Heide Wunder (1991;1992) ha sottolineato, in primo luogo, come per molte coppie del mondo rurale e sottoborghese non esistesse una specifica suddivisione delle mansioni relative alla gestione della casa e che, inoltre, pochi erano gli uomini che ricoprivano il ruolo di capofamiglia. In secondo luogo, Heide Wunder ha evidenziato come, in età premoderna, i rapporti di coppia fossero in realtà molto più egualitari di quanto si pensi. Per quanto riguarda l’aspetto della condivisione e della partecipazione alla vita familiare, molto importante è il ruolo della donna, la quale contribuiva, dal punto di vista economico, alle entrate familiari. Inoltre, era del tutto normale che le donne assumessero le mansioni dei loro uomini, nel caso questi ultimi morissero o si assentassero per molto tempo. Benchè il topos della donna “con i pantaloni” abbia comportato per gli uomini dell’epoca un certo sconvolgimento, minacciando le gerarchie di genere della prima età moderna, tale topos è stato spesso caratterizzato da molte imprecisioni.

Prendendo spunto, in particolare, da atti giuridici o casi di processi matrimoniali, alcuni studi hanno offerto un panorama sulla vita di tutti giorni delle coppie, evidenziando come le donne non fossero assolutamente così obbedienti come, in teoria, avrebbero dovuto. Inoltre, l’autorità maschile spesso doveva essere imposta prevalentemente con la forza (Beck 1997;Schmidt 1998, 2003). E a riguardo, il consumo sempre maggiore di alcool rappresentava una delle motivazioni per le quali le donne si rivolgevano alla giustizia (Frank 1998a). Già nel XVI secolo, l’alcool venne identificato come uno specifico problema maschile, una sfida continua all’autocontrollo, origine dell’ozio, pericolo per la gestione della casa, per la salute e per l’equilibrio dell’educazione e della disciplina religiosa. L’uomo che beveva molto, trascurando i propri doveri coniugali e di padre famiglia, in qualità di uomo, aveva fallito. Al contrario, l’uomo che beveva molto ma riusciva a mantenere il controllo su se stesso e sulla sua vita rappresentava un esempio di autentica virilità. L’analisi dei conflitti matrimoniali permette una maggiore conoscenza di quella che era la quotidianità e le aspettative degli uomini e delle donne all’interno della vita di coppia (Lutz 2006). Mentre le donne, rivolgendosi alla giustizia, lottavano

Conflitti matrimoniali

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principalmente contro la violenza maschile e a favore della propria sicurezza economica, gli uomini incolpavano le donne davanti alla legge, principalmente della cattiva gestione della casa e di una mancata attenzione agli sprechi. Inoltre, già dal XVII secolo, la difesa del sentimento dell’amore all’interno del rapporto di coppia diventa un argomento che compare sempre più frequentemente nei tribunali (Beck 1997) dove sempre più spesso giovani coppie “bruciano d’amore”. In genere, l’accusa era quella di «ratto della donna», benché in realtà si trattasse di amore e resistenza nei confronti delle gerarchie e degli ordini sociali dominanti (Schmale 2003:143). Tuttavia, soltanto alla fine del XVIII secolo, il matrimonio d’amore diventa un topos di grande importanza.

Se si prende in esame la storia delle colonie del nord America, ci si accorge di come, soprattutto all’inizio, vi sia stata carenza di letteratura che avesse come oggetto di studio la figura del padre. A riguardo, diversi studi storici si sono certamente occupati delle analogie esistenti tra la gestione della casa e la gestione dello Stato, come anche della figura del patriarca, il quale rappresentava l’anello di congiunzione tra la famiglia, la comunità, lo Stato e Dio ed era inoltre responsabile del benessere ma anche del controllo della popolazione sulla quale egli esercitava il comando (Morgan 1966). Tuttavia, si tratta di studi che hanno oltremodo ignorato la dimensione storica e la dimensione di genere di tale configurazione. Ma dagli anni Novanta del XX secolo, la situazione è cambiata. A riguardo, si prendano come riferimento le opere di Mary Beth Norton sulla storia delle donne e degli uomini, del femminile e del maschile, nel New

England del XVII secolo (Norton 1996). Grazie a studi recenti che hanno relativizzato la durezza di cuore dei padri puritani, l’immagine del patriarca intransigente ha perso, in buona parte, la sua caratterizzazione di austerità. Tali studi hanno messo in evidenza come l’affetto paterno fosse invece un elemento importante per la loro educazione. A questa immagine di austerità vanno anche aggiunti aspetti come l’amorevolezza, il sentimento di compassione, l’insicurezza e la vulnerabilità di questi padri (Wilson 1999;Lombard 2003;Martschukat 2007a/Stieglitz: 65-81). Per quanto riguarda le colonie del sud, studi recenti dimostrano come la costruzione di genere si ricollegasse in parte alle tradizioni inglesi ma allo stesso tempo si adattasse alle trasformazioni sociali, culturali e geografiche in atto. Alla fine del XVII secolo, la formazione del sistema schiavista nelle colonie del sud ha contribuito a rafforzare la

Patriarchi nelle colonie

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riorganizzazione dei sistemi di genere.La categoria race diventò sempre più importante per la categorizzazione di uomini e donne. In generale, gli studi evidenziano come all’interno di uno spazio pluridimensionale, che viene definito su assi quali race, class e gender, agisca un complesso intreccio di rapporti (Brown 1996; Anzilotti 2002). Una figura centrale nella storia delle colonie del sud è quella del padre afroamericano. Fino agli anni Settanta del XX secolo,nell’ambito della ricerca, tale figura è stata considerata sostanzialmente come un modello deficitario, dato che i padri afroamericani ridotti in schiavitù difficilmente potevano soddisfare il modello egemone dell’ uomo che è capace di offrire protezione o sostegno, mentre la “black community” è stata considerata, fino ad allora, come un’organizzazione di tipo matriarcale. Tutto ciò influenza ancora oggi le discussioni politiche e sociali che riguardano la famiglia afroamericana e la sua presunta disfunzionalità, come anche le questioni relative alla realtà delle madri che da sole allevano i figli,i servizi di assistenza sociale per le comunità nere e la criminalità minorile (Finzsch 2002). Tuttavia, dagli anni Settanta vi è stato un cambio di prospettiva (Gutman 1976). Prima di tutto, si è cominciato a mettere in discussione l’ideale della famiglia borghese come modello di riferimento e criterio di misura. In secondo luogo, è stato dato maggiore risalto alla lotta intrapresa dagli schiavi a favore di un sistema sociale che fosse migliore. Altro aspetto da considerare è il grande significato dei rapporti tra adulti, come anche tra i padri e i loro figli; rapporti che mantenevano il loro valore anche a dispetto di grandi distanze (West 2004). Una motivazione fondamentale del perché gli schiavi, generalmente uomini, decidevano di fuggire era causata dalla vendita e dunque dal conseguente distaccamento dalla propria famiglia (Hine 1999/Jenkins: 130-164).

Padri nel XIX secolo

In seguito a ricerche sempre più differenziate, il periodo che va dal 1600 al 1800, si è potuto definire come «epoca patriarcale». Per quanto riguarda il periodo tra il XIX e il XX secolo, non risulterebbe possibile definire una tipologia

Padri borghesi Paternità e schiavitù

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complessiva di padre moderno (Rotundo 1985). Per gli studi a riguardo, ciò significa innanzitutto che la figura del «padre moderno» si sia sviluppata con l’inizio della borghesizzazione e dunque dalla fine del XVIII secolo. Il padre veniva caratterizzato come una figura generalmente assente che osservava la famiglia mantenendo una distanza fisica ed emotiva. Questa caratterizzazione del ruolo paterno, assieme alle teorie sulla dicotomia delle sfere e dei generi, teorie consolidatesi attorno al 1800, ha subito una relativizzazione. Anne-Charlott Trepp (1996) e Rebekka Habermas (2000)nelle loro ricerche si sono spesso servite di diari o scambi di lettere, mettendo in evidenza come, in realtà, donne e uomini vivessero e pensassero molto diversamente rispetto a quello che prevedevano le loro caratterizzazioni di genere. La maschilità borghese infatti poteva essere caratterizzata anche da qualità come tranquillità e dolcezza o viceversa la femminilità borghese da indipendenza e autonomia (Trepp 1996). Sfuma la netta divisione tra il lavoro domestico non retribuito e il lavoro extra-domestico retribuito. Sfuma anche l’idea che, a queste due tipologie di lavoro, corrisponda necessariamente il ruolo di padre e il ruolo di uomo. Almeno fino alla metà del XIX secolo, erano ancora in molti gli uomini che lavoravano in casa e il loro atteggiamento nei confronti del rapporto di coppia e nel rapporto con la prole era di coinvolgimento emotivo. Soltanto nella seconda metà del XIX secolo, l’attività lavorativa acquista un valore centrale per l’identità e l’esistenza maschile. Fino ad allora, l’uomo considerava se stesso e gli altri come “veri uomini” in base ad una serie di molteplici sfaccettature sociali, sessuali e politiche (Kessel 2003). In generale, gli studi più recenti che si occupano della vita quotidiana delle identità maschili e femminili tendono ad adottare una prospettiva che non polarizza, bensì unisce il maschile e il femminile. La felicità terrena e la famiglia, intesa sempre più come nucleo biologico, rappresentavano aspetti fondamentali per la vita di coppia. Malgrado il possibile sovrapporsi delle sfere d’attività maschili e femminili, al genere veniva comunque attribuita una caratterizzazione specifica. La capacità di organizzazione, di gestione e l’autodeterminazione erano concetti di connotazione maschile ed erano considerati come connaturati all’essere uomo. Certamente, non in tutte le famiglie, i padri hanno incarnato queste caratteristiche ed è incontestabile che non si possa parlare di una realtà nella quale vi sia una perfetta e univoca corrispondenza tra teoria e pratica, tra manuali e le varie antropologie umane.

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Partendo da questo cambiamento di prospettiva, negli ultimi anni, la ricerca ha preso in considerazione anche i testi normativi e si è interessata alle loro forti ripercussioni sull’ambiente sociale. Bisogna perciò osservare in che modo il discorso normativo, che interessa il 1800 e che si caratterizza per la sua estrema densità, abbia influito sulla formazione dell’identità di padre e come, in casi estremi, l’uomo-padre sia potuto addirittura arrivare ad uccidere la propria famiglia, nell’intento di proteggerla. L’identità paterna, alla spasmodica ricerca della responsabilità e della capacità di protezione, si volge all’assurdo.

Nel 1803 l’insegnate di Amburgo, Johann Georg Rüsau ha ucciso tutta la famiglia poiché temeva di non poterla più mantenere, come farebbe un buon padre e marito. L’estratto che segue è una descrizione in prima persona di Rüsau, il quale avrebbe voluto poter finire di scrivere durante il corso del processo. Il testo evidenzia come la descrizione che Rüsau fa di se stesso e della sua identità di uomo fosse alimentata dai discorsi dominanti che si ricollegavano alla volontà dell’uomo di ottenere il successo materiale e la felicità all’interno della sfera familiare (Martschukat 2001).

«Per quanto concerne la mia educazione e le inclinazioni spirituali, frutto di tale educazione, non riesco in questo momento a ricordare nulla, posso soltanto dire che le due cose non hanno potuto avere la minima influenza sul mio ultimo gesto efferato. Amavo la mia famiglia e assieme alla mia amata consorte cercavo di favorire il nostro benessere attraverso la collaborazione e la condivisione dei nostri compiti. Perdonami Signore con la tua grande misericordia! Diventai l’assassino di ciò che a me era più caro. I miei principi, le mie opinioni e inclinazioni, tutto si contraddice con questa violenza. Credevo in Dio, […]rabbrividiva la mia anima davanti alla morte; quanto meno è possibile riparare a un torto fatto, tanto meno è imperdonabile l’averlo compiuto, ed è così che io mi macchiai di peccati ai quali non è possibile porre rimedio. Nemmeno ad un nemico feci mai del male con premeditazione e se anche ciò sia potuto accadere, a causa di una mia qualche imprudenza, cercai sempre di porre rimedio, quanto meglio potessi. Ma quest’ultima terribile azione, come porre rimedio? Signore, abbi pietà di me. Quando decisi di abbandonare la mia professione, un po’ per via di alcune seccature che avevo avuto, un po’ per via del mio cagionevole stato di salute e dell’abbandono scolastico dei ragazzi, i quali erano ormai rimasti in dieci, allora, cominciando a pensare a quando Dio avrebbe voluto ricongiungermi a lui, la mia unica intenzione, il mio unico scopo diventò quello di salvaguardare e alleggerire l’avvenire della mia amata consorte e delle mie care e spensierate creature, compiendo un’azione che sarebbe stata vantaggiosa per la mia famiglia, anche dopo la mia morte. Se solo non l’avessi mai fatto, Signore! Se solo non mi fossi aggrappato al tuo governo saggio e benevolo, la disgrazia non sarebbe mai avvenuta e la mia coscienza non mi

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torturerebbe adesso per i tanti rimorsi. Grazie al mio lavoro di insegnante avevo avuto molto, tanto da poter soddisfare ogni mio bisogno. Avevo tenuto qualcosa da parte e, per un breve periodo, non ebbi problemi. Dopo aver intrapreso nuovi affari che nell’arco di un anno crescevano a fatica, non potevo aspettarmi tutto ciò. Mi sbagliai terribilmente, per lo meno nell’immaginare come sarebbero andate le cose. Per tutto l’anno non riuscì più, come in passato, a sostenere la mia amata consorte che si dava tanto da fare. In più avevo debiti che non sapevo come poter estinguere. Ciò mi toglieva la tranquillità e speravo di poterli recuperare accrescendo il mio capitale, ma fallì, la mia agitazione e la mia rabbia crebbero, il terribile pensiero del suicidio cominciò a crescere dentro me e soltanto la preoccupazione per l’avvenire della mia famiglia mi impedì di uccidermi; e quando nella mia più profonda convinzione vedevo la mia famiglia […] smisuratamente povera e misera, la mia cara consorte rivolgersi ad altre persone perché la aiutassero assieme ai nostri figli, lei, costretta all’elemosina, le mie tenere due figlie più grandi […] esposte al disprezzo e alla pena – e a cosa spinge tale pena!; pensare a tutto ciò mi gettò a terra; non avevo il coraggio di rialzarmi, pensai che Dio mi avesse abbandonato, solo un miracolo avrebbe potuto salvarmi, questi pensieri esasperati – per come adesso riesco a comprendere - logorarono la mia anima e mi trasformarono, in una mattina infelice […] nel vergognoso assassino della mia così tenera e amata consorte e dei miei cinque figli, tanto educati e pieni di speranza, che io amavo con tutto il mio cuore e che mi avevano riempito di gioia. Di me, misero peccatore, Dio abbia pietà e misericordia […] .

Johann Georg Rüsau 4 ottobre 1803»

(Staatarchiv Hamburg, 111-1, Senat, Cl.VII Lit.M e Nr.8 Vol.13: Untersuchung gegen

Johann Georg Rüsaus über seinen Wedergang, 4. Okt. 1803) [trad.mia];sotto la voce

Quelle 3 del sito Internet www.historiche-einfuehrungen.de

Il potere della caratterizzazione di genere, e le sue ripercussioni, si manifestano anche partendo da una prospettiva molto diversa e cioè quella relativa alla «borghesia di uomini celibi e donne nubili»(Kuhn 2000). Specialmente le donne nubili percepivano la loro condizione come deficitaria, in quanto si trovavano a dovere ricoprire entrambi i «ruoli di genere». L’uomo celibe percepiva invece la propria condizione in maniera meno marcata e problematica. Nel XIX secolo, gli uomini avevano uno spazio di azione certamente molto ampio. Dalle loro biografie, come anche dalla costruzione della loro identità, dai meccanismi di accettazione sociale, si evince quanto essi dipendessero dalla famiglia e dalla vita di coppia, in misura molto minore rispetto alle donne. Per l’Inghilterra vittoriana, John Tosh (come anche Habermas e Trepp per la società borghese in Germania) evidenzia come almeno fino al tardo XIX secolo, la casa rappresentasse soprattutto «A Man’s Place». Soltanto a fine secolo , il concetto di maschilità avrebbe acquisito determinati significati. L ’immaginario di una

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maschilità eroica, caratterizzata da prestanza e vigore fisico, i legami omosociali, il lavoro extra-domestico retribuito sono tutti aspetti che, alla fine del XIX secolo, acquistarono grande rilievo (Tosh 1999).Le ricerche britanniche più recenti sono attente soprattutto al significato del ruolo maschile tra le mura domestiche e nei confronti della famiglia stessa. Allo stesso tempo, tali studi mettono in evidenza vari aspetti delle realtà maschili che nel XIX secolo erano condizionate anche dal lavoro e dalla politica. Benchè continuino ad esserci tuttora carenze di studi sul tema della maschilità e della violenza anche all’interno della vita famigliare del mondo borghese del XVIII e XIX secolo, Ute Planert (2000b) e Martin Francis (2002) fanno attenzione a non sopravvalutare troppo l’armonia familiare e sociale. Per quanto riguarda la storia americana, esistono ormai diversi studi sul tema della maschilità e della violenza domestica, i quali possono servire come punto di partenza per ulteriori ricerche (Daniels 1999; Moore 2002). Le ricerche storiografiche che si sono occupate dei padri del XIX secolo, già negli anni Ottanta del XX secolo, si sono avviate verso una prima fase di sviluppo (Demos 1982; Rotundo 1985). Tuttavia, anche dall’altra parte dell’oceano, gli interrogativi e gli aspetti più rilevanti che potrebbero contribuire a dare un profilo più definito alla storia delle maschilità sono stati rimandati. Gli studi recenti di Stephen Frank (1998b) e Shawn Johansen (2001) hanno revisionato la tesi secondo la quale, con la costituzione della repubblica e l’avvento della prima rivoluzione industriale, la casa sia passata completamente nelle mani delle «republican mothers» (Keber 1980) o che questa sia addirittura diventata «impero della madre» (Ryan 1982). Questi studi dimostrano, al contrario, come l’uomo della borghesia americana del nord e centro-ovest, malgrado le crescenti esigenze di una vita lavorativa che costringeva a spostarsi sempre di più fuori casa, rivendicasse la propria identità di uomo in quanto padre. La vita familiare, inoltre, si intensificava nei momenti in cui il padre era a casa: il pasto consumato assieme a fine giornata o ad esempio i finesettimana e i giorni di vacanza venivano celebrati come eventi familiari e venivano caricati di significato emotivo (Gillis 1996).

Certamente le nuove ricerche sono molto vaste,tuttavia specialmente quelle di Stephen Frank presentano non poche problematiche. In queste ricerche, a volte, non soltanto viene forzata la polarizzazione dei generi, ma viene anche raccontata una nuova storia della vittimizzazione, secondo la quale gli uomini

Padri agli inizi della storia degli Stati Uniti

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apparirebbero come vittime in quanto sarebbero stati spinti, dalle donne e dai cambiamenti sociali in atto, ad allontanarsi dal mondo domestico e sarebbero stati privati della possibilità di manifestare la loro identità paterna. Per quanto un’articolata descrizione delle strutture di potere che agiscono all’interno dei rapporti familiari e di genere sia importante e utile, dal punto di vista storiografico, la storia della vittimizzazione maschile appare ormai superata, oltre che inadeguata dal punto di vista storico-politico, ma continua ad essere presente, in maniera evidente, nell’ideologia dei movimenti maschili antifemministi. Se si osserva la situazione degli stati del sud prima della guerra civile americana, si evince come soprattutto la violenza, l’onore e la maschilità rappresentino delle tematiche centrali. Gli atti di violenza erano spesso finalizzati al ristabilimento della posizione patriarcale dell’uomo bianco, posizione che, negli stati del sud, in cui le società vivevano di piantagioni e del possesso degli schiavi, perdurò per molto più tempo rispetto agli stati del nord (Finzsch 2001).

Con la sconfitta subita in guerra civile e con l’abolizione della schiavitù, negli stati del sud, gli ordini sociali e di genere, che si erano determinati in base al colore della pelle, sembravano rompersi. Per gli ex schiavi era estremamente importante poter corrispondere, anche solo teoricamente, all’ideale di maschilità egemone. Oltre alla partecipazione politica e al possesso di proprietà, la capacità di potersi occupare della famiglia e di poterla proteggere rappresentava un aspetto molto importante. Lo stesso valeva per il riconoscimento ufficiale dell’unione matrimoniale. Perciò ci si avviò presto verso questo tipo di modello (Booker 2000: 101-107). La maschilità bianca del sud, subito dopo la guerra e la fase di ricostruzione, si impegnò a ristabilire la propria posizione patriarcale, che fino ad allora si era definita nella distinzione e nella contrapposizione con la maschilità nera. La segregazione funzionò come rigida strategia di divisione, soprattutto tra donne bianche e uomini neri. Successivamente si rafforzò un culto della violenza, motivata dal razzismo, che portò, a partire dal 1880, al linciaggio di milioni di neri, i quali furono vittime di esecuzioni che venivano organizzate prevalentemente dai bianchi. I linciaggi venivano giustificati con lo stereotipo dei presunti stupri sulle donne bianche. Prima di passare al XX secolo, saranno menzionati alcuni studi sulla storia americana del tardo XVIII secolo e del primo XIX secolo, i quali non trattano la storia dei padri in quanto storia dei padri, ma

«White Southern manhood

Padri e politica

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determinano piuttosto il significato della figura del padre per la costituzione politica, sociale e culturale della repubblica. Mark. E Kann (1998,1999) ha spiegato come una «grammatica della maschilità» avesse portato alla genesi della nuova America. L’idea che potesse esistere un’identità di genere «giusta» avrebbe influenzato la concezione della repubblica e determinato quale tipo di maschilità poteva essere adatta per lo svolgimento dell’attività politica. A questo punto entra in gioco il «family man», infatti questa era la tipologia di maschilità egemone che sembrava rappresentare al meglio le qualità maschili dell’autocontrollo, dell’accortezza e della capacità di gestione (Martschukat 2007a/Stieglitz :83-100). Quanto questa tipologia fosse fortemente determinata, non soltanto dal genere ma anche dalle categorie «race» e «class» lo dimostra Bruce Dorsey (2002): durante il periodo iniziale della repubblica, nella città di Philadelphia, agli afroamericani e agli uomini che vivevano in condizioni di povertà veniva fortemente contestata la capacità di riuscire a soddisfare determinate esigenze. Ciò significava che in loro mancasse la ‘competenza repubblicana’. L’attenzione dei riformatori si concentrava soprattutto sulle famiglie nelle quali mancava la figura paterna. I riformatori agivano in modo da sostituire «l’assenza» della figura paterna, favorendo le strutture familiari «ideali». E’ importante sottolineare che, anche in questo caso, l’effetto distruttivo dell’alcool rappresentava una problematica di grande rilievo che si collegava soprattutto all’appartenenza di classe. Il rapporto tra l’individuo maschile, la famiglia e l’intero assetto politico diventa perciò evidente. L’ alcool, privando l’uomo delle sue qualità maschili, distruggeva così la famiglia e favoriva di conseguenza il crollo della repubblica che, molto più di altre strutture sociali, necessitava di soggetti che fossero attivi e funzionali.

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Padri nel XX secolo

Il libro di Robert Griswold (1993)offre un panorama sulla storia della paternità e sulle esigenze politiche, sociali e culturali dell’America del XX secolo. Nel libro viene data grande importanza all’ideale di uomo che è capace di offrire sostegno e protezione. Le due guerre, la fase dei vari cambiamenti tra le due guerre, i decenni che seguirono il 1945, gli anni Cinquanta nei quali vi fu un interesse incentrato sul tema della famiglia, il periodo rivoluzionario tra anni Sessanta e Settanta, tutti questi momenti offrono un panorama molto mutevole. Grisworld si interessa a diverse tipologie di padre, ad esempio della classe operaia, afroamericani o immigrati ed è questo il motivo per il quale egli ha un ruolo di spicco nel panorama della letteratura del XIX secolo. Lo scenario storiografico è molto eterogeneo. Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, in contrapposizione all’ideale dell’ uomo borghese e vittoriano, si sviluppò una tipologia di mascolinità caratterizzata dall’importanza del vigore fisico e da modalità di comportamento aggressive. Questa tipologia di maschilità si affiancava ad una crescente accentuazione dei legami omosociali, i quali sono stati, tra l’altro, oggetto di interesse delle ricerche che si sono occupate di questo periodo storico. In questa fase, il ruolo del padre non rappresenta più l’interesse centrale della ricerca. Per quanto riguarda il periodo tra le due guerre, gli studi del sociologo Ralph La Rossa (1997; si veda anche Pendergast 2000), che prendono come riferimento opere già pubblicate ma anche testimonianze come scambi di lettere, documentano la modernizzazione del ruolo paterno nella società delle industrie e delle macchine. Tuttavia, La Rossa non si sofferma molto sulla tematica della grande depressione degli anni Trenta e si esprime poco anche riguardo le ripercussioni che questa ha avuto sul ruolo e sulla posizione del padre all’interno della famiglia e della società – al di fuori degli studi di La rossa, questi aspetti sono stati poco trattati. Ciò è sorprendente, in quanto, la trasformazione della posizione maschile, verificatasi in molte famiglie in seguito alla crisi economica, mise in moto una prima serie di studi sociologici con oggetto la maschilità.

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La sociologa Mirra Komarovsky dell’ «Institute for Social Research» di New York, nella sua tesi di dottorato «The Unemployed Man and His Family», pubblicata nel 1940, si interroga su quali possano essere le connessioni tra crisi economica, disoccupazione e rinuncia del maschile al proprio ruolo di protettore e sostentatore della famiglia. Inoltre, analizza le conseguenze di questi fenomeni sull’ identità maschile e sulla posizione del maschile nel panorama socioculturale. Nel seguente caso preso in esempio è evidente come il macro e il microlivello, l’ assetto economico e sociale, l’identificazione culturale e individuale siano incrociati l’uno con l’altro.

«The hardest thing about unemployment, Mr. Pattson says, is the humiliation within the family. It makes him feel very useless to have his wife and daughter bring in money to the family while he does not contribute a nickel. It is awful to him, because now “the tables are turned”,that is, he has to ask his daughter for a little money for tobacco, etc. He would rather walk miles than ask for carfare money. His daughter would want him to have it, but he cannot bring himself to ask for it. He had often thought that it would make it easier if he could have 25 cent a week that he could depend on. He feels more irritable and morose than he ever did in his life. He doesn’t enjoy eating. He hasn’t slept well in months. He lies awake and tosses and tosses, wondering what he will do and what will happen to them if he doesn’t ever get work any more. He feels that there is nothing to wake up for in the morning and nothing to live for. He often wonders what would happen if he put himself out of the picture, or just got out of the way of his wife. Perhaps she and the girl would get along better without him. He blames himself for being unemployed. While he tries all day long to find work and would take anything, he feels that he would be successful if he had taken advantage of his opportunities in youth and had secured an education.

Mr.Patterson belives that his wife and daughter have adjusted themselves to the depression better than he has. In fact, sometimes they seem so cheerful in the evening that he cannot stand it any more. He grabs his hat and says that he is going out for a while, and walks hard for an hour before he comes home again. That is one thing he never did before unemployment, but he is so nervous and jumpy now he has to do something like that to prevent himself from exploding.» (Mirra Komarovsky, The Unemployed Man and His Family, New York 1973 (1940): 26-28, in Douglas Bukowsky (a cura di), America’s History. Documents

Collection, vol. II,New York 1997, qui pp.236-237)

Per quanto riguarda gli anni del dopoguerra, diversi studi con oggetto la famiglia si sono occupati anche della figura del padre. Nel corso della seconda guerra mondiale furono molti gli uomini che, idonei al servizio militare (e quindi probabilmente già padri), vennero chiamati alle armi e ciò avvenne in una misura che non ha precedenti nella storia. Le donne che durante la guerra erano

Famiglia nucleare e guerra fredda

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impegnate al fronte interno furono capaci di sostituire gli uomini che erano partiti e di ricoprire il loro ruolo di lavoratori e capifamiglia. Nello stesso periodo si intensificarono le intense discussioni di stampo freudiano relative ad una società priva di padri, al cosiddetto “mammismo” e ai suoi effetti degenerativi su ragazzi, giovani uomini e l’intero assetto sociale. Una completa generazione di ragazzi senza padri sarebbe diventata, questa era la paura condivisa, una gioventù omosessuale o criminale. Negli anni successivi alla guerra vi fu un’attenzione senza precedenti nei confronti della famiglia e che andò di pari passo con il fenomeno della “dispersione urbana” in America, fenomeno che si verificò con molta velocità a causa dell’avvento della guerra fredda e della minaccia nucleare. In seguito agli anni Sessanta e al movimento femminista che contribuirono a stimolare l’orientamento nei confronti della famiglia e del sistema di generi dell’era postbellica, negli anni Ottanta si aggiunsero gli studi della sociologa Barbara Ehrenreich (1983) sull’uomo americano del periodo postbellico e sulla sua “fuga dalla responsabilità” . Si aggiunsero anche gli studi sulle “famiglie nucleari in epoca nucleare”della storica Elaine Tyler May (1999). Tali studi rappresentarono una specie di innesco iniziale per la ricerca. Altre ricerche dimostrano come, il concetto di famiglia nucleare, caratterizzato dal ruolo centrale della figura paterna, oltre che da una gerarchia di generi tradizionale, già durante la seconda guerra mondiale aveva acquisito un significato sociale di grande importanza. In questa tipologia di famiglia si concretizzavano valori astratti come la democrazia e la libertà (Westbrook 1993). Dopo una breve fase di scetticismo nei confronti della ricostruzione di una società , basata sul valore della famiglia e del ruolo paterno (Michel 1992), l’arrivo della guerra fredda favorì la fine delle insensatezze e delle ambiguità. Il padre tornò al suo ruolo egemone e venne concepito come il veterano dalla pelle bianca (Onkst 1998). Per quanto riguarda il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Jessica Weiss (2000) ha analizzato il matrimonio, il babyboom e altri cambiamenti sociali, valutando con scetticismo il modello del padre attivo ed efficiente nell’organizzazione familiare. Seguono un altro indirizzo gli studi storici di K.A.Cuordileone (2005) i quali, analizzando la cultura politica della guerra fredda, dimostrano come i comportamenti maschili che costituivano una deviazione dalle norme eterosessuali e dal ruolo del padre venivano considerate come vere e proprie minacce per la società

Germania prima del 1945

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americana e per la popolazione stessa. Diventa quindi sempre più evidente come l’interazione tra la storia delle maschilità, della famiglia, della sessualità e della storia politica risulti essere un’ interazione fortemente produttiva. Per quanto riguarda la storia della figura paterna e della paternità nella Germania del XX secolo, non vi sono finora degli studi riassuntivi. La stessa cosa vale per il periodo della repubblica di Weimar e del nazionalsocialismo. Un primissimo approccio panoramico è dato dalle opere di Wolfgang Schmale (2003) o George Mosse (1997). L’esiguità della ricerca potrebbe derivare dal fatto che, con la formazione di uno stato nazionale tedesco nell’avanzato XIX secolo, nell’immaginario dei contemporanei si consolidò una concezione dell’essere uomo e della maschilità che fosse legata all’associazionismo, allo spirito marziale e militare. Finora, ad eccezione delle ricerche che il germanista Walter Erhart (2001)ha condotto riguardo la storia della letteratura della lunga fin de

siècle, vi è stata una carenza di ricerche orientate al tema della famiglia in prospettiva storico-sociale. A riguardo, alcuni studi degli ultimi anni hanno messo in evidenza come un’attenzione che sia particolarmente rivolta ai rapporti e ai limiti tra la maschilità militare e la maschilità paterna possa effettivamente racchiudere un grande potenziale. La raccolta di Karen Hagemann e Stefanie Schüler-Springorum (2002a) mostra, ad esempio, come durante il periodo delle due guerre mondiali, le relazioni matrimoniali e i rapporti all’interno della famiglia fossero cambiate, e come i contemporanei avessero tematizzato questi cambiamenti: «E’ triste ma vero: durante il periodo in cui ha dominato la maschilità, durante la guerra, le donne hanno regnato in casa», così Birthe Kundrus cita nel suo saggio sulla «lotta tra i sessi» la rivista della destra nazionale «Volkserzieher»del 1918 (Kundrus 2002:174; si veda anche Kundrus 1995). Kundrus osserva in maniera critica il modo in cui la storiografia ha valutato finora il concetto di crisi ed evocato una storia del maschile in cui l’uomo assume la caratterizzione della vittima (Si veda Mosse 1997: 107-201). Per coloro che si occupano di studi storici, da alcuni anni, la posta militare tedesca ha offerto un nuovo orizzonte. Gli scambi di lettere tra soldati, donne, fidanzate documentavano quali fossero i significati dei rapporti d’amore e matrimonio nei periodi di guerra e nel contesto di una maschilità altamente militarizzata (Jureit 1999). Nei periodi di guerra, la famiglia diventava per molti soldati la personificazione per eccellenza della patria, dell’amore e della

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sicurezza. Thomas Kühne (2006) mostra come il cameratismo fosse un modo per compensare la perdita della famiglia. Organizzazioni militari, come ad esempio il Männerbund, non possono essere considerate semplicemente come costruzioni alternative alla famiglia e all’affetto materno ma, con le loro componenti omoerotiche e di attaccamento e protezione, possono essere considerate come strutture analoghe alla famiglia e come motivi centrali dell’ordine simbolico della guerra. Ciò riguarda anche il significato ideologico che il concetto di «cameratismo sessuale» acquistò nel periodo del nazionalsocialismo.

Mentre le ricerche che si occupano della maschilità e della famiglia durante il periodo della guerra prendono in considerazione la conservazione dei modelli relazionali, la storia dell’immediato dopoguerra si occupa principalmente della disgregazione dei rapporti matrimoniali, familiari e relativi al genere. Dopo la seconda guerra mondiale, i rapporti e i legami tra gli uomini e le donne tedesche erano certamente fragili (Perinelli 1999) ma questi sconvolgimenti relazionali non dipendevano solamente dalle gerarchie di genere che si erano venute a creare durante il periodo bellico. Per finire, un tipo di maschilità che divenne in quel periodo egemone fu quello dei GI (i cosiddetti soldati semplici americani) (Nieden 2002; Hohn 2002; Ellerbrock 2004).

La trasformazione dei soldati nazionalsocialisti in cittadini e mariti, la cosidetta «rimascolinizzazione» della società tedesca del dopoguerra, fu un processo difficile (Moerell 1998; Jeffords 1989, 1998). Frank Biess dimostra come il concetto di «rimascolinizzazione» può essere usato, in relazione alla società tedesca subito dopo le due guerre mondiali, per differenziare e suddividere diverse costruzioni di maschilità e le loro relative strategie. Sia ad est che ad ovest, la condizione dei reduci di guerra veniva percepita come una condizione deficitaria. Nella Germania dell’ovest, l’obiettivo principale era quello di mettere gli ex-soldati nella condizione di sentirsi riadattati all’ambiente familiare e quindi non soltanto di rinsaldare il ruolo dell’ «uomo di casa» ma anche la stessa società della Germania occidentale, da un punto di vista sessuale, morale, sociale e ideologico. E le mogli, sostiene un medico berlinese nel 1957, sarebbero sempre più spesso l’unica «medicina efficace per l’anima ferita dei reduci di guerra» (Biess 2002,2006). Un gran numero di reduci sentiva il peso che il ruolo di padre e di sostentatore della famiglia comportava. Ciò rafforzava la percezione che gli uomini fossero delle vere vittime di guerra e che la società

La società del dopoguerra

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del dopoguerra necessitasse con urgenza una «normalizzazione» dei rapporti di genere. Una costruzione alternativa alla centralità del modello familiare è costituita dalle subculture «teppiste» che, dal canto loro, manifestavano una tendenza verso la «rimascolinizzazione» (Pioger 2000).

Nella Germania dell’est, invece, i nuovi vertici politici tendevano a evidenziare soprattutto il deficit ideologico degli ex-soldati, inoltre la direzione statale temeva il ritorno di milioni di antibolscevichi. Sempre meno il ruolo del padre era considerato come un ruolo centrale, molto più importante era invece la formazione di lavoratori produttivi e capaci attivisti politici: la formazione del «padre dello stato» come fu definito da Dorothee Wierling (2001). La famiglia veniva addirittura considerata dannosa per la conversione politica dei reduci di guerra (Biess 2006).

Più ci si allontana dagli anni immediatamente successivi alla guerra, maggiori sono gli studi che coinvolgono altre discipline come la sociologia e la pedagogia. Tra gli studi storiografici, bisognerebbe citare innanzitutto le ricerche di Wiebke Kolbe (2002) le quali mettono in relazione le trasformazioni della figura paterna nella Repubblica Federale Tedesca con il modello dell’assistenza pubblica, delle pari opportunità e delle politiche familiari dello stato svedese. Reinhard Sieder (2000), nell’ambito di uno studio di caso viennese alla fine del XX secolo, si batte a favore di un discorso che si occupi meno della disfunzionalità delle divisioni familiari e che invece prenda maggiormente in considerazione gli elementi utili e vantaggiosi che « i sistemi familiari binucleari» e le «famiglie acquisite» possono offrire.

Se si ripercorre ancora una volta la letteratura sulla storia dei padri e della paternità nell’epoca moderna, si potrà riconoscere, a questo punto, come la ricerca di un equilibrio tra la figura del padre amorevole e la figura del padre come sostentatore del benessere familiare rappresenti un elemento centrale. Non soltanto nella seconda metà del XX secolo, coloro che si sono occupati di critica sociale e della figura paterna hanno descritto la mancanza del padre come un’immagine terrificante per la famiglia e l’ordine sociale. Già nel XIX secolo, un gran numero di studi, ritenne questa mancanza come la principale minaccia per l’integrità della famiglia, assieme alla perdita della responsabilità e all’abuso d’alcool. Ciò che Robert Griswold ha affermato relativamente al modello del

male breadwinner e cioè che, nel XX secolo, questo sia stato un modello

Lavoro e famiglia

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fondamentale per l’esistenza maschile, necessita una complessiva relativizzazione. Da una parte, un’affermazione meno apodittica sarebbe opportuna. Inoltre dovrebbe essere considerato come uno tra tanti altri modelli fondamentali; a ciò si arriverà nei capitoli successivi che tratteranno la socialità e la sessualità. Dall’altra parte, l’efficace organizzazione del modello male

breadwinner ,della vita e dei rapporti familiari ha avuto grande importanza non soltanto nel XX secolo, ma in forma diversa, anche nei secoli precedenti. Ciò induce, alla fine di questo capitolo, a prestare maggiore attenzione al rapporto tra mondo del lavoro, vita lavorativa e maschilità. Bisogna tenere presente che, malgrado l’ evidente importanza degli studi sulla maschilità nella storia dell’età moderna e malgrado le ricerche di stampo sociologico, la produzione letteraria a riguardo risulta ancora modesta. Le lacune storiografiche potrebbero dipendere del fatto che, in seguito alla cosiddetta “nuova storia culturale” e al fenomeno della “svolta linguistica”, la «Labor History», negli anni ottanta e novanta non abbia esattamente attraversato una fase di grande sviluppo. Il panorama che verrà esposto in seguito, dimostrerà come la connessione tra la storia del lavoro e storia delle maschilità possa risultare una connessione produttiva ed efficace.

Uomini afroamericani, le maschilità e il lavoro

Nel 1968 dei netturbini afroamericani organizzarono una dimostrazione nella città di Memphis, manifestando con cartelli sui quali vi era scritto «I am a man». Protestavano contro la discriminazione e a causa di un salario che ancora non garantiva loro, e nemmeno alle rispettive famiglie, il necessario da vivere. Supportati dalla retorica dell’uomo che, dopo essersi rialzato oppone infine resistenza, i lavoratori neri, assieme ai sindacati e ai movimenti per la difesa dei

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diritti civili, esigevano di essere trattati come venivano trattati i colleghi bianchi. Soltanto in questo modo per loro sarebbe stato possibile prendersi cura delle rispettive famiglie, delle mogli e dei figli, e poter finalmente, e da «veri uomini», garantire loro una vita adeguata. Ciò avrebbe significato la fine della «demascolinizzazione», fenomeno che ormai perdurava sin dai tempi della schiavitù (Estes 2005).

Nella storia e nella storiografia afroamericana, gli intrecci tra maschilità, responsabilità familiare e lavoro rappresentano una tematica ampliamente trattata (Boris 2003). Ed ecco come, ad esempio, all’inizio del XIX secolo, per lo schiavo Frederick Douglass non era soltanto la resistenza fisica contro il proprio guardiano a trasmettergli il senso dell’ essere un uomo. Dopo essere sfuggito alla schiavitù, la possibilità di poter provvedere a se stesso e ai propri cari, grazie al lavoro e al frutto dei propri sforzi, la possibilità di poter assumere responsabilità politiche o anche nell’ambito della sfera privata, tutto ciò significava molto per un uomo che era finalmente libero. (sotto la voce Quelle 4 del sito Internet www.historiche-einfuehrungen.de).

Nel corso del XIX secolo, nell’ambito del movimento per la difesa dei diritti civili, Booker T. Washington, in particolar modo, sottolineò come la formazione scolastica e il futuro lavorativo dei cittadini neri fossero molto importanti per il riconoscimento dell’uguaglianza sociale. La sua strategia orientata all’adattamento e alla moderazione lo portò però ad essere criticato, sia tra i suoi contemporanei che nell’ambito degli studi e della ricerca, per aver favorito in questo modo l’accelerarsi di una femminilizzazione degli uomini afroamericani (Gibson 1996). In seguito a duecento anni di schiavismo e lavoro forzato, dopo il 1865, molti cittadini neri furono esclusi da tantissimi settori del mercato del lavoro e anche dalla maggior parte dei sindacati. Lo stesso avanzamento professionale continuava ad essere impossibile per loro e tutto ciò in una società che dipendeva, più di altre, dall’ideale del «self made man». Lo svantaggio culturale e sociale degli uomini afroamericani e delle loro famiglie influisce tuttora sul discorso relativo al fallimento dell’uomo afroamericano all’interno di un ritmo di vita scandito e regolato dal lavoro. Questa configurazione ,inoltre, ha accresciuto la consapevolezza della «Black History» relativamente ai legami e alle connessioni presenti tra lavoro e maschilità. Nelle raccolte sul tema delle maschilità afroamericane, curate da Darlene Clark Hine e Earnestine Jekins

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(1999/2001, vol. I ), diversi studi mostrano come nel XVIII e nel XIX secolo anche gli schiavi attribuivano grande importanza alla qualificazione professionale e al lavoro operaio e come, in effetti, ciò si ripercuoteva in molti ambiti della loro vita, ad esempio nella speranza di ricevere maggiore assistenza per la propria famiglia o nella possibilità di riuscire ad adempire al ruolo e all’ideale di maschilità. Allo stesso tempo, gli afroamericani che nel nord vivevano ormai come uomini liberi facevano molta fatica ad affermarsi nell’ambito lavorativo, dato che il loro lavoro veniva limitato soltanto a determinati settori e il loro avvenire continuamente ostacolato da fattori esterni. Nel secondo volume di Hine/Jekins (1999/2001, vol. 2) soprattutto per quanto riguarda le ricerche relative agli anni dell’emancipazione, il lavoro diventa una tematica sempre più prominente. Un aspetto centrale è quello del passaggio al lavoro retribuito. Questo aveva sfidato e messo in discussione gli stereotipi sui lavoratori afroamericani e sul loro atteggiamento nei confronti del lavoro. La routine del lavoro agricolo, che la maggior parte degli afroamericani aveva sperimentato col sistema della mezzadria, ma sempre sotto la dipendenza del proprietario terriero bianco, passa in secondo piano per la ricerca. Si analizzano, piuttosto, le esperienze lavorative meno comuni, le quali mostrano però la varietà di queste esperienze e la possibilità di potervi accedere. Perciò si può apprendere qualcosa sulla vita dei poliziotti neri di New Orleans nel XIX secolo, dei Cowboy afroamericani nel Wild West, dei proprietari autonomi di fattorie e della loro capacità di superare le avversità, come anche sulla vita di avvocati e medici. Mentre gli articoli raccontano,invece, la vita dei detenuti ai lavori forzati e descrivono il rifiuto da parte dei sindacati di accettare i lavoratori neri.

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Gender e Labor History

Fare un bilancio sulla ricerca che si occupa dell’interazione tra identificazione maschile e mondo del lavoro è difficile, se ci si sposta dal campo d’analisi e di ricerca che la storia afroamericana offre. Come primo approccio alla ricerca internazionale, può essere utile citare il primo numero della rivista International

Labor and Working Class History, pubblicato nella primavera del 2003, e con oggetto di interesse la tematica «Labor History After The Gender Turn». In questo primo numero della rivista viene messo in evidenza come, nell’ambito degli studi americani sulla storia del lavoro, la categoria class abbia dominato a lungo. Tuttavia, negli ultimi anni, quest’idea si è attenuata, sostituendosi ad un’altra concezione, e cioè che le identità siano il frutto di varie stratificazioni e che seguano percorsi di costruzione molto complessi :«The world of

Anglo-American labor history has been turned upside down» (Winn 2003, I; si veda Frader 1996: 16-33 con ulteriori riferimenti alla letteratura sulla storia europea). La labor history, in qualità di storia di classe o «storia dal basso», ha ignorato a lungo la prospettiva storica e di genere. Allo stesso modo, anche gli studi storici americani con oggetto la maschilità hanno rifiutato per molto tempo l’influsso della labor history. Anche per quanto riguarda la storia tedesca ed europea, l’intreccio tra labor history e storia delle maschilità non sembra avere riscosso particolare successo.

Ciò è sorprendente, se si considera l’interesse sociologico sul tema del lavoro e della maschilità che è stato indirizzato all’analisi dei fenomeni contemporanei. Molte ricerche storiche hanno potuto constatare l’importanza del lavoro per l’identificazione maschile e per la concezione stessa del maschile. Ciononostante, queste ricerche non superano tali constatazioni, andando poi a vedere cosa succede negli uffici o nel mondo delle fabbriche. Finora, raramente si è analizzato in che modo e in quale contesto lavorativo si siano venute a creare determinate identificazioni di genere (Sun 2004). Come già menzionato, ciò dipende anche dal fatto che la storia di genere (che ha avuto un orientamento piuttosto culturale) e la classica storia del lavoro (che invece è stata trattata in prospettiva storico-sociale) hanno avuto poco a che fare l’una con l’altra. I lavoratori in rivolta, la lotta di classe, l’idea che tutto ciò che esiste abbia una valenza materiale, sono fenomeni che sembrano opporsi troppo spesso

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all’interpretazione e all’analisi del discorso (Frader 1996:3; Kessler-Harris 2002:192; Rose2003a:6).

Tuttavia, nell’ambito delle ricerche storiografiche internazionali, dalla fine degli anni Ottanta si sono verificate sempre più spesso delle spinte orientate ad unire le categorie classe, genere (ed etnicità) all’interno della storia del lavoro. Alice Kessler-Harris (1989: 217-234) ha addirittura messo in evidenza come questo fosse il «nuovo programma» della labor history. Un’opera che ha come sfondo queste tematiche e che può considerarsi un’opera programmatica è quella di Ava Baron (1991), Work Engendered, sicuramente un punto di partenza per coloro che hanno già trattato questi argomenti e si sono già occupati di genere, maschilità e lavoro. Poco tempo dopo, nella rivista Labor History, venne pubblicato un numero dedicato alla categoria genere, all’interno del quale vi era, tra l’altro, un articolo di approfondimento scritto da Alice Kessler-Harris (1993). Due anni più tardi, nella rivista History and Theory, Laura Frader (1995) discusse l’intreccio tra storia del lavoro, storia di genere e analisi del discorso, mentre nel 1999, Eileen Boris e Angélique Jassen pubblicarono un libro che trattava l’interdipendenza delle tre categorie «razza, classe, genere». Per quanto riguarda la letteratura della storia britannica, un panorama parallelo alle ricerche e alle opere appena citate può essere disponibile prendendo come riferimento i rispettivi saggi di Eileen Yeos (2002) e Margaret Walsh, tutti e due pubblicati in delle raccolte. Nel complesso, queste ed altre ricerche non soltanto hanno evidenziato come, ignorando le donne, la storiografia aveva anche ignorato metà della classe lavoratrice (Kessler-Harris 2003) ma hanno anche dimostrato come il genere sia una categoria di grande importanza per la percezione, la categorizzazione e la considerazione del lavoro e delle sue forme specifiche. Spesso il qualificato ed eroico lavoro «maschile» viene opposto a quelle attività «femminili» considerate di bassa qualificazione, oltre che relegate alla sfera della riproduzione sociale. Trovandosi nella situazione di dover esercitare tali attività, gli uomini vengono considerati o effeminati oppure tali attività subiscono una rivalutazione: riportando un classico esempio, questo processo di rivalutazione avviene dalla preparazione giornaliera del pranzo familiare, al lavoro di dipendenti immigrati nelle mense, fino al lavoro del capocuoco in un ristorante (Talibi 2003).

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Lavoro e maschilità: ricerche sparse

Attività simili ma valutate in maniera così diversa possono effettivamente spiegare in che modo le identità di genere si costruiscono all’interno dell’ambiente lavorativo e in che modo queste identità si costruiscono, tanto nella contrapposizione nei confronti dell’altro genere, quanto nella contrapposizione nei confronti dei rappresentanti dello stesso genere. Come avvenga e quali siano i diversi livelli della differenziazione di genere all’interno dello spazio lavorativo viene spiegato anche nei saggi del primissimo numero della rivista Gender and History, pubblicata nel 1989. Questo numero contiene contributi che trattano il tema della formazione dell’identità maschile nel periodo del capitalismo industriale di fine XIX secolo, in Inghilterra, Stati Uniti e Svezia. Intorno al 1990, attorno a questi temi comparvero anche delle prime monografie che descrivevano le caratteristiche del ciclo di lavorazione a seconda dell’appartenenza di genere, oltre che le modalità di formazione dell’identità di genere, per esempio nell’industria della produzione di sigari all’inizio del XX secolo (Cooper 1992). Seguirono altri lavori, ma tuttavia, la ricerca che si occupò di questi temi non riuscì a dare un quadro ben definito della storia più recente. Per un primo approccio alla serie di tematiche che interessano il lavoro e la maschilità bianca, estremamente utile è il volume di Roger Horowitz (2001)

Boys and Their Toys, pubblicato dieci anni dopo l’opera di Ava Baron, Work

Engendered,e che fu volutamente concepito dall’autore come un compendio che riassumeva la situazione della ricerca fino ad allora. Il titolo allude allo stretto rapporto che viene a crearsi tra uomini e macchine nel contesto lavorativo e che perciò non è da sottovalutare (Lerman 2003; Oldenziel 1999,2007).

Come momento determinante per il lavoratore «maschio» e per la costruzione di una solidarietà di classe basata sulla maschilità, bisogna citare innanzitutto la capacità e la disponibilità alla rivolta e alla resistenza (Kaster 2001). Un altro importante criterio di differenziazione è quello relativo all’ «etnicità». David Roediger (1999,2002) ha fatto notare come la whitness sia intervenuta, in qualità di aspetto performativo, nella costituzione della categoria «classe». Un lavoratore che si lasciava mettere al guinzaglio veniva considerato come un uomo demaschilizzato o come uno schiavo (nero). Perciò, per il lavoratore

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bianco diventava pressoché impossibile collaborare con gli afroamericani o con le donne, che già negli anni precedenti alla guerra civile, si erano inseriti in larga misura nella classe lavoratrice industriale che andava via via formandosi (Blewett 1988). Tuttavia la maggior parte dei sindacati americani, per quasi tutto il XX secolo, continuò ad escludere coloro i quali non fossero bianchi, uomini e istruiti.

Altro tema è quello del luogo di lavoro come spazio omosociale. L’ambiente lavorativo può diventare spazio omosociale, ad esempio tramite una determinata politica sindacale o altri rituali che si caratterizzano come rituali maschili (Ryon 1995). Bisognerebbe, a questo punto, citare l’usanza del bere in compagnia. Da un lato, il consumo di alcool rientrava nelle modalità di un comportamento sociale maschile che esprimeva una maschilità rude. Questa tipologia di comportamento fu abbastanza importante, ad esempio, agli inizi del XIX secolo, per la costruzione dell’ autostereotipo degli operai addetti alla costruzione di canali (Way 1993). Dall’altro lato, con l’avanzare del XIX secolo, i movimenti per la temperanza, assieme ai sindacati, promulgarono una tipologia di maschilità rispettabile che presupponeva qualità come responsabilità, autocontrollo, affidabilità e premurosità ma soprattutto l’astinenza: «Alchol makes wives widows, children orphans, fathers friendless, and all at least beggars», ecco l’ aspetto sul quale Engineers’Journal del gennaio 1878 si concentra. L’operaio delle fabbriche, delle miniere o dei cantieri assumeva comportamenti che rientravano, sia nelle costruzioni tipiche dei legami di aggregazione maschile, sia in quel senso di responsabilità socio-familiare, talvolta conflittuale.

Prendendo come riferimento gli operai delle industrie automobilistiche durante la seconda guerra mondiale, Steve Meyer analizza l’intreccio che viene a crearsi tra il concetto di rispettabilità e quello di una maschilità caratterizzata da atteggiamenti rudi. La convinzione che, il consumo di alcool, la riduzione della donna a oggetto, la disponibilità al conflitto e alla lotta fisica, alla rivolta fossero tutte caratteristiche che ‘fissavano’ quella che doveva essere la tipologia “giusta”di uomo continuò a perdurare per decenni. Stephen Norwood (2002) ha mostrato come diverse costruzioni di maschilità si sono rivelate efficaci in situazioni come gli scioperi o anche altri tipi di conflitti tra lavoratori e dirigenti. L’autore si concentra sul ruolo e sulla percezione, sia di quei lavoratori che non

Tempo libero Spazi omosociali e alcool

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aderivano agli scioperi, sia degli intermediari che venivano pagati dagli imprenditori. Altre ricerche si interessano maggiormente all’analisi del tempo libero della classe operaia, piuttosto che al posto di lavoro come spazio omosociale. Per i giovani operai del periodo che va tra il 1920 e il 1930, un collega di lavoro veniva considerato assolutamente sospetto, nel caso questo apprezzasse di più la compagnia di una donna piuttosto che una “bevuta” tra colleghi. I giovani lavoratori bianchi, attraverso l’esclusione delle donne e delle minoranze etniche, costruivano un sistema solidale basato su concetti come classe, genere ed etnicità (McBee 1999).

Olaf Stieglitz, nella sua ricerca relativa ai «Civilian Conservation Corp», organizzazione che occupò molti giovani uomini nei campi di lavoro durante la grande depressione del 1930, pone l’accento su un’ulteriore prospettiva. Questi campi di lavoro dovevano formare i giovani e farli diventare uomini. Soprattutto, dovevano formare il loro corpo e il loro carattere per renderli adatti ad un lavoro che veniva svolto in spazi all’aperto. In questo contesto, si verificava la fusione di specifiche costruzioni maschili, ad esempio quella del lavoratore diligente, del buon padre di famiglia, del cittadino, del soldato. Gli stessi concetti di rough

manhood e respectable manhood potevano sovrapporsi ed essere negoziati, concordati di volta in volta (Stieglitz 1999). I corpi forgiati e rinvigoriti dal lavoro rievocavano, in tempi di «crisi»economica, sociale e crisi del maschile, il

gospel of labor e si riallacciavano alla rappresentazione tradizionale del lavoro e dei lavoratori che si era consolidata dalla fine del XIX secolo (Dabakis 1999; Stieglitz 1999b).

Nel complesso, la maggior parte della ricerca con oggetto la maschilità e il lavoro si colloca nel campo di ricerca dei cosiddetti blue collar workers, ossia le tutte blu. La formazione dell’identità maschile nel settore dei lavori di ufficio e dunque dei white collar workers ha ricevuto finora meno attenzione. Di certo, vi sono molte ricerche che si occupano dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro d’ufficio nel XIX secolo. Tuttavia, un’opera come quella di Angel Kwolek-Folland (1994), che mette in relazione il mondo dell’imprenditoria, maschile e femminile, nel settore finanziario e che analizza come l’organizzazione strutturale del luogo di lavoro, l’ordine produttivo e lo stesso spazio fisico possano essere caratterizzati e influenzati dalla categoria genere, finora non è che un’eccezione. Secondo l’autrice, l’ufficio appare come una

Campi di lavoro

Lavoro d’ufficio

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specie di laboratorio, all’interno del quale vengono gestite e organizzate quelle configurazioni di genere che sono frutto della varietà dell’ordine sociale. Come sono stati rappresentati nelle società socialiste, da una parte, i modelli costruiti attorno al ruolo del lavoratore e “progettati” in termini di genere, e dall’altra, le costruzioni individuali dell’identità? Innanzitutto, bisogna rivolgersi nuovamente agli studi sulla “rimascolinizzazione” nelle società del dopoguerra, i quali discutono anche l’importanza del lavoro nei due stati tedeschi (Moeller 1998; Biess 2006). Partendo da un’ampia prospettiva geografica, Eric D. Weitz (1996) tratta l’interazione tra maschilità e lavoro nelle società socialiste. Queste, fin dall’inizio, avrebbero disapprovato la concezione piccolo borghese della famiglia e propagandato la parità tra uomo e donna. Tuttavia, non soltanto le élite dei funzionari politici erano caratterizzate dal dominio maschile ma anche nell’iconografia comunista dominava l’immagine dell’uomo muscoloso e tenace che, con la forza del proprio lavoro, rappresentava la garanzia per un futuro socialista, apparentemente raggiante. L’ideale proletario per eccellenza era rappresentato dal mestiere del fabbro, che con impegno e fatica, forgiava la società socialista. Mentre per quanto riguarda la costruzione femminile in lotta per l’emancipazione, questa subiva l’immaginario di una maschilità monolitica e fortemente egemone. La Repubblica Democratica Tedesca sosteneva queste tipologie di costruzioni maschili, ad esempio, onorando i propri «eroi del lavoro» con premi omonimi che venivano assegnati annualmente (Lüdtke 1994; Schmale 2003: pp.236 sg.). All’eroe del lavoro veniva affiancata una donna dalla «personalità socialista», un’eroina del lavoro, che in un certo qual modo spezzava la dominanza maschile all’interno del mondo lavorativo ma si orientava, tuttavia, verso il modello dell’eroe maschile che poi finiva per riprodurre (Budde 1999).

Per concludere, bisogna nuovamente ribadire che le ricerche storiche hanno già messo in luce le grandi sfide che derivano dal modello del male breadwinner. Inoltre, alcuni risultati di sintesi sono già stati approntati. Nel corso degli anni e dei secoli, certi ideali e certe esigenze hanno subito cambiamenti radicali, mentre altre domande sono riapparse regolarmente nella storia. Ad esempio, per quanto riguarda il periodo che va dal XVI secolo fino ad oggi ,è stato continuamente dibattuto Il problema del rapporto tra alcool e maschilità. Tuttavia, anche se determinati fenomeni si ripresentano con una certa continuità, il piano delle

Società socialiste

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