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«Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato»

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«Corriere» 19 settembre 2016

«Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato»

Così la politica fa la spesa al discount della storia Paolo Franchi

Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato, reci- tava lo slogan del partito totalitario genialmente raffigurato da George Orwell in 1984 . E ov- viamente non c’è da rimpiangere né l’età dei totalitarismi né una concezione dei rapporti tra storia e politica per la quale la prima, ancella della seconda, era rivisitata, manipolata e distor- ta a maggior gloria dei detentori del potere assoluto e della linea da questi dettata. Il Novecen- to, però, non si è portato via solo i totalitarismi. La storia, ce ne accorgiamo amaramente ogni giorno, se ne è andata per strade inesplorate e assai poco rassicuranti: di sicuro non è finita, nei primi anni Novanta del secolo scorso, con la caduta dell’Unione Sovietica, come aveva teo- rizzato Francis Fukujama e, seppure in forme meno assertive, avevano pensato in molti. A farsi sempre più sottili, fin quasi a spezzarsi, sono stati piuttosto, in Occidente, in Europa, e soprat- tutto in Italia, i fili che legavano passato e presente. Le culture e le tradizioni politiche per così dire classiche, incapaci di rinnovarsi e forse obiettivamente impossibilitate a farlo in un mondo globalizzato si sono desertificate. La memoria, che si voleva finalmente condivisa, si è invece smarrita, come se gli anziani non avessero più nulla da trasmettere ai giovani, e i giovani non avessero più nulla da chiedere, e nel caso da contestare, agli anziani, eccezion fatta, natural- mente, per i debiti che questi ultimi hanno caricato sulle loro spalle. Niente più «domani che cantano», e va benissimo. Va molto, molto meno bene, invece, specie per le ultime e le penul- time generazioni, che non possono nemmeno ricorrere alla droga dei ricordi, vivere in un eter- no presente, senza passato e senza una prospettiva decente di futuro.

Tutto questo non significa, naturalmente, che la storia non faccia capolino, suo malgrado, nella lotta politica e in quella che una volta si chiamava la battaglia delle idee. Ma ad essa si ricorre come se fosse una specie di discount, dai cui banconi si prende, alla rinfusa e a prezzi stracciati, ciò che di volta in volta si immagina possa essere utilizzato, a mo’ di clava, contro l’avversario, senza perdere troppo tempo a chiedersi che cosa si sta acquistando, o se il pro- dotto è scaduto. Non è più solo questione di faciloneria, di improvvisazione e di estraneità a un patrimonio comune che, in passato, si dava, con un pizzico di infondata supponenza, per ac- quisito: sono già lontani i tempi (era l’ottobre del 2000) in cui Silvio Berlusconi in tv si dichia- rava entusiasta all’idea di poter incontrare quanto prima papà Cervi, del tutto ignaro che il vecchio Alcide, un’icona della Resistenza, se ne fosse andato, novantacinquenne, trent’anni prima. Ognuno sembra ormai libero di costruirsi come più gli aggrada, senza incontrare troppe resistenze, la storia, scegliendo ciò che crede gli torni utile e scartando ciò che gli complica la vita. In fondo, se sbaglia ridicolmente, come è capitato a Luigi Di Maio quando, non contento di aver paragonato Matteo Renzi ad Augusto Pinochet Ugarte, ha provveduto a traslocare d’ufficio il dittatore dal Cile al Venezuela, se la caverà con qualche sfottò sui social e una rettifica.

Allegri ignorantoni, incorreggibili gaffeur? Sì. Ma c’è dell’altro. Non è stata una semplice gaf- fe, anche se pure in quel caso si è scherzato con la storia, la trovata di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi, che tra gli antesignani del Sì nel referendum costituzionale, qualche mese fa,

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hanno arruolato, per tirarli tra le gambe della minoranza del Pd, Enrico Berlinguer, Nilde Iotti e addirittura Pietro Ingrao. In un dibattito nutrito di un minimo di conoscenza storica chiunque avrebbe riconosciuto che sì, i tre prestigiosi esponenti comunisti furono favorevoli al supera- mento del bicameralismo perfetto e, in una certa fase, anche monocameralisti. Ma si sarebbe anche ricordato che i suddetti, come tutto il Pci, erano inflessibilmente proporzionalisti, e fieri avversari di ogni forma di decisionismo: difficile rappresentarli come i padri nobili del combina- to disposto tra questa riforma costituzionale e l’Italicum, fino a poche settimane fa in gran vo- ga. I manifesti che li ritraevano come gli spiriti guida della riforma Boschi hanno fatto in tempo ad ingiallire senza che nessuno, o quasi, facesse questa semplicissima constatazione.

Anche questo vorrà dire qualcosa. Come vorrà dire qualcosa pure il fatto che in un recentis- simo talk show televisivo, nessuno abbia mandato a quel paese il combattivo giornalista che trovava forti analogie tra la reazione dei militanti del M5S alle vicende romane di queste setti- mane e quella dei militanti comunisti di fronte all’invasione dell’Ungheria nel 1956. Il discount della storia funziona così, e forse non potrebbe essere altrimenti. Ma a chi, per formazione o più semplicemente per età, la cosa stride, un po’ di respiro andrebbe pure concesso. Per pietà:

concedetevi, e concedeteci, almeno una moratoria.

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