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Stralcio relazione Salvo Calì, segretario generale Smi LA CRISI DEL WELFARE, IL DIRITTO ALLA SALUTE

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Academic year: 2022

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Stralcio relazione Salvo Calì, segretario generale Smi LA CRISI DEL WELFARE, IL DIRITTO ALLA SALUTE

Siamo al tramonto di un lungo periodo di espansione dello stato sociale. L’ultimo quarto del secolo scorso ci ha consegnato un sistema che, oggi, appare dispendioso, sperequato e, per alcuni versi, iniquo, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Non v’è dubbio alcuno che al welfare bisogna mettere mano. Già a metà degli anni ’90 del secolo scorso, oltre ai diversi interventi normativi in ambito sanitario, è stato aggredito anche il fronte della previdenza con la prima riforma pensionistica. Alla quale negli ultimi anni ne sono seguite altre con alterne fortune sociali e mediatiche, sempre comunque sospinte dalla necessità del contenimento della spesa pubblica, dal cattivo andamento dell’economia, dalla progressiva riduzione dei margini di spesa. Oggi il Governo si appresta ad affrontare il problema delle tutele del lavoro e degli ammortizzatori sociali, non senza polemiche e aspri confronti. Ripensare il welfare è tuttavia necessario e, con esso, anche l’insieme delle relazioni con il mondo del lavoro. La crisi degli anni ’90 costruì nuove relazioni sindacali superando la fase consociativa sviluppatasi a partire dagli anni ’70 e sfociando nella cosiddetta concertazione sancita dagli accordi del ’93, che hanno inaugurato una felice, se pur breve, stagione del confronto sociale.

Adesso è giunto il momento di riscrivere la natura delle relazioni sindacali che non può oscillare da un lato tra la discutibile partecipazione attiva ai processi decisionali che attengono al Governo e, per gli aspetti legislativi, al Parlamento; dall’altro al totale disinteresse per le rivendicazioni e le posizioni espresse dal mondo del lavoro.

Chi pensa di semplificare le relazioni con le parti sociali, ignorando il confronto e la mediazione sociale, commette un errore di grammatica politica, ma non c’è dubbio che il Governo e il Parlamento non possono logorarsi in estenuanti mediazioni, il rito dei tavoli, per intenderci, con 50 sedie, che spesso nascondono, dietro l’acritica difesa di astratti principi, il mantenimento dello status quo. Alla fine bisogna pur decidere, soprattutto in momenti drammatici come quello che attraversiamo. E alcune decisioni sono dolorose ma necessarie. Oggi siamo più poveri e sembra che non si abbia la consapevolezza che domani potremmo esserlo ancora di più, soprattutto quando i fondamentali della nostra economia, i settori strategici del tessuto connettivo produttivo stentano a riemergere da una crisi senza precedenti che mette in discussione antiche certezze e sgretola le illusioni di ripresa. Certo la sanità sta pagando un prezzo altissimo non solo in termini di blocco dei contratti, che peraltro coinvolge tutto il pubblico impiego, ma anche nell’assottigliarsi delle risorse disponibili sia in termini relativi, sia in valore assoluto. I valori di spesa rispetto al PIL sono in decrescita. Al Servizio sanitario nazionale è stato richiesto un contributo straordinario alla tenuta dei conti pubblici; nuovi tagli si affacciano all’orizzonte, mentre incerta e nebulosa appare la possibilità di una ripresa della stagione contrattuale.

Vent’anni fa questa storia è già stata scritta: l’ultimo contratto dei medici “dipendenti” risale al 1990, allora normato dal DPR 384.

Da quell'accordo a quello della dirigenza trascorsero sei anni, quest’ultimo sottoscritto nel dicembre del 1996, ha dispiegato i suoi effetti economici retroattivi dal 1994. Quindi quattro anni senza contratto, con la spesa sanitaria del periodo attestata a valori inferiori al 6% del PIL.

La fotografia è impietosa: abbiamo vissuto per tanti anni al di sopra delle nostre possibilità, ricorrendo al debito pubblico per sostenere il consenso sociale, alimentare i consumi, aiutare le imprese. Nessuno può pensare di tirarsi fuori: ciascuno per la sua parte, Governo e parti sociali, politica, sindacati e imprese tutti con le dovute proporzioni portano addosso un pezzo di responsabilità.

Il mondo sindacale nel nostro caso perché sembra ancorato a modelli di riferimento, densi sì di validi principi ma astratti e non declinabili con le attuali difficoltà.

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Lo stesso diritto alla salute non può non fare i conti con le risorse disponibili, tant’è che i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) sono la bussola di questa impostazione.

Un Ssn comunque vivo e pulsante, nonostante i colpi della crisi, nonostante le sciagurate asimmetrie del federalismo, nonostante il mancato rinnovo dei contratti. Ma anche nonostante il blocco delle assunzioni e del turn over che ha generato un precariato imponente, in alcuni casi da oltre un decennio (compromettendo la storia professionale e esistenziale di parte importante delle nuove generazioni di medici e così minando la funzionalità dello stesso SSN). Ma, soprattutto, nonostante i ritardi della politica nazionale nel comprendere il passaggio epocale inedito, conseguente al nodo della longevità e alla cronicità.

Eppure, in questo contesto, gli ospedali reggono ancora all’urto della crisi, ai turni stressanti (con oltre il 60% dei medici con un’età superiore ai cinquanta anni), a orari di servizio onnicomprensivi, senza alcun riconoscimento del lavoro straordinario, al blocco dei contratti, delle retribuzioni, dei concorsi e delle prospettive di carriera, a un fallimentare aziendalismo, che la pervasività dei partiti e dei governi regionali ha ridotto a formidabile strumento di consenso elettorale. E con i medici del territorio sempre più subornati a logiche burocratiche che asfissiano la loro azione quotidiana, a obblighi e sanzioni di cui non portano la responsabilità (dalla ricetta elettronica alle limitazioni prescrittive, ai flussi informatici, al fascicolo sanitario elettronico, e chi più ne ha più ne metta), soggetti anch’essi all’intrusione del ministero dell’economia nelle scelte decisionali della sanità.

PRESTAZIONI DI QUALITA' IN TUTTO IL PAESE: NECESSARI I DRG DEL TERRITORIO

Dobbiamo, quindi, ridefinire gli spazi di intervento dello stato sociale per disegnare un nuovo orizzonte di servizi e di assistenza per i cittadini. In questa logica si devono ripensare gli assetti organizzativi del Servizio sanitario nazionale e completare il processo riformatore, disegnato originariamente dalla legge 833/7.

Bisogna superare l’asimmetria tra ospedale e territorio; promuovere una moderna, intelligente e professionalmente qualificata rete che risponda ai bisogni dell’urgenza e dell’emergenza. Quindi ridefinire gli ambiti di intervento nel territorio, assumendo quale paradigma principale la cronicità, procedendo alla reale presa in carico dei pazienti attraverso l’adozione nazionale di standard prestazionali condivisi (DRG del territorio), quantificando la domanda e conseguentemente organizzando adeguatamente l’offerta sulla base dei costi sostenibili, chiedendo la partecipazione alla spesa nelle forme moderne della mutualità integrativa (peraltro già diffusa in diverse categorie di lavoratori) per le prestazioni non esigibili completamente a titolo gratuito. Se l’ospedale oggi risponde adeguatamente alla domanda di salute degli acuti, se il parametro dei tre posti letto per mille abitanti risponde in qualche modo alla domanda di ricoveri ospedalieri; se, anche con i difetti e le storture della rete ospedaliera, la selettività operata attraverso i DRG riesce a dare una risposta esaustiva ai bisogni sanitari connessi al ricovero ospedaliero che, ricordiamolo, rappresenta un evento occasionale, certo a volte ripetuto, nella vita delle persone; altrimenti non può dirsi dei problemi della cronicità, che si misurano sulla scala della quotidianità, dove la continuità dell’assistenza comporta una organizzazione articolata delle prestazioni e dei servizi che coinvolge diverse professionalità, esattamente come in ospedale, ma che, a differenza dell’ospedale, hanno come prospettiva non già la “guarigione”, bensì l’ingravescenza, l’aggravarsi cioè nel tempo della malattia con la conseguente richiesta di cure e assistenza ancora più intensive. È questa la prima emergenza sanitaria del paese. Essa va affrontata all’interno di un disegno unitario che renda omogenee ed esigibili le prestazioni esattamente come avviene per i DRG ospedalieri. Un intervento chirurgico è ugualmente esigibile a Roma come a Milano come a Palermo, certo con differenti caratteristiche dei cosiddetti peripheral, consistenti nella qualità del vitto e del posto letto, nella pulizia e nella cortesia e disponibilità del personale, ma certamente con un prodotto il cui standard qualitativo dipende soltanto dalle capacità dei professionisti.

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OSPEDALIZZAZIONE A DOMICILIO, IL VERO NODO E' LA CRONICITA'

Scusate l’ossimoro, peraltro in voga: è necessario promuovere diffusamente la cosiddetta ‘ospedalizzazione a domicilio’, non di risulta come appendice del ricovero ospedaliero, e standardizzare le prestazioni per i pazienti cronici, in primo luogo di quelli critici, che la severa cronicità riconduce sistematicamente agli ospedali, contribuendo in maniera importante all’affollamento dei pronto soccorso, impotenti a rispondere con il ricovero ospedaliero a questa domanda.

LA LEGGE BALDUZZI, UN PROVVEDIMENTO INADEGUATO

Riorganizzare le cure domiciliari in un contesto di debolezza del supporto familiare, sempre più esiguo e povero di competenze e di numeri; prendere in carico i pazienti critici: tutto ciò richiede uno sforzo organizzativo rispetto al quale la risposta normativa della legge Balduzzi e la conseguente laboriosa emanazione dell’atto di indirizzo, all’interno del quale ogni regione punta a fare prevalere o comunque a recuperare la sua esperienza e il suo modello, non danno una soluzione convincente e esauriente. I presupposti erronei di ritenere che le forme organizzative dei medici di famiglia (UTAP, UCCP, case della salute e…chi più ne ha più ne metta) possano rappresentare una risposta adeguata è un errore concettuale, che parte dal convincimento diffuso e sbagliato che i medici di famiglia “…lavorano poco e... guadagnano molto…” e che bisogna obbligarli a riunirsi in forme aggregate e a garantire la loro attività all’interno di strutture organizzate nel territorio. Con una visione dirigistica deduttiva calata dall’alto, ci si propone di risolvere un problema che merita una risposta organizzativa dal basso, induttiva; si definiscano cioè qualità e quantità delle prestazioni, si misuri la domanda di salute espressa dalla cronicità e, attorno a questa, si costruiscano i percorsi clinici e assistenziali necessari e conseguenti.

LA RETE DI EMERGENZA-URGENZA, L'ALTRA GAMBA DELL'ASSISTENZA

Quest’aspetto della cronicità, che rappresenta oggi un pezzo importante sul versante dell’organizzazione sanitaria e di riforma del SSN, non è il solo e non esaurisce i problemi che attraversano la sanità in Italia. Se l’ospedale ha affinato la sua capacità di risposta alle acuzie, se il numero dei posti letto, degli ospedali e dei pronti soccorso si è progressivamente ridotto, se ai problemi della cronicità è necessario dare una risposta che richiede un intervento riformatore nazionale, senza ombra di dubbio la terza gamba cui mettere mano con un respiro nazionale è rappresentata dall’emergenza, un settore strategico del sistema. Svolgere una funzione di filtro reale al ricorso al pronto soccorso, significa anzitutto dotarsi di un’organizzazione della rete dell’emergenza competente ed efficace, con professionisti, medici e infermieri adeguatamente formati, in grado cioè di provvedere tempestivamente ai bisogni immediati del paziente e determinare il suo prossimo futuro assistenziale, consapevoli delle risorse disponibili tra ospedale e territorio, e in grado di attingere a queste con intelligenza e scrupolo, avvalendosi del supporto delle centrali operative.

Purtroppo, l’emergenza territoriale continua a essere intesa in molte regioni come la cenerentola del sistema, come il primo intervento cui segue il trasferimento in ospedale, sicché non è necessario dotarsi di personale professionalmente preparato tanto da ritenere di poter esternalizzare il servizio affidandolo alle croci private, che magari si avvalgono di personale non adeguatamente formato, pensando che è sufficiente il trasporto nel più vicino ospedale perché questo provveda al paziente. È lo stesso meccanismo

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che avveniva al pronto soccorso venti anni fa, quando si cercava il posto letto e poi… provvedeva il reparto di competenza.

Non può più funzionare così. L’emergenza territoriale, in questo contesto avanzato, è la prima linea di intervento di una organizzazione funzionale in cui la consapevolezza del ruolo dei professionisti in relazione alle necessità primarie del paziente scrive i percorsi assistenziali più adeguati, allinea le prestazione necessarie, avvalendosi della tecnologia più avanzata: è insomma in sintonia con il sistema perché ne è parte integrante. Ecco perché negli ultimi anni abbiamo insistito affinché il personale medico addetto al 118 fosse opportunamente formato. Ma la scuola di specializzazione in medicina di urgenza è partita soltanto da pochi anni e con poche disponibilità rispetto alla necessità di formare diverse migliaia di medici che operano già nel 118 e che hanno manifestato nel tempo una vocazione a questa scelta professionale. Si rende necessario non solo uniformare il rapporto di lavoro dei medici con il SSN, superando l’assurda situazione che vede nello stesso servizio, esperendo le stesse attività, medici che afferiscono a contratti di lavoro differenti con livelli retributivi, possibilità di carriera professionale e tutele differenti; ma anche semplificare una tantum il percorso formativo e comunque consentire l’accesso alla formazione specialistica di tutto il personale attualmente in servizio.

LA RISPOSTA AL CAOS NEI NOSTRI PRONTO SOCCORSO

Sul versante del pronto soccorso va potenziata la risposta dell’osservazione breve, prevedendo l’aumento del numero dei posti letto disponibili e potenziando l’assistenza con personale dedicato. Spesso l’accesso al pronto soccorso nasconde problemi più assistenziali che clinici e l’assenza di una rete adeguata di servizi nel territorio spinge i pazienti al ricorso all’ospedale dove sono certi di trovare una risposta esaustiva; ma i pazienti che non hanno “dignità clinica”, una patologia acuta cioè compatibile con il ricovero, devono comunque essere assistiti il tempo necessario per stabilizzarne le condizioni di salute, ricoverarli eventualmente in strutture dedicate – lungodegenza, RSA, riabilitazione, presidi territoriali dedicati, come possono essere i piccoli ospedali riconvertiti e gestiti con l’apporto dei medici di famiglia e degli specialisti ambulatoriali. L’estensione dell’area dell’osservazione breve all’interno dei pronti soccorso, un’area di ricovero breve e indistinto, peraltro già intuita dalla regione Veneto, come sempre tra le regioni più pragmatiche e attente alla riorganizzazione del territorio e delle cure primarie, unitamente all’estensione della rete territoriale dei servizi, può dare una risposta significativa ai problemi del sovraffollamento dei pronto soccorso.

CONCLUSIONI: UNA RIFORMA HA BISOGNO DELL'UNITA' DEI MEDICI. LA PROPOSTA DI CONTRATTO UNICO, PER UN NUOVO PROTAGONISMO DELLA CATEGORIA E PER SUPERARE IL GAP TRA GARANTITI E NON GARANTITI

L’idea fondamentale potrebbe essere allora quella di un accesso generalizzato a tutti settori del SSN con un rapporto libero-professionale para subordinato ad orario fisso per tutti di 38 ore (in parte traducibile in scelte per il settore dell’assistenza primaria al fine di salvaguardare il rapporto fiduciario): il paradigma fondamentale di tipo normativo e contrattuale potrebbe essere l’attuale convenzione per la specialistica ambulatoriale che comprende forte carattere libero professionale compenetrandolo tuttavia con alcune caratteristiche del lavoro dipendente .

Naturalmente mentre una tale prospettiva è relativamente piana nei settori in cui l’attività professionale, ancorché svolta in equipe, ha forti caratteri individuali il problema si complica laddove tutta l’organizzazione è basata sull’attività collettiva e richiede quindi anche una organizzazione gerarchica. Si pensi agli ospedali e segnatamente ai servizi e ai reparti chirurgici. D’altra parte ruoli di direzione devono

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prevedersi anche per i restanti settori del sistema: si pensi al complesso dei distretti o di possibili future articolazioni territoriali dell’assistenza primaria o al sistema dell’emergenza/urgenza.

Si dovrebbero allora prevedere una serie di figure di dirigenti di unità complesse da conferire con i criteri e le modalità attuali. Tali dirigenti dovrebbero avere in alcuni casi caratteristiche più decise di direzione professionale (penso agli attuali dirigenti di unità operativa), in altri casi di carattere più marcatamente gestionale (penso ai direttori di dipartimento o di distretto).

Dal punto di vista economico la retribuzione base oraria potrebbe essere incrementata da una indennità variabile da conferire ai dirigenti di strutture complessa ma anche a tutti gli altri sulla base dei risultati e di alcuni criteri incentivanti realizzati possibilmente in maniera meno farraginosa dell’attuale sistema di valutazione (l’attività svolta, il numero di scelte, obiettivi di settore etc). Anche l’attività libero professionale, svolta per conto dell’azienda, potrebbe confluire nella parte variabile della retribuzione o potrebbe essere svolta al di fuori dell’orario di lavoro, senza alcun limite se non quello derivante dallo svolgimento in aziende già accreditate con il SSN. Quest’ ultima materia dovrebbe essere disciplinata una volta per tutte superando l’approccio ideologico che da sempre al caratterizza.

L’accesso al sistema non dovrebbe creare soverchi problemi restando fermo il possesso del titolo di specializzazione cui, tendenzialmente, verrà omologato l’attuale titolo di formazione in medicina generale che vedrà probabilmente nel tempo un allungamento a cinque anni ed un ambiente universitario.

Dal punto di vista previdenziale il sistema potrebbe far capo all’ENPAM con un fondo speciale SSN che preveda anche una qualche forma di premio di fine servizio.

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