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Oltre all’agricoltura c’era il mestiere d’arme e grazie a questo la popolazione poteva sopravvivere, perché era molto povera

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Intervista a Gianfranco Crastan, 13 novembre 2003.

Cominciando a parlare della famiglia Crastan era Luzio Crastan che venne in Italia nella prima metà dell’800.

La famiglia era di origine svizzera, della vallata dell’Engadina ed è stata in questa vallata fino alla metà del ‘700. Oltre all’agricoltura c’era il mestiere d’arme e grazie a questo la popolazione poteva sopravvivere, perché era molto povera. Col cessare del mestiere delle armi questa vallata si è impoverita molto e perciò c’è stata un’emigrazione rivolta soprattutto verso l’Italia.

Luzio Crastan fu uno dei primi. Venne in Toscana agli inizi dell’800 -da solo- tredicenne, e andò a lavorare in un negozio già esistente, di altri svizzeri, a Firenze. Era senz’altro una persona con notevoli capacità e iniziative, tanto che in un periodo relativamente breve riuscì a creare una catena di negozi.

Caso veramente nuovo per l’800. Una moderna Esselunga. I negozi erano drogherie e pasticcerie. E aveva creato un sistema attraverso il quale lui faceva venire questi compaesani dall’Engadina, difatti c’è stata la tradizione di molte drogherie svizzere, un omonimo Crastan, chiamato da lui, poi c’erano i Pitschen, c’era la famiglia di mia madre, sempre dello stesso paese di origine, Bazeel, a Pisa, che era una pasticceria molto conosciuta, vicina al ponte di mezzo.

Lui era riuscito intelligentemente a creare questa catena di negozi condotti da suoi compaesani.

Aveva avuto l’autorizzazione da parte del granduca addirittura di poter rendere circolanti i suoi assegni. Avevo ancora un assegnino di una lira firmato Luzio Crastan.

E aveva creato un’enorme fortuna per quell’epoca.

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Da quel momento si è spostato a Livorno dove è diventato anche armatore. Possedeva due velieri. Era naturalmente un uomo che sapeva, che correva grossi rischi, perché per creare una fortuna così rapidamente…

Luzio Crastan aveva fondato una catena di negozi dello stesso genere di quello in cui era venuto a lavorare. E poi c’erano questi suoi compaesani che venivano cointeressati. Lui aveva una partecipazione.

Li riforniva con lo zucchero, le spezie, caffè, che importava direttamente dai paesi con questi velieri.

E allora si sono succedute una serie di disgrazie. L’affondamento di un veliero che non era assicurato, una speculazione sbagliata sulla guerra franco prussiana, siamo nel 1870 a questo punto, per cui questa enorme fortuna che era riuscito a creare si è in gran parte dissolta.

A questo punto lui ha comprato a Pontedera questo stabile, attuale sede della “Crastan s.p.a.”, che era originariamente un mulino, per cui questa costruzione penso risalga ai primi dell’800. E creò questa azienda di surrogati del caffè che però se riportata a quelle che erano le precedenti attività era piccola cosa.

E’ morto relativamente giovane, c’erano tre figli i quali hanno cominciato ad occuparsi di questa fabbrica di surrogati del caffè.

Siamo nell’anno 1870. Le altre attività invece erano cessate per queste difficoltà. E cosi è nata la “figli di Luzio Crastan”. Perché originariamente l’azienda aveva come denominazione “figli di Luzio Crastan”.

Questo Luzio Crastan ebbe anche la buona idea di inserire nello statuto dell’azienda una formula attraverso la quale le figlie non potevano prender parte alla gestione dell’azienda. Questo è stato

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senz’altro il motivo per cui l’azienda ha potuto rimanere nelle mani della stessa famiglia per 130 anni. Se invece ci fossero state le femministe attuali certamente non avrebbero approvato questo tipo di regole; invece sono state rispettate.

A questo punto esistevano questi tre fratelli (Felice, Niccolo, Guglielmo. N.d.R.) che si suddivisero i compiti nel gestire questa fabbrica che cominciò ad andare piuttosto bene.

Mio nonno (Niccolo. N.d.R.) è stato direttore dello stabilimento Bellincioni, che era quello della famiglia della moglie, essendoci già due fratelli che lavoravano alla Crastan. Lui andò per un certo periodo ad occuparsi dell’azienda della famiglia Bellincioni.

Surrogato del caffè…a quel tempo c’era un’alta tassazione sul caffè, che veniva considerato un genere di lusso per cui c’erano alte tasse sul caffè e era giustificato anche un diffondersi di queste cose.

Inizialmente questo surrogato era soprattutto fatto attraverso la cicoria. Era la cicoria che veniva torrefatta. Cicoria che prevalentemente veniva prodotta nel nord d’Europa. Era importata.

Però allora mio nonno Niccolo, era lui che si occupava della produzione, ha cominciato a coltivarla nel padule di Bientina, dove sembrava ci fosse un terreno particolarmente adatto a questo tipo di coltura. E’ il tubercolo della cicoria che veniva lavorato. E a Bientina creò una piccola succursale, che credo esista ancora, un locale dove veniva data alla cicoria una prima tostatura per poterla mantenere.

Poi veniva portata a Pontedera.

A quel momento esisteva già l’orzo come surrogato insieme alla cicoria, ma il prevalente era la cicoria.

Il numero di persone che lavorava nell’azienda era molto più numeroso dell’attuale. Ora siamo una cinquantina fra tutti -

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stabilimenti di Pontedera, Gello e Fornacette, è tutto totalmente meccanizzato.

Tornando alla vecchia Crastan… Esistevano questi torrefattori dove veniva torrefatta ed essiccata la cicoria.

Effettivamente la torrefazione, soprattutto della cicoria offriva certe difficoltà. A quel tempo la tostatura avveniva attraverso il legno.

C’erano questi legni di cerro che alimentavano sia questi forni ad aria dove veniva torrefatta prima la cicoria, sia i veri e propri torrefattori, che io credo hanno origine nei primi del ‘900, che sono come gli attuali torrefattori del caffè, soltanto che attualmente si usa metano e prima la legna. Per cui era necessario avere delle persone che avessero una notevole pratica, perché era molto più difficile tostare con del legname: bisognava avere una certa conoscenza.

Esisteva una tradizione nella famiglia per cui spesso c’era un tramandarsi del lavoro da padre in figlio. Non ci lavoravano famiglie intere, ma c’era una tradizione per cui spesso il figlio di uno che lavorava alla Crastan veniva successivamente. Anche per tramandare la conoscenza del lavoro.

C’erano due di Bientina, una storia che mi ha raccontato mio padre, abbastanza strana. C’erano Questi due torrefattori di Bientina, che erano bravissimi, che erano due fratelli che avevano litigato fra di loro, e vecchissimi. Veniva mandato un barroccino dalla fabbrica che li andava a prendere e loro stavano seduti l’uno voltando la schiena all’altro. Non mi ricordo se erano padre e figlio o se erano…Si chiamavano Carlotti. Ci sono state almeno tre generazioni.

Era un mestiere, ed era molto ambito venire alla fabbrica perché mio nonno (Niccolo) aveva istituito una mutua, per il tempo cosa

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assolutamente impensabile. Per cui erano pagati molto di più degli altri. Era considerato un privilegio, un buon lavoro.

C’era questa mutua, ma forse perché in Svizzera erano molto più avanzati, con maggiore spirito democratico.

Effettivamente poi l’azienda rendeva molto, perciò si potevano permettere di pagare oltre il 50 per cento di più di quelle che erano le paghe dell’epoca.

Oltre ad aver creato questa mutua, per cui esisteva una pensione e esisteva un’assistenza se uno si doveva ammalare.

Un episodio che forse mi sono dimenticato, risalendo a Luzio Crastan, che mi ha raccontato mio nonno, un piccolo episodio, è che il padre di Luzio Crastan, il fondatore, ad un certo punto venne dalla Svizzera, dall’Engadina, ed era una persona con un carattere molto forte, ed era sindaco del piccolo paese, giudice di pace, e soprattutto un grande cacciatore. E arrivò a quei tempi. Per venire a Livorno dalla Svizzera andavano a Genova e poi c’era una nave che li portava fino a Livorno. E il figlio non era presente, non potette andarlo a prendere, però gli aveva mandato una carrozza con un cocchiere e due cavalli. Però questo montanaro non ha approvato. Il figlio forse, come tutte le persone di nuova ricchezza, ostentava questa carrozza:

aveva l’aria un po’ troppo pomposa, i cavalli scalpitanti, il cocchiere con una livrea. Non gli è piaciuta, la trovava un’ostentazione di cattivo gusto. Ha chiesto: ”Quanti chilometri c’è per arrivare a Pontedera?” “35” “Beh, io vengo a piedi” e ha buttato la sua valigia sulla carrozza ed è arrivato a Pontedera a piedi.

-Si ricorda alcuni nomi di operai?-

I Carlotti che avevano questo barroccino fatto in maniera che uno non si accostasse all’altro e che erano gli specialisti della

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torrefazione per cui venivano mandati a prendere perché erano anziani.

C’era questa tradizione per cui nell’assumere qualcuno si preferiva un figlio.

Mio padre è entrato nella fabbrica giovanissimo, dopo aver compiuto gli studi in svizzera e mi raccontava che gli operai erano giovanissimi a quei tempi.

- Gli uomini e le donne avevano mansioni differenti?-

Gli uomini svolgevano queste funzioni di torrefazione e di cottura del materiale, le donne erano quelle destinate all’impacchettamento, che originariamente era fatto a mano.

All’inizio questo prodotto torrefatto e poi macinato veniva anche messo in una specie di borsa, poi invece, quasi subito, gia ai primi del

‘900, era in pacchetti, piccoli pacchetti, sui quali venivano applicate delle fascette che erano la forma di controllo che lo stato applicava.

Mentre il caffè aveva una tassazione all’importazione noi avevamo queste fascette che si dovevano comprare dallo stato e che venivano applicate su ogni confezione. Io stesso ho utilizzato queste fascette.

Per cui c’era un numero vastissimo di donne, io non so se a un certo punto erano quasi cento persone. Ed erano prevalentemente donne.

Ci venivano a piedi, con gli zoccoli o in bicicletta.

In bicicletta ci dovevamo venire anche noi. C’era questa tradizione abbastanza severa. L’ho seguita io stesso da ragazzo. Mio padre non voleva che si arrivasse in fabbrica in automobile, bisognava arrivare in bicicletta. Le automobili erano abbastanza rare a quei tempi e a lavoro si doveva andare in bicicletta.

C’era una sirena, per cui erano molto precisi sugli orari, questa componente svizzera… la precisione era rimasta come elemento.

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E c’era una sirena che veniva suonata la mattina alle otto, poi a mezzogiorno quando cessava il lavoro, alle due quando ricominciava, ed era una sirena che veniva suonata e serviva alla gente, che sapeva così benissimo a che ora cominciare.

C’era una ciminiera che diffondeva questo odore Crastan per tutta Pontedera.

-So che ci sono stati dei problemi ultimamente. -

La gente oggi è diventata più sofisticata per questo odore del torrefatto.

-In che periodo la meccanizzazione ha sostituito molti degli operai?- Beh, io credo che la prima macchina abbia cominciato negli anni

’20. C’è stata un’azienda di Bologna, che si chiama ACMA. Noi siamo stati credo i primi clienti di questa fabbrica di Bologna. E’

stato significativo, perché ci hanno detto loro che noi siamo stati uno dei primi clienti di questa azienda che è stata poi un’azienda confezionatrice di macchine, molto importante. E che è stata la madre di tutta una serie di macchine confezionatrici che si è diffusa da Bologna in tutta l’Emilia. Viene considerata ancora oggi la madre.

Non so se esiste tutt’ora, ma ho parlato con delle persone. Purtroppo io… questa prima macchina sarebbe stato interessante…avrebbero tenuto molto a poterla avere. Faceva parte proprio della storia.

-Mi hanno detto che le macchine che ci sono ora a Pontedera risalgono agli anni ’50-’60 e che tutte, anche quelle del nuovo stabilimento di Gello sono state costruite per svolgere determinati lavori specifici. -

La meccanizzazione iniziale cominciò già allora, alla metà degli anni ’20, io credo nel 1925-1926. E poi successivamente c’e stata una meccanizzazione sempre più spinta. Per cui attualmente alle

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macchine confezionatrici c’è un solo addetto. L’addetto unicamente controlla. Ci sono delle macchine che hanno già diversi anni, poi ci sono le ultime. Sono interessanti quelle che fanno i pallets.

Tra le future macchine di Gello ci saranno questi robot.

Il futuro dello stabilimento di Gello saranno i magazzini al buio.

A Gello già adesso, credo che sia in funzione dalla metà di novembre, un nuovo robot che non è guidato su guide o in un campo circoscritto, ma girerà per lo stabilimento, da solo, effettuando un determinato percorso. Attraverso un computer gli vengono attribuiti determinati compiti. Prenderà i pallets già preparati dal fondo delle macchine, li porterà alla macchina avvolgitrice, che li avvolge di plastica, di nylon, per dargli consistenza. Porta quello lì e prende quello già preparato e lo porterà in determinati punti del magazzino, dove il computer gli dirà di andare.

Svolge diversi compiti viaggiando da solo, indipendente, nell’ambito dell’azienda.

A questo punto poi è preventivato un futuro magazzino, che sarà fatto a Gello, che sarà un magazzino di venti metri, ventidue metri, dove questi robot porteranno il pallet ad un altro robot, in questo caso messo su una rotaia, che ad un certo punto corre in questo magazzino senza luce, perché non serve, e velocissimo corre su una rotaia e poi si innalza fino a venti metri e incasella i prodotti nelle varie celle. Questo regolato sempre da un computer.

I due robot saranno indipendenti, sia quello che gira nel corso dello stabilimento per prendere il materiale, sia questo che incasella, che mette il prodotto nelle varie celle, e successivamente li prende, li riporta in basso dove l’altro li porterà per la spedizione.

- E’ un sistema molto moderno. -

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Si, anche perché da un punto di vista produttivo un’azienda oggi che opera nel campo alimentare avrebbe la tendenza a specializzarsi perché cura di più la produzione. Da un punto di vista esclusivamente commerciale.

Una azienda per poter avere un certo peso commerciale nei riguardi della grande distribuzione deve avere una gamma di prodotti. Sono due cose abbastanza in contrasto: la specializzazione e la vasta gamma di prodotti per poter destare interesse nella grande distribuzione e nel settore dei discount.

-Prima producevate solo con il marchio Crastan, ora producete per alcune catene di negozi. Quali e perché?-

Fino a che non sono arrivato io, sono stato io ad allargare la gamma di prodotti, producevamo soltanto surrogato del caffè.

Esisteva questa esigenza, dal punto di vista commerciale, ed anche per far correre minor rischi all’azienda nel caso ci fosse stata una diminuzione di consumi nel settore dei surrogati del caffè. Perché effettivamente i surrogati del caffè, nel passato, venivano concepiti con una funzione esclusivamente economica, per risparmiare rispetto al prezzo del caffè che era già alto in se stesso e poi veniva tenuto molto alto attraverso tassazioni sul caffè. Veniva considerato un prodotto di lusso. Per cui aveva una funzione prevalentemente economica.

Successivamente queste tasse sul caffè sono diminuite per cui, attualmente, invece, il surrogato del caffè ha una funzione diversa, in quanto molte persone non possono bere il caffè, per i bambini, ecc..

Per questo è nato questo consumo nel settore dell’orzo destinato prevalentemente ai bambini. E poi, invece, con l’invecchiamento della popolazione e il nervosismo generale, per evitare la caffeina, il

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consumo di surrogati adesso non ha più una funzione economica, perché il caffè ha raggiunto dei prezzi molto bassi. Ma ha questa funzione prevalente, sia riguardo ai bambini, sia riguardo alle persone che non possono consumare molta caffeina.

Tornando su problemi di ordine commerciale, l’azienda ha sentito questa necessità di allargare la gamma di prodotti e così si è allargata successivamente con un numero abbastanza vasto di prodotti.

Nel corso di questi ultimi anni nel settore della distribuzione ci sono stati dei cambiamenti che in un certo senso hanno favorito l’azienda Crastan, che per un certo periodo si doveva battere faticosamente con due colossi del campo alimentare: la Nestlè e la Star. Una grande azienda a carattere nazionale, e la Nestlè a carattere internazionale.

Perché sono nate delle nuove forme di vendita. Uno sono i prodotti a marchio della grande distribuzione. La grande distribuzione, per prima in Europa, successivamente anche in Italia, ha creato, sta creando, ampliando sempre, la gamma di prodotti venduti a marchio.

In questo caso è la Crastan che nella, direi, totalità, produce, fa, questi prodotti a marchio per la grande distribuzione.

-Per chi producete?-

Li facciamo per l’Esselunga, per la Coop, per la Conad, per la Standa, per il gruppo Pam. Poi li facciamo per quasi tutti i discount.

Questa è la grande distribuzione. La grande distribuzione ha creato questi prodotti a marchio. Naturalmente la grossissima azienda Nestlè e la Star sono delle aziende che non vedono tanto di buon occhio questi prodotti a marchio, perché vanno a rosicchiare, essendo aziende leader nel settore, vanno a rosicchiare consumi a quei reparti lì.

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Invece la Crastan si è infilata in questo settore che ci ha dato anche un rapporto privilegiato con la grande distribuzione.

Successivamente, in questo ultimo periodo sono nati i discount. Il settore del discount che in questo momento sta notevolmente incrementando. Anche il discount… altro settore che la grandissima Nestlè e la Star non hanno mai affrontato. E noi abbiamo prodotto per questi discount. Anche loro vogliono avere una loro immagine, per cui gli stessi prodotti hanno una veste diversa.

Praticamente è lo stesso prodotto, però cambia la confezione. E viene venduto o a marchio discount o a marchio.

-Che differenza c’è tra vendere ad una catena di supermercati, o ad una di discount?-

Ogni prodotto ha una sola confezione, una sola grammatura. Nel campo dei surrogati del caffè, nel campo dell’orzo, tendono ad avere una confezione da 200 grammi, invece che l’altra da 120 grammi, perché più la confezione è di grandi dimensioni e più c’è un’economia di costo. Praticamente loro si contentano di margini più ridotti, perché hanno dei costi di distribuzione molto più ridotti di quelli che ha la grande distribuzione perché attraverso questo numero di articoli meno vasto che hanno, hanno dei magazzini semplificati , un numero di casse ridotte. Si contentano di margini più ridotti.

Ma hanno assolto un compito credo importante per il paese perché hanno fatto ridurre i costi della distribuzione.

Anche questi discount sono diventati grandi catene. Hanno prezzi più bassi e molto spesso qualità del tutto simile.

Come del resto la qualità della grande distribuzione, quando fa prodotti a marchio, siccome vogliono proteggere il proprio nome, stanno attentissimi. Ci sono moltissimi controlli. Vengono a

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controllare spesso l’azienda. Si rivolgono solo ad aziende che diano loro delle garanzie,perché se vendono un prodotto qualitativamente scadente è il loro nome che rischia di essere deteriorato.

La Crastan ha trovato attraverso questi due canali una possibilità di grande espansione. Questo è il motivo per cui l’azienda si è molto rafforzata.

Poi abbiamo preso un nuovo settore interessante, che è il settore dei prodotti biologici. Per cui questi stessi prodotti vengono prodotti con prodotti biologici. Anche per quelli ci sono molti controlli, più accentuati, più severi. Nel caso del prodotto biologico è quasi più giustificata una azienda di piccole dimensioni piuttosto che una grandissima azienda.

La piccola Crastan ha potuto difendersi dalla grande multinazionale Nestlè attraverso queste quattro vie: prodotto biologico da un lato, discount dall’altro, prodotto a marchio e prodotto a basso prezzo.

Essendo poi molto più economico anche un prodotto dal prezzo più economico quando ci si rivolge alla grande distribuzione.

La grande distribuzione, a questo punto, per controbattere i discount ha bisogno anche di un prodotto, di un buon prodotto, che venga venduto ad un prezzo conveniente. Qui ci sono quattro strade. Prima potevamo produrre unicamente a marchio nostro. Era un po’ limitato e poi i consumatori erano sempre più rivolti ad un prodotto che conoscevano,che era reclamizzato. Le nuove generazioni invece sono meno sensibili a questo indirizzamento della pubblicità, hanno capito che la pubblicità è anche un fattore di costo del prodotto.

- Qual’era l’edificio originale?-

Originariamente l’edificio centrale, ritengo abbia origine nei primi dell’800, era quello.

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C’e stato un edificio, quel grande edificio che si trova sulla sinistra, quello che chiamano “la chiesa”, è stato costruito nel 1925. Al di sotto di questo edificio ci sono dei grandi depositi che servivano per la raccolta della melassa.

La melassa è un sottoprodotto della lavorazione dello zucchero che può essere melassa di canna o di melassa di barbabietola. Però nel caso del prodotto destinato alla lavorazione del surrogato del caffè è quello di canna. Il consumo del surrogato del caffè nell800 fino…

anche nei primi del ‘900 esisteva la cicoria… esisteva questo melasso che veniva cotto e poi caramellato, disteso su di una superficie di marmo. Assumeva l’aspetto del caramello, quello che danno alle fiere… il croccante. Questo croccante veniva poi macinato e fatti questi piccoli pacchettini. E serviva soprattutto a dare colore al caffè.

E questo aveva la funzione di colorante, si può dire. Caffè era sinonimo di scuro, allora per risparmiare consumo di caffè, sempre allo scopo di risparmiare, veniva messa una puntina di questo, aveva un gusto molto forte, questo melasso che veniva cotto e poi caramellato, e serviva per dare colore al caffè.Questa produzione c’è ancora. È rimasta ancora questa produzione, ne produciamo.

Praticamente ci siamo specializzati e ad un certo punto tutti gli altri hanno smesso di produrre questo prodotto, e noi lo produciamo anche per la Nestlè stessa.

C’è una macchina che fa questi pacchettini piccoli, stretti. E’

diventato un prodotto marginale, ma che è stato il prodotto fondamentale per tutta la crescita dell’azienda. Per tutto il 1900 è stato un prodotto fondamentale.

-E la produzione d’effervescente?-

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L’effervescente è stata un’esigenza di ordine commerciale. Non aveva nessun legame dal punto di vista produttivo. Dopo, ad un certo punto, quando è nato questo bisogno, questa esigenza, dal momento che non c’era più crescita nel settore dei surrogati del caffè, anzi, si andava verso un calo di produzione. Quelle esigenze di ordine commerciale hanno forzato a cercare nuovi prodotti. Tra questi ho pensato a questo effervescente. E lo stesso per il bicarbonato e lo stesso per altri prodotti differenti.

La produzione è molto diversificata, sempre a questo scopo. Perché se noi fossimo stati presenti solo con il surrogato del caffè… una grande distribuzione, o lo stesso discount, non ha interesse ad avere un’azienda che gli da un solo prodotto. Poi pensi solo alle spedizioni, il costo delle spedizioni. Deve rifornire, ad esempio, un ipermercato.

Che poi questa grande distribuzione pretende che le consegne vengano fatte ogni dieci giorni, per cui se lei ha una gamma di prodotti il costo di questa spedizione viene diluito, ammortizzato. Se lei non ha una gamma di prodotti non interessa perché è un fornitore assolutamente marginale. Ha dei costi di spedizione più rilevanti. Ha delle spese fisse, generali per l’azienda e un fatturato più ridotto. Per cui nasce questa esigenza di diversificare. Il che complica la vita.

Complica la vita perché questi signori pretendono di essere riforniti quel giorno preciso, anzi, quella mattina precisa, con quei determinati prodotti.

Menomale esistono i computer per poter seguire questa gamma vasta di articoli.

-Il prodotto a marchio Crastan dove viene venduto? -

Il marchio Crastan ormai è presente nell’80% della grande distribuzione.

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Abbiamo un prodotto che si chiama “orzo caffè”, che è fatto a marchio Crastan, che è diffusissimo. Praticamente è il prodotto leader in quel settore. La stessa Nestlè è uscita recentemente con un prodotto, ma non è riuscita a scalfire il nostro. Per cui l’azienda è diventata un’azienda a carattere nazionale. Questo lo produciamo per tutta Italia.

Anche il bicarbonato è diffuso in tutta Italia. Per esempio, nel sud Italia, dove è molto meno diffusa la grande distribuzione, è più facile trovare i nostri prodotti.

Perché la grande distribuzione, se ha l’effervescente a marchio, se ha l’orzo a marchio, se ha il purè a marchio… è più difficile, non gli comprano più il prodotto.

- Quali danni sono stati causati all’edificio durante i bombardamenti della guerra?-

C’era la grande ciminiera, la vecchia ciminiera in mattoni, che era la caratteristica della fabbrica. Adesso è stata sostituita da una ciminiera in acciaio inossidabile.

La fabbrica venne bombardata e minata dai tedeschi. E’ stato un miracolo, mi ricordo sono andato con mio padre a vedere la fabbrica e per fortuna ci hanno fermato, perché c’erano delle mine. Insomma, la fabbrica è stata bombardata, è stato un momento non facile. Ma era stata bombardata però relativamente la struttura principale. Le costruzioni marginali avevano subito maggiori danni.

- E l’archivio è stato danneggiato dall’alluvione?-

Si, purtroppo si, abbiamo subito questa alluvione. Mi ricordo, quasi due metri d’acqua. E’ stato colpito gravemente.

C’è stata questa distruzione attraverso l’alluvione, compresi dei manifesti, disegni di manifesti di Boccasile. C’erano gli originali e

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c’erano gli originali dei disegni di Bocassile, che avrebbero avuto un valore notevole.

A quei tempi la pubblicità… erano poche le aziende che la facevano.

-Quale è stato il periodo di maggior produzione?-

Diciamo negli anni dal 1920 al 1930. Anche perché a quei tempi esisteva una forma di monopolio nelle aziende dei surrogati del caffè.

Queste cose non è che venivano raccontate, ma esistevano.

Praticamente venne trovato un accordo tra i vari fabbricanti di surrogati.

- Comunque si erano messi d’accordo per avere…-

Un controllo del mercato. Questo succedeva fino all’inizio dell’ultima guerra, nel 1940.

Il momento più produttivo dal punto di vista dell’azienda credo sia stato quello tra le due guerre.

Poi quest’ultima rinascita, recente appunto perché il mercato si è allargato, sono nate queste nuove esigenze da parte della grande distribuzione, da parte dei discount e l’azienda ha saputo cogliere questo momento. Sia allargando il numero dei prodotti sia facendo prodotti a marchio per tutte queste catene di distribuzione.

- Questa scelta di trasferirsi da cosa è stata data?-

E’ una questione di spazio. Non avevamo spazio sufficiente e ci siamo rivolti all’azienda di Fornacette. Era uno stabilimento chiuso che era fallito e ho preso l’immobile. E ci siamo trasferiti.

Poi praticamente anche lì lo spazio era insufficiente e allora abbiamo acquisito questo terreno a Gello.

- Per quando pensate che sia concluso il trasferimento a Gello?

Alcuni titoli di giornale lo davano come imminente. -

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E’ l’augurio del comune! Non lo so, ma vedremo come sarà possibile. Lo facciamo con gradualità.

E poi anche perché dobbiamo trovare una destinazione a questo edificio.

- E’ già stato proposto qualcosa?-

Non abbiamo chiarito bene. Anche perché il mercato immobiliare è così volatile in questo momento… L’edificio fondamentale dovrà rimanere tale e quale, perché è richiesto, e trovo anche giustamente, condivido questo concetto del comune, di voler mantenere questo stabile.

A Pontedera non esistono molte cose significative, per cui questo ha un suo aspetto ottocentesco, un suo significato, una sua storia.

Forse a me piacerebbe, personalmente, che si trovasse una destinazione che potesse mantenere il carattere della vecchia fabbrica. Bisogna trovare qualche cosa che possa essere inserito all’interno mantenendone però il carattere, la fisionomia di una vecchia fabbrica. Forse questa, trovando qualcosa che potesse essere… mantenendo qualche attività, non so, di tipo commerciale.

Inserita nella vecchia fabbrica.

Non è così facile trovare una destinazione.

- La villa Crastan è stata riutilizzata come biblioteca. –

Questa è stata una buona soluzione. Mi dispiace che la spostino. Mi piaceva che rimanesse una cosa a fruizione di tutti.

-La tradizione di tramandare l’azienda Crastan solo ai figli maschi esiste sempre? –

No, ho rotto io questo principio, perché mia figlia è marginalmente interessata. Però il maschio avrà la maggioranza, essendo una società per azioni, s.p.a., adesso, il possedere la maggioranza gli da

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diritto al comando. Adesso esiste un unico maschio Crastan, che è mio figlio, si è sposato, ha una femmina. Adesso mia nuora aspetta un altro figlio. Speriamo che nasca un maschio sennò la famiglia si estingue.

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Intervista a Roberto Cerri, 9 dicembre 2003.

Io parlo sempre dopo guerra, prima della guerra…è difficile. Io posso accennare così dei ricordi che così oralmente mi hanno detto degli operai vecchi che ci lavoravano quando io entrai. C’era già gente che ci lavorava dal 1915. Mi raccontavano del lavoro.

Trasformazione c’è stata quando arrivarono le macchine, perché prima tutto il lavoro era tutto manuale.

Io ho lavorato nella torrefazione. C’era l’orzo.

Dopo guerra andava una miscela, la chiamavano “Miscela Bricco”.

C’erano orzo, ghiande, fave ceci, c’erano le varie percentuali e venivano poi mescolate nel miscelatore e poi messi nei sacchi.

C’erano questi sacchi di 40-50 chili e quattro donne li chiappavano e li buttavano sui tavoli lunghi, e nel mezzo c’era come una buca. E poi con queste palettine riempivano i pacchettini. Tutto a mano.

Poi quando cambiò e incominciarono a comprare le macchine il personale, specialmente femminile, fu in esubero. Ci furono dei licenziamenti insomma, fu un po’ un trauma, perché la Crastan era uno stabilimento che, specialmente negli anni ’30 era un po’ un privilegio lavorarci. Anche umanamente avevano dei privilegi rispetto ad altri posti e, infatti, lì dentro c’era anche generazioni di persone, ci lavorava la mamma, poi la figliola, il figliolo…

I titolari avevano un po’ il paternalismo, avevano una maniera paternalistica. C’era uno mi ricordo, ci aveva la figliola e a quel tempo studiare all’università per un operaio era un tabù, mentre poi è cambiato. E allora lui gli dava qualcosa e lui a sua volta, tutte le volte che lo chiamava, qualsiasi cosa la faceva, anche a casa, alla biblioteca. Era una villa.

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Lì fu comprata penso negli anni ’70, perché prima questa villa la costruì uno dei due Crastan. Perché lì era la ditta “ Figli di Luzio Crastan” e ognuno aveva un po’ di azioni.

Il babbo di questo Gianfranco, il maggiore, si chiamava Luzio, aveva sposato e aveva dei figli. Uno si chiamava Gianfranco, poi uno si chiamava Niccolò, poi la figliola si chiamava Lucia e un altro si chiamava Guglielmo.

Delle tragedie, perché uno subito si ammazzò, Guglielmo, che era quello che si era laureato, loro ci contavano molto.

E un altro s’è ammazzato ora, sarà quattro o cinque anni, quello maggiore, che poi tornò a Marina di Pisa.

E poi c’è rimasto questo Gianfranco, che ci ha una villa a Crespina.

Bella. Sposò, questo Gianfranco, e fece due figli, Alberto, ora dovrebbe essere entrato, e poi la figlia.

Io sono venuto via nel 1985. I lavori non erano tanto belli, perché lavorando al caldo…

La cicoria veniva dai paesi dell’est. Erano radici tagliate, secche, come funghi secchi, un po’ più grandine.

Quella la chiamavano “Caffeol”. Era l’80% cicoria e poi ci veniva messo i ceci. Poi questa roba veniva tostata, veniva messa su dei teli e macinata. Su dei teli come su pannelli grandi. Ci mettevano questi teli, poi la bagnavano un po’. Era un prodotto migliore.

Nei primi tempi veniva messo in scatoline quasi di legno, di compensato fine. Questa costava di più.

E poi venivano fatti i “Moretti”, che erano tutto melasso. Melassa, che sarebbe lo scarto dello zucchero.

Però quella migliore di tutti era la canna da zucchero, perché quella della barbabietola era difficile cuocerla. Quando andava in

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ebollizione traboccava tutto, e invece quella lì… veniva più che altro dall’Egitto.

Veniva cotta in caldaioni grandi, ci andava 250 chili, 2 quintali, poi veniva messa sul fuoco. Quando poi era pronta si girava su delle rotelle, a mano, così, e camminava su delle verghe. Arrivati a un certo punto si rigirava e poi andava a finire su questa pedana. Noi ci si buttava sopra, sennò attaccava, sotto c’era marmo e noi ci si buttava la farina con le mani. Farina di lupino tostato. Poi questo qui doveva raffreddare e quando era raffreddato noi bisognava prenderlo con le mani e buttarlo dentro dei cassoni tipo pallet e con una pala macinarlo. Questo era il lavoro, poi è cambiato.

Lo zucchero hanno incominciato a farlo cinque o sei anni prima che venissi via io. Fare lo zucchero era diverso, c’era una macchina.

Invece di metterci il fuoco di gasolio ora c’è una caldaia stretta che ci passa l’olio a bollore in una intercapedine. Questa qui ci veniva messo o il melasso o lo zucchero. Quando si faceva lo zucchero si raschiava bene, si puliva. Allora si faceva anche 10 quintali alla volta invece che 200 chili. Poi anche li veniva stesa su questo lastrone.

Scorreva il cassone e si stendeva bene. Poi il gas che aveva dentro c’era un rullo che lo schiacciava così prima di tutto levava tutta l’aria che c’era dentro e più veniva più pressato e il prodotto era migliore.

I primi tempi a legna veniva cotta la roba. Ci ho lavorato anch’io.

C’erano delle cataste grandi di legna e la mattina s’andava a prendere per accendere i forni.

Poi questa roba veniva addirittura buttata per terra, con i rastrelli si stendeva poi con la pala… uno la reggeva e l’altro insaccava.

Anche lì ci modernizzò.

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Negli anni ’60. Perché i licenziamenti ci furono nel ’66 e sicché è in quegli anni lì che si modernizzò.

Poi certi tipi di prodotti non andavano più. Il surrogato tradizionale, quello che andava nel periodo del fascismo, perché c’era le sanzioni e il caffè non veniva più importato in Italia. Poi venne la guerra.

Poi dopo la guerra si lavorava tanto. Tra uomini e donne saremmo stati 120-125 persone.

Poi ora non fa mica più surrogati. Fanno lo zucchero, l’effervescente, la fecola, l’amido, poi viene fatto lavori per la Standa, per la Coop, per quella multinazionale…la Nestlè. Si lavorava parecchio per conto terzi.

Però insomma ora so che hanno preso altri capannoni e mi pare avevano l’accordo con il comune per andare via.

Prima era tutto manuale, poi cominciarono con le macchine.

Poi rimanendo legati a dei prodotti che non hanno più avuto la fortuna, giustamente erano prodotti che venivano comperati da gente che non aveva. Quando è migliorato il tenore di vita è andata avanti con l’orzo e va ancora l’orzo perché ci sono delle persone che hanno problemi di salute, persone anziane, bambini.

Quando cominciò fece un accordo con una ditta svizzera. Allora gli si mandava l’orzo tostato e loro ci facevano il solubile. Incominciava anche il solubile a prendere quota. Poi smisero lì e lo fecero fare a Parma, alla Giglio, da quelli che fanno la pastorizzazione del latte.

Invece di mandargli il prodotto, veniva mandato nelle cisterne, quelle che portano il latte. Mandavano a Parma e Parma tostava.

Lì funziona che viene tostato l’orzo, quest’orzo viene buttato in questi cilindri, ci viene buttata l’acqua con una certa pressione a vapore, poi quando raggiunge… come quando si fa il caffè. Il liquido

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viene buttato dentro una torre che è dalla parte di là, io parlo sempre…ora non so se c’è. A mano a mano che scende si fredda e diventa una polverina. La buccia viene nello scarto, lì ci rimane il cuore. Questa polverina basta strusciarla un po’ con le mani e si scioglie. E lì poi viene subito preso e messo nei barattoli di vetro.

Prima erano tutti di cartone, qualcuno di carta.

Le donne c’avevano delle tavolette, c’avevano già i fogli tagliati e poi questi fogli li incollavano e li riempivano. Una faceva la scatolina di carta, l’altra di cartone e poi le riempivano a mano, invece ora...

Ho lavorato anche al mulino.

Ora è tutto automatico, meccanizzato. Ci sono dei tubi con l’aria pneumatica, la spinge di là e va nel mulino. Quest’orzo viene macinato, viene farina. Poi una parte viene adoperato.

Invece quello per il solubile non deve essere farina, deve essere tostato, ma non macinato.

L’orzo che andava al mulino veniva tostato e con la pressione dell’aria andava su al secondo piano, in un silos. Questo silos aveva dei tubi che poi andavano sulla macchina, cascava sulla macchina e, mentre che gira, riempiva o i barattoli di vetro o riempiva le scatoline di cartone.

Si rinnovano. Poi venne questo ragazzino qui, ci stette qualche mese per vedere. Veniva con me. Si, Alberto.

Questa è un po’ la storia. Ci sono stati momenti di gioia, di dolore, di tensione… di momenti ce ne sarebbero tanti.

Io ho avuto anche questo incarico qui, quando si facevano le elezioni e io venni eletto. Ero sempre giovane.

E la mattina prima di entrare c’era la finanza. C’erano tre finanzieri, al primo cancello, quello piccolino, c’avevano una stanzina, c’era la

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portineria. Allora si passava di lì. Perché non potevi aprire da te. La sera un operaio con un finanziere mettevano tutti i sigilli, c’erano addirittura le reti. Per l’uscita ci voleva il permesso di loro. Sia all’entrata che all’uscita. Quando la mattina si andava a lavoro bisognava aspettare che il finanziere… “Si può aprire?” “Si, vada!”.

Poi il portiere ci dava ordini. In genere ognuno aveva il suo lavoro, ma c’era dei momenti che a un lavoro ce ne voleva di meno, da una parte di più sicché quando s’era lì bisognava fare tutto, da’ una mano al muratore a anda’ a tinge’ le finestre. Tutto quello che c’era bisogno si faceva. Perciò si prendevano un po’ gli ordini da questo.

Poi è cambiato il sistema, ci sono altre persone.

La fabbrica aveva delle tradizioni un po’ paternalistiche.

L’operaio…era dura per me, con una mentalità diversa, con gli amici frequentavo ambienti diversi…E c’era questo signore, e l’operaio lì la mattina “sissignore, comandi”e a me non mi riusciva. Allora “dica..”

E a lui gli dava noia. Ero giovane. Gli rompeva un po’ questo mancamento e sicché c’erano sempre dei momenti particolari, un po’

di tensione. E, infatti, una volta mi prese e mi mandò a lavorare dove facevano il moretto. Era il lavoro peggio di tutti. C’era il fumo, la polvere, ti venivano le mani gialle. Tipo punizione e infatti me lo disse. Venne e mi disse, c’erano già degli operai vecchi che ci lavoravano dal 1917, e lui disse: “V’ho mandato anche lui così siete tutti dello stesso colore.” Però con il tempo anche nei miei confronti cambiarono, mi misero di commissione interna. E mi dicevano: “Oh come fai te a anda’ a parla’ col sor Luzio, col sor Manlio, sei un ragazzo, hai levato Brunetto” che era un vecchio operaio, un vecchio socialista “..e te vai al posto di lui…”.

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Si può dire che dal ’50 sono sempre stato di commissione interna, sicché poi le riunioni, il sindacato, andai a fa’ prima il consigliere, l’assessore, poi mi iscrissi al partito comunista, e gli dava noia.

Una volta presi un permesso e gli dissi: “Ci ho da anda’ a fa’ una gita…”. E invece andai a Bologna a una manifestazione. Poi lo venne a sapere e mi disse: “Ma te m’hai messo di mezzo!”. “Io non ho messo di mezzo nessuno, io ero a fa’ una gita, dove vado sono affari mia, lei non si preoccupi.”. Ma poi i giovani hanno una mentalità diversa, i vecchi erano molto più paternalisti… “Comandi!”.

Una mattina ero lì sulla portineria e lui entrò, sai, alto, coi baffi, imponente, “Buongiorno” “Buongiorno” e lui mi disse “Vieni qua. Io il buongiorno non te l’ho dato, perché da te lo pretendo prima. Io la mattina quando mi alzo, io non ci faccio caso al mio cameriere che viene in camera la mattina se me lo dà prima lui o prima io, ma da te lo voglio prima.”, “Eh Vabbè, glielo darò prima.”

Era l’abitudine che avevano loro, ma fondamentalmente gli operai non stavano male.

Poi ebbero la sfortuna che loro non si rinnovarono e il prodotto andò sempre diminuendo. E poi entrò le macchine e ci furono i licenziamenti.

Non ci furono vere e proprie proteste. Era difficile. Anche gli scioperi noi si partecipava più che altro a quelli esterni.

I primi tempi che poi ci furono le scissioni che i sindacati andavano per conto suo era dura in cento persone uscire in due.

Ma col fatto che ero in commissione interna ero tutelato.

All’interno era difficile che si facessero scioperi. Essendo una fabbrica piccola… e poi loro avevano saputo stabilire un rapporto umano con la gente.

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Inizialmente il sindacato ci dava i soldi, ma non volevano che si sapesse “Un ti fa vede’ che prendi i soldi”. Poi dopo gli anni ’60-’70 li ritirava direttamente alla ditta e le cose cambiarono.

Però vertenze non n’ho mai avute, perché era molto difficile, sia anche per loro, ma anche perché negli stabilimenti piccoli è diverso, non è che sia facile. Poi c’era la manodopera femminile, saranno state novanta donne e noi s’era venticinque. Le donne sono più ricattabili, più deboli.

Però quando arrivava Natale faceva il pacco di natale poi faceva il regalo… questo era un retaggio del fascismo… la befana con i figlioli. E durò fino al dopoguerra.

E siamo stati, anche quando ci sono state queste storie, a mangiare tutti assieme. Non era tanto brutto.

Loro facevano il loro interesse, però riconosco che anche quando ci furono questi licenziamenti, era difficile dire no.

L’unica cosa che chiedevi era di sfruttare la cassaintegrazione.

Ci fu un periodo di crisi. Misero su anche un allevamento di faraone, poi alle Quattro Strade comprarono un podere.

Gianfranco anche con gli allevamenti ci seppe fare, poi il fratello vide lui e mise gli allevamenti anche lui e quell’altro venne via.

Quella ditta lì, quando era dei figli di Luzio Crastan una parte era dei Crastan che erano qui a Pontedera, poi c’era il babbo che aveva una villa a Vicopisano.

La Crastan è nata prima del ‘900, verso il 1870. Questi rami di parenti che abitavano a Crema, poi tornarono a Merano. Insomma, ognuno c’aveva un po’ la sua percentuale.

Loro sono andati bene fino agli anni ’60. Poi quando cominciò il boom economico allora cercarono anche di mettersi con altre ditte.

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Qui c’era a Empoli, a Ponte a Elsa, c’era la Vecchina, facevano la Vecchina. E allora si doveva andare tutti noi a Ponte a Elsa. Avevano già fatto l’accordo, poi all’ultimo momento ruppero e poi incorporarono una ditta di Milano. La Fago, poi un’altra ditta, non mi ricordo. Però anche lì erano tutte ditte all’esaurimento.

Poi riuscirono a riprendersi con la diversificazione del prodotto.

Cominciarono a lavorare la fecola.

Cominciarono a farla per terzi, poi incominciarono ad etichettarla anche per loro. A fare il bicarbonato. In un primo tempo lo prendevano alla Solvay, poi lo facevano venire dalla Germania dell’est.

Poi dopo il bicarbonato incominciarono a fare l’effervescente, poi si allargarono. Misero un impianto per fare il solubile.

Prima con una carrettina si andava a prendere la legna, quando avevo 14-15 anni, poi addirittura, perché tutta la roba che veniva venduta veniva messa negli imballaggi di legno, allora comprava tanto legname, tutto pino, e mise una segheria. Prima ne fece entrare una dentro, l’affidò a una ditta che già ce l’aveva, poi non si trovavano d’accordo e ne mise una lui. Faceva tutto lui. Facevano gli imballaggi. Poi cambiò legno, poi il cartone.

Poi fanno anche il the, la camomilla. Quando c’ero io la prendevano a Porcari già fatta, con le scatole già complete che mandavano via.

A Pontedera ha avuto una storia. C’era l’archivio. Io mi ricordo anche che nell’ufficio c’erano delle vecchie fotografie.

Poi lo stabilimento bruciò, perché c’era i pavimenti di legno.

Lavorando la roba col fuoco … così bruciò tutto. Mi pare nel ’16.

La guerra è stato il boom. Lavoravano anche per le forze armate.

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Poi, quando successe… nel ’44, bombardarono Pontedera. Lui tutta la roba che aveva la portò a Vicopisano, dove c’era il nonno.

Lo stabilimento, c’era una bella ciminiera, fu minato. Poi prese delle cannonate sul davanti, dove c’è la strada. C’era le mine anche dentro.

Io perché andai a lavora’ a 15 anni… Nel ’44 ritornai dallo sfollamento e avevo un cugino che lavorava da un falegname e mi disse: “Vieni a aiutarmi, mi scaldi la colla.” E c’era da ripara’ tutte le finestre, rimette’ a posto le porte… Si cominciò subito.

Infatti io penso che loro cominciarono a lavorare gli ultimi del ’45, i primi del ’46. Parecchia roba la fece tornare da dove l’aveva mandata.

S’è tostato tante pere secche, fichi secchi, carrube. Di tutto ci veniva messo. Quelle quasi rare erano le ghiande, l’orzo, più di tutti l’orzo.

Infatti l’orzo andavano a caricarlo a Genova, a Livorno e veniva messo a stiva. Poi un operaio andava lì, lo prendeva, lo metteva in queste sfere e veniva torrefatto. Ora sono diverse. Quando venni via io ce n’era sempre una. Ci andavano 4 quintali e mezzo.

Poi hanno comprato un altro dove veniva fatto sempre l’orzo, e era collegato con la stanza del solubile. Era fatto a cono, lungo.

L’altro era più a sfera. Poi con la spalla,c’era uno scalino e si montava, c’era questa palla. Ci si metteva un puntello, questa palla di ferro si fermava, e si apriva lo sportello. Dopo averla votata ci si rimetteva il materiale dentro. Poi quando era pronta ci si andava con un carretto sotto e la rovesciavi in terra e con la pala…

Ora c’è un cassone tondo con la rete. Con dei bracci che girano e sotto c’è un aspiratore. Poi quando è pronto, che è raffreddato apri e lo mandi al mulino. Lo prende, lo macina, va sopra, lo manda di qui, A scuola sono andata fino alla quinta elementare e a 14-15 anni circa

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sono andata a lavorare perché eravamo tre figli in famiglia e comunque a quei tempi mandavano a lavorare presto.

lo manda di là.

Però la parte più bella era quando ci lavoravano tutte queste donne.

Novanta donne tutte a questi tavoli. Erano dove sono le macchine.

Poi ogni tanto c’era una specie di box. Ci stava un impiegato e più c’era un altro più piccolo e ci stava il finanziere. E allora chiamavano “Donne al peso!”. Sicché andavano con dodici pacchettini, o sei secondo che roba è, con le bilance. Se ce n’era troppo o meno ti brontolavano. E allora loro cosa facevano:

qualcheduna, di quello che era pesato buono, lo metteva lì e quando richiamava lo riportava quello lì. Ma anche loro se ne accorgevano.

C’erano un po’ di malizie da ambo le parti. C’era questi controlli qui, con il peso.

Poi quando veniva la roba, o doveva uscire per esser mandata nei vari posti, dove c’erano i rappresentanti, poi avevano i camion loro, la portavano in alt’Italia, c’era un finanziere e poi veniva un ufficiale dell’utif. Controllavano quanta roba usciva e entrava.

Nei confronti di quelle che erano le condizioni dei lavoratori e degli operai nella nostra città, di Pontedera, ha avuto fortuna che era una cittadina industriale. I lavori erano tutti manuali, con le tessiture, i cucirini, ombrellifici, cordifici, però gli operai della Crastan erano quelli trattati meglio. Mi riferisco a prima della guerra. Nel dopo guerra… ma non erano trattati male, erano rispettati. In certi posti ti offendevano.

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Intervista a Maria Marrucci, 18 dicembre 2003.

Mi chiamo Marrucci Maria e sono nata a Pontedera.

Ho lavorato, lavorato tanto, e a 22 anni mi sono sposata e ho avuto due figli.

Il mio babbo era operaio alla Piaggio, e mia mamma casalinga.

Poco prima di entrare a lavorare alla Crastan sono stata in un cordificio, dal Billeri, che erano miei parenti.

Comunque intorno ai 14-15 anni sono entrata in Crastan, i primi giorni del 1947.

All’inizio ho fatto l’impacchettatrice. A quei tempi si lavorava tutto a mano, perché le macchine sono arrivate dopo, verso il 1959-1960.

C’erano delle forme dove venivano messi questi pacchetti, scatole vuote che noi riempivamo.

La Crastan produceva i surrogati. Tutti. Il surrogato del caffè, i principali erano l’orzo e la cicoria e poi un prodotto, che si chiamava

“Moretto”, che era fatto con la melassa. Poi il “Bricco” che era fatto con i cereali, tra cui l’orzo, con l’aggiunta della frutta, mele, pere, prima essiccate e tostate.

La tostatura e la macinatura avvenivano in Crastan ed erano gli uomini che se ne occupavano. Il lavoro degli uomini era molto faticoso… un vero e proprio lavoraccio.

Le donne erano impiegate esclusivamente all’impacchettamento.

Quando entrai, nel 1947, eravamo più di cento donne e gli uomini circa una ventina.

Era un lavoro faticoso, specialmente per le ragazzine giovani, perché venivamo impiegate anche l’impacchettamento della melassa, le cui

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forme erano grandi e pesanti e dovevano essere battute per far sì che il peso del pacchetto fosse quello prestabilito.

Infatti, c’era la Finanza che veniva a controllare il peso. Noi avevamo il compito di fare un cero numero di pacchi che la finanza pesava su delle bilance, per poi ritornare dopo lo stesso numero di pacchi pronti. Infatti, alla fine, ai pacchetti veniva messo un bollo.

Il lavoro non era assolutamente pericoloso.

Tutto cambia quando sono arrivate le macchine, nel 1959-60, specialmente all’inizio, perché non eravamo abituati, bisognava starci attenti.

Le macchine facevano tutto loro, riempivano, chiudevano, avvolgevano tutto praticamente.

Poco dopo, intorno al 1965, sono arrivate altre macchine, sempre più sofisticate, diciamo perfette.

Le prime macchine riempivano solamente i pacchetti e li avvolgevano nella carta.

Ma non tutte le sostanze venivano impacchettate con lo stesso materiale. La melassa, infatti, era avvolta nella stagnola, perché, come la cioccolata, si induriva con il freddo e si scioglieva con il caldo.

E quando vennero le macchine cominciarono i licenziamenti. Una volta adottate le prime macchine, non rimpiazzarono le operaie che andavano in pensione, e i veri licenziamenti ci furono dopo l’acquisto dei macchinari più sofisticati.

Davanti ad una di queste macchine ci stavano tre donne che facevano il lavoro di trenta donne di prima. Molti furono i licenziamenti e comunque non sostituirono le donne che andavano in pensione, e ce n’era parecchie, perché quando entrai alla Crastan nel 1947,

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assunsero anche donne anziane, perché all’epoca non esistevano limiti d’età.

I macchinari arrivarono anche nei reparti della macinatura e della tostatura, dove lavoravano gli uomini. Anche loro furono colpiti dai licenziamenti ma in misura minore.

Con i macchinari aumentò tantissimo la produzione.

Una volta tentarono di fare altre cose tipo dei coloranti per capelli, ma durò pochissimo, perché non era un prodotto legato alla Crastan, toccava un mercato troppo diverso. Non ricordo però gli anni precisi, comunque intorno ai primissimi anni ’70.

Si facevano anche le tovaglie di plastica. Anche io ho lavorato alla fabbricazione delle tovaglie. Per farle comprarono degli stampi. In un primo tempo si davano come regalo ogni quei tanti prodotti che venivano consumati e poi le vendevano, anche perché all’inizio degli anni ’70 la tovaglia di plastica era una novità. Erano tutte di un colore con dei fiori stampati.

Poi come premi si spedivano serviti, oggetti vari anche belli, la maggior parte li ho spediti in Sardegna, dove si vede che i prodotti Crastan piacevano molto.

In seguito si fecero anche i cappelli di plastica, che però non incontrarono per niente il favore della gente.

Ho cambiato vari reparti in Crastan, prima all’impacchettamento, poi alle tovaglie e anche in tipografia.

In tipografia si stampavano tutti gli involucri. Veniva stampato anche il cartone che serviva ad impacchettare alcuni prodotti, la cosiddetta “fustellazione”, cioè piegare lungo delle linee già segnate il cartone, per creare una scatola.

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Un altro reparto era quello dove la carta per gli involucri e i cartoni per le scatole venivano tagliati con delle taglierine.

La Crastan vendeva in tutta Italia.

Il mercato più difficile era il nord e infatti, nel 1976-77, si fuse con due ditte di Varese.

Erano ditte più piccole e non avevano il ciclo completo della produzione.

Fondendosi con la Crastan non dovevano più comprare certi prodotti da altre ditte, pagandoli di più, perché era la Crastan stessa a rifornirle.

Ma non molto tempo dopo la Crastan tornò da sola.

Ho lavorato in Crastan fino alla pensione. Ma anche io fui licenziata quando ci fu quello in massa, vi restarono dentro solo quattro o cinque donne, nel 1976. Fu un insieme di cose, le macchine sempre più sofisticate e un periodo in cui calarono molto le vendite. Dopo un anno circa mi ripresero.

Non fummo in tante ad organizzare un po’ d’agitazione per questi licenziamenti di massa, anche perché il rapporto con i padroni era quasi fraterno. Non c’è mai stata distanza tra noi e loro.

Un grande sciopero di massa lo facemmo quando volevano trasferire la Crastan, non entrò nessuno, eravamo intorno ai primi anni ’80, quando la fabbrica non andava tanto bene. Facevo parte della commissione interna e ricordo che il giorno dopo una riunione a Pisa con l’Unione degli Industriali, trovai la lettera di licenziamento.

Comunque licenziarono tutti, senza troppe distinzioni politiche, perché la Crastan era una fabbrica dove bisognava lavorare, e se uno lavorava bene, di qualsiasi fede politica, era ben visto.

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