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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Assemblea generale ex art. 93, comma 1, n. 3, e 94 Ord. Giudiziario Aula Magna, 25 giugno 2015
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Osservazioni sulle relazioni e proposte del Cons. Raffaele G. A. FRASCA
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§1. Osservazioni sulla relazione del gruppo di lavoro civile.
1a) Prima osservazione:
La proposta al Parlamento delle Repubblica di una revisione dell’art.
111, settimo comma, della Costituzione nel senso di limitare nella materia civile la ricorribilità in Cassazione circoscrivendola ai casi in cui è possibile ravvisare la necessità di formulare principi di valenza generale o di garantire comunque un vaglio della Suprema Corte, rendendo invece costituzionalmente obbligatorio il doppio grado di merito, non mi sembra debba essere approvare dall’Assemblea.
La ragione – pur trattandosi di un “eterno ritorno” su quello che dovrebbe essere il modello “sperabile” della Corte di cassazione civile - è che essa, ove fosse accolta, sarebbe foriera di gravi conseguenze non tanto e non solo sulla posizione della Corte nel sistema della giurisdizione, bensì sull’intero assetto costituzionale della giurisdizione e sull’assetto stesso della giurisdizione costituzionale.
Mi spiego.
La Corte di cassazione ricopre nell’assetto costituzionale attuale, com’è noto, la posizione di vertice della giurisdizione e di controllore dei limiti esterni di ciascuna giurisdizione. Nella cornice costituzionale questa posizione di controllore di tali limiti a me pare che si giustifichi, oltre che per ragioni storiche, anche e soprattutto per la ragione che nella Costituzzione il “giudice” si identifica innanzitutto ed in prima battuta nel
“giudice ordinario”, atteso che il riconoscimento della posizione e della giurisdizione dei giudici speciali è confinato nell’àmbito di materie che, al di là di quello che all’atto dell’entrata in vigore della Costituzione erano attribuite ai giudici spciali, debbono essere necessariamente di “risulta”, cioè determinate per sottrazione alla giurisdizione ordinaria per “particolari materie” ai sensi dell’art. 103 Cost., sebbene ormai estese per quanto
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riguarda il giudice amministrativo ben oltre le effettive intenzioni del legislatore costituente ed anche, con l’avallo inopinato e poco meditatao e spiegato (o, se si vuole, spiegato senza consideare la storia della giurisdizione) della Corte costituzionale in una nota occasione, ai diritti fondamentali.
Ebbene, rilevo che una Corte di cassazione che vedesse confinati nei sensi indicati dalla relazione i suoi interventi sul modo in cui la giurisdizione civile ha esercitato la sua funzione, vedrebbe ridimensionata la sua importanza di giudice civile supremo (ed anzi, direi, di giudice tout court, dato che anche la giurisdizione penale è parte della giurisdizione ordinaria) in modo tale da non potersi giustificare più nemmeno la sua legittimazione a regolare la giurisdizione, concetto nel quale ormai – lo ricordo - è parte anche il c.d. eccesso di potere giurisdizionale. Tanto più in un sistema processuale che ha visto il codice di procedura civile perdere la sua centralità, dopo l’introduzione del codice del processo amministrativo.
Questo ridimensionamento, si badi, non sarebbe rilevante e non lo pavento in un’ottica di preservazione corporativa della propria posizione da parte della Corte, come si potrebbe pensare. Esso, invece, sarebbe rilevante – ed è questo il profilo che mi preocupa e per cui propongo di non approvare sul punto la relazione – in funzione della ricadute che, in ragione della perdurante correlazone della garanzia di indipendenza ed imparzialità in modo precipuo (date le perduranti notorie ricadute delle modalità di nomina di parte dei giudice speciali amministrativo e contabile) alla dimensione propria della giurisdizione ordinaria, avrebbe in termini:
a) di oggettivo ridimensionamento della funzione della giurisdizione quale usbergo dei diritti del cittadino, di cui la Corte di cassazione è certamente presidio nell’ordinamento democratico, poiché la Corte, vertice della giurisdizione ordinaria, diventerebbe un organo che non deve garantire sempre e per tutte le situazioni giuridiche l’esatta osservanza e di riflesso l’uniforme applicazione della legge, in funzione dell’assicurazione, in buona sostanza, del principio di eguaglianza, cioè anche e necessariamente del jus litigatoris. E tanto non solo quando esso venga inciso da errores in iudicando sulla legge sostanziale, ma anche quando venga inciso da errores in iudicando sulla legge processuale, naturalmente in questo secondo caso con efficacia di consumazione della tutela della situazione sostanziale coinvolta nel processo, che diventi non più o non altrimenti discutibile.
La Corte in sede di giurisdizione civile diverrebbe garante solo dell’osservanza di principi di rilievo generale, formula peraltro del tutto ambigua e rimessa, dato che la relazione non lo specifica: 1a) –– o al
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dominio del legislatore ordinario (come accadrebbe se l’ipotizzata modifica costituzionale si risolvesse nell’introdurre l’aggettivo “penali” accanto alla parola “sentenze” e, quindi, la previsione dell’affidamento al legislatore dei casi nei quali invece le sentenze civili diverrebbero ricorribili in Cassazione) e, quindi, alle sue mutevolezze, con la conseguenza che la razionalità e ragionevolezza delle relative scelte diventerebbero anche difficilmente controllabili od addirittura incontrollabili dal Giudice delle Leggi (la vicenda della giurisdizione esclusiva docet); 1b) o a specificazioni da parte dello steso legislatore costituzionale, certamente di difficile individuazione in sede di scelte elettive, a meno di privilegiare, ammesso che la Costituzione lo consenta, il criterio del valore del Dio danaro;
b) di conseguente perdita di peso costituzionale della giurisdizione ordinaria nell’assetto costituzionale particolarmente sotto il profilo della rilevanza che la Corte di cassazione, come suo vertice, si vede attribuita con il compito di eleggere, quale rappresentante della giurisdizione ordinaria, un quinto dei giudici della Corte costituzionale: è palese che una Corte di cassazione accessibile in civile solo in limitati casi non avrebe alcuna legittimazione e giustificazione per conservare tale compito. Anche questa non è – si badi - preoccupazione di carattere corportativo, bensì timore di carattere istituzionale, atteso che ridisegnare l’assetto della Corte Costituzionale e ridurre il peso delle giurisdizioni nella sua elezione (che oggi è nell’ordine di un terzo) è tentativo cui già abbiamo assistito e che deve preoccupare in termini di tutela degli equilibri democratici, giacché una “forte” presenza di magistrati e soprattutto una “forte” presenza di magistrati ordinari è essenziale per un ottimale adempimento delle funzioni di una corte costituzoale in un sistema a costituzione rigida come il nostro.
Certo si potrebbe dire che occorrerebbe altra riforma costituzionale rleativa alal compsozione della Corte costituzionale, ma è facile pensare che il
“treno” di una riforma dell’art. 111, settimo comma, facilmente potrebbe essere preso dall’idea di incidere sul Giudice delle Leggi e tanto più in tempi come quelli attuali, segnati dall’impropria ed impropriamenter sollecitata assunzione da parte di Esso di “funzioni di governo” che dovrebbero indurre a “ponderare” il controlo di costituzionalità ben oltre i tradizionali limiti in cui se ne teneva conto.
Rilevo, dunque, l’opportunità di non sollecitare alcuna modifica del testo attuale dell’art. 111, settimo comma, olim secondo, della Costituzione e propongo, pertanto, di non approvare la proposta n. 1.
E rilevo pure che l’ipotesi, non emersa nelle proposte finali, ma sottolineata dalla relazione, di ridurre il numero di consiglieri della Corte
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merita le stesse preoccupazioni: una Corte più piccola perché dovrebbe eleggere tre giudici costituzionali? E quali sarebebro i criteri per l’acceso dei giudici ad essa? Tanto osservo non senza rilevare la contraddittorietà della proposta con la giusta rilevazione che l’ordinamento è diventato molto più complesso e la domanda di giustizia ordinaria molto più variegata di quanto fosse nel lontano 1953.
Altri invece e passo ad un’ipotesi propositiva i rimedi che sono utili per “sterilizzare” la “responsabilità” addebitata alla norma del settimo comma dell’art. 111 della Costituzione in ordine all’elevato numero di ricorsi di cui la Corte è investita.
Essi, però, non possono essere individuati nel limitare la proponibilità del ricorso per cassazione, bensì nell’adozione di misure dirette a scoraggiarne la proposizione quando non v’è ragione di un giudizio di cassazione, sebbene a tutale anche del jus litigatoris, e nel prevedere che esso, quando proposto senza ragione, venga avviato a trattazione in modo da impegnare poco la Corte.
I rimedi si debbono collocare innanzitutto “a monte” del momento in cui si pone l’interrogativo sul se è possibile proporre ricorso alla Corte e possono essere i seguenti.
Eccoli:
aa) la riforma del d.lgs. n. 40 del 2006, com’è noto, ha introdotto l’istituto della pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge in presenza di ricorso inammissibile ed ha lasciato intatta ed immutata la vecchia possibilità del ricorso nell’interesse della legge, mai utilizzata e comunque confinata nel caso di mancanza o rinuncia delle parti ad impugnare la decisione ricorribile.
Ebbene occorrerebbe in primo luogo, se si condivide l’idea di lasciare immutato il 111 settimo comma, e dunque la possibilitò di accesso in Cassazione contro tutte le sentenze (per il civile) proporre al legislatore di modificare l’art. 363 c.p.c. nel senso di ipotizare che il Pubblico Ministero presso la Corte d’Appello o lo stesso giudice anche durante il corso del processo possano chiedere alla Corte di cassazione di pronunciarsi prima di ogni decisione in presenza di due evenienze:
aa1) allorquando venga in applicazione davanti al gudice di merito una questione esegetica riguardo ad una norma o normativa nuova da poco introdotta e, quindi, da “arare” a livello esegetico;
aa2) allorquando, come è costume del Foro in tutta Italia e specie nel Sud, sia insorta una questione, magari di poco valore sul piano economico, ma con rilevanti quaestiones iuris nel novero delle questioni da decidere, di carattere seriale: essa potrebbe dar luogo ad un’azione di classe, ma è nota
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l’asfissia della pertinente disciplina, che sconta la non obbligatorietà di dett azione. Si preferisce, pertanto, proporla, spesso davanti al giudice di pace, con moltiplicazione delle controversie e le ragioni di tale scelta speculativa sono ovvie;
aa3) allorquando la serialità della questione – come nelle controversie tributarie e del lavoro, ma non solo, dato che vengono in rilievo quelle che conivolgano i comumatori o altre categoria di soggetti – è fisiologica, cioè la platea dei soggetti conivolti è così numrosa da parttorie controversie identiche in misura amplissima.
In tutti e tre i casi l’intervento immediato della Corte specie ad iniziativa del Publico Ministero potrebbe portare alla definizione della questione di esegesi della norma nuova o alla definzione dei giudizi a carattere di serialità e ciò, determinando la consueta efficacia persuasiva del precedente della Corte, comporterebbe che le decisioni dei giudici di merito tenderebbero ad uniformarsi con ovvi benefici, rispetto ai tempi i cui, come sottolineato dalla relazione, oggi la Corte è chiamata ad intervenire, che sono lunghissimi e comportano l’incancrenisri ed il protrarsi nel tempo di contrasti esegetici fra i giudici di merito, dai quali poi origina per metastasi la proliferazione dei giudizi e, in fine, la tardiva investitura della Corte ed anche la moltiplicazione dei ricorsi seriali ad essa, che spesso vengono introdotti in tempi diversi e talora distanti fra loro. I processi finirebbero anzi tendenzialmente in primo grado;
bb) accanto alla misura sub aa) occorrerebbe sollecitare una misura relativa all’obbligo dei giudici di merito e, dunque anche del giudice d’appello, di conformarsi alla decisione della Corte, salvo il caso della possibilità di apporto di nuovi e decisivi argomenti contro la decisione resa dalla Corte ai sensi del novellato art. 363 c.p.c. sulla nuova questione esegetica oppure sulla causa seriale;
cc) in ogni caso in cui si arrivasse in Cassazione su quesioni già decise dalla Corte nei modi indicati si dovrebbe prevedere una modalità agevolata e semplificata di definzione, come quella di cui si dirà nella seconda osservazione. La stessa cosa dicasi per il caso che la questione già decisa venga posta al giudice d’appello.
1b) Seconda osservazione:
con riferimento alla proposta sub 3 della relazione sulle modalità di svolgimento del processo di cassazione mi parrebbe opportuno, in
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alternativa alla prospettata modificazione del rito camerale (con soppressione della possibilità di audizione in adunanza dei difensori, presente, del resto, in un noto progetto di riforma delegata), ipotizzare invece una tecnica di decisione che, con riguardo ai ricorsi affetti da inammissibilità manifesta o da fondatezza o infondatezza manifeste, nonché per quelli riconducibili all’art. 360-bis n. 1 c.p.c., imponga l’adozione della decisione in forma di decreto monocratico, previo invito alle parti a deposirare memorie.
La tecnica di decisione monocratica, per essere conforme a Costituzione, una volta considerato che la Carta costituzionale, avendo recepito l’istituzione Corte di cassazione così come era regolata dall’ordinamento regio, certamente la considera come organo a decisione collegiale (sempre che la collegialità non la si ritenga immanente al concetto di corte) e, dunque, là dove prevede la garanzia dell’accesso contro le sentenze dei giudici di merito lo fa sottintendendo che esso deve consentire una decisione collegiale, dovrebbe prevedere la possibilità sotto stringenti presupposti e con previsione di opportune misure deterrenti, di un’opposizione contro il decreto.
La misura di deterrenza, oltre all’ovvia previsione di una particolare gravità della condanna alle spese, potrebbe consistere in una imposizione di un deposito per soccombenza a beneficio dell’aministrazione della giustizia.
Questa forma di decisione per decreto monocratico dovrebbe essere, poi, obbligatoria quando fosse proposto ricorso per cassazione in un caso di questione seriale già decisa nel modo indicato o altrimenti ovvero su questione nuova, come ho già detto poco sopra.
E’ palese l’utilità della la forma di decisione appena ipotizzata: essa consentirebbe di “risparmiare” tutta l’attività delle cancellerie e dei magistrati finalizzata alla decisione collegiale, il cui intervento sarebbe del tutto eventuale. Naturalmente i compiti dei magistati agenti in via monocratica dovrebbero essere coordinati dal presidente della sezione deputata ed essere assunti con ovvia comunicazione informale ai magistrati componenti.
1c) Terza osservazione:
Questo rilievo concerne il punto 5. della relazione (nella quale si propone un modello di decisione orale dettata a verbale, ma la stessa cosa
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dicasi per un modello che prevedesse la pronuncia all’esito di camera di consiglio con decreto).
Per lo smaltimento dell’arretrato nelle situazioni ipotizzate dalla relazione si potrebbe proporre il modello di cui sub 1b).
Il modello proposto dalla relazione appare suggestivo, ma presenta l’inconveniente di dover essere applicato comunque previa fissazione dell’udienza, con la conseguenza non solo del relativo “lavoro” della struttura della Corte e dell’assicurazione della frormazione di collegi, ma anche di un notevole tasso di incertezza, atteso che la pur divisata ipotesi di decisione immediata orale potrebbe abortire nel caso di emergenze della discussione.
1d) Quarta osservazione:
Riguarda il punto 14 della relazione.
Mi sembra che l’ipotesi di creare collegi iperspecializzati e costanti presenti l’inconveninente di cristallizzare e sedimentare orientamenti del tutto settoriali, che poi fra loro non sono comunicanti. Già la divisione in sezione della Corte appare non scevra dallo stesso inconveniente, dato che crea giurisprudenze di settore spesso fra loro in contrasto, non sempre ricomponibile dalle SS.UU. La giurisprudenza della Corte richiede conscenze specialistiche, ma deve formarsi attraverso la loro verifica nel confrontio con l’esperienza di coloro che non sono specialisti, perché gli apporti di diverse sensibilità ermetiche possono essere decisivi per l’esatta soluzione della questione e per coerenziarla con il sistema generale.
1e) Quinta osservazione:
Non vedo sottolineata dalla relazione e mi pare che l’Assemblea dovrebbe sottolinearla la necessità di rendere uniforme e costante, dunque prevedibilie, la giurisprudenza della Corte, di tutte le sezioni, sulle regole del processo di cassazione: è noto che ogni sezione ed anzi, direi senza tema di smentita, ogni collegio, a seconda della suia composizione,
“applica” le regole del processo di cassazione in modo suo proprio. Questo sconcerta il Foro e alimenta contenzioso e, dunque, l’Assemblea dovrebbe sottolineare l’esigenze di orientamenti uniformi e concordati proprio di tutta la Corte sl processo di cassazione.
1g) Sesta osservaione:
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Tornando all’art. 111, settimo comma della Costituzione, mi sembra doveroso che la Corte ridimensioni la tendenza ad individuare “sentenze in senso sostanziali” che rendono accessibile la tutela davanti alla Corte. La logica che si dovrebbe accogliere e dovrebbe accomunare anche qui i settori di competenza di ogni sezione è di dire che non v’è ricorso straordinario quando in ogni caso il provvedimento non ha carattere di definitività, perché è possibile immaginare che ci si tuteli – eventualmente anche per suo suo carattere sommario - con il proceso ordinario, che è il modello costituzionale dovuto e, qindi, se possibile “utile” per le tutele.
1h) Settima osservazione:
Riguarda la nota di iscrizione a ruolo: si potrebbe sollecitare una regolamentazione legislativa che la disciplini in modo che già essa consenta alla Corte e glielo consenta a livello informatico, di “percepire” a che cosa si riferisce il ricorso e, soprattutto, a che cosa si riferiscono i motivi, il che renderebbe possibile opportuni accorpamenti.
A legislazione ferma il Primo Presidente potrebbe esercitare lo stesso potere regolamentare, come ha già fatto in passato, e prescrivere al Foro di indicare nella nota i titoli di ciascun motivo.
§2. Osservazioni (brevissime) sulla relazione del gruppo di lavoro penale.
a) Il punto a) delle proposte (quello in ci si ipotizza una delega al singolo magistrato per la declaratoria di non luogo a provveder riguardo ad atti mancanti di effettiva volontà impugnatoria) non mi pare debba approvarsi, in quanto la Costituzione, come ho detto in precedenza, impone che la Corte di cassazione decisa collegialmente: semmai bisognerebbe aggiungere alla proposta, che allora potrebbe estendersi ad altri casi a somiglianza di quella che ho fatto per il civile, la previsione, assoggettata a stringenti limitazioni, di un’opposizione.
b) non mi pare possibile ed opportuno approvare il punto d), atteso che dietro il concetto di doppia conforme si nascondono, in penale non diversamente che in penale, fenomeni ben diversi, come spesso l’adagiarsi del giudice dell’appello acriticamente sulla valutaione del primo giudice.
§3. Osservazione sull’Ufficio del Ruolo e del Massimario.
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Occorre aumentarne l’organico e ripristinare la vecchia funzione dell’applicato di appello, in modo che la Corte disponga di un Ufficio Studi che possa fornire sempre maggiori apporti in funzione della nomofilachia e della gestione dei ruoli.