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L eucaristia, sorgente di una morale a favore della creazione, della vita e del povero

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Academic year: 2022

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L’eucaristia, sorgente di una morale

a favore della creazione, della vita e del povero

La Chiesa crede di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. GAUDIUM ET SPES

Die äußeren Wüsten wachsen in der Welt, weil die inneren Wüsten so groß geworden sind. Deshalb dienen die Schätze der Erde nicht mehr dem Aufbau von Gottes Garden, in dem alle leben können, sondern dem Ausbau von Mächte der Zerstörung. BENEDETTO XVI

La Chiesa trae il suo centro da due tavole, quella dell’eucaristia quaggiù e quella del banchetto del Regno di cui si parla nella tradizione sinottica (cf. Mt 26, 29; Mc 14, 25; Lc 12, 37; ecc.).

Alla prima come alla seconda è presente l’unione personificata e consumata tra Dio e l’uomo, il Crocifisso risuscitato, unione in stato di dono di sé poiché il Risorto, evidentemente in modi diversi a seconda dell’escatologia parzialmente o pienamente realizzata, si offre come cibo e come bevanda e dota i credenti dello Spirito che li fa gridare “Abba, Padre” (cf. Gal 4, 6; Rm 8, 16).

Così i credenti appaiono già in questo mondo come i membri della “casa di Dio”

(cf. Ef 2, 19), della sua “famiglia” (cf. Ef 3, 14-15) e sono destinati ad una unione ancora più intima con lui dove proprio “Dio sarà in tutti” (1 Cor 15, 28).

Tra queste due “tavole”, c’è l’agire cristiano (“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva…” Gv 14, 21) che si presenta come una realtà di quaggiù aperta sull’al di là. Questo agire è consolidamento e approfondimento dell’unione in tensione verso il suo compimento nell’eone escatologico. Si vuol dire che alla base della morale sorta dall’eucaristia, c’è come un punto di appoggio, un nocciolo duro, un luogo di stabilità, che permette di agire con perseveranza a dispetto degli ostacoli del “mondo” e di agire con la certezza di pervenire allo scopo desiderato. L’àncora gettata nei cieli resi presenti nel sacramento (cf. Eb 6, 19) fa sì che la barca della morale cristiana scossa violentemente dal mare in burrasca del nostro mondo sia una barca che saprà, malgrado tutto, evitare gli scogli e arrivare al buon porto. La morale cristiana

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originata dall’eucaristia è dunque ricollegata ad una palafitta piantata nell’eternità e resistente alla tentazione dell’indietreggiamento (cf. Eb 10, 39).

Detto questo, è possibile innestare su questa trama di fondo o su questa morale della tenacità dei tratti ancora più specifici? Per fare questo, ci si potrebbe ispirare ad alcuni elementi costitutivi dell’eucaristia — essa è pane/ di vita/ per il mondo — e dei loro rapporti con alcune temibili sfide che si presentano al giorno d’oggi: la crisi ecologica (1), la bioingegneria (2) e la povertà endemica (3) del nostro pianeta. Vediamo se questa ipotesi di lavoro è sostenibile.

1. La morale che emerge dal rapporto tra il pane eucaristico e l’ecologia Senza parlare di loro antecedenti, per così dire, storico-cultuali (per esempio nella comunità di Israele), il pane e il vino sono annoverati tra le creature inanimate più nobili del nostro universo. Per convincersene, basta contemplare un campo di grano maturo al sole e una vigna all’apice della sua maturazione, spighe e uve che, mediante l’intervento dell’arte dell’uomo, diventeranno pane e vino delle tavole degli uomini. Siamo dunque di fronte ad una sorta di compendio dell’opera creatrice di Dio. In quanto luogo nel quale si condensa, per così dire, la bontà del mondo materiale e nel quale si manifesta la missione affidata all’uomo di rifinire la creazione e di modellarne le potenzialità secondo i bisogni umani, il pane e il vino diventano prima l’espressione per eccellenza dell’offerta della Chiesa a Dio, e poi, grazie alle parole dell’istituzione, il “pane del cielo” e il “calice della salvezza”.

Questo uso per così dire “sacro” della creazione attraverso l’offerta eucaristica spinge i cristiani ad impegnarsi per il rispetto del loro ambiente e per lo sfruttamento equilibrato delle sue risorse. Vi è come una esigenza inerente al loro comportamento eucaristico. I cristiani coscienti di ciò che significano le parole: “Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo, li presentiamo a te…” non possono sentirsi a loro agio di fronte alla violenza attuale inflitta al mondo materiale. A questo proposito, la situazione è infatti tragica1.

Ora sappiamo che i 6 famosi gas emessi dall’industrializzazione degli ultimi decenni (l’anidride carbonica, il metano, il protossido d’azoto, i

1 Nell’omelia della messa inaugurale del suo pontificato (24 aprile 2005), Benedetto XVI attribuisce questa situazione a ciò che egli chiama i « deserti interiori ». Ho citato questo testo secondo l’originale nel secondo esergo della presente riflessione.

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clorofluorocarburi, i perfluorocarburi e l’esafluoruro di zolfo) producono un riscaldamento dell’atmosfera e delle alterazioni climatiche dalle quali potrebbero scaturire delle catastrofi (inondazioni frequenti e imprevedibili, innalzamento del livello del mare da 0 a 5 metri, uragani con venti che arrivano fino a 250 km/h, ecc.) minacciando, a più o meno breve scadenza, la natura e la vita di milioni di persone, soprattutto nelle regioni più abitate del pianeta.

Più immediatamente percepibile da ognuno di noi è lo smog dei medi e grandi centri urbani. Questo smog composto tra le altre cose da polveri fini estremamente nocive per l’organismo umano è dovuto in gran parte alla “vacca sacra” (Lewis Momford) che è l’automobile. È impressionante pensare che il gregge di queste “bestie” – per restare all’immagine di Momford – comprende ad oggi 600 milioni di teste e raggiungerà l’esorbitante numero di un miliardo e mezzo prima che l’idrogeno sia alla portata dei piccoli e medi consumatori2.

Di fronte alla grave questione della sopravvivenza del nostro pianeta e dei suoi abitanti, i cristiani coerenti con la loro fede eucaristica non possono restare indifferenti senza sentirsi toccati. L’abbiamo già detto. Ma la questione è ora quella di sapere che tipo di impegno implica questa vigilanza e in quale spirito debba essere messo in atto? Segnaliamo che la nostra risposta a queste domande mira a dei modi di agire, certo meno concreti che i comportamenti ritenuti necessari, per esempio, dai 141 paesi firmatari del Protocollo di Kyoto recentemente entrato in vigore (15 febbraio 2005)3, ma altrettanto efficaci di quest’ultimi, purché evidentemente siano presi davvero sul serio.

Un primo atteggiamento è la meraviglia di fronte allo splendore del

“giardino” che il Creatore ha preparato per l’uomo. Non è invano che il racconto yahvista della creazione precisa che “il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (Gn 2, 8). Senza parlare del fascinosum che l’immagine del “giardino” risveglia spontaneamente nel cuore dell’uomo4, l’espressione serve senza dubbio per tradurre la bellezza e la bontà

2 Segnaliamo en passant che l’avvento dell’idrogeno non risolverà che parzialmente il problema in quanto le polveri inquinanti emesse non sono attribuibili ai gas di scarico dell’automobili se non nella proporzione del 30 o 40 %. Il resto viene dal traffico, cioè dall’attrito dei freni, dalla circolazione dei pneumatici, ecc.

3 I 39 paesi industrializzati che ne fanno parte si sono impegnati a ridurre, entro 2012, l’emissione di gas produttori dell’effetto serra sotto il livello del 1990. Concretamente questo ideale potrà essere raggiunto tramite il miglioramento dell’efficacia delle centrali e dei motori elettrici, il risparmio energetico, la sostituzione degli idrocarburi come fonti rinnovabili, lo sviluppo della superficie delle foreste che assorbono il CO2.

4 Sarebbe interessante approfondire il significato socio-culturale del “giardino” nelle diverse civilizzazioni. A mia conoscenza, questo studio non esiste ancora. Una espressione visiva di

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(cf. Gn 1, 4.10.12.18.21.25.31) dell’opera del Creatore in cui sono causate e disposte le strutture fondamentali del nostro universo (cielo, terra, mare, ecc.) secondo un processo di evoluzione selettivo che copre, come oggi sappiamo, milioni di anni. In questo contesto, il ricordo dell’inno di lode di Ben Sira rapito, per così dire, per la potenza e l’arte di Dio è particolarmente indicato.

Leggiamone qualche versetto:

Chi si sazierà nel contemplare la sua (del Creatore) gloria? Orgoglio dei cieli è il limpido firmamento, spettacolo celeste in una visione di gloria! Il sole mentre appare nel suo sorgere proclama: «Che meraviglia è l'opera dell'Altissimo!». […]

Anche la luna sempre puntuale nelle sue fasi regola i mesi e determina il tempo…

Da essa il mese prende nome, mirabilmente crescendo secondo le fasi. È un'insegna per le milizie nell'alto splendendo nel firmamento del cielo. Bellezza del cielo la gloria degli astri, ornamento splendente nelle altezze del Signore. Si comportano secondo gli ordini del Santo, non si stancano al loro posto di sentinelle. Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l'ha fatto, è bellissimo nel suo splendore. Avvolge il cielo con un cerchio di gloria, l'hanno teso le mani dell’Altissimo. […] Potremmo dir molte cose e mai finiremmo; ma per concludere: «Egli è tutto!». Come potremmo avere la forza per lodarlo? Egli, è il Grande, al di sopra di tutte le sue opere. (Sir 42, 25b; 43, 1-2.6.8-12. 27-28)5.

Strettamente legata a questa meraviglia vi è la ri-conoscenza compresa non solo come azione di grazie, ma anche come permeabilità al tremendum, al timor reverentialis. Come potrebbe tanta grandezza e tanta bellezza, per di più data per amore, non soggiogare l’uomo e non condurlo all’adorazione?

Meraviglia e riconoscenza, ecco dunque due atteggiamenti interiori che rendono difficile, se non impossibile, oltraggiare la creazione e appropriarsene come fosse un puro campo di sfruttamento selvaggio. Certo, Dio affida all’uomo il compito di “sottomettere la terra” (cf. Gn 1, 26. 28). Sappiamo che questo versetto, anche di recente, ha fatto scorrere molto inchiostro e ha condotto alcuni ad accusare il cristianesimo, nel suo sforzo di “demitizzare” il mondo creato e restituirlo alla sua consistenza di semplice creatura, di averlo ridotto ad un puro oggetto passibile di ogni abuso. Diventa così necessario comprendere bene questo passo scritturistico. “Sottomettere” non significa qui fare del mondo

questo fascinosum si trova nel quadro dell’austriaco Peter Wenzel (1742-1829) che si può ammirare nella Pinacoteca del Museo Vaticano. Cf. AA.VV., Pinacoteca Vaticana, Fabbri Editori, Roma, 1992, 400s.

5 Potremmo citare molti altri testi della Scrittura. Tra i tanti, questi versetti (1.4-5.8-9) del Sal 146 per esempio: “È bello cantare al nostro Dio, dolce è lodarlo come a lui conviene. […] Il Signore conta il numero delle stelle, e chiama ciascuna per nome. Grande è il Signore, onnipotente, la sua sapienza non ha confini. […] Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’erba sui monti. Provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che gridano a lui…”

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animale o, di riflesso, del mondo circostante (vegetale e minerale) un oggetto di cupidigia e di sfruttamento. L’espressione richiama piuttosto, secondo C.

Westermann, una gestione in cui l’elemento personale occupa il primo posto6. Il teologo J. Ratzinger non è lontano dall’esegesi scientifica quando, commentando gli stessi versetti ed opponendosi ad una creazione “prodotto dell’uomo” alla maniera di Marx e di Bloch, parla di “prendersi cura del mondo come creazione di Dio seguendone il ritmo e la logica”7. È come dire che la

“gestione” di cui stiamo parlando, “gestione” esercitata secondo ciò che è proprio dell’uomo ed in conformità con le leggi interne al creato, si accorda pienamente al timor reverentialis richiamato più sopra.

Per questo verso, ritorniamo a quello che dicevamo all’inizio di questo paragrafo sulla preparazione del pane e del vino delle nostre tavole umane e ne identifichiamo ora meglio le componenti. In questo processo, l’uomo si serve della creazione per la sua sussistenza sottomettendosi, per così dire, al dinamismo interno ai chicchi di grano e ai prodotti della vigna e mettendo in opera la sua arte fatta di intelligenza, di esperienza secolare, di abilità rispettosa della materia da modellare, ecc. Dunque nessun saccheggio, nessun progresso per il progresso, ma uso della creazione misurato ai bisogni reali dell’uomo. Non creazione-oggetto passibile di manipolazioni stravaganti e devastatrici, ma creazione riconosciuta nella sua consistenza propria e trasformata nella linea delle sue potenzialità. Ecco dunque come il pane e il vino, espressione, nella loro consistenza e nella loro fattura, dell’offerta della Chiesa assunta poi dal Cristo nella sua oblazione pneumatica al Padre, indicano ai credenti come comportarsi di fronte ad una delle crisi più temibili della nostra epoca.

6 Spiegando il v. 28 con il versetto 26, scrive tra il resto: “Wohl aber gibt dieser Satz 26b zu erkennen, daß die eigentliche und bestimmende Verhaltensweise des Menschen zu seiner Außenwelt die zu den übrigen Lebewesen ist; und das bedeutet: die Verhaltensweise, an der das personale Element am stärksten beteiligt ist” C. WESTERMANN, Genesis. Kapitel 1-11, Neukirchen-Vluyn, Neukirchener Verlag, 19762, 220.

7 J. RATZINGER, Creazione e peccato, Cinisello Balsamo (MI), Éd. Paoline, 19872, 30.

L’autore fa così eco alla diagnosi che fornisce più sotto sul modo odierno di concepire i rapporti tra “natura/attività dell’uomo”: “Prima l’uomo poteva trasformare solo determinate cose della natura. La natura in quanto tale non era oggetto, bensì presupposto della sua azione.

Ora la natura stessa nel suo complesso è nelle sue mani […]. Il punto di partenza sta in quel atteggiamento che vede la creazione solo come un prodotto del caso o della necessità. La creazione non ha di per sé alcun diritto e non può fornire alcuna indicazione. È messo a tacere il ritmo intrinseco di cui ci parla il racconto della Sacra Scrittura, e il ritmo dell’adorazione, che è il ritmo della storia d’amore di Dio con l’uomo” (Ibid., 32-33).

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2. Una morale che emerge dal rapporto tra il “pane di vita” e il “calice della salvezza” e la bioingegneria

Una volta trasformati nel corpo e sangue di Cristo tramite le parole dell’istituzione, questo pane e questo vino divengono “pane di vita” e “calice di salvezza”. Che cos’è questa “vita” e come può ispirare un impegno cristiano in favore della vita?

La “vita” di cui qui si tratta è di tutt’altra natura di quella che esiste nel mondo di quaggiù, vita che comprende da parte sua diverse categorie specificamente distinte le une dalle altre: vita vegetale, vita animale e vita umana. Nella nostra espressione si tratta della vita propria di Dio, vita di cui parla san Giovanni chiamandola ζωή (cf. Gv 1, 4; 3, 15. 36; 5, 24; ecc.) per distinguerla dalla ψυχή,
la vita del nostro mondo. Questa vita divina è eterna e il suo vigore non conosce cedimenti o, per dirla con le parole di Isaia, “non si affatica né si stanca” (Is 40, 28)8. La consistenza esatta di questa vita va, per restare collegati alla tradizione giovannea, nel senso di una nuova esistenza dovuta ad una “generazione” divina (cf. Gv 1, 13; 3, 11; 1 Jn 3, 2) che implica delle relazioni personali con il Padre e il Figlio e una comunione con loro9.

“Realtà divina” in senso stretto, essa si situa al di là di ciò che la creazione può offrire in termini di vitalità. Solo la vita dei santi può quaggiù rivelarcene qualche aspetto.

Dalla Genesi all’Apocalisse, la Scrittura non cessa di parlare della potenza della vita divina. Ma il discorso raggiunge il suo punto culminante quando Paolo, per esempio, parla della vita che strappa Gesù dalla morte della tomba (cf. 1 Cor 15, 54s). Anche qui, tutti i parametri umani sono superati, poiché nessuna forza di quaggiù, per quanto potente sia, può far ri-vivere un cadavere.

Si può parlare dell’arte medica che ridà vita ad un uomo quasi morto. Ma appunto “quasi morto”… perché una volta varcata la soglia della morte, non vi è più possibilità di ritorno.

8 “Für das leiblichirdische Leben gebraucht Joh konsequent die Vokabel ψυχή, die in den Jesuslogien der Syn auch die wahre, unvergängliche Existenz bezeichnen kann (...), während er ζωή (αἰώνιος) ebenso konsequent dem wahren, göttlichen Leben vorbehält”. E ancora:

“Βίος, das im Profangriechischen mit ζωή wechseln kann, vermeidet er als Ausdruck für

“Leben” wie die meisten ntl. Schriftsteller (anders “Lebensunterhalt, Vermögen ” in 1 Joh 2, 16; 3, 17). Die ζωή ist für ihn ein fester Begriff der religiösen Sprache geworden” R.

SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium (HThKNT., IV/2), Freiburg-Basel-Wien, 19803, 436.

9 Cf. R. SCHNACKENBURG, Ibid.

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Ora è di questa vita propriamente divina e vittoriosa sulla morte che si tratta nell’eucaristia. Al centro del “giardino” delle origini infatti, c’era l’albero della vita (cf. Gn 3, 22) dai frutti resi mortali in seguito alla decisione dell’uomo di farsi “dio” da se stesso (cf. Gn 3, 1-7). Al centro del “giardino” dei tempi nuovi (cf. Gv 19, 41), riposa il corpo del Crocifisso (cf. Fil 2, 6)10, che poi si erge vivente nelle piaghe della sua offerta al Padre (cf. Gv 20, 20. 27; Lc 24, 16;

Ap 6, 5)11. Da queste piaghe scaturiscono i “misteri” (Giovanni Crisostomo) portatori di vita eterna (cf. Gv 19, 34; 6, 51. 54. 58), frutti abbondanti dello stelo che germina dal chicco di grano caduto in terra (cf. Gv 12, 24)12.

10 Che è, sicuramente per obbedienza, l’espressione per eccellenza della malizia dell’albero del paradiso.

11 L’Apocalisse parla dell’“albero di vita” che è piantato nel “paradiso di Dio” (cf. Ap 22, 2;

2, 7). Possiamo forse vedervi un’allusione alla Croce gloriosa o al Crocifisso risorto, il che avrebbe come conseguenza di estendere la portata della nostra riflessione fino all’escatologia pienamente realizzata, come del resto vi allude già la nostra menzione dell’offerta eterna del Figlio ? Si sa che l’iconografia cristiana, espressione figurativa della riflessione teologica in corso, si è orientata in questo senso (cf. "Baum” (J. FLEMMING) nel Lexikon für der christlichen Ikonographie, Herder, Rom-Freiburg-Basel-Wien, 1974, col. 260s). Nonostante questo dato tradizionale, Prigent scrive: “Il faut bien reconnaître que rien n’invite à ce symbolisme ni dans notre texte (2,7) , ni dans les autres mentions de l’arbre de vie contenues dans l’Apocalypse” P. PRIGENT, L’Apocalypse de saint Jean (CNT. XIV. Deuxième série), Genève, Labor et Fides, 2000, 124.

12 È dunque con ragione che J. Ratzinger termina la sua Via Crucis al Colosseo (Venerdì santo 2005) con queste parole: “Über dem Begräbnis Jesu leuchtet das Geheimnis der Eucharistie”, Città del Vaticano, LEV, 2005, 100. Riguardo all’espressione di Ap 2, 7: “mangiare dell’albero della vita”, Prigent, che non esclude la dimensione sacramentale dell’espressione, scrive: “Telle est bien l’interprétation (sacramentelle) d’Origène pour qui le Christ lui-même est l’arbre de vie, ou plutôt l’accomplissement de ce que l’arbre de vie paradisiaque annonçait prophétiquement (Homélie sur le Cantique, 2,6). C’est pourquoi les chrétiens sont dès à présent invités à s’attabler dans le Royaume du Père pour y manger de l’arbre de vie et boire le vin de la vraie vigne. (Homélie sur la Genèse, 16, 4)” (Ibid., note 26).

In un altro ordine di idee, Teodoro «lo Studita» pensa giustamente ciò che segue: “È un albero che […] apre adito al paradiso, non espelle da esso. Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno. Su quel legno sale il Signore come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre levidure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso” 2o Disc. sull’adorazione della Croce (PG 99, 692). Più vicino alle nostre riflessioni, leggiamo ancora questo bel testo di s.

Efrem: “Tu ora certo vivi. Coloro che ti hanno ucciso hanno agito verso la tua vita come gli agricoltori. La seminarono come frumento nel solco profondo. Ma di là rifiorì e fece risorgere con sé tutti” Disc. Sul Signore, 9 (Opera, ed. Lamy, Malines, 1882, 1, 168).

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Alimentati da questa vita cristico-filiale13, si comprende che i credenti si considerano chiamati al servizio della vita, compito che può esercitarsi in diversi modi secondo la sorte che si fa subire alla vita. Che significa?

È incontestabile che le ricerche mediche degli ultimi decenni hanno migliorato considerevolmente la qualità della vita umana. Pensiamo all’identificazione di numerose malattie e alla messa a punto di nuovi trattamenti che rendono queste malattie degli incidenti di percorso piuttosto che delle cause di sofferenza e di morte. È ragionevole pensare che molte altre malattie, oggi fatali, avranno la stessa sorte. I credenti nutriti dal “pane di vita” non possono che rallegrarsi per questi progressi e contribuirvi se ne hanno l’opportunità e la competenza.

Ma questo non è che un lato della medaglia. Potendo disporre di risorse finanziarie considerevoli, di una tecnologia supersofisticata e di scoperte importanti sulle componenti della genetica umana, molti tra i “scienziati” sono più che mai tentati14 di mettere le mani sulla vita umana e di modellarla a loro immagine e somiglianza. Al di là dell’imballaggio, che abitualmente si cerca di rendere attraente evocando motivi come la messa a punto progressiva di trattamenti efficaci di malattie incurabili, vi è il contenuto del pacco che è parecchio meno rutilante15. In molti casi infatti, la ricerca di questi “scienziati”

passa, per esempio, dall’uso di embrioni soprannumerari, congelati e oggetto di ogni tipo di manipolazione, ivi compresi il loro accoppiamento con dei geni di tipo animale16. Passa anche dalla clonazione di essere umani e da tante altre strade tenute accuratamente segrete dai “sommi sacerdoti” di questi nuovi templi che sono i laboratori della bioingegneria.

Nello stesso contesto di attentato alla vita, bisogna anche segnalare i milioni di aborti praticati annualmente nel mondo in tutte le fasi della gravidanza e giustificati, con il pretesto del benessere della persona e del suo

13 Per maggiori dettagli su questo punto, vedere il nostro «Mais moi, je vous dis…» L’agir excellent, spécifique de la morale chrétienne, Montréal, Fides, 2005, 101-104.

14 Con l’appoggio di poteri politici spesso sottoposti alle pressioni di potenti “lobby” di ogni genere.

15 Oriana Fallaci è ben lontano d’aver torto quando scrive: “Dimmi se queste ricerche in apparenza fatte per guarir le malattie in realtà non puntano a qualcosa che assomiglia molto all’hitleriano sogno d’una società composta soltanto di biondi con gli occhi azzurri. Dimmi se col pretesto della terapeutica la Scienza e il Progresso non contemplano un mondo di super- uomini e super-donne da fabbricare nei laboratori” O. FALLACI, Noi cannibali e figli di Medea, in Corriere della Sera, 03.06.2005, p. 9.

16 Cf. M. GAGGI, Topo con cervello umano, la nuova chimera, in Corriere della Sera, 12.05.05, 22.

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entourage, dai motivi più stravaganti. Bisogna ancora segnalare la pratica sempre più frequente dell’eutanasia presentata come un servizio reso all’uomo visto che non può, nella sua dignità, doversi sottomettere ad una sofferenza lunga e intensa, né, divenuto paziente incurabile, imporre dei carichi onerosi alla sua famiglia e alla società17.

Di fronte ad un tale accanimento contro la vita, i credenti, convitati alla tavola eucaristica, si sentiranno toccati in prima persona. E come? Oltre alla necessità per coloro che ne possiedono la competenza di promuovere delle ricerche più rispettose dell’uomo e di essere su questo punto alla caccia o, se possibile, all’origine di soluzioni alternative, vi è l’obbligo più generale di suscitare una mentalità, un clima favorevole alla vita.

Un primo atteggiamento a questo riguardo è l’ammirazione provata di fronte a tutte le manifestazioni di vita, vegetale, animale o umana. La meraviglia avvertita davanti alle une ricade per forza sulle altre. È così che un credente che restasse freddo o indifferente di fronte alla vitalità di una rosa appena sbocciata, difficilmente sarebbe permeabile alla vitalità che appare nel sorriso cristallino di un bambino ancora nella culla o nello sguardo luminoso di un anziano anche curvato dal peso degli anni e delle infermità. Vi è un legame profondo tra le diverse forme di vita. Insensibile al meno, si sarà difficilmente recettivi al più e inversamente. Promuovere la vita, significa essere coscienti di questa interdipendenza tra i diversi tipi di vita18 e capaci di viverne giorno dopo giorno.

L’entusiasmo di fronte alla vita è la condizione di possibilità della venerazione della vita. Onorare la vita significa metterla sempre e dappertutto al primo posto davanti, per esempio, al denaro, al prestigio e al potere…

Affermare questo non è inutile quando le risorse finanziarie rischiano di diventare, un po’ ovunque e curiosamente soprattutto nelle società opulente, il criterio di ammissione o meno delle persone di una certa età alle cure ospedaliere; quando la corsa alla fama è direttamente proporzionale alla profanazione delle leggi più elementari della vita umana; quando i senza-voce delle famiglie, delle nazioni, dei continenti sono abbandonati alla loro fragilità,

17 Per completare questo quadro, vedere il primo capitolo dell’Enciclica di Giovanni Paolo II Evangelium Vitae (AAS 87(1995), 408-433) e il mio commento: Les enjeux d’Evangelium Vitae. En guise d’introduction, in StMor 33(1995), 93-104. Vedere anche “Embrioni congelati” (M. FAGGIONI); “Clonazione - aspetti genetici” (G. RUSSO); “Aborto/ interruzione della gravidanza” (G. RUSSO); “Eutanasia” (G. FURNARI LUVARÀ), in G. RUSSO (a cura di), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, Leumann, Elledici, 2004, 812-815; 1-5; 469-473; 854- 859.

18 Che del resto trova una certa eco nella costituzione stessa dell’uomo.

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addirittura sottoposti alla tortura19, grazie al legalismo senza anima o al silenzio dei poteri politici. I cristiani nutriti dal “pane di vita” e dal “calice della salvezza” protesteranno vigorosamente tutte le volte che si troveranno di fronte ad una relativizzazione della vita a vantaggio dell’utilitarismo, dell’apparenza, dell’autoritarismo o dell’inerzia dei potenti di questo mondo. Protesta che, certamente, non si limiterà a smascherare, ma a proporre e a costruire.

Questo omaggio reso alla vita si ispira, come abbiamo appena detto, dall’eucaristia nutrimento “spirituale”. Ma si potrebbe arrivare allo stesso omaggio considerando il sacramento sotto un altro punto di vista, cioè nella sua costituzione di “segno”. La vita eterna trasmessa tramite il sacramento non cortocircuita la vita del nostro mondo anche se la supera infinitamente. Al contrario. Essa vi trova per così dire il suo supporto. Perché è nella fattura materiale del sacramento che la vita eterna trova come il suo stampo, la forma che l’esprime, il suo luogo di passaggio. Il pane e il vino sono degli alimenti, dunque delle realtà che sostengono la vita delle persone. Il Signore si serve di queste realtà non solamente per tradurre, ma anche per trasmettere la sua vita.

Queste considerazioni sul “pane di vita” e sul “calice della salvezza” dal “basso”

per così dire, confermano e consolidano i comportamenti morali da inno alla vita di cui abbiamo appena parlato20.

Ma il sacramento non è solo una fonte di vita divina che obbliga al rispetto di ogni vita, è anche una fonte di vita “per la moltitudine”.

3. La morale che emerge dal rapporto tra il pane eucaristico pro nobis e la fame nel mondo

Nel racconto sinottico dell’istituzione dell’eucaristia (cf. Mc 14, 24p), l’espressione “per la moltitudine” (ὑπὲρ
 πολλῶν) è collegata al sangue dell’Alleanza che il Cristo si appresta a versare sulla croce l’indomani, sacrificio di cui il sacramento è il “memoriale”. Dalla sua radice cristologica dunque,

19 Come l’ha mostrato la recente storia di Terri Schiavo.

20 Volendo mostrare come la carne dell’uomo, esclusa dalla salvezza dagli gnostici, riceverà, una volta dissolta nella terra, l’immortalità dalla potenza del Verbo di Dio, sant’Ireneo parla dell’eucaristia in questi termini: “ […] E come il legno della vite, collocato nella terra, porta frutto a suo tempo, e […], «il chicco di frumento caduto nella terra» e dissolto risorge moltiplicato in virtù dello Spirito di Dio che sostiene tutte le cose – e poi grazie all’abilità umana sono trasformati ad uso degli uomini e ricevendo la parola di Dio divengono Eucaristia, cioè il corpo e sangue di Cristo…”AH. V. 2, 3 (E. BELLINI eG. MASCHIO, Ireneo di Lione. Contro le eresie e gli altri scritti (Già e non ancora, 320), Jaca Book, Milano 21997, 414).

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l’eucaristia è un alimento, un pane e un vino essenzialmente per gli altri, per tutti.

Se è così, i credenti che la assimilano per esserne in realtà assimilati da essa, si vedono costituiti rivolti-verso-gli-altri, al servizio degli altri. È ciò che spiega senza dubbio l’indignazione di Paolo di fronte ai Corinti che approfittavano della tavola eucaristica per gozzovigliare alle spese degli altri membri dell’assemblea (cf. 1 Cor 11, 20s).

L’allusione a questo atteggiamento dell’Apostolo ci spinge a domandarci come mettere in opera i tratti altruistici dell’essere eucaristico del credente. Una risposta esaustiva a questa domanda richiederebbe lunghi approfondimenti impensabili nel presente contesto. Ci limiteremo a fissare l’attenzione, un po’

nella linea paolina, su un altro dramma che affligge il mondo d’oggi, il dramma della fame, interrogandoci sul tipo di comportamento che il pro nobis del pane eucaristico potrebbe al proposito inspirare.

“Il dramma della fame”? La parola non è troppo forte considerando la situazione mondiale della quale qui non possiamo offrire che qualche dato statistico.

Secondo il Bread for the World Institute, al dicembre 2004, 852 milioni di persone soffrivano la fame nel mondo: un aumento di 10 milioni a confronto con le cifre del 2003. Nei paesi in via di sviluppo, un miliardo e 200 milioni di persone vivono attualmente sotto la soglia della povertà fissata dalla comunità internazionale. Concretamente, queste persone vivono con meno di un dollaro al giorno. 153 milioni di bambini di età inferiore ai 5 anni hanno un peso inferiore allo stadio del loro sviluppo. 11 milioni di bambini muoiono prima dei 5 anni e la metà è a causa della fame. Potremmo allungare questo triste elenco aggiungendovi tutto ciò che questa povertà endemica comporta in malattie come le diarree di ogni genere, la malaria, l’alterazione delle vie respiratorie, ecc.21.

21 Per completare queste scarne informazioni, vedere le seguenti pagine web: « Pauvreté » (senza data) sul sito PopulationData.net : toutes les populations du monde. Pagina consultata il 21 aprile 2005. http://www.populationdata.net/pauvrete.html; Organisation des Nations Unies pour l’Alimentation et l’Agriculture : aider à construire un monde libéré de la faim (sans date). Sito consultato il 21 apriel 2005. « http://www.fao.org/indexfr.htm; « La sous- alimentation dans le monde. Dénombrement des victimes de la faim: dernières estimations », nella sezione « L’état de l’insécurité alimentaire dans le monde (SOFI) 2003 » sul sito Organisation des Nations Unies pour l’Alimentation et l’Agriculture… Sito consultato il 21 aprile2005.http://www.fao.org/documents/showcdf.asp?url_file=//docrep/006/j0083f/j0083f0 3.htm; « Carte de la faim dans le monde. Proportion de personnes sous-alimentées (1998- 2000) (senza data) sul sito Alimenter l’esprit, combattre la faim. Sito consultato il 21 aprile 2005 http://www.feedingminds.org/info/world fr.htm.

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Ma ci fermiamo qui notando tuttavia che le malattie di cui abbiamo parlato, conosciute e guaribili nel mondo sviluppato, sono, nei paesi in via di sviluppo, incurabili, direi anche mortali, a causa dell’inaccessibilità delle cure appropriate.

Di fronte all’ampiezza dei problemi qui in causa, si può provare un forte sentimento di impotenza che finisce per generare l’indifferenza che confina impercettibilmente con la rassegnazione e, peggio ancora, con l’abitudine.

Inevitabile o creduta tale, si arriva a vivere a fianco della miseria dei poveri senza nemmeno rendersene conto.

Nutriti dal Cristo pro nobis, i cristiani, soprattutto quelli dei paesi ricchi, non cederanno a questo specie di letargo. Sempre vigili, saranno come le sentinelle. Scruteranno il pianeta in tutti i sensi e segnaleranno ai loro ambienti assopiti dal benessere materiale che il dramma della povertà esiste sempre, che esiste allo stato endemico e che divora ogni anno, come abbiamo segnalato, milioni di vite umane. Così dunque, all’indolenza deve opporsi la vigilanza dell’amore fraterno acceso nei cuori grazie all’unione sacramentale con colui il cui Cuore si è lasciato aprire per amore (cf. Gv 19, 36) e che resta aperto per sempre (cf. Ap 5, 6; Gv 20, 20. 27; Lc 24, 16).

Per essere pienamente efficace, questa vigilanza cristiana dovrà passare agli atti. Ma quali? Rimanendo nei limiti di questo intervento senza perdere di vista l’essenziale, vorrei fissare la mia attenzione sui seguenti punti. I credenti dovranno sforzarsi di introdurre nei micro-ambienti nei quali vivono e, da lì, nei grandi insiemi sociali (città, regioni, paesi), uno spirito di condivisione composto da una forte resistenza al consumismo e da una attenzione particolare ai poveri. Che cosa significa esattamente?

Nel primo caso, si tratta di opporsi alla seduzione che le imprese multinazionali o altre fanno subire alle persone presentando loro, tramite i media e i centri commerciali sempre più attraenti e di più facile accesso, prodotti di ogni tipo e varianti di giorno in giorno sotto l’impatto di una tecnologia sempre più sofisticata e molto aggressiva. Le persone sono quasi obbligate a procurarsi questi prodotti se non vogliono aver l’impressione di vivere in un mondo passato e superato. È in questo modo che nasce nella testa e nel cuore della gente una insoddisfazione permanente, un gusto della novità per la novità, un desiderio illimitato di accumulare dei beni per il semplice piacere di possedere e di ben apparire. È chiaro che questa strategia implica per le persone che si lasciano sedurre un riavvolgimento su di sé, una attenzione puerile a dei bisogni più o meno fittizi che svia dall’essenziale e favorisce l’edificazione di mondi artificiali che impediscono di vedere il mondo reale. Bisogna dunque resistere con tutte le

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proprie forze a questo consumismo sfrenato che maschera il reale, reale in proposito della povertà materiale che circonda, come abbiamo visto, la nostra terra e che giace spesso vicino alle nostre porte, sotto l’una o l’altra forma.

In questo contesto, si potrebbe riprendere i primi versetti della parabola lucana del “ricco cattivo e del povero Lazzaro” 22 che, senza pregiudizio del loro senso letterale, offrono come una descrizione metaforica ed eloquente della situazione del mondo attuale: “C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco, continua il testo, ma nessuno gliene dava” (Lc 16, 19-21). È come se il mondo della ricchezza di cui parla la nostra parabola non avesse visto il mondo della povertà che gravitava attorno ad esso, allorché i

“cani” sapevano, loro23… dove si trovavano le piaghe di Lazzaro!

La resistenza al consumismo apre, dispone alla condivisione, ma come servire i poveri della terra cominciando da quelli che sono presenti sotto le finestre delle nostre città, dei nostri villaggi e delle nostre case? Quale tavola preparare per loro come prolungamento della tavola eucaristica?

Gesù dice: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare” (Mt 25, 34-35). Dare da mangiare. Ma come? È difficile rispondere a questa domanda con una sola indicazione, valevole per ogni caso, per ogni tempo e ogni luogo. Ma un elemento, mi sembra, è comune a ciascuna delle risposte possibili, elemento che potrebbe paragonarsi alla tovaglia che si stende sulla tavola prima di porvi sopra gli alimenti di diversa provenienza e fattura: l’amore del povero che comprende il riconoscimento della sua esistenza, della grandezza del suo essere-uomo e del volto sacro che porta in sé inciso in filigrana, il volto del Povero per eccellenza, dell’Assetato del Golgota (cf. Gv 19, 28). Avendolo riconosciuto nella “frazione del pane” (cf.

22 Per un commento musicale di grande profondità di questa parabola, vedere la Cantata Die Elenden sollen essen de J. S. Bach (BWV 75). Aggiungiamo che è con l’esecuzione di questa Cantata che Bach iniziò il suo lavoro di Cantor alla Thomaskirche di Leipzig. Ha avuto luogo la prima domenica dopo la Trinità, il 30 maggio 1723, nella Nikolaikirche. Vedere, per informazioni supplementari, M. PETZOLDT, Bach-Kommentar. Band 1. Die geistlichen Kantaten des 1. bis 27. Trinitatis-Sonntages, Internationale Bachakademie/Bärenreiter, Stuttgart/Kassel-Basel-London-New York-Prag, 2004, 23-32.

23 Che si potrebbero comparare ai ricchi (per esempio le multinazionali in accordo con il potere politico, ecc.) che non si fanno scrupoli nel togliere ai poveri anche il poco che resta loro.

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Lc 24, 31), i convitati della tavola eucaristica non potranno non intravederlo in coloro che hanno fame e sete di giustizia (cf. Mt 5, 6).

Ancora un volta, torniamo al punto di partenza della nostra riflessione. È infatti dall’eucaristia che ritroviamo nuovamente fondato l’obbligo forte e tenace di rispettare la creazione, di promuovere la vita e di servire i fratelli più svantaggiati. Riguardo a quest’ultimo elemento, il nostro punto di partenza può ora essere specificato nella seguente maniera: è grazie alla contemplazione del Crocifisso risuscitato nella una caro eucaristica che il valore dei poveri e il

“sacramento” che essi sono possono essere percepiti e onorati tramite il dono di sé senza condizione e senza limiti.

Réal Tremblay C.Ss.R.



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