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Arbitrato, contenzioso sportivo, sistema CONI - Judicium

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Academic year: 2022

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VINCENZO VIGORITI

ARBITRATO, CONTENZIOSO SPORTIVO, SISTEMA CONI

1 – Il controllo dei conflitti all’interno dell’ordinamento sportivo.

2 - Il sistema Coni. Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport.

3 – L’Alta Corte di Giustizia Sportiva.

4 – L’arbitrato sulle controversie patrimoniali.

1 – Il controllo dei conflitti all’interno dell’ordinamento sportivo.

Conviene muovere dai dati essenziali già altrove acquisiti: l’ordinamento sportivo è ordinamento giuridico dotato di autonomia, autarchia e autodichia.

All’interno di questo si annoverano situazioni soggettive rilevanti per il solo ordinamento particolare, e altre ben più numerose aventi dignità di diritto soggettivo o interesse legittimo rilevanti anche per lo Stato. Premono le seconde.

Vale il principio della pregiudiziale sportiva, in senso lato. Il contenzioso non strettamente patrimoniale (tesseramenti, ammissione ai campionati, ecc.) è gestito a due livelli, interno delle federazioni, dotate di apparati di tutela più o meno articolati, e quindi a livello Coni sovraordinato alle federazioni. Le controversie patrimoniali sono devolute ad arbitri esterni gestiti dalle federazioni ma non è previsto un ulteriore intervento di organi Coni. L’intento di fondo è comune, ed è quello di evitare il ricorso al giudice statale.

Le regole dettate dagli organismi internazionali di vertice a quelli corrispondenti nazionali (esempio, dalla Fifa alla Figc), e da questi trasmessi alle

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federazioni di settore sono: 1) l’obbligo di prevedere che, aderendo alle federazioni, i singoli assumano anche il c.d. vincolo di giustizia, che vale come promessa di soggezione all’apparato di giustizia interno; 2) la devoluzione del contenzioso disciplinare agli organi deputati alla repressione sempre nell’ambito del microcosmo sportivo, con la garanzia di un’ultima istanza ad un tribunale esterno, di matrice sportiva, legittimato a pronunziarsi in via definitiva; 3) la devoluzione del contenzioso patrimoniale a collegi arbitrali non inquadrati nelle federazioni, ma comunque da queste organizzati.

Col vincolo di giustizia, tutti gli associati si impegnano ad accettare la piena e definitiva efficacia dei provvedimenti adottati dalla federazione di appartenenza, dai suoi organi, o dai soggetti delegati nelle materie comunque riconducibili all’attività federale, nonché nelle vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico. La Corte di Cassazione ha ritenuto legittima tale soggezione asserendo che il vincolo ha natura negoziale perché espressione del principio di autonomia e partecipazione volontaria, e che trova adesso ulteriore legittimazione in una fonte normativa, e precisamente nell'art. 3, comma 1, l. n. 280/03. A cui va aggiunto l’art. 7 d.lgs. n. 242 del 1999 (modificato dal d.lgs. n. 15 del 2004) che alla lettera h-bis indica fra i principi generali della giustizia sportiva l”obbligo degli affiliati e tesserati, di rivolgersi agli organi di giustizia federale per la risoluzione delle controversie attinenti lo svolgimento dell’attività sportiva.

Affermata la pregiudiziale, la giustizia sportiva pretende di poter gestire al suo interno i diritti disponibili, qualunque ne sia la matrice, precludendo o limitando al massimo l’accesso al giudice statale, mentre per quelli indisponibili, ancora di qualunque estrazione, offre un apparato di tutela interna affidabile che dovrebbe indurre i titolari delle posizioni contenziose a non attivarsi ulteriormente di fronte al

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giudice statale. L’accesso al quale, tuttavia, non può essere né vietato né punito.

In questo quadro si inseriscono le “nuove” disposizioni dello statuto Coni, e quindi specificamente gli artt. 12-12 ter dello statuto del 26 febbraio 2008, che hanno istituito due organi aventi natura e funzioni diverse: il Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport (Tnas) destinato a fungere da catalizzatore del contenzioso sui diritti disponibili, definiti con lodi arbitrali rituali, e l’Alta Corte di Giustizia per lo Sport (ACGS) che dovrebbe farsi carico delle controversie sui diritti indisponibili, di cui conosce e decide con provvedimenti ricorribili di fronte al giudice statale (amministrativo).

2 - Il sistema Coni. Il Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport.

L’intervento del nuovo statuto sul sistema di tutela è stato importante, perché ha soppresso la Camera di conciliazione e di arbitrato ed ha istituito due nuovi organi: l’Alta Corte di Giustizia Sportiva (art. 12 bis) e il Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport (Tribunale) (art. 12 ter), affidando a quest’ultimo le funzioni in precedenza svolte dalla Camera.

L’intento di fondo, sempre sul piano disciplinare, è quello di consentire l’impugnazione dei provvedimenti resi dagli organi interni alle federazioni di fronte ad un tribunale lontano dall’apparato federale, ed operante invece presso il Coni, in condizioni però di autonomia, e in quanto tale capace di catalizzare il contenzioso resistendo a tendenze centrifughe.

Questi i tratti essenziali, dall’angolo visuale della disciplina interna sportiva.

L’art. 12 ter dello statuto regola l’assetto del Tribunale, con disposizioni complessivamente condivisibili. Due rilievi: è previsto che la facoltà di ricorrere al

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Tribunale debba essere esplicitamente contemplata dagli statuti e regolamenti delle federazioni nazionali. Proprio nel primo caso deciso dall’Alta Corte di Giustizia Sportiva (decis. 9 giugno 2009, n.1), una federazione, la Figc, aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso di una società affiliata, sostenendo appunto che formalmente il rimedio Coni non era stato esplicitamente recepito dagli statuti e regolamenti della federazione eccipiente, e che esso non era pertanto disponibile per gli associati.

L’obiezione è stata respinta dall’Alta Corte con argomenti di carattere sistematico. Questi i passaggi: la normativa vigente riconosce ampia autonomia all’istituzione; tale autonomia implica l’attribuzione di poteri regolatori dell’organizzazione e del funzionamento della giustizia sportiva (autodichia); in forza dei poteri conferiti, il Coni “ha titolo al pari delle federazioni a dar vita... ad organismi di giustizia sportiva chiamati ad esercitare la propria jurisdictio a sviluppo e completamento della precedente fase di giustizia federale, in quelle ipotesi nelle quali il Coni ritenga di introdurre un’ulteriore fase di contenzioso esofederale”(così anche altra e recente pronuncia della stessa Alta Corte: decis. 29 luglio 2010, n.14).

Forse sarebbe stato utile aggiungere che questa è la soluzione dettata dagli organismi internazionali di gestione dello sport, alle cui direttive tutti dichiarano di voler aderire, salvo poi all’occasione tranquillamente dimenticarsene. Resta che deve ritenersi definitivamente superato il requisito della necessaria recezione del rimedio negli statuti delle federazioni che partecipano al Coni: il ricorso al Tribunale è comunque e sempre proponibile dal soccombente in sede disciplinare federale.

Il Tribunale è organo arbitrale, una qualifica da intendere in senso lato, perché esso in realtà organizza arbitrati, ed è solo indirettamente coinvolto negli stessi, fermo restando che la definizione delle controversie è sempre riconducibile agli

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arbitri. Sono devolute al Tribunale le controversie sportive (disciplinari e non) che concernono diritti disponibili eventualmente rilevanti anche nell’ordinamento statale;

lo stesso organo può conoscere anche di controversie riservate al solo ordinamento sportivo (art. 2, comma 1, cod. Tnas). Sono invece sottratte alla cognizione del Tribunale le controversie concernenti diritti indisponibili (e quindi, secondo l’opinione prevalente, quelle sugli interessi legittimi lesi dall’attività di diritto pubblico degli organi sportivi) e quelle disciplinari relative a sanzioni di modesta entità (meno di 10.000 euro o sospensioni inferiori a 120 giorni) (art. 3, comma 1, cod. Tnas).

L’arbitrato in generale postula la volontarietà della devoluzione, negata da alcuni perché in materia disciplinare gli incolpati subiscono il giudizio che ovviamente, nel contingente, di solito nessuno desidera. La volontà che rileva però non è quella che concerne il singolo procedimento, bensì quella che si esprime al momento dell’adesione all’ordinamento sportivo, con tutte le implicazioni che ciò comporta, ivi compresa la soggezione alle regole interne di disciplina, e al giudizio di chi deve reprimere la devianza. In quest’ambito, si apprezza in positivo la facoltà di ricorrere al Tribunale oppure, per converso, di dover resistere alle iniziative altrui.

L’arbitrato è rigorosamente amministrato, in tutti i suoi momenti. Dalla scelta degli arbitri alla determinazione dei compensi e delle spese, alle norme di rito, all’efficacia del lodo.

Il modello è quello dell’arbitrato rituale, con esplicito richiamo alle norme del c.p.c., effettuato dall’art. 4 comma 2, cod. giud. La scelta è atipica, sia perché quelle norme sono nate come disposizioni quadro per regolare un giudizio alternativo a quello ordinario di cognizione civile, e non quindi un’impugnazione in materia disciplinare, sia perché finora gli arbitrati sportivi erano sempre stati di carattere

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irrituale, e in quanto tali definiti con lodi (più o meno) integralmente sottratti al controllo del giudice dello Stato.

Le parti godono di ampia autonomia in punto di scelta degli arbitri, con l’unico limite che devono essere tratti da un elenco di esperti designati dall’Alta Corte (art. 1, comma 2, e art. 6 cod. Tnas), prevedendosi poi che, in caso di omissione o di mancato accordo, alla nomina provveda il Presidente del Tribunale (art. 13 cod.

Tnas), sulle orme di quanto prevede l’art. 810 c.p.c. In punto di rito, il Codice dei giudizi richiama le “norme inderogabili” del c.p.c. in materia di arbitrato (art. 4, comma 2), con qualche spazio per l’autonomia degli arbitri che, nell’improbabile mancanza di disposizioni, possono loro stessi dettare le norme necessarie a colmare le lacune procedurali.

La cognizione è piena, in fatto e diritto. L’arbitrato di fronte al Tribunale non è dunque giudizio di impugnazione di precedenti pronunce, con tutti i vincoli derivanti dalla tipologia dei vizi deducibili e dalla cognizione limitata. L’art. 9, nel disciplinare gli elementi essenziali dell’istanza introduttiva, parla di domande (lett. e) e di prove offerte o da acquisire (lett. f) , ancora senza limitazioni; l’art. 12, sulle difese della parte intimata, parla delle stesse in rito e nel merito (lett. b), di prove offerte o da acquisire (lett. c), addirittura di domanda riconvenzionale (lett. d); l’art. 21, comma 3, parla dell’ammissione di mezzi istruttori; l’art. 22 regola la prova testimoniale e l’eventuale CTU. Insomma, un vero e proprio giudizio di primo grado, senza i limiti dell’impugnazione per vizi tipizzati.

Poi, l’art. 23 ammette la richiesta agli arbitri di misure cautelari anche inaudita altera parte, da accogliere se sussistono i presupposti classici del fumus boni iuris e del pericolo di un danno grave e irreparabile; le misure sono efficaci nel solo ordinamento sportivo. La disposizione è condivisibile, anche se non è ancora chiara

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la sua rilevanza pratica, tenendo presente che il giudizio del Tribunale quasi sempre di impugnazione di pronunce disciplinari, risulta destinato a svolgersi quando si sono probabilmente attenuate le necessità di intervento immediato.

L’art. 25 dispone sui termini di pronuncia del lodo (novanta giorni) abbreviati rispetto a quelli codicistici. E’ prevista la facoltà di proroga, ed anche la riduzione, persino d’ufficio, del termine regolamentare, con relativa diminuzione dei tempi disponibili per le attività difensive. Le disposizioni sul lodo ripropongono quelle del c.p.c., con l’intesa che la pronuncia finale è destinata a spiegare i suoi effetti nell’ambito dell’ordinamento di provenienza, separato e autonomo da quello statale.

Contro il lodo “è sempre ammesso il ricorso per nullità ai sensi dell’art. 828 c.p.c.” e dunque il ricorso alla Corte d’Appello, inevitabilmente, di Roma (così gli artt. 12 ter st. Coni, e 28 cod. Tnas).

Questa pare la disposizione assolutamente centrale del nuovo sistema. Essa toglie al giudice amministrativo il potere di controllo delle pronunce del Tribunale, affidandolo invece al giudice civile, a cui però sono preclusi nuovi accertamenti di fatto, restando intangibili quelli provenienti dagli organi di giustizia interni alla federazione, eventualmente asseverati o modificati dai lodi impugnati. Non consente il controllo sull’error in iudicando, vizio ormai da tempo sottratto a censure in sede di impugnazione dei lodi rituali, salvo specifica cautela.

A questo punto appare chiaro che per i diritti disponibili dedotti, il lodo è il provvedimento finale e inevitabile ammettere che le uniche censure possibili sono per i vizi di rito, al pari di quanto generalmente previsto dal c.p.c. La normativa Coni (statuto e codice) prevede che l’impugnazione sia ammissibile anche in presenza delle clausole che contengono il c.d. vincolo di giustizia, una disposizione questa in linea con il principio dell’inammissibilità di una rinuncia preventiva

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all’impugnazione dei lodi per motivi di rito.

La medesima normativa dichiara impugnabili solo i lodi che definiscono controversie sportive rilevanti anche per l’ordinamento della Repubblica. La disposizione è strana perché, da un lato, sembra ribadire l’autonomia dell’ordinamento sportivo, nel senso che l’impugnazione non sarebbe ammissibile se il lodo non avesse per oggetto controversie riservate, dall’altro pare voler affermare l’insuperabile principio della prevalenza dell’ordinamento statale su quello sportivo, affermato anche dall’art. 1, comma 2, della l. n. 280/03, ma finisce col porre una causa di inammissibilità dell’impugnazione dei lodi non prevista dal c.p.c., ed anzi illegittima. La riserva di giurisdizione a favore dell’ordinamento sportivo non può estendersi fino a vietare l’impugnativa di lodi pronunciati in violazione del contraddittorio, o di qualunque altra regola fissata dalla disciplina codicistica di riferimento, e non pare quindi giustificato porre limiti al diritto di impugnare.

Rimango convinto che, con terminologia di settore, non si possa ipotizzare lodi di serie A o di serie B, affermando che solo i primi devono rispettare le norme di rito (di questo si tratta) e i secondi no. L’arbitrato è rituale, l’impugnazione è irrinunciabile, ed è componente necessaria del nostro sistema.

Certo, il carattere rigorosamente amministrato del procedimento arbitrale garantirà che, sul piano operativo, molti dei vizi di rito non potranno sussistere, ma questo non può impedire che si affermi il principio secondo cui se il Tribunale può definire una certa controversia, il relativo lodo deve poter essere impugnato. Nel complesso, dunque, in materia disciplinare a seconda dell’apparato interno di ciascuna federazione possono aversi ben quattro giudizi: di solito i due previsti nell’ambito della federazione, uno di fronte al Tribunale del Coni, e uno di fronte al giudice statale, nel caso di impugnazione per nullità. Difficile pensare a garanzie più

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ampie.

3 – L’Alta Corte di Giustizia Sportiva.

Il nuovo statuto del Coni prevede anche l’istituzione di un’Alta Corte di Giustizia Sportiva, destinata ad avere funzioni particolari, di vertice all’interno del sistema (art. 12 bis).

Il Codice che ne disciplina l’attività considera quest’organo come “espressione dell’autonomia dell’ordinamento sportivo riconosciuta e favorita” dalla legge (art.1, comma 1, cod. A.C.). L’Alta Corte ha due tipi di funzioni: 1) di governo, o consultiva, che si estrinseca nell’emanazione di pareri su richiesta del Coni o delle federazioni, nell’approvazione dei Codici dei giudizi di fronte al Tribunale e di fronte alla stessa Corte, e in altre attività (ved. gli artt. 1 e 15 cod. A.C.), e 2) di giustizia in senso stretto, precisandosi che essa costituisce l’ultimo grado della giustizia sportiva, per le controversie di settore, aventi ad oggetto diritti indisponibili o per le quali non sia prevista la competenza del Tribunale (art.1, comma 2, cod. A.C.).

Il procedimento non ha né la natura, né le scansioni dell’arbitrato, bensì di impugnazione delle decisioni emesse dai vari organi di giustizia delle federazioni, tanto che i ricorsi sono diretti alla riforma della decisione gravata, e devono essere proposti con necessario riferimento agli eventuali vizi ed errori della pronuncia censurata. Non ci sono restrizioni alla deducibilità dei vizi, che possono essere di fatto e di giudizio, con assimilazione all’appello civile più che all’impugnazione di atti amministrativi. Le pronunce conosciute riesaminano i fatti, ma non ci sono tracce di un’ulteriore attività istruttoria, come invece di fronte al Tribunale.

L’accesso all’Alta Corte non è garantito, ma è condizionato al rispetto di vari requisiti. Uno, è l’avvenuto esperimento dei rimedi o ricorsi previsti dal sistema di

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giustizia interno alle federazioni di appartenenza, che è pregiudiziale normale da rispettare anche per l’impugnazione di fronte al Tribunale (art. 1, comma 3, cod. AC;

art. 5 cod. Tnas), costantemente ribadita (decis. n. 20/10), espressione del vincolo di giustizia, che con tale requisito si pone in rapporto evidentemente diretto.

Altro è il carattere non disponibile del diritto contenzioso, quello a cui il sistema attribuisce maggior rilievo (art. 12 bis, comma 1). L’Alta Corte ha più volte affermato che la verifica dell’indisponibilità del diritto dedotto è “preliminare condizione di ammissibilità riguardante l’oggetto della controversia, e che solo dopo l’accertamento di questa si può passare all’esame dell’ulteriore requisito della rilevanza” (decis. n. 2/10; decis. n. 3/10, e così molte altre).

Solo nel 2010, il catalogo dei diritti indisponibili annovera varie posizioni costituzionalmente protette come quelle sull’unità familiare, sul lavoro, sulla tutela di atleti minorenni (decis. n. 1/10; n. 2/10; n. 6/10), posizioni concernenti la gestione di una federazione sportiva (decis. n. 3/10; n. 10/10; n. 14/10), altre, frequenti, relative alla materia complessiva dell’iscrizione ai campionati (decis. n. 18/10 e n. 19/10), altre sul diniego di licenza Uefa (n. 7/10), e altre ancora, con elencazione sempre più ampia.

Terzo, è il riconoscimento della notevole rilevanza della controversia per l’ordinamento sportivo nazionale, in ragione delle questioni di fatto e di diritto in esame che è, ormai in tutti i sistemi, filtro all’accesso o comunque alla cognizione delle Corti superiori.

L’indisponibilità è dunque condizione necessaria, ma non ancora sufficiente a garantire l’ammissibilità del ricorso, di cui l’Alta Corte deve anche accertare la rilevanza per poterne quindi conoscere. (decis. n. 5/10). Affermare la sussistenza del requisito è onere del ricorrente, ma in difetto è l’Alta Corte a farsene carico spesso

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con motivazione assai succinta e limitata all’affermazione che la rilevanza è

“evidente”. Raro peraltro vederla negata (un esempio recente in decis. n. 5/10).

Sempre l’art. 12 bis, comma 2, dispone che “il principio di diritto posto a base della decisione dell’Alta Corte che definisce la controversia deve essere tenuta in massimo conto da tutti gli organi di giustizia sportiva”. Trattasi di affermazione non banale, corollario della rilevanza, riconducibile alla tendenza generale di massima valorizzazione dei precedenti provenienti dalle Corti di vertice, condivisa in tutti i settori.

Il procedimento termina con una pronuncia qualificata come “decisione”. La pronuncia, inevitabilmente, vale come atto amministrativo in forma arbitrale ed è impugnabile di fronte al giudice statale (TAR Lazio, Consiglio di Stato).

Significa che dopo i (più o meno tradizionali) due gradi di giurisdizione federale, e dopo il giudizio dell’Alta Corte, il soccombente che non sia persuaso delle ragioni contrarie, e che non si sia fatto vincere dalla rassegnazione, può ancora sollecitare due giudizi questa volta in sede statale. Sarà conforme ai principi, ma il sistema pare pletorio e sovradimensionato, rispetto alle assai più ragionevoli indicazioni degli organismi internazionali di gestione dello sport. Questi chiedono che esauriti i gradi interni della giustizia federale, sia previsto l’accesso ad un tribunale esterno, indipendente seppure di matrice sportiva, legittimato a pronunziare in via definitiva, che appunto potrebbe essere l’Alta Corte.

4 – L’arbitrato sulle controversie patrimoniali.

Gli organi internazionali di gestione dello sport, il Coni e le federazioni sportive, pretendono che anche il contenzioso economico (in senso lato) venga sottratto al giudice statale e devoluto ad arbitri. In queste controversie non c’è

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contrapposizione fra le federazioni e gli associati, ma contrasto fra questi ultimi, quindi fra soggetti privati, affiliati, tesserati o licenziati per motivi patrimoniali. Qui il conflitto istituzionale con la giustizia statale è assai meno aspro, e la devoluzione è già da tempo praticata dalle federazioni di settore soprattutto a livello di sport professionistici.

La cognizione degli arbitri trova il suo primo fondamento nel vincolo di giustizia, e sostegno più preciso nelle clausole compromissorie obbligatoriamente poste a corredo dei contratti tipo che vengono stipulati di solito fra le società affiliate e i tesserati professionisti. Come già in sede disciplinare, si è eccepito che l’arbitrato sarebbe illegittimo perché obbligatorio, e anche qui si è validamente risposto che la devoluzione è il risultato consapevole dell’adesione all’ordinamento particolare e al

“sistema” di questo, a cui va aggiunto che la l. n. 280/03 riconosce espressamente la validità delle clausole compromissorie previste dagli statuti federali (art. 3), per cui non c’è più spazio per dubbi di questo tipo.

L’esempio di maggiore rilievo, anche pratico è quello del lavoro nell’ambito del calcio professionistico, e segnatamente quello relativo al rapporto che lega le società sportive agli atleti professionisti.

Qui, la deroga alla giurisdizione è ammissibile, alla luce dell'art. 806, comma 2, c.p.c., perché prevista da clausole compromissorie inserite nel contratto tipo, redatto sulla base degli accordi collettivi intervenuti fra le associazioni rappresentative degli sportivi professionisti e quelle delle società calcistiche. I riferimenti sono nell'art. 4, comma 5, l. 23 marzo 1981, n. 91, nell'art. 25 dell'accordo collettivo tra calciatori professionisti e società sportive (1989), e infine, esplicitamente, nel contratto tra calciatori professionisti e società sportive. Da molto tempo, si legge che l’apparato esistente sarà innovato a “breve scadenza” ma allo

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stato quello vigente è ancora quello del 1989.

L’arbitrato è amministrato, e le regole procedimentali sono concordate fra le associazioni di categoria, e senza facoltà di deroga delle parti o degli arbitri.

La regola di giudizio è il diritto. Gli arbitri dovranno rivolgersi alla lex specialis del rapporto dedotto, e dunque al contratto e all’accordo collettivo, nonché alle norme federali e a quant’altro sia particolarmente dettato a disciplina del rapporto di prestazione sportiva, anche se di matrice non strettamente nazionale (esempio:

norme di provenienza Fifa). In secondo luogo, vale la lex generalis, e quindi il diritto del lavoro e il diritto civile in generale, la cui applicazione è molto più frequente di quanto si possa ritenere, sia a livello di principi, che di regole specifiche (si pensi alla normativa sull’accesso di cittadini extracomunitari).

La definizione delle controversia è affidata a collegi di tre arbitri. La scelta degli arbitri avviene con le seguenti modalità. All’inizio della stagione sportiva, le Leghe (per le società) e le associazioni di categoria depositano l’elenco dei soggetti legittimati ad essere nominati arbitri di parte; l’inserimento vale per quella stagione e può essere confermato, oppure revocato, senza alcuna giustificazione. Ciascuna parte sceglie il proprio arbitro tra i soggetti inseriti in quegli elenchi, mentre il presidente viene tratto da altro elenco preventivamente concordato dalle associazioni firmatarie dell’accordo collettivo, ed è officiato, per quella particolare decisione, a mezzo di sorteggio. Il modello è quello Fifa, e precisamente quello descritto nel capitolo sullo status and transfer of players. E’ comune l’opinione che gli arbitri di estrazione sindacale continuino a sentirsi più legati alla committenza che alla funzione.

I collegi non sono organi delle federazioni, e quindi a rigore non partecipano dell’apparato di tutela interno all’ordinamento sportivo, per cui la riconduzione alla giustizia sportiva vale ad uso espositivo, ma in realtà risulta imprecisa. Ad esempio, il

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codice di giustizia sportiva della Figc, non comprende l'istanza arbitrale, a cui si riferisce solo in una norma finale rubricata «altri organi in materia disciplinare». E lo fa in via indiretta, per dire che la Figc si impegna a riconoscere «pieno effetto» alle decisioni arbitrali, che non sono ovviamente disciplinari, e che è addirittura pronta ad

«emanare ogni idoneo provvedimento per garantire esecutività alle stesse» (art. 51, comma 3).

I lodi sono impugnabili, in forza di quanto previsto dall’art. 412 quater c.p.c., e lo sono per i motivi di cui all’art. 808 ter che prevede un’impugnazione sostanzialmente legata alle stesse ragioni elencate nell’art. 829 c.p.c. Quindi motivi solo formali, esclusa la censura per l’errore di diritto o per manifesta iniquità. Nessun altro organo sportivo è deputato a conoscere del fondamento dei lodi pronunziati dagli arbitri, neppure di estrazione Coni.

L’art. 12 ter, comma 2, prevede che al Tribunale possono rivolgersi anche soggetti non legati alle federazioni, a patto ovviamente che la devoluzione si fondi su una precisa convenzione arbitrale, e la materia sia sportiva. La disposizione può essere utile per il contenzioso commerciale in materia di merchandising, sponsorizzazioni, e simili, ma per ora non ci sono tracce di un’attuazione concreta. Se l’apertura fosse sfruttata, ai compromittenti si potrebbe riconoscere la facoltà di discostarsi dal modello proposto, e quindi, ad esempio, optare per un arbitrato irrituale, o per l’equità come regola di giudizio.

Riferimenti

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