IL DANNO BIOLOGICO DA MORTE
Appunti e spunti dalla sentenza n. 372/94 della Corte Costituzionale di
Lino Schepis*
Quando, verso la fina del 1993, arrivò la notizia che il tribunale di Firenze aveva formalmente officiato la Corte Costituzionale del problema del cd. "danno biologico da uccisione", la mia Società, come del resto tutto il mercato assicurativo, si stavo preparando allo storico evento della liberalizzazione delle tariffe RCA.
Confesso che per un tecnico di assicurazione il passare da un regime amministrato ad uno (relativamente) libero induceva ad un tempo sollievo, perché consentiva di recuperare un equilibrio tecnico tra costi e ricavi, e preoccupazione, in quanto con il nuovo scenario non vi sarebbero più stati alibi, o responsabilità istituzionali sulle quali scaricare la colpe di una gestione passiva del rapporto sinistri e premi.
In quel contesto, mentre gli esperti di politiche assuntive avevano iniziato a studiare delicati meccanismi tariffari che consentissero di realizzare il sospirato riequilibrio tecnico del ramo senza penalizzare eccessivamente ed indiscriminatamente automobilisti buoni e cattivi, e che tenessero conto della poco favorevole situazione di congiuntura economica del nostro Paese, era parso inevitabile richiedere ai tecnici dei sinistri un calcolo previsionale di quella che avrebbe potuto essere la ricaduta di una eventuale sentenza di accoglimento da parte della Consulta.
Mi trovai quindi, come molti dei miei colleghi, a dover sviluppare, con l'ausilio degli attuari, un calcolo, invero non semplice, che tenesse conto ad un tempo delle statistiche ISTAT, delle risultanze di azienda, dei criteri liquidativi esplicitati nelle, fino ad allora, sporadiche sentenze di merito che avevano risolto affermativamente la questione.
Tralasciando i dettagli, posso dire di essere rimasto lo stesso sorpreso, e preoccupato, nel constatare che i costi del comparto avrebbero subito un incremento prossimo ai 1.400/2.100 miliardi, a seconda dell'ampiezza della statuizioni della Consulta, per i soli danni da uccisione occorsi nel 1994. In poche parole, poco meno di un 15% dell’intero fatturato RCA di un anno.
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Ma bisognava compensare anche gli effetti che una decisione sfavorevole avrebbe provocato sui sinistri letali avvenuti prima del 1994, e non ancora definiti: altri 4.500 miliardi, cioè circa il 30% dell’intero fatturato auto.
Globalmente, quasi un 50% di incremento, da aggiungere agli altri necessari aumenti, conseguenti ai rincari per i danni materiali, a quelli per le sempre più costose microlesioni, e così via.
Chi avrebbe dovuto sopportare questi maggiori costi?
Mi venivano in mente le aspettative - comprensibili - manifestate dalle associazioni dei consumatori, che si attendevano in molti casi delle riduzioni tariffarie, e le recenti discussioni avute con i colleghi dell'area commerciale, ai quali appariva improponibile un qualsiasi aumento globale eccedente valori ad una sola cifra.
D'altra parte, sarebbe stato impossibile far assorbire dalle imprese un simile aggravio, in un comparto che già da tempo aveva superato il limite della gestione tecnica, facendo registrare rilevanti e progressive perdite.
Una volta di più gli operatori dei settore assicurativo si trovavano a fare i conti con un sistema per certi versi schizofrenico, che si rifiuta dì interrogarsi sui costi di certe innovazioni, che non si preoccupa di stabilire una relazione di equilibrio tra risorse disponibili e ricerca di nuovi benefici.
Già in passato ho avuto occasione di far rilevare come per anni il legislatore, mediante fissazione di massimali per danni alle persone, ha fornito un'indicazione del valore uomo totalmente disattesa della magistratura; come il sistema risarcitorio dei danni non patrimoniali vigente in Italia sia di gran lunga il più costoso del Paesi dell'Unione Europeo. Come in Italia, dopo avere per decenni definito "a rischio" i rapporti aquiliani tra congiunti, si muti repentinamente avviso e si rimettono nel novero dei terzi risarcibili anche i parenti i più prossimi, facendone sopportare i costi, con effetto retroattivo, alle imprese assicuratrici.
E' notizia di recente fa che un giorno di incarcerazione indebita viene risarcita dallo Stato italiano meno di un giorno di malattia da "colpo di frusta".
Sempre di qualche settimana fa è la sentenza che ha riconosciuto l'esistenza di un danno biologico risarcibile a carico della proprietaria di un gatto ucciso da un automobilista.
E evidente a mio avviso che l'intento, che muove tanti esperti di discipline diverse (e di cui questo Convegno può costituire un'importante occasione di crescita), deve essere quello di costruire un sistema di liquidazione del danno alla persona il più possibile giusto, adeguato alle reali necessità delle più varie situazioni umane, ma nel contempo equilibrato, e rapportato alle
Possiamo realmente permetterci di spendere per danni extrapatrimoniali più di quanto spendano paesi come la Germania, o l'Inghilterra, oppure è inevitabile, e magari giusto, che il nostro istinto latino abbia il sopravvento?
Mi sembra non si debba avere il timore di affermare che le risorse impegnate da alcune artificiose costruzioni - come forse è il danno biologico da uccisione - potrebbero essere più efficacemente ed utilmente destinate ad altre spese od investimenti, che, per restare nel nostro ambito, potrebbero ad esempio riguardare la prevenzione e la sicurezza stradale.
Esaurite queste riflessioni - che a qualcuno potranno apparire prosaiche, ma che è necessario che un rappresentante del mondo assicurativo esprima - sugli aspetti più propriamente economico- sociali del problema oggi dibattuto, vorrei soffermarmi brevemente su alcuni aspetti più tecnici- giuridici del problema, lasciando tuttavia ad altri illustri relatori il compito dì un più esauriente approfondimento generale.
In tema di danno biologico da uccisione iure successionis, non posso fare e mano di giudicare come una vera e propria forzatura il tentativo di equiparare danno da morte e danno da lesioni, da sempre sentiti qualitativamente diversi da tutti gli addetti ai lavori.
A mio avviso le argomentazioni portate della Consulta, in termini che a qualcuno sono parse sin troppo scarni e lapidari, andrebbero intese al di là della semplice, quanto necessaria, distinzione tra diritto alla vita e diritto alla salute.
Non pare davvero credibile la tesi secondo cui un uomo acquista, un attimo prima di morire, i diritti di credito nascenti dal fatto che lo ha portato alla morte unicamente per trasmetterli agli eredi.
Credo si sia tutti convinti che gli eredi non rappresentino di per sé una categoria meritevole di particolare tutela.
Soprattutto ove si consideri che eredi possono essere congiunti anche assai lontani (come un terzo cugino od un pronipote o un coniuge in attesa del divorzio), oppure persone totalmente estranee, come può avvenire nelle successioni testamentarie, o addirittura lo stesso Stato, al sensi dell'art 586 cc.
Né potremmo dichiararci soddisfatti per la prospettiva che l'Erario possa recuperare una parte delle erogazioni a titolo di imposta di successione.
Mi sembra di dover condividere l'opinione che una diversa scelta da parte del Giudice delle Leggi avrebbe dato luogo ad assegnazioni di denaro scaturenti da una costruzione formalistica, ma di ben modesta giustificazione sociale ed ancor meno consistente senso logico.
A meno che non si sia voluto fare riferimento ai casi nei quali, a seguito del decesso di una persona, non siano liquidabili somme né per danni patrimoniali, mancandone i presupposti, né per danni morali non essendo ravvisabili nel fatto i caratteri di un reato.
Non credo tuttavia che situazioni così sporadiche, e comunque per lo più accettabilmente risolte sul piano transattivo, giustifichino l’introduzione di un istituto così complesso, problematico e costoso. Più efficace risulterebbe in proposito un intervento del legislatore, già più volte auspicato, (o di fatto realizzato con la nota legge di riforma della RCA picconata dal presidente Cossiga), che svincoli la liquidazione del danno morale dall'accertamento di una fattispecie di reato.
Ad ogni modo, è opinione diffusa che la statuizione della Corte Costituzionale sia ormai destinata ad eliminare ogni ulteriore disputa sullo specifico aspetto del danno biologico iura successionis.
Resta da esaminare Il secondo aspetto sollevato dal tribunale di Firenze, ed affrontato dalla Consulta, vale a dire il cosiddetto danno biologico iure proprio in conseguenza di un evento mortale.
Devo dire di avere ascoltato con qualche perplessità i primi commenti e le prime interpretazioni date alla sentenza, secondo le quali la Consulta avrebbe senz'altro affermato l'esistenza e la risarcibilità, ancorché condizionata, di un vero e proprio danno alla saluto (o biologico) del congiunto della vittima da fatto illecito extracontrattuale.
Perplessità, ma anche una forma di invidia, perché personalmente il pensiero del Giudice delle Leggi sul punto non appariva del tutto chiaro e convincente, anche dopo numerose riletture.
Avendo in mente il perfetto iter logico percorso dalla basilare sentenza n. 184 del 1986, in base al quale;
• Il danno alla salute (o biologico) è danno evento, sempre presente, ben distinto dai danni conseguenza (morale, patrimoniale), eventuali e soggetti a rigoroso accertamento;
• va liquidato nell'ambito dell'art. 2043 cc, ancorché dopo "rilettura costituzionale" che ne allarghi l’operatività anche a danni non aventi specifico contenuto patrimoniale, come appunto il danno alla salute;
• per tale ragione - cioè perché non vincolato ai limiti di operatività dell'art. 2059 cc. - non consente dubbi dì incostituzionalità di quest’ultima norma, e dello stesso art. 2043 cc.;
trovavo - e trovo tuttora - grande difficoltà ad accettare come danno biologico quello di cui si discute, che la stessa Consulta afferma:
• non essere danno evento, ma conseguenza;
• non essere liquidabile nello schema dell'art 2043 cc., bensì all'interno dell'art. 2059 cc.
In effetti, di tale ipotesi dannosa la sentenza non dà un'esatta definizione che consenta con sicurezza di ricomprenderlo nel danno biologico tradizionalmente delineato.
Se ne dovrebbe dedurre, e sarebbe e mio avviso l’interpretazione più concorde all'istituto delineato nella sentenza n. 184/86, che non si figura autonoma di danno biologico si è voluto parlare, bensì di una sorte di danno morale aggravato, sempre rientrante nella tipologia del danno morale, disciplinato, con i consueti limiti di operatività, dall’art. 2059 cc.
Diversamente interpretando, si arriverebbe alla conclusione che la Corte avrebbe costruito un
“... quartum genus”, collocato e metà strada tra biologico-evento e morale-conseguenza. che, pur provvisto delle garanzie costituzionali dell’art. 32 della Costituzione, ma condizionato ai termini di liquidabilità propri dell'art. 2059 cc., sarebbe ... incostituzionale, cioè viziato di quella stessa incostituzionalità che la Consulta ha escluso nella sentenza cardine del 1986.
Eppure, non vi è dubbio che la sentenza parla di vera e propria malattia, cioè di sofferenza morale così forte e persistente da divenire stato patologico permanente. Mentre invece sappiamo che caratteristica del danno morale subiettivo è la .... volatilità, ovvero la non persistenza, la transitorietà.
Permane dunque il dubbio se la Corte, dopo avere giustamente e chiaramente posto l'accento su alcune fattispecie dannose particolari e gravi, (ad esempio l'infarto da shock o uno stato di prostrazione totale che abbia spento il gusto di vivere), abbia inteso mantenere ben netta una distinzione qualitativa con il danno morale, ovvero se tale differenza, rimanendosi nel medesimo genus, abbia valenza essenzialmente quantitativa.
Riconosco che contro questa tesi milita anche l'opinione, espressa dalla Corte, che siffatta fattispecie non possano essere risarcite mediante riconoscimento di un pretium doloris in senso stretto.
A dire il vero anche altri passaggi della sentenza offrono un contributo di problematicità come la considerazioni sulla riferibilità causale dell'evento lesivo al fatto letale, o il riferimento alla responsabilità oggettiva per pura causalità.
Personalmente, mi sono chiesto, ove venisse accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito la tesi affermativa, se e quali effetti di tipo penalistico potrebbero determinarsi a carico del responsabile dell'evento dannoso: dovrà egli temere anche una possibile incriminazione penale per lezioni colpose?
Può sembrare disquisizione oziosa, mera questione di etichetta, collocare il danno in questione tra i danni morali o nel danno biologico, se è vero, come in effetti è vero, che i confini di tale danno cono stati comunque ben delineati dalla Corte: situazioni eccezionali, determinatosi su persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.) permanenza del trauma psichico, rigorosa prova del danno, concreto accertamento dello stesso.
Ed invece pare importante fornire ai giudici di merito ed agli operatori un chiaro indirizzo concettuale, che consenta di filtrare in modo adeguato richieste che verosimilmente diverranno regola, e di prevenire dispute e discussioni poco producenti soprattutto nella prospettiva di una maggiore velocità nelle liquidazioni anche dei danni gravi e gravissimi.
Pur con qualche perplessità e riserva, mi sento dì caldeggiare un'interpretazione ... di rigetto, semplicemente perché più chiara, e più coerente con la costruzione concettuale elaborata nella sentenza del 1986.
Sono del tutto convinto che, anche in questa prospettiva, apparentemente più conservatrice, il mondo assicurativo e giudiziario sapranno identificare ed indennizzare correttamente le situazioni dannose meritevoli di particolare apprezzamento, come del resto hanno già dimostrato di saper fare in talune situazioni dai risvolti umani particolarmente drammatici, come il decesso contemporaneo di più figli, o dei due genitori, o di un figlio unico, o del coniuge anziano particolarmente legato a quello deceduto. In nessuno di questi casi, per mia esperienza diretto, si è proceduto a semplici somme algebriche dei danni morali, ma si è sempre tentato di differenziare in concreto le poste ritarcitorie.
Rimane da stabilire un criterio che consenta di orientare in concreto la monetizzazione di tale
"danno morale aggravato", pur nel rispetto della peculiarità di ogni singolo caso.
Un buon parametro valutativo potrebbe essere, qualora i necessari test medici abbiano evidenziato una patologia stabilizzata, la corresponsione di un importo equivalente a quello che si pagherebbe per danno morale in relazione ad un equivalente danno alla persona occorso in modo diretto ad un soggetto infortunato.
Non potrebbe essere corrisposto l'equivalente del danno biologico, appunto perché la sentenza nega che possa essere attuata una simile equiparazione.
Sono intimamente convinto che molta strada sia stata percorsa, e molta ne rimanga da percorrere da parte di tutti gli addetti ai lavori per costruire un sistema risarcitorio equo ed equilibrato, adeguato al rapido evolversi dei tempi.
Sono altresì convinto della necessità di assicurare ai danneggiati un sistema ritarcitorio ad un tempo flessibile, confrontabile con ogni realtà equivalente, ragionevolmente prevedibile, cioè non suscettibile di continue verifiche giudiziali.
Ritengo peraltro indispensabile che tutti coloro che sono chiamati a concorrere nella costruzione di tale modello si facciano carico di tenerne sotto controllo i costi, in quanto non vi è dubbio che ogni società deve responsabilmente rapportare oneri suppletivi alla risorse disponibili.
Il verificare criticamente le ... frontiere del danno risarcibile non deve necessariamente comportare la sistematica costituzione di nuovi arditi avamposti, ma anche, talvolta, la solidificazione e la conferma di confini tradizionali, se idonei e realizzare un modello risarcitorio attuale, adeguato alle reali necessità, in linea con i più diffusi criteri liquidativi degli altri paesi europei.