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Gruppo Solidarietà

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Academic year: 2022

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Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità. Spunti di riflessione

Abbiamo chiesto ad Andrea Canevaro1 se voleva commentare alcune delle interviste integrali del percorso iniziato alcuni anni fa dal Gruppo Solidarietà volto a dare voce alle persone con disabilità e ai loro familiari, riprese poi nel volume (2014), Raccontiamo noi l’inclusione. Un percorso che sta continuando con la realizzazione di nuove interviste man mano pubblicate nella rivista del Gruppo Solidarietà Appunti sulle politiche sociali. Nel testo che segue Canevaro riprende alcune parti delle interviste e suggerisce spunti di riflessione ed approfondimento. Testi o riferimenti delle interviste sono in colore marrone, le riflessioni nei riquadri.

1. Franca Ponzetti

Scoutismo

Lo scoutismo è uno dei più vitali movimenti di educazione attiva. Accogliendo un bambino o una bambina con una disabilità, essendo già attivo, lo scoutismo include, integra e include senza dover compiere niente di straordinario. La vita scout è ritmata da canti, piccoli rituali, possibilità che ciascuno sviluppi e assuma la propria “specialità”; utilizza immagini, segue tracce, organizza gruppi eterogenei … Molte caratteristiche dello scoutismo sono simili o vicine a indicazioni che alcuni metodi prescrivono. Con la differenza di proporle intrecciate, integrate, in una proposta che fa vivere un’avventura.

Una delle immagini della vita scout è il cerchio attorno al fuoco. Accogliere nel cerchio, e non mettere al centro, dove c’è il fuoco e ci si brucerebbe.

Scuola che non riconosce

Escludere da un elenco, da un documento esposto in bacheca … può far pensare qualsiasi cosa, dalla banale dimenticanza, al vergognarsi di avere con noi qualcuno. Non vorremmo attribuire intenzioni cattive alla scuola. Ci limitiamo a interrogarci sull’importanza del riconoscere l’altro.

Un signore che lavora in una grande industria alimentare rimase chiuso nell’enorme frigo aziendale.

Essendo venerdì, sarebbe stato ritrovato solo il lunedì successivo, ovviamente morto congelato. Il custode dell’azienda, nel tardo pomeriggio del venerdì lo trovò e lo rivitalizzò. Ringraziato con commozione e interrogato su come avesse potuto pensare ad aprire il frigo, disse che quel signore era l’unico che lo salutava entrando al mattino e uscendo al termine della giornata. Quel giorno, quel venerdì, aveva avuto il saluto del mattino e non quello del pomeriggio.

Lavoro

Sto scrivendo queste note. Tu, che leggi, non sai, e non ti importa sapere, che le sto scrivendo prima dell’alba, in cucina, in pigiama.

Molti lavori sono in una filiera, e non hanno un luogo di lavoro, in cui le persone entrano timbrando il cartellino.

A questa prima annotazione ne segue una seconda. Il lavoro ha al suo interno chi sa valorizzare.

Accentuiamo molte volte unicamente aspetti di sfruttamento. Vanno denunciati. Nello stesso tempo va detto che vi sono aziende che, valorizzando sé stesse, valorizzano chi lavora. Solidità e solidarietà vanno d’accordo. La crisi economica lo dimostra con cifre e fatti.

2. Rita Rossetti

Mi prendo del tempo per me. […]

la malattia, con le sue crisi sempre numerose, ha bloccato ogni progresso. […] E' rimasto un bambino piccolo. […]

non ci siamo mai chiusi in casa, siamo sempre usciti con Giorgio

La signora Rita è un esempio da seguire. Immaginiamo la rappresentazione del tempo e delle sue qualità

1 Professore emerito di pedagogia Università di Bologna.

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con i colori e immaginiamo come possa essere scombinata la vita di una persona, di una famiglia, dalla presenza di un evento inatteso e nei confronti del quale si ritiene di non avere nessuna risorsa, nessuna preparazione, quale può essere la nascita di un bambino o di una bambina con delle esigenze particolari dovute a un deficit.

Questa situazione può rendere la vita, anziché una combinazione di colori, una policromia perché fatta di tanti elementi diversi tra loro che si combinano più o meno armoniosamente, in una vita che ha solo un colore. Esempio: una vita tutta fatta di dedizione, di oblatività. Di rinunce, anche al tempo per sè. Questa situazione monocromatica é tanto più evidente quando la situazione handicap è considerata grave, e gli elementi di quotidianità sono così costantemente bisognosi di una presenza accanto a chi é handicappato, bambino o bambina, da costituire vincolo e rendere impossibile lo svolgimento di altri compiti talmente marginali da non essere neanche avvertiti come presenza nella vita. Sembra quindi che vi siano delle riduzioni continue delle altre possibilità che vengono allontanante, rese più difficili, sporadiche, acrobatiche, per concentrare tutta la propria vita, la propria esistenza attorno alla vita e all’esistenza di un soggetto. Non é, é evidente, solo l’aspetto materiale di vita quotidiana ma anche l’occupazione della mente.

Vi possono essere anche persone, familiari, che svolgono molti compiti professionali ma tutta la loro vita mentale é occupata dalla presenza costante di quel figlio, di quella figlia, se sono genitori, o di quell’individuo se hanno altri rapporti sia di famiglia, sia di amicizia.

Questo rende importante capire quanto il tempo vada restituito, come fa la signora Rita, a una policromia, e rende importante capire quale sia il successo di quelle proposte che occupano, anche materialmente, il tempo delle persone che vivono accanto a una persona handicappata, a un individuo handicappato, uomo o donna, bambino o bambina, ed anche il tempo dell’individuo che ha delle esigenze particolari. Al di là della comprensione di efficacia, vi sono delle suggestioni potenti che fanno aderire a una proposta, quasi unicamente perché può qualificare il tempo. Ora é quasi evidente che il giudizio relativo a certe proposte può essere anche negativo, ma non raggiunge il nucleo essenziale di quelle stesse proposte. Sembra che vi sia la necessità di qualificare il tempo attraverso una proposta che lo riempia di attività. Se poi vi é anche la speranza che queste attività abbiano un valore abilitativo e terapeutico questo é un valore aggiunto ma non indispensabile.

Ci incontriamo appunto per le pratiche burocratiche.

È nota, ma vale la pena leggere una filastrocca di Rodari, e soprattutto fare attenzione al finale:

E’ difficile fare le Cose difficili:

parlare al sordo,

mostrare la rosa al cieco.

Bambini, imparate A fare le cose difficili:

regalare una rosa al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi.

Il finale riguarda anche chi sta dietro alle pratiche burocratiche.

Se Gianni Rodari ci dice questo, un altro poeta sembra dialogare con lui scrivendo:

Non basta aprire la finestra, per vedere il campo e il fiume.

Non basta non essere ciechi, per vedere gli alberi e i fiori.

(Albert Caerio, che potrebbe essere uno dei tanti pseudonimi di cui si serviva Pessoa) L’impiegato della pratica burocratica è come il soldato di queste righe:

“Mi colpì che, come un soldato semplice dell’esercito, fosse diventato così attento a superare ogni piccolo ostacolo immediato nella sua lotta quotidiana, da non aver tempo per un consapevole malcontento”.

Wyndham F. (2007), L’altro giardino, Roma, elliot, p. 106.

Ecco: liberare gli schiavi – anche gli operatori - che si credono liberi. È la revisione della spesa, la

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semplificazione, la tracciabilità, la trasparenza. Non con tagli, ma liberando gli schiavi e trovando, in un progetto, un senso alla loro fatica del lavoro quotidiano, valorizzando le operosità.

Questa, se permettete, è politica.

Giorgio ci ha insegnato tante cose. Con Giorgio abbiamo conosciuto il mondo dell'handicap che prima non conoscevamo, era una cosa lontanissima. Questo ci ha aiutato a crescere ci ha fatto capire il prossimo, a capirlo ma anche aiutarlo se possiamo, …

L’evoluzione del mondo e degli esseri umani in particolare ha avuto due elementi particolarmente importanti: il nomadismo e le contaminazioni. È paradossale,e interessante che queste parole non siano considerate particolarmente virtuose da molti che le pronunciano come negative, e anche minacciose. Forse l’evoluzione è un paradosso [dal greco παρά (contro) e δόξα (opinione): un fatto che contraddice, sorprendendo, l'opinione comune e magari anche l'esperienza quotidiana].

Séguin, nell’anno 1846, si arrabbiava con i medici , perché diceva: voi incontrate gli idioti (era questo il nome che allora si usava per gli insufficienti mentali) per un minuto e non vi accorgete che dipingete sempre lo stesso ritratto: non vi rendete conto che, se passaste un po' di tempo con ciascuno di loro, trovereste che sono tanti ritratti diversi. Le vostre decisioni sono sempre prese per un solo ritratto e in questo mettete per forza le differenze individuali.

E’ la lunga storia della conoscenza e del riconoscere il valore dell’esperienza diretta; e ha toccato tanti diversi deficit: l’insufficienza mentale come la lesione cerebrale, come l’autismo. Nell’esperienza diretta, i dettagli assumono importanza. Le differenze di comportamento si connettono con le differenze di contesto.

A sua volta, un contesto che sembrava immutabile e fisso, diventa vario per la presenza di oggetti che lo differenziano secondo le funzioni. Come il palcoscenico di un teatro: è sempre lo stesso ma le scene cambiano, e aiutano le attrici e gli attori a rappresentare i personaggi. Un altro paradosso: un essere umano può essere nomade restando nella stessa stanza, se quella stanza muta funzioni, e se oggetti, anche poveri, realizzano il piccolo miracolo di farci viaggiare restando fermi.

3. Dena Donna

Mio fratello ha 77 anni, mia cognata 71, ma ha il morbo di Parkinson. La situazione quindi è difficile da gestire da soli. Ho avuto la poliomelite a 2 anni; sono nata nel 1948 e ancora non c'era il vaccino, che è stato diffuso solo a partire dal 1960. A causa della malattia, ho passato i primi dieci anni della mia vita tra interventi chirurgici e cure.

[…] mi diverto a parlare con la gente perché vendo i prodotti AVON [si tratta di cosmetici e prodotti per la cura del corpo e del viso che vengono venduti tramite catalogo a domicilio]; più che un […]

[…] in occasione della festa di compleanno per i 50 anni, ho contattato i compagni di classe e siamo andati a trovare la maestra, le abbiamo portato un bouquet di fiori, poi siamo andati tutti insieme a mangiare a pranzo.

Chi è cliente o consumatore lo è sempre e per sempre? Chi è negoziante è solo negoziante? Idem dicasi per chi è spettatore? Proviamo a immaginare la giornata di una donna che lavori in un negozio. Ha due figli, un marito, suoceri anziani, e deve in qualche modo impegnarsi per, come si dice, star dietro a tutti loro. Nel negozio in cui lavora, oltre a vendere, essendo dotata di simpatia, coltiva relazioni soprattutto con la clientela abituale. E le capita di fornire ai clienti, oltre al prodotti richiesti, indicazioni e consigli, utilizzando saggiamente e simpaticamente indicazioni e consigli ricevuti da altri clienti. È solo una negoziante? Le sue giornate sembrano impostate su una sola funzione, ma abbiamo capito che non è così. Vive e svolge molte funzioni.

Questa realtà, non banale ma neanche rara, non valorizza i ruoli sociale e corrisponde alla rappresentazione organizzata su ruoli stereotipi: consumatori e spettatori da una parte; produttori e attori dall’altra. Eppure quella rappresentazione sembra dominare l’immagine sociale. Questo sembra non rendere percepibile l’apporto di partecipazione di persone come quella donna. Non è l’unica discrepanza fra reale e immagine che ci formiamo. Gli indicatori reali dicono che certi reati sono in diminuzione, ma la percezione diffusa è quella di un aumento pericoloso. E c’è un analogo scarto che riguarda i migranti, che per molti italiani sono

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soprattutto un problema, e soprattutto un problema italiano. Come si creano queste discrepanze percettive?

Una delle ragioni, certamente non la sola, riguarda la confusione fra multifunzione e multi task. Quella donna di cui sopra è multifunzionale e forse, anzi certamente, non è multi task. Multi task significa svolgere diverse mansioni contemporaneamente, fare diverse cose, separate fra loro, nello stesso tempo. Lavorate in fusi orari diversi, parlate con persone molto diverse, occuparsi di varie mansioni tenendole nettamente separate fra loro. Essendo vulnerabili in un’epoca in cui sembriamo, grazie alle tecnoscienze, invincibili È il paradosso di chi è multi task e finisce per essere gestito dai diversi compiti. Mentre chi è multifunzionale governa le diverse funzioni, intrecciandole e facendole lievitare. Chi è multi task può trovarsi su un treno e non accorgersi per niente delle persone che sono sedute vicine. È in un posto ma è come se non ci fosse. “L’individuo esiste solo per l’insieme di relazioni che stabilisce con gli altri […]”2. Le relazioni hanno bisogno di vivere nel tempo, nella durata.

La partecipazione è mettere d’accordo fra loro due tipi di reti: quella istituzionale, costituita appunto dalle istituzioni e dai ruoli professionali previsti; e quella sociale fatta dalle amicizie, dagli incontri, dalle occasioni offerte da negozi, sale d’attesa, bar, mezzi di trasporto …

“[…] ciò che chiamiamo Heimat ci permette di accedere ad una realtà che per noi consiste nella percezione sensoria. Noi […] abbiamo bisogno di vivere in mezzo a cose che ci narrano storie. Abbiamo bisogno di una casa della quale sapere chi l’ha abitata in passato […]. Abbiamo bisogno di una silhouette nella città che, sia pur vagamente, richiami alla memoria l’incisione vista in un museo …“3

4. Zelinda Giampaoletti

Abito in campagna, a 1 km dal centro del paese. I miei compagni sono i cani, i gatti, e l’orto che ho intorno casa. Qui, non c'è quasi mai nessuno; negli ultimi anni quasi tutti i vicini hanno lasciato le abitazioni. Chi per andare in Paese, chi dai figli o in Casa di riposo.

[…]

La scuola elementare e media Sandro l'ha frequentata ad Angeli 6, quella volta non c’era il pulmino e da casa partivamo a piedi. Invece alle superiori, come dicevo, usava la corriera e io portavo prima la carrozzina, poi caricavo a lui sulle spalle e l'autista della corriera caricava prima la carrozzina e poi lui ... e poi c’erano gli amici che lo aiutavano ma quella volta ancora un pò si sosteneva. Una volta arrivati alla scuola di Jesi c'erano degli obiettori di coscienza della Caritas che lo aiutavano a scendere e entrare a scuola. In classe non aveva nessun aiuto fisico e nessun insegnante di sostegno.

[…]

Io sillabavo le lettere A, B, C, e lui annuiva quando le lettere erano giuste.

Io ho sofferto tanto quando ha iniziato anche a dormire in comunità poiché lui voleva dormire a casa. Andavo ogni mercoledì. Lui lì stava bene ma non ci voleva comunque stare. Sì anche Sandro era contento di tornare per il fine settimana, io avevo un operatore che mi aiutava il sabato. Ma era dispiaciuto quando doveva ripartire. Quando si è trasferito in comunità io non avevo più nessuno a casa e mi sentivo sola, stavo sempre in pensiero che mi chiamassero per i suoi problemi.

Riflettiamo a partire dall’attuale rischio di découpage (il ritagliare) della persona con disabilità e lo spezzettamento delle sue necessità. Uno specialista per deglutire, ecc. fino all’eventuale specialista della sessualità. Il compito da sviluppare? Ricomporre, integrare, includere in un’appartenenza. Per ricomporre un essere umano ci vuole un intero villaggio … e ciascuno facendo bene ciò che già sta facendo. È la rete sociale. Il concetto di “rete sociale” viene utilizzato nel 1954 dallo studioso Barnes riferendosi ai legami esistenti in una piccola parrocchia di un’isola norvegese, caratterizzati da relazioni che non erano identificabili né con quelle di lavoro né con quelle di vicinato. Il tratto caratteristico di questa rete era dato

2Auge’M., (2009; 2008), Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Milano, Eléuthera, p. 71.

3 Amery J, (1987; 1998), Intellettuale a Auschwitz. Pref. di Claudio Magris, tr. Enrico Ganni, Torino, Bollati Boringhieri Editore; cit. in . R. Bianchi, in Bellanca N.,Dardi M., Raffaelli T. (2004), a cura di, Economia senza gabbie.

Studi in onore di Giacomo Becattini, Bologna, Il Mulino, p. 20).

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dal fatto che appariva svincolata da spiegazioni del tipo status/ruolo e norme/valori. Vengono riconosciute come caratteristiche fondamentali e comuni a tutte le reti sociali la proprietà di produrre sostegno nei confronti dei singoli che ne fanno parte e la reciprocità degli scambi che avvengono.

In tutto questo possono emergere umanissimi sentimenti, come l’ansia, il rimpianto … Chi può dire senza parlare?

Chi può scrivere senza mani?

Chi può lasciare un amico senza provare dolore?

Io posso dire senza parlare.

Io posso scrivere senza mani, ma non posso lasciare un amico

senza provare dolore.

Poesia di Leo Leppälä.

Certo, ora ho tutti i ricordi. Ma devo sapere che non c’è più. Ogni cosa che vedo mi fa ripensare a lui, ma devo dire con grande gioia che da allora ogni giovedì a pranzo viene a casa mia Federico (uno degli operatori di Sandro) e mangiamo insieme!

5. Luigia Fioretti

Dal lunedì al venerdì la mattina vado al lavoro, ma il sabato sono libera e se mi va stiro perché mi piace, mi rilassa o stendo i panni, faccio le parole crociate, oppure i solitari con le carte ... Poi la giornata, se non ho impegni particolari, la passo con i miei hobby: faccio quadretti di carta oppure studio, ripasso i brani che mi hanno dato durante la scuola.

[…]

Ho preso il diploma delle medie con i corsi di 150 ore serali molti anni dopo, poi da quando ho avuto l'invalidità del 75% ho fatto una scuola professionale, che non mi è servita molto. Avevo circa 30 anni all’epoca. Dicevano che potevo trovare lavoro, essendo in una categoria protetta. In Zona periferica di Jesi

Il sapore delle sfide. E’ la possibilità che vi sia una corrispondenza nella crescita di conoscenza. Nulla di più offensivo, si potrebbe dire, di un ascolto saccente. Lo specialista che sa già tutto vive l’ ascolto come un rito inutile.

Nell’accettazione, e nell’ascolto, c’è anche il rifiuto. Lo schematizziamo nella formula “deficit da accettare, handicap da ridurre”. L’operazione non è semplicissima e ha bisogno di competenze. E le competenze sono dovute ad una pratica professionale, non certamente ad un’improvvisazione. La riassumiamo in due coppie di punti:

1-2 Immedesimazione nell’altro e disponibilità al dialogo.

L’immedesimazione, la considerazione del comune sentire non si manifesta spontaneamente, anzi le reazioni di difesa e di chiusura di fronte al “diverso” sono quelle spontanee e primigenie. La capacità di immedesimazione è un costrutto culturale che viene elaborato attraverso rituali e occasioni sociali. Gli spazi di narrazione condivisa sono essenziali per entrare in contatto con le parti emozionali di ciascuno e scoprire in questo modo il comune sentire originario. La disponibilità al dialogo è il risultato pratico ed operativo della immedesimazione e deve tradursi in concrete occasioni e procedure per realizzare il dialogo;

3-4 Capacità di conflitto e volontà di compromesso.

Il conflitto non rappresenta chiusura ed assenza di comunicazione è invece una forma di comunicazione che fuoriesce dai rituali stabiliti. Il conflitto non può essere negato, tanto meno può lasciare spazio a posizioni di ritiro che si reggono sui sensi di colpa. Occorre difendere le proprie ragioni ascoltando quelle dell’altro e sapere che non poche volte ciascuno dei contendenti può aver ragione. Nelle questioni complesse esiste il mio punto di vista, il tuo e quello giusto. Ciò che importa è la consapevolezza che attraverso il conflitto entrambi i contendenti possono crescere e garantire le condizioni perché ciò si realizzi: è la volontà di compromesso (“con una promessa reciproca”) che è il collante che deve tenere assieme le parti anche quando il conflitto è particolarmente aspro.

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6. Francesca e Federica Kosinska Luchetti

Io mi alzo alle 6 di mattina ed aiuto mia sorella a prepararsi, perché ha una disabilità fisica, sta in una sedia a rotelle ed ha bisogno di aiuto. La preparo per l'arrivo del pulmino del comune che la porta al centro diurno. dopo al sua partenza io vado al lavoro: sto facendo un inserimento lavorativo inun’associazione che si chiama Gruppo Umana Solidarietà a Jesi che si occupa di stranieri rifugiati politici richiedenti asilo e immigrati. Faccio un lavoro di segreteria: rispondo al telefono, faccio fotocopie mando fax, do informazioni ecc. Poi torno a casa verso mezzo giorno e mezzo, pranzo ed il pomeriggio guardo un po’ la televisione, leggo qualche libro e mi dedico a facebook, questo anche la sera prima di andare a letto.

L’intervista a Federica Kosinka Luchetti Come ti chiami?

Io la mattina mi alzo per andare al centro diurno col pulmino che poi mi riporta a casa nel

pomeriggio. Mi aiuta Francesca, mia sorella, ad alzarmi e a tutta la mia preparazione personale. Mi alzo alle sette quando lei va tre giorni a settimana a lavorare. Col pulmino vado al centro diurno, e ci sto dalle 9 alle 16. Al centro c’è la lettura dei quotidiani, le lezioni di italiano o matematica e ci rimango anche a pranzo. Nel pomeriggio facciamo meno attività perché il periodo è più breve, a volte guadiamo la televisione. Alle 16 ripartiamo col pulmino ed arrivo a casa alle 17,30. Io poi sto a casa e mi riposo in attesa dell’ora di cena, a volte vado a letto anche tardi.

Ti senti una donna o una ragazza?

Adesso più una ragazza perché secondo me una donna è grande, è una signora. Io sono anche donna ma preferisco adesso essere una ragazza.

Anche se andrò in comunità io il "lavoro" lo continuerò a fare. Per me la comunità è come se fosse una seconda casa, penso di andare ad abitare là e continuare il lavoro. A me non cambia niente.

Contaminazione: positiva?

Chi è protagonista, chi è familiare, chi è caregiver deve certamente avere un’esigenza di efficacia, ma deve accompagnarla con l’esigenza di conoscere e conoscere non è mai un termine puro, implica la contaminazione; non esiste una possibilità di conoscenza fuori dai contesti di ricerca, di contrasto, di conflittualità. I conflitti possono essere fecondi, utili, non inducono inevitabilmente all’annientamento dell’altro, ma più sovente portano alla contaminazione e quindi alla fecondità perché da due posizioni diverse può nascere una terza posizione che utilizza qualche cosa da entrambe, realizzando dei compromessi. Si dirà: dei compromessi utili, che fanno avanzare la scoperta, la conoscenza.

È possibile che si sviluppi una reciprocità nella subordinazione e nella dipendenza. È una reciprocità mortifera. Chiude in un presente senza futuro, ed è un presente che è presenza. Cioè è prigioniero della dimensione del 24 ore su 24.

Il bivio. È costituito da due strade, che si presentano molto diverse l’una dall’altra. La strada trovare futuro si presenta delineata ed evidentemente percorsa da molti altri. La strada costruire futuro è il contrario: poco delineata, e probabilmente meno battuta, pur essendo ricca di possibili incontri.

6. Andrea Filipponi

A scuola avevi un insegnante di sostegno che ti aiutava?

Sì, anche alle superiori. Mi aiutava nelle materie più difficili, oppure se c’era da fare i compiti li

facevamo insieme. A casa invece ho avuto l'educatore, non sempre lo stesso ma mi sono trovato

bene con tutti. Con l’educatore facevo i compiti oppure uscivamo per una passeggiata, per negozi,

cose quotidiane... La spesa la facevo già prima da solo, quando mia nonna mi chiedeva di andare a

comprare il pane o altro. Se dovessi dire .. un po’ sì mi manca l'educatore, anche per parlare con i

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miei genitori, per parlare di altre cose.

Con i compagni di classe sono rimasti dei legami?

Secondo me ognuno ha fatto la strada propria ...

Una educatrice o un educatore può svolgere la funzione di accompagnamento. Ma la sua professionalità dovrebbe aprire questa funzione in una pluralità che comprende:

- Sostenere accompagnando - Far compagnia accompagnando - Indicare la strada accompagnando

- Proporre a chi fa quella stessa strada e può accompagnare - Darsi appuntamento in un certo punto del percorso - Eccetera

Insomma: molte funzioni, e non una sola funzione. La via di fuga è la monofunzione specialistica. Che a volte prende avvio dalla stereotipizzazione dei bisogni. Ritenendo che una diagnosi permetta di definire una volta per tutte i bisogni di tutti coloro che hanno quella diagnosi, ci potremmo convincere che specializzandoci su quella diagnosi avremmo le risposte già confezionate per tutti quelli che hanno quella diagnosi. L’idraulico segue l’immagine che è stampata nel dépliant, e non guarda l’appartamento. Come se non ci fosse neanche entrato. Il risultato è meglio lasciarlo perdere. Ma è un tema che non affrontiamo per non appesantire troppo questo scritto.

Aggiungiamo soltanto che un contadino, vedendo che una pianta è in difficoltà, cura il terreno per aiutare le radici. Annaffia, concima. Non porta le radici dallo specialista. Lascia che facciano il loro invisibile lavoro.

7. G.S.

Ho scelto di venire via per problemi di incompatibilità (troppe persone intervenivano nella nostra vita familiare) , ma la mia scelta mi ha comportato altri problemi a livello emotivo. Mi sono trovata dopo 31 anni di matrimonio a dover gestire da sola economicamente e materialmente la situazione con R.

L’accompagnamento ha luogo attraverso una composizione continua di istanze istituzionali, di

collegamenti tra le istituzioni in cui le diverse istituzioni devono compiere il loro dovere, in cui è difficile ragionare nella logica della sussidiarietà perché è troppo giovane come termine e quindi rischia di essere presa come una parola che significa confusione più che possibilità di congiuntura delle azioni istituzionali che tengono conto della realtà del momento di ogni istituzione. E, soprattutto nel rapporto tra le varie istituzioni, vi è una pervasività del linguaggio economico che rischia di essere assunto come l’unico che interessa.

Sarebbe molto importante che il tema dell’economia sociale diventasse un tema forte e con maggiore autonomia rispetto alla dipendenza che può avere da un’economia aziendale, dalla quale vi è molto da imparare. Ma la pervasività a cui facciamo riferimento viene indicata come un elemento di incomprensione della realtà e di necessità di aggiustamenti su parametri che non sono quelli per cui la realtà sociale e istituzionale si è fondata.

Per questo è molto utile riflettere sulle indicazioni che nascono dallo studio di Gianfranco Alleruzzo [G.

ALLERUZZO (2001), Gli standard dell’imperfezione. Sull’utilità e il danno dei sistemi di certificazione della qualità nella cooperazione sociale, Pesaro, Magma].

Vogliamo ricordare sette principi che uno studioso [J. – R. LOUBAT (1999), Résoudre le conflits dans les établissements sanitaires et sociaux, Paris, Dunod, pp. 62-73] indica come utili per comprendere la dinamica istituzionale:

1. Il principio della concentrazione: un’istituzione è la delimitazione di un luogo, di un campo e di una problematica; produce una concentrazione nello spazio di risorse, atti e persone.

2. Il principio di centralizzazione: un’istituzione tende a generare un nodo denso, un centro, differenziato da una periferia.

3. Il principio di controllo: un’istituzione tende ad assicurarsi il controllo delle situazioni, vale a dire dell’informazione, dell’imprevisto e dell’incertezza.

4. Il principio di immobilizzazione: un’istituzione fissa e stabilisce, gestisce le entrate e le uscite, programma gli spostamenti; determina i diritti alla mobilità ed i doveri di immobilità.

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5. Il principio di separazione: un’istituzione instaura una differenziazione tra diversi spazi, in termini sensoriali, sociali, culturali e simbolici.

6. Il principio di territorializzazione: gli attori di un’istituzione utilizzano diverse marcature nella loro lotta implicita ed esplicita per l’appropriazione territoriale, concreta o simbolica, dell’istituzione.

7. Il principio di demarcazione: una linea di demarcazione si installa in tutte le istituzioni fra le forze di cambiamento e di conservazione.

Tenere conto di questo significa avere chiaro il compito di una struttura ‘meta’ – chiamiamola così – che permetta l’assistenza tutorale E’ il servizio per il percorso di vita. E’ una struttura che va individuata come leggera perché non ha bisogno di avere molte persone essendo più capace di far individuare alle istituzioni e anche fuori dalle istituzioni. Si deve comprendere anche il volontariato, nelle sua diverse forme, ma non in un ruolo decisivo, perché potrebbe avere come è giusto che abbia delle situazioni di cambiamento e anche di spegnimento dell’attività: se manca un leader, perché si sposta in un’altra zona del mondo, il volontariato potrebbe subire delle cadute e questo non deve essere l’elemento che mette in crisi tutto un progetto di vita.

8. Gessica Baglioni , Simone Massaccesi

Gessica:

Ho tre gatti bellissimi: Minou, Duchessa e Chitti.

Che lavoro fai?

Lavoro in una scuola materna. Pulisco, apparecchio.

Come si chiama questo mestiere che fai?

Non so.

Le competenze trasversali possono riguardare l’acquisizione abilità collaborative, il conoscere la differenza di genere quale risorsa per le pari opportunità, l’educazione psicomotoria e al suono…

In alcune Regioni, il certificato di competenze - un attestato rilasciato dalla Regione o dalle Province, previo il superamento di un esame, al termine di percorsi formativi e professionalizzanti che consentono l’acquisizione di competenze teoriche, prende in considerazione la competenze di base, quelle tecnico- professionali, e quelle trasversali, oltre alle competenze pratiche (attraverso lo svolgimento di stage e/o altre esperienze) dirette relative ad una professionalità non compiuta. Le competenze trasversali sono utili per svolgere un orientamento che prenda in considerazione un più ampio ventaglio di possibilità.

Le competenze trasversali possono promuovere e premettere all’alfabetizzazione istituzionale e l’autonomia dei singoli. In questa ottica, alfabetizzare alla lettura dei collegamenti e delle reti spesso informali ed implicite presenti nel territorio (cittadino, provinciale, regionale, nazionale e internazionale); reti costituite dai soggetti che si occupano di temi in qualche modo collegati con i bisogni.

Simone:

Ti piace la tua giornata?

Sì.

Se ti dico "tempo libero" tu sai cosa significa?

Hobby. Io ne ho tanti: suono il pianoforte, leggo qualche volta, a volte mi riposo, mi alzo per merenda, vado in piscina, faccio teatro che mi piace tanto, studio, scrivo alcune cose che mi chiede il regista o racconti.

Gessica:

Qual è lo spettacolo che ti è piaciuto di più? In cui ti sei piaciuta di più da attrice?

Lo spettacolo che mi è piaciuto di più è stato "Alice nel paese delle meraviglie", perché ho fatto la regina di cuori.

Perché ti è piaciuto quel ruolo?

Perché la regina di cuori è cattiva.

La necessità di riflettere sul teatro in rapporto alla disabilità deriva dal fatto che possono esservi numerosi equivoci. E’ bene dichiararli sapendo che dagli equivoci stessi, paradossalmente, possono nascere delle ottime proposte. Mettiamole in un ordine che è certamente arbitrario ma che può permettere di capire come

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percepiamo anche lo stesso teatro.

Il primo equivoco è quello che il teatro possa permettere una liberazione e quindi il palcoscenico, lo spazio teatrale sia adatto a far sì che un soggetto con delle difficoltà, con dei disturbi, con delle disabilità possa essere se stesso e fare ciò che sa fare. E’ un equivoco: il teatro ha bisogno invece di fare qualcos’altro; deve potere imparare, insegnare, formare e quindi fare sì che una persona sia se stesso dietro la maschera; scopra che quel se stesso non è la spontaneità, non è la libertà di fare ciò che si vuole, non è la libertà di vivere con i propri limiti ma è sempre misurarsi con se stesso, capire come presentare quel se stesso in più contesti.

Non “io faccio il contesto” ma “io mi rapporto a un contesto poi ne trovo un altro e devo in qualche modo adattare il contesto ma anche adattare la mia persona, la mia personalità alla nuova esigenza, ecc.”.

Vi è la necessità pertanto di imparare e quindi di collegarsi agli altri attori. Un’espressione utilizzata tanto dalle scienze applicate è ‘attore sociale’. Bisogna tenerla da conto pensando che il teatro non chiede all’attore disabile di essere poco sociale. Ha bisogno di farlo partecipare alla realizzazione di sé come attore sociale, capace di tener conto del contesto che sono anche gli altri.

Per fare questo deve entrare in un personaggio. Non può quindi essere compito esclusivo del regista, dell’organizzatore della scena, quello di “collocare”, come si colloca un arredo, il soggetto disabile o il soggetto in difficoltà all’interno di un quadro in cui darebbe la sua nota indipendentemente dal fatto che adatti la sua personalità, il suo modo d’essere, il suo modo di fare al contesto scenico; deve imparare a ragionare in termini di contesto e quindi deve imparare.

Un secondo possibile equivoco è legato all’esibizione di una differenza. Certamente si esagera quando si dice che molto teatro delle diversità è nato perché vi sono soggetti che possono incuriosire, richiamando l’attenzione. Forse si esagera, e forse ciò in parte è vero. In sé non è una curiosità che sia necessariamente sgradita, sgradevole e malata. Può essere anche giusta. Ma certamente bisogna evitare di pensare che la qualità della rappresentazione sia legata alla disabilità. La qualità della rappresentazione deve permettere ad una persona disabile in qualche modo di dimenticare la propria disabilità o meglio metterla al servizio, misurandosi con le proprie difficoltà, in una prospettiva che quella della rappresentazione teatrale.

Entro in un punto in cui sono ovviamente necessarie delle opinioni: la mia è che il teatro migliore sia d’autore. A volte abbiamo assistito a rappresentazioni con persone disabili e la pièce era costruita sulla prestazione, sul modo d’essere, anche sulla fisicità del soggetto o dei soggetti disabili: è nato il testo perché c’erano dei soggetti. La mia opinione, che vale quello che vale ma è appoggiata da alcuni elementi di riflessione, è che sia opportuno avere un testo, lavorarci e costruire il percorso che va da come sei adesso a come devi essere per questa rappresentazione. Ed è questo percorso che aiuta a vedere anche la nascita delle competenze.

E certamente questo apre ad un altro elemento che sta nella possibilità della prospettiva di lavoro. Il teatro, e in particolare il teatro d’autore, è anche messa in scena: luci, costumi, ... E’ un corredo di elementi di professionalità che permettono di dire ‘teatro’ e di non avere unicamente il contatto visivo spettatore-scena ma di prospettare un’organizzazione di laboratori finalizzati ma anche parcellizzati, in cui è possibile quindi individuare percorsi formativi per le competenze.

Questo è un elemento molto importante perché permette di avere una quantità di possibili percorsi, che si avvalgono di un personale il più vario possibile, e che possono favorire il riconoscimento dell’identità competente nei soggetti che collaborano. Entrerei più in dettaglio se ce ne fosse la possibilità ma identità competente significa non valorizzare l’incapacità attraverso l’esibizione ma andare nel senso opposto:

vedere come le differenze, i limiti possano avere nascosto, fino a quando non se ne rivela l’occasione, delle possibili competenze.

Per qualcuno questo percorso è molto difficile per qualcuno è più facile, e sicuramente per tutti la scoperta di quella che chiamiamo l’identità competente, ovvero l’aspetto di competenza che un soggetto ha potenzialmente, è più facile quando c’è una pluralità di mediatori. Il teatro è anche questo: una pluralità di mediatori in cui la parola, i suoni, lo spazio, gli oggetti di scena, le luci, i costumi possono rappresentare i mediatori attraverso i quali scopriamo l’identità competente di un soggetto che fino ad allora era sempre stato valutato più per il ‘non sa, non può, non deve’. E adesso scopriamo che invece può. E quando scopriamo il ‘può’, non dobbiamo semplicemente contemplarlo (metterlo in scena), ma è proprio dell’organizzazione teatrale tendere a sviluppare questo ‘può’ in una finalizzazione. Bisogna arrivare a mettere in scena. E non è un’impresa che possa essere fatta senza una collaborazione di lavoro. Questa è la valorizzazione.

Un ultimo equivoco che viene utile analizzare è la possibilità che le diversità, i limiti possano costituire un alibi per un teatro con compiti umanitari e sociali piuttosto che culturali. Questo è un problema che tocca

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anche altre organizzazioni, ad esempio le cooperative sociali in cui si può creare l’alibi che la qualità e la competenza siano parole che vengono pressoché lasciate in disparte perché prevale la solidarietà e la parte umanitaria. Lo sforzo su cui bisogna lavorare è invece quello di non creare alibi, di non adattarsi agli alibi ma di essere capaci di sviluppare qualità.

9. Francesca David

Studio a Macerata e mi appoggio nel collegio

universitario, lì ho una camera singola e la cucina in comune con altri studenti, poi ci sono altre stanze sala studio, relax palestra. Tre giorni sono là e tre giorni a casa. Faccio tutto da sola rispetto alle autonomie personali, poi ho un tutor che mi aiuta a studiare e una ragazza che mi accompagna in mensa per il pranzo e a lezione.

Dalle tre di pomeriggio sono sempre al collegio per studiare o da sola o con la tutor. Per la cena mi organizzo portandomela da casa, mia madre mi prepara l’occorrente, la mensa ci sarebbe anche la sera ma ho problemi per andare. Quando sono a casa, ovviamente, mi rilasso un po’ di più, non ho impegni particolari oltre allo studio.

Organizzarsi in un contesto anche complesso. Possiamo condividere – e ci conviene - se riconosciamo che abbiamo uno sfondo comune. “Non potremmo agire sul mondo, né avere un mondo in cui agire, se non avessimo lo sfondo [J.SEARLE (1983); Della intenzionalità, Milano, Bompiani] delle nostre capacità motorie. Ma sarebbe probabilmente una distorsione immaginare questo sfondo come qualcosa di rigorosamente nitido e coerente, come un archivio bene organizzato” [G. DOWNING (1995), Il corpo e la parola, Roma, Astrolabio, p. 117]. L’importanza dello sfondo in cui agire può avere una banalizzazione estrema e ciò nonostante giusta, come quando facciamo riferimento a certe mansioni professionali od a competenze pratiche riferite ad un contesto organizzato. Una cucina come un’automobile possono essere visti come sfondi in cui agire, ed è probabile che chi agisce in questi contesti, facendo che mangiare e guidando, abbia una competenza capace di svilupparsi soprattutto in rapporto allo sfondo, cambiando il quale la stessa competenza deve riorganizzarsi. Ma il contesto è a sua volta in un contesto, e se questo cambia possono presentarsi alcuni problemi. Si pensi alla differenza di senso di circolazione nei paesi di antica influenza inglese e negli altri paesi. Chi guida l’auto in Italia può ricordarsi o sapere che in Inghilterra non si tiene la destra ma la sinistra; ma se ne ricorderà se si trova improvvisamente a guidare una macchina in Uganda? Diciamo “ricordare” con il presupposto che ciascuno di noi attinga ad un patrimonio di notizie integrabili. E quindi anche se la specifica notizia circa l’Uganda non è mai stata memorizzata nella sua formulazione formale, è possibile parlare di ricordo perché può essere se il ricordo si attiva e si integra prima che accede qualche fatto spiacevole, come può essere un incidente, o se questo diventa in qualche modo necessario per produrre un “aggiornamento” della situazione delle nostre conoscenze.

Una prima interpretazione dello sfondo in cui agire può portare ad una certa banalizzazione, che può nutrirsi di una serie quasi inesauribile di episodi di vita quotidiana. Però una tale fecondità non è detto che faccia avanzare la comprensione della realtà, perché sembra ribadire sempre lo stesso annunciato senza fornire né nuove domande né nuove risposte. Una volta affermato che lo sfondo è indispensabile per agire, ci troviamo a chiarire con l’empiria quotidiana quello che abbiamo già chiarito, in un processo tautologico fin troppo rassicurante.

Ma che cosa esattamente può essere lo sfondo, cercando di andare oltre l’empiria del quotidiano? Per rispondere a questa domanda, possiamo prendere una direzione sofisticata e complessa, in cui lo sfondo perde le sue connotazioni materiali, o ne perde l’esclusività, per fare riferimento ad aspetti virtuali, a elementi come la memoria collettiva ed individuale, e quest’ultima filtrata attraverso sentimenti del tutto soggettivi.

Lo stesso studioso già citato richiama la nozione di impotenza appresa, esprimendosi in questi termini: “In qualche punto del proprio passato il paziente ha appreso di avere una capacità di risposta priva di efficacia”

(G. Downing, 1995, p.225). Parlando di “paziente” ci si riferisce in maniera esplicita ad un contesto istituzionale particolare, che dovrebbe garantire - ma non sappiamo fino a che punto di credibilità - rispetto ai rischi di banalizzazione dello sfondo. Lo sfondo assume una dimensione temporale, intrecciata alla storia di un individuo in cui possono anche prevalere i sentimenti soggettivi rispetto ai dati riscontrabili dell’esterno.

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E’ evidente che in questa prospettiva il termine sfondo si dilata e rischia di comprendere tutto. Ma per evitare questa smisuratezza bisogna stare attenti a non rifugiarsi in posizioni riduzioniste, che apparentemente portano chiarezza, operando però un’amputazione deformante. Vi è una dimensione culturale che non dovrebbe essere esclusa. E la cultura è da intendere come fondazione simbolica delle azioni, in una tensione drammatica fra intenzioni e sentimenti individuali, registri collettivi e contesti storici.

La cultura è contaminazione e quindi se ci poniamo nella dimensione culturale, dobbiamo aspettarci che fra domande e risposte il conto non sia mai pari : nel senso che avanza sempre qualcosa, e questo può essere motivo di piacere come di inquietudine.

Per evitare di farci prendere la mano da un modo di esprimersi troppo allusivo e un po’ criptico, compiaciuto per le furberie (domande, risposte, conti in pari, avanzi...ma di cosa stiamo parlando ?...), vorremmo riferirci ad uno sfondo in cui agire in cui gli aspetti percettivi possano avere un peso anche misurabile (senza la pretesa che sia sempre tradotto in numeri).

10. Simona Crescimbeni

Note.

Manuela a Torino andava a scuola a tempo pieno, mentre qui le scuole finivo all’ora di pranzo. Poi ho usufruito del servizio educativo domiciliare, una cosa nuova per me ed anche lì ero in difficoltà con una persona che mi girava per casa e che si occupava di Manuela, io non l' avevo mai lasciata a nessuno. Col tempo capii che all'educatore non gli lasciavo la possibilità di fare le attività con Manuela, involontariamente intervenivo e così preferivo uscire di casa. Dovevo abituarmi ad avere altre persone che si occupavano di Manuela.

Cosa diresti ad una famiglia giovane che vive adesso l’esperienza ad esempio di un figlio con disabilità?

Di non isolarsi, di non chiudersi, di approfittare di tutte le opportunità che ci sono oggi di comunicare con gli altri. Il parlare con altre persone semplicemente dà aiuto, sollievo, è importante.

Abbiamo bisogno di molti mediatori nell’organizzazione complessa che è la nostra società. E’ una società con diverse culture che si incontrano, con molti individui che si spostano da un paese all’altro, con difficoltà a stabilire a volte i confini delle azioni promozionali dell’identità di un popolo, creando invece lacerazioni.

Molte pagine della nostra storia recente potrebbero essere lette come ridefinizione di identità di un popolo ma anche come lacerazioni, e uno studioso come Bauman ricorda come l’identità sia quasi sempre una finzione, se non è collegata al senso di appartenenza ampia, di tutti. Per avere una buona appartenenza bisogna avere dei mediatori, che hanno i compiti di servire come le sinapsi nella rete neurale, per permettere all’energia di proseguire in senso positivo e realizzare finalizzazioni positive. Grazie alle sinapsi, le energie che avrebbero le caratteristiche di contrapporsi neutralizzandosi e distruggendosi, invece si compongono e proseguono.

I mediatori-sinapsi sono in prima linea, e sono indispensabili. Sono i mediatori culturali formali ed informali, gli operatori che hanno contatti prevedibili e previsti con situazioni che cercano di passare dall’incertezza e la provvisorietà a una prospettiva costruttiva. E sono a loro volta nell’incertezza, nella provvisorietà, alla ricerca non facile di un punto d’appoggio stabile. In questa ricerca, se non c’è una politica chiara e comprensibile di valorizzazione delle risorse di mediazione, si annida sempre il rischio del cercare vantaggi con metodi impropri. E, quando accade, vi può essere l’ulteriore rischio che ciò diventi il pretesto per mettere a tacere le inadempienze politiche e dare una “buona coscienza”.

Abbiamo bisogno di mediatori e i mediatori hanno dei compiti lontani dalle ambizioni di potere. Forse una delle ragioni per cui non capiamo bene l’importanza di figure stabili come mediatori è perché la cifra del potere (il profitto), la sua dinamica e la sua dimensione è diventata l’unica chiave di lettura della nostra cultura e ci sembra impossibile permettere a qualcuno di compiere questa funzione così vitale come quella del mediatore - di conflitti, di culture, di intermediario – senza temere che diventi un personaggio di potere o una casta. E’ la paura del potere – che perdiamo, che attribuiamo - che ci frena e rende sempre precarie queste figure, le polverizza in piccole funzioni destinate al precariato e quindi tali da non permettere di creare attorno a loro e grazie a loro dei climi di fiducia più ampi, sicuri, di ritrovarli, di avere dei punti di riferimento costanti in loro. Pur parlando tanto di sicurezza, temiamo la loro certezza, e quindi li si mantiene nella precarietà.

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Non è solo questo, certamente, è anche – è chiaro – uno sforzo economico che andrebbe fatto per rendere stabile certe strutture di mediazione. Ma la questione economica deriva anche da una capacità di capire lo spostamento da un senso di sicurezza dovuto solo a interventi repressivi a un senso di sicurezza che è prospettiva di fiducia. Si pensi al numero crescente di incidenti traumatici, che improvvisamente costringono la vittima e i suoi cari a cambiare abitudini, ed a percorrere strade istituzionali e pratiche del tutto sconosciute. Senza guida? Senza mediatori? E’ una sofferenza in più, ed è crudele, perché potrebbe essere risparmiata.

11. Roberto Frullini

Attualmente sei presidente della cooperativa Grafica & Infoservice, presidente regionale di FederSolidarietà e coordinatore di ConfCooperative Ancona. Spiegaci un attimo tutta questa parte della cooperazione, che nasce già a Milano con la creazione di una cooperativa di tipo B e qui continua con l’esperienza della cooperativa Grafica & Infoservice. Perché questa esigenza ? A quale bisogno risponde? Che osservatorio hai da questa parte?

Nella cooperazione ho trovato il terreno ideale per coltivare la mia voglia di autoimprenditorialità e di comunità. Avere un ruolo lavorativo, esprimere un valore aggiunto per la propria comunità, ci rende forti e determinati nel nostro agire quotidiano. Saper costruire relazioni e alleanze è un elemento fondativo della cooperazione, ma anche delle comunità inclusive e rispettose delle diversità. L'impegno nell'organizzazione di Confcooperative nasce dalla disponibilità all'incontro e dalla condivisione valoriale con altri cooperatori, un'occasione continua di incontro, conoscenza, crescita e miglioramento personale e umano. La cronaca è sempre piena di spunti negativi e scandalistici sulla cooperazione, ma ci dimentichiamo che non sono le forme di aggregazione ad agire scorrettamente, ma gli uomini che le governano. Il nostro Paese è pieno di persone che vivono e lavorano cercando di costruire un luogo ricco di opportunità per tutti, spesso lo fanno riunendosi in aggregazioni libere e paritarie: le cooperative.

La parola cooperazione può essere intesa male. Utilizzando una parola di uso quotidiano, sembra facile comprenderne il significato, e confonderla così con le buone relazioni.

Prendendo in considerazione, a proposito di cooperazione, le organizzazioni, ci riferiamo ad una realtà complessa. E dobbiamo mantenerla tale, evitando di compiere operazioni riduttive, forse capaci di renderci più comprensibile un fatto o un fenomeno, ma anche di cancellarne le implicazioni e le correlazioni che a volte contengono le cause delle buone o cattive cooperazioni. Possiamo fare un esempio prendendo in considerazione l’integrazione scolastica. Quando nel nostro paese si è avviata questa esperienza innovativa, vi erano già state alcune trasformazioni organizzative a seguito di decisioni prese senza alcun rapporto diretto con la presenza di disabili nella scuola di tutti. Se studiamo l’integrazione scolastica e prendiamo in considerazione unicamente il perimetro definito dal momento in cui è iniziata, non “vediamo” due elementi fondamentali: la scuola media unica, e l’organizzazione delle classi per percorso e non per livelli (ovvero: il percorso in un ordinamento scolastico non viene interrotto se manca il raggiungimento di un dato livello, e il gruppo-classe può avere una configurazione eterogenea, pur all’interno di un certo ventaglio), e dovrebbe mantenere gli stessi insegnanti per l’intero percorso. Questi due elementi organizzativi precedono l’avvio dell’integrazione, e non sono stati pensati esplicitamente per l’integrazione. Ma le conseguenze sono nell’ottica dell’aver costruito le premesse della cooperazione. Ed è tanto vero, che sentiamo minacciata la qualità dell’integrazione quando vediamo che vengono prese decisioni che rimettono in discussione quei due elementi organizzativi ricordati.

Vogliamo comprendere le cooperazione cercando di percorrere due dinamiche e due logiche implicite: la dinamica della produzione sociale di lontananza; e quella della produzione sociale di vicinanza.

Un modello di riferimento può essere quello che viene utilizzato nel costruire molti servizi di grande uso sociale collettivo, come sono la rete dei trasporti, quella dei servizi bancari, postali, le stazioni ferroviarie, gli accessi alla cultura, alle biblioteche, eccetera. Il modello di riferimento non è fatto tenendo presente la reale composizione di una società che contiene delle differenze; tra queste le disabilità.

Nel termine istituzionale vi sono due elementi: l’istituito e l’istituente. L’istituito è ciò che, come dice il

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termine, ha già una sua costruzione quindi è fatto di una realtà preesistente al nostro incontro con la stessa realtà: ha abitudini, regole, una sua grammatica e una sua sintassi. Utilizziamo questi termini perché in qualche modo si può capire bene questo istituito pensando al nostro ingresso nel linguaggio: ciascuno di noi nascendo è entrato in un mondo che aveva già un suo linguaggio ed è cresciuto entrando nel linguaggio già istituito.

Ma proprio perché assumeva e ha assunto il linguaggio già istituito ha potuto creare un senso al proprio linguaggio. Questa è la parte istituente. Ci sono persone che utilizzano le parole per la poesia, in cui è più evidente l’elemento istituente del linguaggio, e persone che hanno più normalmente utilizzato il linguaggio per costruirsi delle relazioni sociali per apprendere e memorizzare, e riutilizzare quindi riformulare le cose apprese.

Istituito/istituente. Potremmo moltiplicare gli esempi: imparare a guidare un’automobile significa entrare in una realtà che è già istituita; e il percorso che guidando un’automobile un soggetto fa è la parte istituente.

Istituzionale comprende questi due aspetti: istituito/istituente. E la lettura del triangolo della resilienza a livello istituzionale significa rendersi conto che vi è un senso che viene costruito dal fatto che un soggetto stringe un legame di fiducia, un rapporto che ha una base anche affettiva e che non coincide con le regole ma diventa la possibilità di incontrare le regole scoprendone il senso. Questo è un elemento che si collega con la resilienza.

12. Antonella Foglia

L’intervento di Milo è iniziato con il “metodo Delacato”, e poco dopo, verso i 7/8 anni abbiamo intrapreso il percorso con la Comunicazione Facilitata, una strategia comunicativa fortemente contrastata dalla comunità scientifica, ma che invece, se usata da professionisti seri (compresi i genitori), può rappresentare forse l’unico modo per accedere a un mondo inaspettato e per consentire a una persona non verbale di comunicare i propri pensieri, le proprie necessità, i propri desideri.

Non condivido affatto il pensiero di coloro che ritengono che le persone autistiche non abbiano consapevolezza della propria situazione, che non siano in grado di avere in mente un progetto personale più o meno complesso, e ho anche la certezza che abbiano anche tante, tantissime paure e incertezze per il presente, per il futuro, e per l’immane compito di affrontare ogni giorno la vita in un mondo pieno di ostacoli fisici e mentali, che non è in grado di comprenderli.

Una buona metodologia permette di utilizzare diversi metodi, ciascuno secondo il suo uso più appropriato.

Questo ci dice che una buona metodologia è composta da riflessione, esperienza, strumenti operativi, capacità di comparazione o confronto, di documentazione e di valutazione. Solitamente un solo metodo, forse ritenuto il migliore, non forma una buona metodologia perché porta a trascurare la riflessione e non favorisce la comparazione.

Riposizionamento significa possibilità che un individuo si ricollochi rispetto a una mappa di percorso che ne permetta degli sviluppi diversi da quello che sembrava – per riprendere un termine utilizzato da Sergio Neri – il suo destino. Riposizionarsi significa capire che non si è su una strada nella nebbia e che bisogna solo seguire quel marciapiede, quella linea tratteggiata, ma scoprire che vi sono crocicchi, incroci, anzitutto per evitare di percorrerli senza badare a chi viene da un’altra direzione ma anche per capire la possibilità di cambiare strada migliorando la propria situazione. E’ un linguaggio figurato ma neanche tanto. Vi è la possibilità, che abbiamo spesso praticato, di individuare un percorso che colleghi la situazione che una persona vive nell’attualità a un luogo ideale che vorrebbe raggiungere e che sembra precluso per la sua condizione, per il suo modo d’essere. E’ possibile collegare questi due punti in un ipotetico spazio-mappa, scoprendo che non vi è il deserto tra i due punti: vi sono altri elementi che compongono il paesaggio della vita futura, collegata alla vita passata e alla vita presente: un paesaggio più ampio in cui ci si posiziona, apre possibilità di percorrere delle strade e di raggiungere delle posizioni più vicine a quel luogo ideale anche se non fosse raggiunto.

Un metodo può essere molto utile come risorsa accanto ad altre risorse. Diventa problematico se si propone come unica risorsa. Negli anni abbiamo incontrato diversi metodi con questa caratteristica che si voleva risolutiva. Dopo qualche tempo quel metodo veniva soppiantato da un altro metodo che si riteneva

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risolutivo. Dopo qualche tempo, idem. Questa catena di metodi, ciascuno risolutivo continuare. Tutti quei metodi erano utili e molto come risorse senza volersi la risorsa.

13. Angelo Marini

Abbiamo sempre letto parole che non conoscevamo! Così, nel frattempo, mi sono documentato io, mi capitava di sentire spesso la parola "autismo" […].

Che rapporti avete avuto con i medici?

E' una ricerca continua.

Abbiamo costituito un'associazione da poco tempo, si chiama "Ragazzi oltre", che raccoglie un gruppetto di genitori del territorio di Ancona, abbiamo anche un sito: www.ragazzioltre.com. Dato che nel territorio non trovavamo nulla di adatto per i nostri figli, abbiamo pensato di realizzarlo noi, cercando delle aziende agricole che ci mettessero a disposizione spazi per poter far lavorare e sperimentare lavori agricoli ai nostri figli, che poi saranno seguiti da educatori specializzati. Mio figlio le piante degli ortaggi le conosce tutte, è anche in linea col suo percorso formativo all'Istituto Agrario, anche se chiaramente quando sta a casa non è interessato, non scende con noi nell'orto.

Daniela Pavoncello, dell’INAPP, l'Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche, ha definito l’agricoltura un laboratorio di inclusione. È anche una fabbrica di autostima, come dice efficacemente Maurizia Squarzi, la dinamica presidente di Cavarei, a Forlì. Cavarei è una realtà nata nel quartiere Cava, di Forlì, frutto della fusione di due cooperative sociali e dell’accordo con il Comune per la gestione del Parco che si trova attorno alla sede di Cavarei. Questo nome deriva dalla fusione del nome del quartiere con la parole greca che significa scorrere, andare avanti. Cavarei è integrata nell’economia produttiva. Le occupazioni delle persone che la frequentano non sono occupazionali. entrano in una filiera produttiva.

Conca d’Oro, a Bassano del Grappa, è una fattoria sociale, e Fabio Comunello, con il compianto e indimenticabile Eraldo Berti, ne è il fondatore e la guida4.

Conca ha verificato con felice sorpresa che, nel contesto della filiera dell’agroalimentare, soggetti con diagnosi di autismo evolvevano e trovavano un loro posto operoso e produttivo. Le sorprese non finivano e non finiscono. Quelle persone collaboravano, collaborano fra loro, rompendo un isolamento che sembrava invincibile. Le loro occupazioni non sono occupazionali, non sono ergoterapia, sono lavoro produttivo in un contesto che sostiene. Il contesto di sostegno. Che è l’ambiente semantizzato, come Fabio Comunello dice.

In ogni elemento che compone l’ambiente non c’è solo il significato ma anche il significante, i radicchi da conservare in barattoli, da vendere, e che finiranno nei piatti sulle tavole, dopo essere passati dalla cucina. I piatti non sono nell’ambiente, ma nell’ambiente semantizzato. Nel contesto. Il contesto richiama le reti sociali. Si forma quella logica plurale che permette di posizionarsi operosamente a chi, nella logica lineare, era dominato dall’inadeguatezza, come chi cammina su un precipizio soffrendo di vertigini. La logica binaria si basa su concatenazioni e combinazioni che procedono linearmente. In questa logica, ogni ostacolo, come ogni intoppo, interrompe l’intero processo.

La logica plurale si basa su un processo reticolare. Ogni segmento può avere più combinazioni. Il nostro sistema neuro cerebrale è un esempio di logica plurale. La rete neurale comprende le sinapsi, che hanno una funzione determinante. Una sinapsi è uno spazio di proporzioni infinitesimali e permette a un vettore neurale di procedere collegandosi ad un altro vettore senza l’esigenza che questo sia disposto con un

‘incastro’ su misura per connettersi. Questo dovrebbe farci capire che nelle organizzazioni complesse, sono indispensabili gli spazi-sinapsi. A volte, una malintesa ottimizzazione organizzativa comprime e sopprime gli spazi-sinapsi. I risultati sono poco incoraggianti, ma sovente vengono addebitati al fattore umano individuale piuttosto che al deficit dell’organizzazione della logica plurale.

Capodarco è una storia che conferma tutto questo e fa capire che assistendo attivamente chi era messo da parte, si può mettere in moto un’evoluzione che invita a far parte, all’appartenenza. La filiera dell’agroalimentare, come la ricerca dell’INAPP ci dice, è particolarmente feconda.

 Chi partecipa operando è lo stesso essere che, grazie ad essa, è vivente.

4 Cfr. F. COMUNELLO E. BERTI (2019), Un mondo possibile, Erickson,Trento.

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 Le metamorfosi e i cambiamenti, dal seme alla tavola, non spaventano.

Partecipando operosamente, evolviamo nel tempo e accogliamo il nostro cambiamento.

Nel tempo articolatosi colloca il maggese, l’andamento stagionale con radici nel passato e con ali per un futuro riconosciuto dalla produzione e apprezzato da molti. Le aziende agricole che stanno lavorando in questo senso crescono di numero. La filiera virtuosa è garanzia di qualità.

È una buona notizia. Il nostro compito è anche questo: far girare le buone notizie. Possono far crescere le piccole speranze che incontriamo tutti i giorni e che rischiano di essere soffocate dalle cattive notizie, quelle vere e anche quelle un po’meno vere.

27 novembre 2018

Riferimenti

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