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CAPITOLO III

IL SISTEMA DEL “DOPPIO BINARIO” E IL CASO GRANDE STEVENS

1. L’ordinamento giuridico italiano e la qualificazione delle sanzioni penali e amministrative. Il sistema del “doppio

binario”

Nell’ordinamento giuridico italiano convivono illeciti qualificati come penali e illeciti qualificati invece come amministrativi. Questi differiscono nel nomen, cioè nell’etichetta che è stata loro attribuita dal legislatore, ognuno con il proprio peculiare procedimento di applicazione. Nel primo caso il soggetto legittimato a esercitare questo potere d’irrogazione della pena sarà il giudice ordinario, nel secondo caso, l’organo designato della pubblica amministrazione, come ad esempio la Consob nell’ambito degli abusi di mercato.

I due diversi tipi di illecito quindi coesistono e vengono repressi seguendo strade diverse e parallele, originando il cosiddetto sistema del “doppio binario”.

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In un impianto così concepito esiste il rischio concreto di “accanimento” nei confronti del soggetto che abbia commesso la violazione se una stesso fatto (quindi una stessa condotta), venisse sanzionato sia amministrativamente che penalmente. Tutto questo in deroga al principio di specialità sancito dall’art. 9 l. 24 novembre 1981, n. 689 in base al quale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”.

Partendo da queste premesse, all’ipotesi di bis in idem sostanziale (sanzione sia amministrativa che penale per una stessa infrazione) si aggiunge, ipso facto, quella di bis in idem processuale. Infatti, il processo penale e il procedimento amministrativo (e l’eventuale procedimento d’opposizione), nonostante attengano al medesimo fatto, si sviluppano, secondo la logica dei binari paralleli, in maniera autonoma e indipendente l’uno rispetto all’ altro. Tra quest’ultimi non esiste neppure un ordine di priorità: verranno in pratica assecondati i rispettivi

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“tempi” (più rapido e snello il procedimento amministrativo, più lento e rigoroso il processo penale).

Si può arrivare perfino al caso in cui ad essere sanzionati contemporaneamente per la medesima violazione siano sia l’ ente che il soggetto, il quale l’ abbia in concreto realizzata per conto di quest’ ultimo.

L’obiettivo del legislatore sembra essere quello di tentare di perseguire certe finalità generali di tutela della collettività grazie alla predisposizione di un ampio apparato sanzionatorio che dovrebbe riuscire, attraverso variegate soluzioni, in questo intento. Si è cercato quindi di realizzare un sistema efficientistico che dovrebbe essere capace di garantire il raggiungimento di questo risultato o con la sanzione amministrativa (connotata da una maggiore velocità di irrogazione e certezza di esecuzione dal momento che non esistono, per questa species, istituti quale la sospensione condizionale) o con la sanzione penale (che potrà arrivare in un secondo tempo, assommandosi alla prima).

Questa impostazione è, tutto sommato, confermata anche dagli esiti del caso Grande Stevens, che verrà in seguito esaminato:

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mentre la misura sanzionatoria applicata dalla Consob per l’ illecito contenuto nell’ art. 187-ter T.U.F. è divenuta da subito esecutiva, il parallelo processo penale per la violazione dell’ art. 185 T.U.F. si è concluso senza condanne a seguito della dichiarazione della sopravvenuta prescrizione del reato da parte della Corte di Cassazione.

La nostra dottrina ha considerato la contestuale attivazione di questi due meccanismi sanzionatori, per la repressione della medesima condotta “deviante” rispetto a basilari coordinate politico-militari, quali quelle della sanzione penale come extrema

ratio e del primato della giurisdizione1.

Va detto che però, almeno nell’ambito della regolamentazione e tutela dei mercati, il suddetto sistema del “doppio binario” ha avuto una spinta decisiva da parte del diritto di matrice europea. Con la direttiva 2003/6/CE, che prende il nome di MAD (Market

Abuse Directive), il legislatore comunitario ha indicato come mezzo

di repressione dei market abuses la sanzione amministrativa, facendo salva la possibilità per lo Stato membro di prevedere anche

1

FLICK, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario

morto? (“materia penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte Edu, 4 marzo 2014, sul market abuse), in Riv. delle soc., fasc. 5, 2014, p. 953.

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un’eventuale sanzione penale (che si configura quindi come un’aggiunta non necessaria).

Le ragioni di questa scelta sono molteplici. In un settore dinamico come quello dei mercati la sanzione amministrativa, che per sua natura viene applicata più agevolmente e velocemente rispetto a quella penale, appronta una tutela più lesta contro i comportamenti scorretti e i fenomeni distorsivi che ivi si verificano. Non bisogna neppure sottovalutare il fatto che, in un settore che come questo è caratterizzato da grande tecnicismo, affidandosi al potere sanzionatorio amministrativo si possono realizzare più facilmente forme di collaborazione fra gli enti preposti alla vigilanza su quest’ultimo.

La decisione del nostro legislatore di affiancare una serie di illeciti penali agli illeciti amministrativi (cosa che peraltro la direttiva MAD non incentivava ma neppure vietava) trova la propria ragione d’ esistere nel fatto che in Italia tradizionalmente il diritto penale si è riservato la repressione di certi comportamenti antigiuridici in ambito economico ( come ad esempio l’aggiotaggio

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comune ex art. 501 c.p.). La scelta opposta sarebbe pertanto stata foriera di sperequazioni e iniquità2.

2. Gli orientamenti della Corte Edu in materia di qualificazione delle sanzioni penali e delle sanzioni amministrative alla luce del diritto comunitario e dei principi della CEDU. I “criteri di

Engel”

La problematica della qualificazione giuridica della sanzioni è stata affrontata anche dalla Corte Edu nell’ottica della salvaguardia dei principi enunciati nella CEDU e nei rispettivi protocolli, che rischierebbero di venire mortificati qualora non ci si spingesse oltre un puro e semplice criterio nominale. Si è dunque cercato di individuare degli indici cui fare ricorso per determinare la natura penale della sanzione, che prescindano dalla qualificazione attribuita dalla legge nazionale. Così facendo il giudice di Strasburgo può limitare la discrezionalità delle scelte di quest’ultima in materia di politica criminale3

.

2

FLICK, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario

morto? (“materia penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte Edu, 4 marzo 2014, sul market abuse), ivi.

3

ZACCONE, ROMANO Il concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative: le

fattispecie di cui agli art. 185 e 187-ter , TUF alla luce di una recente sentenza della Corte di Strasburgo, Rivista di Diritto Tributario, fasc. 4, 2014, p.147.

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Nel risolvere la celebre controversia Engel e altri c. Paesi Bassi4, l’8 giugno 1976, la Corte enunciò tre criteri per l’individuazione della natura giuridica della sanzione. Quest’ultimi sono detti appunto i “criteri di Engel”. Le sanzioni militari inflitte da alcuni superiori ai propri soldati furono così ritenute penali, poiché comportavano una privazione, anche se di scarsa durata, della loro libertà personale.

Il primo di questi, che è il più elementare, fa riferimento alla classificazione che la sanzione ha ricevuto nell’ordinamento di provenienza; è quindi un criterio nominale. Va da sé che un’analisi di questo tipo può rivelarsi insoddisfacente giacché si limita a riproporre quanto stabilito dalle fonti normative del singolo Stato membro. Per questa ragione gli altri due criteri superano questa impostazione e si rivelano più risolutivi.

Il secondo criterio si focalizza sulla natura reale dell’offesa individuando quelli che sono gli interessi che questa ha leso, i quali possono essere o di certe determinate categorie di soggetti oppure generali, cioè di tutta quanta la collettività. In questo secondo caso,

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infatti, la repressione dei fatti offensivi è tradizionalmente affidata al diritto penale.

Il terzo e ultimo criterio pone l’attenzione sulla severità della sanzione. Caratteristiche tipiche della sanzione penale sono, infatti, l’intento repressivo (quindi non solamente riparatorio del danno provocato in precedenza) e la capacità di distogliere il soggetto dal commettere l’illecito5

.

La Corte ha poi affermato che i criteri sono da considerasi non cumulativi ma alternativi; basterà quindi che la sanzione abbia almeno una delle caratteristiche sopra enunciate perché possa essere ritenuta penale. Se però, servendosi di ciascun criterio preso singolarmente non si riuscisse ad avere un quadro definito, niente escluderebbe di ricorrere a un approccio di tipo cumulativo.

Nonostante gli “Engel criteria” siano stati enunciati ormai circa quaranta anni fa rimangono molto attuali dal momento che la Corte continua a farvi richiamo nelle controversie che si è trovata a risolvere anche di recente.

5

VALENTINI, Il rapporto tra Diritto penale e Diritto amministrativo in punto di

sanzioni. “Ne bis in idem” ed “equo processo” alla luce delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.Federalismi.it, 2015, p. 15.

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Si può citare, a titolo esemplificativo, la sentenza relativa al caso Nykänen c. Finlandia6, depositata il 20 maggio 2014. L’imprenditore finlandese Nykänen, a seguito di un’ispezione fiscale del 2005 da cui erano risultate alcune irregolarità, fu obbligato al pagamento di una sopratassa che divenne definitiva, una volta conclusosi l’ iter processuale, nell’ aprile 2009. Nel 2008 gli fu contestato, per la stessa ragione, il reato di frode fiscale. Fu condannato definitivamente a dieci mesi di reclusione nel 2010. Lamentando la violazione del principio di ne bis in idem, decise di far ricorso alla Corte Edu, che accolse la richiesta del ricorrente in ragione della qualificazione della sopratassa, in applicazione dei criteri di Engel, come sanzione penale7.

Questa conclusione ha poggiato anche sulle affermazioni della Corte in un proprio precedente “finlandese”. La natura penale della sopratassa fiscale, infatti, era già stata riconosciuta nella sentenza

6

CEDU, Nykänen c. Finlandia, 20 maggio 2014.

7

CESARI, Illecito penale e tributario. Il principio del ne bis in idem alla luce della

più recente giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e di Cassazione,

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23 novembre 2006 con la quale si risolse la controversia Jussila c. Finlandia8.

3. Segue. Gli orientamenti in materia di “ne bis in idem”. Il caso

Zoulothukin c. Russia

Alla tematica della qualificazione delle sanzioni è strettamente collegata, per ovvie ragioni, quella del rispetto della garanzia del ne

bis in idem enunciata nell’art.4 del Protocollo n. 7 della CEDU.

Conviene qui rammentare gli orientamenti della Corte in materia così come emergono dalla pronuncia Zolotoukhin c. Russia del 10 febbraio 20099, che torneranno utili in seguito nell’ esame della sentenza 4 marzo 2014.

Con la sentenza del 10 febbraio 2009 la Grande Camera ha cercato di dare uniformità agli indirizzi delle varie sezioni, di modo che possa essere garantita la più certa applicazione possibile di questa fondamentale garanzia. Fino a quel momento convivevano infatti tre diversi filoni.

Il primo di questi di questi è a favore del fatto che si proceda per due volte per lo “stesso comportamento”, a prescindere dalla

8

CEDU, Jussila c. Finlandia, 23 novembre 2006.

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qualificazione del fatto e dallo scopo che le sanzioni si prefiggono. Al contrario in certi casi la Corte ha affermato che il medesimo comportamento possa dare origine ad un “concorso ideale di infrazioni”, le quali dovrebbero essere oggetto di un unico procedimento; nulla vieta tuttavia che si proceda separatamente. Il terzo filone si pone in una posizione compromissoria: sono ammissibili più procedimenti in concorso fra loro se da uno stesso comportamento derivassero più infrazioni ma, a condizione che quest’ultime differiscano tra loro relativamente agli “elementi essenziali”.

Il giudice di Strasburgo ha poi raffrontato i modi in cui la garanzia è enunciata in atti vari di diritto internazionale e il modo in cui questa venga interpretata dagli organi deputati alla loro applicazione. L’art. 14, par. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici dell’ ONU e l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’ UE parlano entrambi di “même infraction” o “same offence10” (cioè “stessa infrazione”). La Convenzione

dell’Accordo di Schengen) e lo Statuto della Corte Penale

10

DOVA, Ne bis in idem e reati tributari: a che punto siamo? , in

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Internazionale menzionano rispettivamente “same cause”, “mêmes

faits/same acts” e “mêmes faits/same conduct”.

Dopo aver svolto questa ricerca la Corte ha ritenuto opportuno, superando gli orientamenti preesistenti delle proprie sezioni, di confarsi alla posizione più garantista possibile già fatta propria dalle altre Corti internazionali. Con la sentenza Zolotoukhin è stata espressa l’idea di considerare limitante l’interpretazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 solo come “proibizione di perseguire in giudizio o di giudicare una persona per una seconda infrazione per quanto essa abbia origine in fatti identici o in fatti che sono sostanzialmente gli stessi”. L’esame della Corte dovrà quindi riguardare “i fatti che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete che coinvolgono lo stesso trasgressore e che sono indissolubilmente legate fra di loro nel tempo e nello spazio”.

Il “ne bis in idem” pertanto non solo proteggerà il soggetto da una nuova condanna o assoluzione ma, impedirà che nei sui confronti si possa perfino avviare un nuovo procedimento.

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Con la pronuncia A. Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia del 27 settembre 201111, la Corte Edu si è per la prima volta occupata delle sanzioni irrogate dalla Autorità Amministrative Indipendenti Italiane.

La casa farmaceutica Menarini era stata in precedenza sanzionata dall’AGCM (Autorità garante della concorrenza e del mercato) per aver realizzato un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza vietata dall’art. 2 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nel settore del mercato dei test diagnostici per il diabete. La sanzione pecuniaria amministrativa ammontava a sei milioni di euro.

Quest’ultima fu impugnata prima di fronte al TAR del Lazio, che rigettò la richiesta del ricorrente12 e in seguito, di fronte al Consiglio di Stato sempre con lo stesso esito13. In ultima istanza anche la Corte di Cassazione non accolse il ricorso, il quale fu

11

CEDU, A. Menarini Diagnostics S.r.l c. Italia, 27 settembre 2011.

12

TAR Lazio, sent. 3 dicembre 2004, n. 2717.

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infatti dichiarato irricevibile a causa si un presunto vizio di giurisdizione14.

Ecco che la Menarini Diagnostics S.r.l. decise allora di ricorrere al Tribunale di Strasburgo, lamentando una violazione dell’art. 6 CEDU dal momento che il sindacato esercitato dai giudici amministrativi sull’atto sanzionatorio non sarebbe stato di “piena giurisdizione”, non garantendo così l’esercizio di un completo ed efficace diritto di difesa.

La Corte ha da subito qualificato la sanzione pecuniaria amministrativa ai danni della Menarini Diagnostics S.r.l. come “pena”, facendo ricorso ai tre criteri di Engel. Specificatamente si è fatto leva sul fatto che quest’ultima fosse volta a tutelare un interesse generale della società (la libera concorrenza sul mercato) e fosse particolarmente onerosa e afflittiva (quindi con finalità sia repressive sia general-preventive). D’altra parte niente di strano; più volte la Corte ha ritenuto penali le sanzioni inflitte da Autorità Indipendenti (si vedano, ad esempio, le pronunce Stenuit c.

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Francia15 e Lilly c. Francia16, oltre che ovviamente a Grande Stevens e altri c. Italia).

L’AGCM non è stata considerata “giudice” così come il procedimento di fronte ad essa non è stato considerato “procedura giudiziaria in contraddittorio”. Questa premessa non ha tuttavia escluso la legittimità dell’irrogazione di sanzioni anche se non fossero state soddisfatte le garanzie previste dall’art. 6 CEDU, a patto che però il sanzionato avesse potuto ricorrere contro la decisione presso un giudice che avesse avuto il potere di riformarla, dopo aver conosciuto gli elementi di fatto e di diritto, nella loro completezza17.

La Menarini Diagnostics S.r.l., a detta della Corte, ha potuto impugnare il provvedimento di fronte a giudici, quali il TAR e il Consiglio di Stato in secondo grado, che hanno offerto queste garanzie e che rientravano quindi nel concetto di “tribunale”

15

CEDU, Société Stenuit c. Francia, 30 maggio 1991.

16

CEDU, Affaire Lilly France c. Francia, 25 novembre 2007.

17

GOISIS, Le sanzioni amministrative pecuniarie delle Autorità indipendenti come

provvedimenti discrezionali e autoritativi: conseguenze di sistema e in punto di tutela giurisdizionale, in ALLENA e CIMINI (a cura di), Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, , RULES (Research Unit Law and Economics Studies), in Il diritto dell’economia, n.1, 2013, p. 368 ss.

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dell’art. 6 CEDU18

. Seppur con qualche variazione di lieve entità è giunto a questa conclusione anche il giudice Saj nella sua

concurring opinion.

C’è stata inoltre una dissenting opinion fatta propria dal giudice portoghese Pinto de Albuquerque. Egli ha sostenuto che i giudici amministrativi investiti dell’opposizione, TAR e Consiglio di Stato, abbiano valutato solo da una prospettiva formale i motivi accampati dal ricorrente omettendo qualsiasi analisi concreta e nel merito. Così facendo questi si sono limitati a ribadire quanto affermato in precedenza dall’ AGCM.

Il ricorso è stato dunque rigettato poiché la Corte Edu ha ritenuto, al contrario di quanto affermato dal ricorrente, che il Consiglio di Stato avesse potuto verificare la correttezza nell’esercizio del potere sanzionatorio dell’AGCM e avesse potuto sindacare la proporzionalità della sanzione applicata. I giudici dell’opposizione avevano quindi potuto conoscere pienamente nel

18

ALLENA, Art. 6 CEDU: nuovi orizzonti per il diritto amministrativo nazionale, in

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merito e nei fatti la controversia dibattuta, soddisfacendo i requisiti del “giusto processo” imposti dall’art. 6 CEDU19

.

5. Il caso Grande Stevens: i fatti

E’ opportuno tentare di ricostruire, anche a costo di cadere in qualche semplificazione, i fatti storici della vicenda Franzo Grande Stevens, di modo che si possano conoscere i presupposti del conseguente procedimento sanzionatorio di fronte alla Consob e del procedimento penale che ha visto quest’ultimo come imputato. Nel 2002 la FIAT richiese ad un gruppo di banche un prestito pari a tre miliardi di euro e lo ottenne. Poiché quest’ultimo era un “prestito convertibile” il credito delle banche, nel caso in cui non fosse stato soddisfatto, si sarebbe “convertito” per un pari valore in azioni ordinarie della stessa società debitrice. La scadenza era fissata in data 20 settembre 2005.

Per favorire la conversione fu deliberato un aumento di capitale con opzione indiretta (art.2441, comma 7 c.c.) sulla base di cui le banche creditrici avrebbero dovuto offrire le azioni in opzione

19

BASILICO, Il controllo del giudice amministrativo sulle sanzioni antitrust e l’art. 6

CEDU, in Rivista telematica giuridica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti,

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agli azionisti. Il prezzo delle azioni derivanti dalla conversione sarebbe però stato superiore al prezzo di mercato delle stesse, con il probabile effetto che i soci azionisti non avrebbero esercitato il suddetto diritto d’opzione sull’ acquisto.

L’ovvia conseguenza sarebbe stata che, nel settembre 2005, l’azionista di riferimento di Fiat, Ifil Investiment s.p.a., avrebbe visto diluirsi la propria partecipazione nelle azioni orinarie ( in quel momento il 30,6%) di oltre il 7% (riducendosi fino al 22% circa)20.

Si iniziò dunque, a partire dal marzo dello stesso anno, a valutare eventuali soluzioni. Fu così che il mese successivo (26 aprile) fu siglato tra Exor e la banca d’affari Merrill Lynch International un contratto di equity swap. Alla scadenza di quest’ultimo, fissata nel dicembre dell’anno venturo, se il prezzo delle azioni della Fiat fosse stato superiore ad un soglia fissata in precedenza Exor avrebbe incassato la differenza da Merril Lynch e viceversa nel caso contrario.

20

BOZZI, Manipolazione del mercato: la Corte Edu condanna l’Italia per violazione

dei principi dell’equo processo e del ne bis in idem, in Cassazione Penale, fasc. 9,

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Nel contratto, che fu peraltro oggetto di diverse revisioni, era previsto che Exor potesse dare esecuzione anticipata anche solo parziale alla propria obbligazione e che si potesse scegliere di consegnare materialmente le azioni (physical settlement) anziché di procedere alla consegna del relativo corrispettivo in denaro.

Se il contratto fosse stato eseguito nel settembre 2005 anziché alla naturale scadenza e si fosse proceduto al physical settlement, l’azionista di riferimento Fiat avrebbe evitato la riduzione del proprio pacchetto di controllo.

Nell’estate del 2005 i titoli della Fiat avevano subito un incremento del proprio prezzo di mercato. Fu per questo fatto che la Consob, la quale aveva rilevato anche un andamento anomalo dei volumi azionari negoziati, richiese che le venissero comunicate le ragioni di questo avvenimento che parevano essere gli acquisti di azioni effettuate da Merril Lynch in conseguenza del futuro equity

swap e la pubblicazione di un comunicato in cui si affermava che il

prestito convertibile del 2002 non sarebbe stato rimborsato determinando un futura variazione nell’azionariato.

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In adempimento degli obblighi informativi derivanti dalla richiesta della Consob, il 21 luglio 2005 la Fiat comunicò “ di non disporre di alcun elemento utile a spiegare detto andamento né di informazioni relative a nuovi fatti rilevanti che possano aver influito sull’andamento stesso”.

Il 24 agosto, stante un’ulteriore richiesta della Consob, fu poi emesso un comunicato in cui veniva ribadito “ di non disporre di alcun elemento utile a spiegare l’andamento del titolo, né di informazioni relative a nuovi fatti rilevanti che possano aver influito sull’ andamento stesso”, si specificava altresì di “non aver intrapreso né studiato alcuna iniziativa in relazione alla scadenza del prestito convertendo” e si esprimeva la volontà di Ifil di “rimanere azionista di riferimento”21

e che “ sarebbero state valutate eventuali iniziative al momento opportuno”.

Il 14 settembre venne trasmessa alla Consob, la quale in data 24 agosto aveva risposto negativamente al quesito formale postole dai contraenti se l’acquisto delle azioni avesse fatto sorgere

21

GOLINO S. , GOLINO A. , Giurisprudenza e attualità in materia di diritto penale

d’impresa Articoli ne bis in idem: rilevanza nell’ordinamento tributario della recente sentenza della Corte Edu in materia di abusi di mercato, in Rivista dei Dottori Commercialisti, fasc. 1, 2015, p. 139 ss.

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l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica totalitaria, una copia del contratto di equity swap e furono forniti dettagli ulteriori a riguardo dell’ operazione finalizzata al mantenimento del controllo22

.

Il 20 settembre, giorno della scadenza del prestito in convertendo e dell’acquisto delle azioni Fiat da parte delle banche creditrici, grazie all’esecuzione dell’equity swap Exor riuscì a mantenere invariata la propria percentuale di partecipazione.

6. La vicenda processuale Grande Stevens: procedimento di irrogazione delle sanzioni Consob e di opposizione

Nel febbraio 2006 fu riscontrata dall’Ufficio Insider Trading della Divisione mercati della Consob e contestata alle società coinvolte, e ad alcuni esponenti aziendali e consulenti, una violazione dell’art. 187-ter T.U.F. (“manipolazione del mercato”). Si sosteneva infatti che gli accordi di modifica dell’ equity

swap fossero sopraggiunti in un momento anteriore al 24 agosto

2005 e che, poiché non vi si faceva riferimento alcuno nel comunicato diramato in tale data, era stata fornita una rappresentazione non veritiera della realtà dei fatti.

22

VENTORUZZO, Abusi di mercato, sanzioni Consob e Diritti Umani: il caso

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Il dossier redatto in proposito, contenente anche alcune deduzioni dei soggetti cui erano stati contestati gli addebiti relativi a questa vicenda, fu trasmesso nel settembre all’Ufficio Sanzioni Amministrative della Consob che, nel gennaio 2007, inviò a sua volta le proprie valutazioni alla Commissione competente ad irrogare le misure sanzionatorie, come previsto dalla normativa sul procedimento sanzionatorio contenuta nel T.U.F.

Si proponeva l’applicazione di sanzioni amministrative che si risolsero giustappunto nell’irrogazione di sanzioni pecuniarie (da un minimo di 500.000 ad un massimo di tre milioni di euro) a carico delle persone fisiche e delle società coinvolte. In aggiunta due soggetti furono colpiti dalla misura accessoria dell’interdizione da incarichi dirigenziali di società quotate, per periodi variabili da due a sei mesi.

Le sanzioni furono impugnate dai soggetti legittimati presso la Corte d’Appello di Torino che si pronunciò con sentenza depositata il 23 gennaio 2008. Seppur con qualche trascurabile eccezione, i giudici rigettarono le richieste degli opponenti.

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Questi ultimi esperirono, in secondo grado del giudizio di opposizione, ricorso in Cassazione in cui fu confermato quanto statuito dal giudice di grado inferiore23.

7. Segue. Il processo penale

Poiché il T.U.F. sanziona la manipolazione del mercato sia come illecito amministrativo (art. 187-ter) che come illecito penale (art. 185), seguendo il criterio del “doppio binario”, oltre al procedimento sanzionatorio di fronte alla Consob fu avviato nel 2008, presso il Tribunale di Torino, il processo penale nei confronti dei soggetti ai quali erano già state applicate le sanzioni sopracitate dalla suddetta autorità indipendente, che si costituì parte civile.

Proprio per questo motivo la difesa degli imputati sollevò questione di costituzionalità: il sistema del “doppio binario” avrebbe violato il principio del ne bis in idem, così come risultava formulato nell’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione Europea per i Diritti dell’ Uomo, perché permetteva che per uno stesso fatto e nei confronti degli stessi soggetti fossero avviati sia un procedimento penale che uno amministrativo.

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Nello specifico l’art. 649 c.p.p. (che sancisce appunto il divieto di ne bis in idem) sarebbe stato incostituzionale laddove mancasse di prevedere la preclusione per un nuovo giudizio in caso di precedente condanna per illecito amministrativo, contemplando unicamente che la preclusione operi e possa essere rilevata dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo, solo in caso di precedente condanna penale.

Violando l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU (in questo caso “norma interposta”) sarebbe stato indirettamente violato l’art. 117 Cost. dal quale deriva per il legislatore italiano l’obbligo di rispettare i trattati europei.

Facendo leva sui precedenti della CEDU e sugli elementi costitutivi degli illeciti, la questione di costituzionalità fu dichiarata infondata. Si ritenne, dunque, che il principio del ne bis in idem non fosse stato violato. Gli imputati furono però ugualmente assolti poiché si credé non dimostrato che il comportamento tenuto da questi fosse stato tale da provocare un’alterazione significativa dei corsi azionari24.

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Il pubblico ministero ricorse in Cassazione e almeno in parte vide accolte le proprie richieste. In sede di giudizio di rinvio alcuni degli imputati furono condannati per il reato previsto dall’art. 185 T.U.F. dalla Corte d’Appello di Torino, la quale affermò che senza il comunicato del 24 agosto 2005 i corsi azionari Fiat avrebbero subito un più marcato ribasso. Nel prosieguo i soggetti condannati ricorsero in Cassazione che, nel dicembre 2013, dichiarò annullata la sentenza per intervenuta prescrizione del reato nel febbraio precedente25.

8. Il ricorso alla Corte Edu: Grande Stevens e altri c. Italia

Nello stesso tempo i soggetti sanzionati, non vedendo accolta la questione di costituzionalità che avevano formulato, scelsero di esercitare ricorso presso la Corte Edu, che ha in seguito risolto la controversia “Grande Stevens e altri c. Italia”, relativa alla violazione del principio del ne bis in idem, con la sentenza 4 marzo 201426.

25

VENTORUZZO, Abusi di mercato, sanzioni Consob e Diritti Umani: il caso

Grande Stevens e altri c. Italia, cit.

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La questione che veniva sottoposta alla Corte era dunque la compatibilità di questo principio (e di conseguenza in senso lato di quello del “giusto processo”) , così come enunciato nell’art.4 del Protocollo n. 7 della CEDU, con la coesistenza e l’applicazione, nell’ ordinamento giuridico italiano, sia di sanzioni amministrative che di sanzioni penali per uno stesso fatto nell’ambito della tutela del mercato. Si trattava in sostanza di verificare la legittimità del sistema del “doppio binario” alla luce del diritto di provenienza europea.

Come detto la Corte di Strasburgo si è pronunciata il 4 marzo 2014 con una lunga e articolata decisione che contiene numerosi spunti e problematiche sia di ordine processuale che sostanziale.

Si è partiti dall’assunto che le sanzioni applicabili ai sensi dell’art. 187-ter T.U.F. , che pure sono qualificate espressamente come amministrative, debbano essere ritenute “accuse penali”. Aderendo a questo tipo di impostazione non si può che accettare di riconoscere al sanzionato tutte quante le garanzie previste dall’art. 6 CEDU (quelle classiche del “giusto processo” della tradizione giuridica occidentale) che, seppur operando meno intensamente, si

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estendono anche a quelle controversie che abbiano ad oggetto diritti e doveri di carattere civile.

Nell’ordinamento giuridico italiano la distinzione fra sanzioni amministrative e penali sarebbe puramente nominale, determinata quindi da una scelta preferenziale del legislatore per l’ una piuttosto che per l’altra. La Corte Edu ha superato nettamente questa impostazione, poggiando su una propria consolidata giurisprudenza che rintraccia invece dei criteri sostanziali (che vanno quindi oltre il puro e semplice nomen) per la qualificazione di queste. In particolare si deve aver riguardo di valutare la natura dell’infrazione e della sanzione da essa derivante (quando abbia cioè non solo funzione ripristinatoria ma anche deterrente e punitiva) e della severità della stessa. Si potrebbe in aggiunta verificare anche la sua applicabilità della alla generalità dei consociati, la percezione sociale dell’offensività della condotta, la possibilità di privazione della libertà personale e infine, nel caso di sanzione pecuniaria, valutarne la misura e l’entità.

In quest’ultimo caso, che lascia alla Corte margini piuttosto flessibili di apprezzamento, si dovrà analizzare il rapporto tra

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l’ammontare della sanzione e il reddito del sanzionato, con l’esito che, a certe condizioni, anche una modesta sanzione potrà risultare decisamente afflittiva.

E’ stato sottolineato come in materia di insider trading, oggetto della controversia qui in esame, la sanzione avesse lo scopo di “punire per evitare la recidiva”, ossia non solo meramente riparatorio di un danno patrimoniale derivante da un comportamento scorretto e ripristinatorio della situazione precedente a questo incidente. A sostegno di questa asserzione il fatto che nell’ impianto sanzionatorio del T.U.F. la sanzione è commisurata alla gravità della condotta di chi abbia agito e non al danno causato agli investitori.

Seppur non siano previste limitazioni della libertà personale, le sanzioni pecuniarie irrogabili sono caratterizzate da una grande onerosità che le rende potenzialmente molto afflittive per chi le riceve, cui si aggiungono poi misure di carattere interdittivo che vanno ad incidere direttamente sulla sfera dei diritti soggettivi del destinatario, colpendone in modo particolare l’onorabilità. Quello

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che rileva è, a detta della Corte, non la sanzione applicata nel caso concreto ma, la gravità della sanzione astrattamente comminabile.

Partendo da queste premesse la Corte di Strasburgo non ha trovato alcuna difficoltà a qualificare le misure sanzionatorie inflitte

ex art. 187-ter T.U.F. come sanzioni penali.

La Consob ha il compito di garantire, anche esercitando il potere sanzionatorio- punitivo di cui è titolare, la protezione degli interessi dei soggetti che investono e operano sul mercato nonché la trasparenza, l’efficacia e lo sviluppo della borsa. Dal momento che questi sono interessi generali della società devono per forza di cose essere tutelati, come avviene di regola per tutti quanti gli interessi generali, dal diritto penale.

9. La sentenza 4 marzo 2014 e la riscontrata violazione dell’art. 6 della CEDU

Stante quanto detto in precedenza circa il superamento di un criterio semplicemente nominale in favore di uno sostanziale per la valutazione della natura penale di una determinata sanzione, la Corte di Strasburgo nelle motivazioni della sentenza 4 marzo 2014

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ha dedicato ampio spazio all’esame del procedimento sanzionatorio della Consob e del conseguente giudizio nella prospettiva del rispetto delle garanzie dell’ accusato, riconosciute dall’ art. 6 della CEDU.

I profili critici erano essenzialmente due: il riconoscimento del pieno contradditorio e la presenza di un “giudice” che fosse indipendente e imparziale.

La Corte ha affermato che, nel procedimento sanzionatorio di fronte alla Consob, ci sia la facoltà per i soggetti destinatari della lettera di contestazione degli addebiti di poter presentare elementi utili alla propria difesa.

Tuttavia ci sarebbe un chiara disparità tra gli stessi e l’accusa determinata dal fatto che il rapporto redatto dall’Ufficio Sanzioni amministrative, sul quale si fondano le conclusioni della Commissione, non viene in alcun modo portato a conoscenza di quest’ ultimi. Si determina pertanto l’impossibilità di interrogare o far interrogare i vari soggetti che siano eventualmente stati sentiti dagli uffici competenti.

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Si arriva così ad un ulteriore punto dolente che è stato rilevato dalla Corte: l’essenziale cartolarità del contraddittorio. Il procedimento sanzionatorio di fronte alla Consob si affida, nella sua interezza, alla scrittura poiché non è prevista un’udienza di fronte all’organo incaricato di assumere la decisione. L’unica forma di udienza ammessa è infatti l’audizione ex art. 5, comma 4 della delibera n. 18750, che si colloca comunque in una fase “iniziale” del procedimento.

Non si esclude che l’art. 6 possa essere rispettato anche in assenza di una pubblica udienza; quando però, come in questo caso ci fosse discordanza sulla rappresentazione dei fatti oggetto della controversia (qui il contenuto del contratto di equity swap al momento del comunicato, ritenuto reticente, del 24 agosto 2005) e quando sussistesse in astratto il rischio per gli accusati di essere colpiti da misure sanzionatorie pecuniarie tali da incidere in modo consistente sul loro patrimonio oltre che alla possibilità di essere oggetto di misure interdittive tali da minare la loro onorabilità, per potersi rispettare il sopracitato articolo dovrà inevitabilmente essere prevista una qualche forma di pubblica udienza di fronte all’ organo decidente.

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La Corte ha poi sindacato la presenza dei requisiti d’indipendenza e imparzialità di quest’ultimo, cioè della Commissione. Non si è dubitato né dell’imparzialità dei suoi componenti né dell’indipendenza della stessa e dell’indipendenza rispetto ai poteri dello Stato e in senso ampio dal potere “politico” della Consob (che pure è inquadrata nella struttura della Pubblica Amministrazione).

La criticità ha riguardato la divisione tra gli organi che svolgono compiti di ispezione e di contestazione degli addebiti e l’organo cui è attribuito il potere di decidere in merito alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento sanzionatorio. In breve, sebbene si debba riconoscere una certa autonomia di chi svolge l’attività d’indagine non sussiste una sufficiente separazione tra questi e chi svolge l’attività giudicante.

Il problema, forse non sufficientemente approfondito dalla Corte, verte sull’organizzazione interna della Consob ovverosia sull’ autonomia e l’indipendenza delle divisioni competenti rispetto al presidente. Ma non solo: la Commissione è stata qualificata come

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“branca dell’organo amministrativo” e come tale è soggetta “all’autorità e alla supervisione” di quest’ultimo.

Per tutti questi motivi si è concluso che il procedimento sanzionatorio di fronte alla Consob sia adeguato ma deficitario nella parte in cui non assicura all’accusato le garanzie del “giusto processo” contenute nell’art. 6 della CEDU. Queste carenze potranno però essere colmate a patto che nel giudizio di opposizione di fronte al giudice ordinario siano pienamente riconosciute, nell’esercizio del diritto di difesa, tutte queste garanzie.

La Corte Edu a questo punto ha esaminato la rispondenza del giudizio di opposizione a questi parametri avendo riguardo, nei due gradi in cui si articola, dei poteri di cognizione della causa e dell’estensione del sindacato del giudice competente. Potevano la Corte d’Appello di Torino e la Corte di cassazione essere considerati “organi giudiziari di piena giurisdizione” ?

Per quest’ultima, nonostante di fronte ad essa si sia svolta una pubblica udienza, il problema è facilmente risolvibile. Nell’ordinamento giuridico Italiano la Suprema Corte è

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esclusivamente un giudice di legittimità essendole preclusa qualsiasi cognizione sul merito della controversia. Di conseguenza i requisiti dell’art. 6 della CEDU non risultano soddisfatti.

L’attenzione si è spostata a questo punto sulla Corte d’Appello di Torino. Dalle dichiarazioni del Presidente della suddetta Corte presentate dal Governo Italiano emergeva che le udienze si sarebbero svolte pubblicamente eccezion fatta per quelle aventi ad oggetto provvedimenti d’urgenza che si sarebbero svolte invece in camera di consiglio. I ricorrenti hanno tuttavia presentato delle memorie scritte del direttore amministrativo della cancelleria della Corte che riferiscono di come le udienze si sarebbero svolte in camera di consiglio, quindi mai pubblicamente. La ricostruzione dei fatti era dunque controversa e discordante.

Basandosi sui documenti ufficiali che le erano stati presentati (nello specifico sul fatto che le decisioni della Corte d’Appello fossero state prese in camera di consiglio o che le parti ivi fossero state convocate) l’opinione maggioritaria della Corte di Strasburgo è stata che il diritto di difesa degli opponenti non fosse stato assicurato nella sua pienezza.

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Vale la pena rammentare che vi è stata anche un’opinione, minoritaria, discordante, fatta propria dai giudici Karakas e Pinto

de Albuquerque, i quali affermano che il diritto alla difesa sarebbe

stato violato non solo per il semplice fatto della mancanza di una pubblica udienza. Ciò che è, a loro dire, “veramente sconvolgente” è l’assenza totale dell’esame davanti ad un tribunale degli elementi di prova contestati che vertono su fatti determinanti per la risoluzione della controversia. Si tratta pertanto di una censura più netta rispetto al resto della Corte, che non aveva negato di per sé l’adeguatezza della procedura sanzionatoria di fronte alla Consob.27

10. Segue. La riscontrata violazione dell’ art. 4

del Protocollo n. 7 della CEDU

La seconda parte della sentenza 4 marzo 2014 ha riguardato il rispetto del principio del ne bis in idem, così come viene enunciato nell’ art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU (“ nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’ infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla

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VENTORUZZO, Abusi di mercato, sanzioni Consob e diritti umani: il caso Grande

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procedura di tale Stato”) rispetto alla circostanza che i ricorrenti siano stati sottoposti, a loro detta per uno stesso fatto, dapprima ad un procedimento sanzionatorio amministrativo di fronte alla Consob per la violazione contenuta nell’ art. 187-ter T.U.F. ed in seguito ad un procedimento penale per il reato di manipolazione del mercato previsto dall’ art. 185 T.U.F.

Prima di poter entrare nel merito della controversia, la Corte ha dovuto risolvere una questione preliminare di diritto internazionale. Secondo il Governo Italiano infatti l’art. 4 del Protocollo n. 7 non si sarebbe applicato all’ Italia perché in sede di ratifica della CEDU era stata esercitata una riserva per la non applicazione della norma (come tra l’altro avevano fatto anche Portogallo, Francia e Germania) .

Il giudice di Strasburgo ha però affermato che una riserva di tal guisa (cioè in merito al ne bis in idem) è valida solo a patto che sia effettuata al momento della firma o della ratifica della Convenzione o dei Protocolli, riguardi leggi in vigore in quel dato momento, non abbia carattere generale e contenga una breve relazione sulla leggi alla quali si riferisce. Dal momento che, in

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relazione alle norme sopra citate, queste condizioni non risultavano soddisfatte, il Protocollo era di conseguenza completamente applicabile. Appurato questo si è passati a discutere della questione posta dai ricorrenti.

Il Governo Italiano (parte resistente) ha cercato di giustificare con vari motivi perché il principio del ne bis in idem sarebbe stato rispettato. Innanzitutto è stato ripetuto ancora una volta che le sanzioni della Consob non hanno natura penale ma amministrativa e, come è stato detto, in certi settori ivi incluso quello della regolamentazione dei mercati, il legislatore europeo ha legittimato il sistema della doppia sanzione.

Gli art. 187-ter e 185 T.U.F. non sanzionerebbero poi la stessa violazione. Nel primo caso, che essendo un delitto, può determinare l’applicazione di misure limitative della libertà personale, è richiesto che la condotta antigiuridica sia posta in essere dolosamente tantoché è necessario che l’informazione inesatta fatta circolare abbia avuto in concreto la potenzialità di provocare un’alterazione dei corsi di mercato. Nel secondo caso invece sarebbe sufficiente la mera negligenza di chi ha agito (a titolo di

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colpa quindi) e non possono essere adottate le misure di cui si è appena riferito. Infine si è fatto notare come il giudice penale abbia ridotto l’entità della condanna in ragione delle già irrogate sanzioni amministrative.

La Corte, la quale aveva già rilevato che in base ad un criterio sostanziale entrambe le misure sanzionatorie fossero nei fatti penali e che fossero quindi assistite dalle garanzie di cui all’art. 6 CEDU e conseguentemente anche dal ne bis in idem, si è trovata in disaccordo con questa impostazione.

Perché la garanzia sancita dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU operi è sufficiente che le due fattispecie puniscano le stesse condotte, indipendentemente da quelli che sono gli elementi costitutivi delle due violazioni. Sull’esatta coincidenza di quest’ultime non si è mai avanzato alcun dubbio, come sembra per di più emergere dalla decisione del 23 gennaio 2008 della Corte d’Appello di Torino. Quello che conta non è neppure l’esito del procedimento ma il fatto stesso che i ricorrenti siano stati sottoposti ad un nuovo processo per le stesse condotte.

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Il ne bis in idem infatti, ci dice la Corte, opera in astratto tutelando il soggetto non solo dalla sottoposizione, ma anche dal mero rischio di assoggettamento ad un nuovo giudizio.

Il sistema del “doppio binario” contenuto nel T.U.F. , che prevede parallelamente sia sanzioni penali che amministrative, è stato ritenuto, per questi motivi, contrario alla garanzia del ne bis in

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