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La repressione penale del mobbing

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Academic year: 2022

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La repressione penale del mobbing

Avv. Carlo Petrone

La lunga marcia del mobbing nell'ambito del "penalmente rilevante" non sembra arrestarsi, sebbene le proposte di legge presentate nella decorsa legislatura non trovino ampia accoglienza nel nuovo scenario politico del paese.

Tuttavia, il filmato amatoriale che è stato appena proiettato rivela la rilevanza del problema ed i connotati talvolta drammatici che esso può assumere. Valga per tutti il caso della "Palazzina LAF" (laminatoio a freddo), sita nel centro siderurgico di Taranto, ora di proprietà del Gruppo Riva, ritenuta un contenitore in cui rilegare i dipendenti (prevalentemente impiegati) giudicati scomodi o non disposti alla

novazione del rapporto di lavoro con il passaggio ad operai. A Taranto è in corso da un anno il processo penale dinanzi al Giudice Unico del Tribunale, per tentata

violenza privata a carico del padrone dello stabilimento ILVA Emilio Riva, nonché di altri dirigenti.

Si tratta di un caso di mobbing, anzi -si passi l'espressione- di "macro-bossing- sia per la quantità delle parti lese, sia per la rilevanza che il caso è andato assumendo, paradossalmente più a livello nazionale che locale.

Si è in presenza di un "bossing verticale discendente" di cui si sta

sperimentando la via penale col ricorso alla sola ipotesi di tentata violenza propria in danno di ciascuno dei 76 dipendenti, i quali si sono costituiti parte civile richiedendo il danno morale da delitto ed il danno esistenziale. Dinanzi al Giudice del lavoro, invece, sono ancora in corso diversi giudizi che hanno come petitum il danno patrimoniale e biologico, nonché tutte le problematiche di natura giuslavoristica.

Il quesito che, a tal punto, si pone è se sia o meno opportuna la disciplina penale del mobbing con la previsione di una nuova, autonoma fattispecie, ovvero figura criminosa.

La linea di tendenza delle cinque proposte di legge presentate nella XIII legislatura, caratterizzate ancora da incertezza definitoria sul piano della tecnica legislativa e della capacità di delineare un chiaro ambito normativo, è per la

repressione del fenomeno di terrorismo psicologico nei luoghi di lavoro attraverso una sanzione da uno a tre anni per quelle condotte che realizzino molestie, minacce, calunnie o altri atteggiamenti vessatori.

V'è però una certa ritrosia del mondo del diritto del lavoro ad accreditare la scelta della via penale. Si rileva, infatti, che in una fase di decriminalizzazione non sia necessaria l'elaborazione di nuove fattispecie criminose perché, comunque, vi sarebbe la possibilità di far ricorso ai reati di ingiuria o diffamazione, violenza

privata, violenza sessuale, estorsione (questi ultimi tre anche nella forma di tentativo) ed abuso di ufficio, per episodi specifici relativi a singoli lavoratori.

Avvocato, Taranto

Collana Medico Giuridica

MEDICINA LEGALE E GIURISPRUDENZA A CONFRONTO IN AMBITO LAVORATIVO ed. Acomep, 2002

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Aggiungasi, inoltre, che di recente la Corte Suprema di Cassazione ha confermato le condanne per maltrattamenti a carico di alcuni datori di lavoro che sistematicamente percuotevano e vessavano giovani dipendenti.

Sotto altra prospettiva, invece, si muovono i sostenitori di un deciso intervento del legislatore per l'inserimento del mobbing nella sfera del penalmente rilevante. Si osserva da più parti che lo sviluppo della società fa ancora emergere diritti "adespoti"

che si rilevano senza tutela esaustiva ed efficace, in una fase in cui la organizzazione del lavoro cerca forme sempre più raffinate di sfruttamento delle energie dei

lavoratori.

Il mobbing, quindi, allorché si manifesta (ad es. nella dimensione verticale discendente) come abitualità di condotte omogenee caratterizzate da vessazioni sistematiche, specialmente in danno di più lavoratori, può conferire forma e sostanza ad un reato necessariamente abituale che si risolve in una condotta commissiva, cioè in un facere caratterizzato da dolo specifico.

Inoltre, in casi di mobbing orizzontale, può rilevare anche la condotta del

datore di lavoro che omette di intervenire e vigilare. La casistica, peraltro, anche sotto tale ultimo aspetto, è variegata e complessa, attesa la rilevanza dell'obbligo giuridico (vedi le Leggi 300/70 e 626/94, nonché l'art. 2087 cc) che impone al datore di lavoro di intervenire perché il lavoratore non sia vittima di azioni mobizzanti.

Più che il singolo atto, quindi, appare degna di repressione penale ogni

strategia accortamente premeditata e realizzata in esecuzione di una volontà specifica di estromettere il lavoratore divenuto in qualche modo scomodo o non prono alle pretese di parte padronale (si pensi al lavoro nero ed al rapporto con gli

extracomunitari).

Vero è che Ralf Dharendorf, in "Quadrare il cerchio" con riferimento alla ricerca (e/o conservazione) del posto di lavoro ha ammonito che bisogna inforcare la bici e cercarsi il lavoro e che Geremy Rifkin ha da tempo icasticamente sentenziato la fine del lavoro, ma una cosa è...pedalare ed altra cosa è vivere il lavoro come

"incubo".

In definitiva, poiché non tutto è mobbing, sarà sempre necessario riscontrare se ci si trovi dinanzi a piccoli, meschini dispetti o a condotte persistenti: se il padrone sgarbato o volgare non è sempre "mobber", gli abusi sistematici ed i metodi di emarginazione che risultano orditi con determinazione andranno certamente puniti.

L'evoluzione della tutela giuridica del lavoratore passa, comunque, anche attraverso un rafforzamento penalistico caratterizzato dalla disciplina degli atti (o misfatti!) di maggior rilevanza, connotati da sistematica aggressività, come risposta interattiva ai metodi sempre più subdoli delle strategie padronali.

Collana Medico Giuridica

MEDICINA LEGALE E GIURISPRUDENZA A CONFRONTO IN AMBITO LAVORATIVO ed. Acomep, 2002

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