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La relazione come gesto quotidiano di cura

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Academic year: 2021

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La relazione come gesto quotidiano di cura

Il percorso attraverso gli articoli pubblicati sulla rivista cartacea “I luoghi della cura”, edita tra il 2003 e il 2016, prosegue con lo sguardo rivolto al tema della relazione quale gesto quotidiano di cura. In questo “Percorso” Veruska Menghini guida i lettori attraverso una serie di contributi dedicati al tema della relazione nei servizi per la non autosufficienza.

di Veruska Menghini (Assistente sociale specialista, collabora con il Network Non Autosufficienza)

La relazione ci identifica e identifica gli altri, colloca nel tempo e nello spazio, ci consente di riconoscere i contesti e la nostra posizione nel mondo, attribuisce un senso agli eventi, alle esperienze e alla vita.

Qualsiasi gesto di cura, dal più specialistico al più generico, si compie all’interno di una relazione. La consapevolezza della centralità della relazione in ogni rapporto umano e, ancor più precisamente, la consapevolezza del potere che la relazione ha nel generare la qualità della nostra vita e della vita delle persone con cui ci relazioniamo pone l’operatore socio sanitario di fronte a responsabilità professionali, sociali ed etiche nel momento in cui si mette in relazione con un anziano non autosufficiente.

Nei servizi per anziani non autosufficienti la valutazione di un bisogno, la risposta ad esso, le azioni compiute per prendersi cura dell’altro sono sempre mediate da un rapporto relazionale e la qualità di questo rapporto ha il potere di innalzare l’altro, valorizzando il riconoscimento del suo sapere e delle sue risorse (persino quando egli stesso non le ricorda più) o, al contrario, di relegarlo nel ruolo di assistito, paziente, oggetto di cure e prestazioni.

Si tratta di un tema complesso e intricato. Di fronte alla non autosufficienza e, in particolare, alla demenza, la relazione tra operatore e anziano si presenta complessa, complicata; richiede pazienza, ascolto, osservazione, preparazione, motivazione e responsabilità.

La Rivista “I Luoghi della cura” nasce, nel 2003, proprio dall’esigenza di diversi operatori delle cure per anziani e, più in generale, della cronicità di avere un ambito di riflessione e diffusione di un pensiero ed una cultura della “complessità”

troppo spesso prevaricata dalla diffusa cultura della “semplificazione”. Operare nel settore delle cure agli anziani e della cronicità significa avere sensibilità e conoscenza sia di aspetti sanitari che sociali, di malattia e di salute, di tecnologia e di “umanizzazione”, di specificità e globalità, senza diventare “tuttologi” ma tramite la disposizione e l’esercizio del dialogo, dell’integrazione, del confronto e del coordinamento (I luoghi della cura, Renzo Bagarolo, n. 1/2003).

Da allora numerosi sono stati i contributi pubblicati ne I Luoghi della cura che hanno affrontato il tema della relazione con l’anziano e la sua famiglia, sviluppando e approfondendo quelle modalità comunicative che possono, nell’agire quotidiano del professionista, fare la differenza allo scopo di far sentire l’altro meglio o “il meglio possibile”. Si tratta anzitutto di costruire progetti di cura e di relazione attenti alla particolarità e unicità di ciascuna persona presa in carico, una relazione in cui l’altro si possa riconoscere.

Antonio Censi ha definito come prioritaria la ricerca di modalità di assistenza e di aiuto che considerino riconoscimento e rispetto come fattori capaci di offrire, a chi è dipendente, la possibilità di percepirsi come soggetto a pieno titolo, come attore della propria vita anziché come oggetto di compassione caritatevole o, come destinatario di prestazioni

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assistenziali. Le persone anziane non autosufficienti, a causa della loro fragilità fisica e della loro vulnerabilità psicologica, sono particolarmente esposte al rischio di perdere il rispetto degli altri. L’autore, nel suo contributo, afferma che se vogliamo fare in modo che la persona anziana non autosufficiente non viva per essere assistita, ma sia assistita per vivere, le cure rivolte al suo corpo vanno accompagnate da interventi finalizzati a mantenerla inserita in uno spazio, in un tempo, in una storia, in una rete di relazioni che diano un significato alla sua vita. L’ostacolo più arduo nell’esercizio del rispetto nella relazione di cura è rappresentato dall’enorme squilibrio di potere che esiste tra l’operatore e la persona assistita (L’esercizio del rispetto nella relazione di cura, Antonio Censi, n.3/2008).

Il vero terreno di confronto in cui giocare la responsabilità dell’operatore socio sanitario nei confronti dell’anziano fragile rimane la quotidianità.

È nel ripetersi dei giorni, dei gesti, delle abitudini che si rischia di perdere di vista l’altro e le sue risorse. Delle piccole cose, del loro valore, non si parla mai; ma è proprio nelle attività di cura di sé e degli altri, attività modesta, banale, semplice, agli occhi di alcuni persino monotona, ripetitiva e fatua, che si gioca il segreto della vita. Potenziare le risorse della persona demente significa ripartire dal quotidiano, dalle piccole e semplici cose di tutti i giorni traendo la vita che sta nelle piccole cose. La nostra professione è una professione di gesti. È fuor dubbio che nella relazione con le persone, soprattutto se non autosufficienti e con gravi deficit cognitivi, il gesto sia un vero e proprio elemento curante in grado di giungere a livelli di profondità comunicativa insperati con le parole. Il valore di una mano appoggiata sull’altra, il fremito di una carezza, la sensazione di un profumo, la sicurezza del sentire caldo o freddo, la quiete che danno alcuni colori al nostro animo (La cura e l’assistenza dei pazienti affetti da demenza: aspetti etici, Edoardo Manzoni, n.1/2007).

Anche Gianna Carella ha sottolineato come le attività della vita quotidiana possono in realtà essere vissute come attività piacevoli e gratificanti oppure come “assistenza”, a seconda di come vengono eseguite. Vestirsi e mangiare sono, per tutti noi, momenti piacevoli. Lo possono diventare anche per gli anziani dipendenti, rivalutando la modalità di esecuzione in modo da farne un momento di stimolo e gratificazione, con un ampio significato relazionale (Le attività della vita quotidiana: da semplice assistenza a occasioni di promozione del benessere, Gianna Carella, n. 1/2004).

La complessità della relazione di cura è altresì caratterizzata dal suo definirsi come percorso itinerante, che si genera e si rigenera dall’esperienza dell’incontrarsi nel “qui ed ora” e, per tale ragione, è soggetta a cambiamenti che possono riguardare l’uno o l’altro soggetto coinvolto o il contesto in cui tale relazione avviene. L’operatore è quindi chiamato, giorno dopo giorno, a riposizionarsi all’interno della relazione, attraverso un atteggiamento continuo di ricerca e di osservazione.

Masera sottolinea, a tal proposito, che nelle diverse realtà di cura, gli operatori sperimentano quotidianamente vicinanze e lontananze, in grado di far percepire all’altro un’accoglienza, una presenza premurosa e competente ma non invadente, rispettosa della sua storia. Questo percorso incessante, di andata e ritorno, se pienamente consapevole consente di sperimentare, nella differenza, la cura autentica dell’altro (L’empatia in Edith Stein: la giusta distanza per essere accanto all’altro, Giuliana Masera, n. 3/2007).

Tutte le professioni socio sanitarie sono coinvolte nel generare relazioni significative con l’anziano. Caterina De Nicola, nel suo contributo, ha messo a fuoco la rilevanza del ruolo medico di fronte ad un paziente che non è guaribile e riprende il concetto di realtà come relazionalità, ad ogni livello, che si qualifica nel ristabilire contatti veri, profondi, capaci di ridare un significato anche ad una vita limitata dalla sofferenza e dalla malattia. La medicina può diventare un’arte, come dice Nuland, un’opera per realizzare un’umanità capace di accogliersi nella sua parte più fragile e debole,

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sapendo che dentro ciascuno di noi esiste il limite (Identità dell’operatore socio-sanitario nelle case di riposo, Caterina de Nicola, n. 2/2005).

Tiziana Lavalle ha sottolineato che la relazione tra infermiere e paziente/famiglia rappresenta una micro/relazione che concorre a formare e sostenere tutto l’edificio del lavoro infermieristico: la relazione con il cittadino plasma l’identità professionale dell’infermiere, riconducendola a quella prassi di servizio alla persona che trae dall’altro la propria più profonda legittimazione, sia personale sia sociale (Ruolo della professione infermieristica nell’assistenza domiciliare, Tiziana Lavalle, n.3/2006).

La relazione con la persona è il focus centrale dell’intervento dei diversi professionisti della cura tra cui l’educatore ( L’educatore professionale nel lavoro di cura con gli anziani, Davide Ceron, Paola Nicoletta Scarpa, Martina Vitillo, n.

1/2013), lo psicologo (Il ruolo dello psicologo nel processo di cura degli anziani accolti in struttura (Giorgia Monetti, Marta Zerbinati, n. 1/2013), l’assistente sociale (Caratteristiche e specificità del lavoro con gli anziani: il caso degli assistenti sociali, Carla Facchini n. 2/2011) e il terapista occupazionale (La terapia occupazionale nei pazienti affetti da demenza, Alessia Tafani, n. 3/2006).

L’équipe di lavoro rappresenta un luogo straordinario per gestire e rielaborare le relazioni di cura, soprattutto quelle più critiche. Nelle relazioni di aiuto, che caratterizzano l’attività di cura, sono costantemente in gioco le emozioni, i sentimenti, gli atteggiamenti interpersonali. Questi “movimenti interni” si manifestano a volte consapevolmente, più spesso inconsapevolmente (Joyce Travelbee: la relazione come gesto di cura, Giuliana Masera, n. 3/2006). E’ ormai accettato che vi sia una fatica emotiva di chi si confronta con il dolore dell’altro, ma si minimizza il peso che comporta l’entrare anche fisicamente in rapporto con il corpo sofferente del paziente. La riunione d’èquipe può aiutare ad affrontare le criticità vissute dagli operatori aiutandoli a riconoscere, come e quando, mettersi al riparo momentaneamente da situazioni difficili da tollerare (“Il tuo corpo è il tuo maestro”. Il corpo degli operatori nel lavoro di cura, Giovanna Perucci, n. 1/2013).

La relazione non rimane altresì circoscritta nel rapporto tra “curante” e “curato”; essa attraversa e coinvolge inevitabilmente le dinamiche organizzative delle aziende che realizzano servizi per anziani, chiamate a garantire prestazioni e interventi su più livelli (amministrativi, sanitari, assistenziali, alberghieri) e chiamate a tenere conto delle relazioni di vita dell’anziano tra cui, in primis, la relazioni con i suoi familiari che intervengono come interlocutori inevitabili dell’organizzazione e che necessitano, da parte degli operatori, di relazioni attente, qualificate e valorizzanti.

In conclusione si riporta il contributo di Antonio Guaita nell’articolo di Lina Bertolino e Marco Pagani il quale, valorizzando il ruolo della relazione nei contesti di cura, sottolinea che nelle condizioni più difficili, quelle incurabili o terminali, il benessere della persona assume il massimo valore e conferisce il senso dell’intervento e della vita, avvalendosi di azioni “piccole e quotidiane” quali fare le cose e, nel modo più gradito. In tale approccio, peraltro, si può ritrovare il senso più profondo della geriatria: il non perdersi in ciò che manca ed è venuto meno, ma il ricercare ciò che è rimasto, ciò che di significativo può essere potenziato, pur in presenza della malattia e della disabilità (Qualità della vita o qualità della cura, Lina Bertolini, Marco Pagani, n. 3/2011).

Perché anche là, dove non è possibile spezzare i vincoli della cronicità, possiamo almeno tentare, come ci suggerisce Louis Pluton, di “risvegliare il piacere di vivere in coloro che si affidano a noi, accettando le nostre cure” (Identità e senso nei percorsi della cronicità, Gianbattista Guerrini, n. 2/2007).

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Foto di Rebecca Schönbrodt-Rühl da Pixabay

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