• Non ci sono risultati.

Filosofia morale, a.a. 2021/22 Prof. Luigi Alici

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Filosofia morale, a.a. 2021/22 Prof. Luigi Alici"

Copied!
110
0
0

Testo completo

(1)

Filosofia morale, a.a. 2021/22 – Prof. Luigi Alici

Il tramonto della libertà – Appunti sul pensiero di Jonas Dispensa ad uso esclusivo degli studenti – Pro manuscripto Indice

I. LIBERTA’

I,1: Metamorfosi della libertà tra moderno e postmoderno,

(in: L. ALICI, F. BOTTURI, R. MANCINI, Per una libertà responsabile, a cura di G.

L. Brena e R. Presilla, Edizioni Messaggero, Padova 2000) I,2: I vincoli della libertà

(in: L. ALICI, M. CHIODI, R. MANCINI, F. RIVA, Interpersonalità e libertà, a cura di G. L. Brena, Edizioni Messaggero, Padova 2001)

I,3: Orizzonti della libertà. Taylor e l’eredità del moderno (in “B@belonline/print”, 1,2006).

I,4: L’eventualità del bene

(in AA.VV., Libertà, giustizia e bene in una società plurale, a cura di C. Vigna, V&P, Milano 2003).

I,5: Persona e libertà. Tra natura e cultura

(in AA.VV., Persona, identità, libertà, “Humanitas”, LXXI,3,2016) I,6: Persona e vita morale. La “differenza etica”

(in AA. VV., I fondamenti dell’etica, a cura di I. Poma, Morcelliana, Brescia 2016)

II. H. JONAS

II,1: Jonas: introduzione

(in: Jonas, Hans, “Enciclopedia Filosofica”, VI, Bompiani, Milano 2006, pp. 5950 – 5952)

II,2: Jonas: il male come irresponsabilità del potere,

(in: AA.VV., Il male politico. La riflessione sul totalitarismo nella filosofia del Novecento, a cura di R. Gatti, Città Nuova, Roma 2000, pp. 161 – 187)

(2)

I,1- Metamorfosi della libertà tra moderno e postmoderno

1. La metamorfosi è una trasformazione, graduale nella forma e radicale nella sostanza, di un fenomeno in un altro, di natura e identità diverse. Parlare di metamorfosi della libertà equivale a chiedersi se, nel mutamento culturale che segna la nostra epoca, si possono riconoscere gli estremi di una trasformazione profonda (per l’appunto, una metamorfosi) e quali ne possano essere i segni più vistosi e riconoscibili. Le domande intorno alla libertà, che i filosofi hanno coltivato nel corso della storia del pensiero occidentale, possono essere ricondotte ad alcune questioni fondamentali: a) qual è il fondamento ultimo della libertà? (questione ontologica); b) qual è il suo rapporto con il bene e con il male? (questione morale); c) quali sono le condizioni interiori e personali che la rendono possibile? (questione antropologica); d) quali ne sono le condizioni esterne (sociali, economiche, culturali)? (questione politica); e) in quali termini si può impostare il rapporto tra autonomia umana e onnipotenza divina?

(questione teologica).

Prescindendo da approfondimenti e analisi specifiche, in prima approssimazione si potrebbe interpretare la metamorfosi della libertà nell’orizzonte culturale odierno come un processo di riconsiderazione dell’intera griglia di tali questioni. Questo processo sembra conoscere almeno due fasi essenziali: ad una prima, fondamentale riduzione in senso immanentistico e secolarizzante succede una ulteriore riduzione, tipicamente postmoderna, in senso interpretativo e narrativo1.

Ad una filosofia che riconosceva al logos una funzione qualificante e insostituibile di unificazione del senso, proiettandosi verso una ulteriorità trascendente, corrispondeva una tematizzazione della libertà animata da una insopprimibile proiezione teleologica e da un radicale rimando fondativo: la capacità di intenzionare il bene e di suscitare una vita morale ad esso conforme consente la realizzazione delle istanze più alte della persona umana e attesta una inconfondibile cifra metafisica, rivelativa di un atto dotato di specifica autonomia causale e segno di una sorprendente sporgenza del suo protagonista.

Quanto più un largo fronte del pensiero moderno (che ha, ovviamente, al suo interno le sue fortunate ed originalissime eccezioni) tende ad inseguire la unificazione del senso in una direzione immanente, tanto più si modifica di conseguenza il modo di intendere la libertà. Il prevalere di una pregiudiziale critico-gnoseologica svincola la riflessione da un ancoraggio nel realismo classico, affidandole un compito analitico interno alla ragione e al suo esercizio. Il bene, persa la sua forza metafisica di attrazione e il suo carattere di movente teleologico dell’agire, viene progressivamente

1 Ho tentato di sviluppare questa lettura, con una particolare attenzione alle implicazioni antropologiche, nel saggio: Cultura post-moderna e visione cristiana dell'uomo, in AA.VV., Cattolici in Italia tra fede e cultura. Materiali per il progetto culturale, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 135-159.

(3)

a coincidere con l’atto stesso della libertà, con il suo carattere di incondizionata autoreferenzialità. L’autonomia pratica del soggetto, svincolata da una ontologia della partecipazione, capace di garantire un rapporto analogico con il fine, si affranca di conseguenza da qualsiasi vettore teleologico: di qui la progressione erosione della intenzionalità trascendentale, che finisce per ridursi ad una mera intenzione soggettiva2.

Matura in questo contesto quella scissione fra etica del fine e morale della norma, che Ricoeur, nella parte centrale di Soi même comme un autre, cerca in ogni modo di riconciliare3. La purezza del dovere diventa a questo punto l’unico paradigma normativo della vita morale, assomigliando sempre più all’incondizionatezza del potere. E’ questa la prima, fondamentale metamorfosi nel pensiero moderno della libertà: la domanda di autonomia non investe soltanto la qualità dei suoi atti, ma anche la relazione con i suoi contenuti. Il bene non è più il telos della libertà, ma il suo valore intrinseco. L’enfasi sulla indeducibilità della libertà apre grandi spazi alla ricerca speculativa e offre garanzie solide alla proclamazione universalistica dei diritti umani, ma porta anche a concentrarsi sulla rimozione di tutto ciò che può star dietro al nostro agire, finendo con il dimenticare anche ciò che sta davanti e al di sopra di noi.

I diversi percorsi che ne sono scaturiti disegnano la mappa complessa delle “avventure del trascendentale” nella modernità: dalla austera ricognizione kantiana al sovraccarico della dialettica idealistica, dai sofferti tentativi di “esistenzializzazione”

ai suoi esiti nichilistici più radicali e marcati. In questo contesto ciò che conta è interrogarsi sulle condizioni di possibilità dell’agire, sui requisiti di autonomia che lo contraddistinguono e sulle forme espressive della sua autenticità. Il confronto tra mondo personale delle azioni e mondo impersonale dei fatti tende ad assumere i contorni di una alternativa tra indeterminismo e determinismo, che a volte diviene una distanza insuperabile. La libertà, per difendere il suo statuto originale, finisce con l’identificarsi sempre più con l’orizzonte del possibile, che si vorrebbe collocare più in alto, come afferma anche Heidegger, dell’orizzonte del reale4. L’autonomia della scelta, per sfuggire alla cattura della fattualità, può percorrere fino in fondo il piano

2 Tengo presente, su questo punto, l’impianto di fondo dell’ottimo volume di AA.VV., La libertà del bene, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 1998.

3 Com'è noto, Ricoeur tenta di intrecciare un'etica teleologica del fine, incentrata sul primato del bene, con una morale deontologica della norma, incentrata sul primato del giusto, ricercando una correlazione fra i due piani a livello personale, dialogico e istituzionale; stabilisce altresì anche a quali condizioni si possa riconoscere una circolarità tra i due piani: anzitutto teorizzando il primato dell'etica sulla morale;

in secondo luogo lasciando che l'etica si sottometta alla prova della norma; infine ammettendo la possibilità di un rinvio della morale normativa all'etica del fine in presenza di situazioni insuperabilmente aporetiche. Cfr. P.RICOEUR, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, in particolare VII, VIII e IX studio.

4 “Più in alto della realtà si trova la possibilità” (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, § 7, tr. it. P. Chiodi, Longanesi, Milano 19866, p. 59).

(4)

inclinato dell’autoreferenzialità, al termine del quale sta però l’ammissione sartriana di una libertà paradossalmente equivalente ad una condanna assurda e irrinunciabile.

Le esemplificazioni, a questo punto, potrebbero essere innumerevoli: può essere sufficiente ricordare la nota analisi di Fromm, il quale sottolinea che il prezzo dell’autonomia, per l’uomo moderno, è rappresentato da un sempre più diffuso senso di spaesamento e di solitudine morale, che si sposta progressivamente nell’orizzonte interiore; nello stesso tempo, pur avendo raggiunto un notevole grado di dominio della natura, l’uomo non sembra più in grado di controllare le forze della società che egli stesso ha creato. A questo punto, essendosi estraniato dal prodotto delle sue mani, l’insicurezza che ne consegue può essere compensata solo attraverso forme equivoche e pericolose di anomia conformistica: “Nel corso della storia moderna, - scrive Fromm - l’autorità della Chiesa è stata sostituita da quella dello stato, quella dello stato dall’autorità della coscienza, e nel nostro tempo quest’ultima è stata sostituita dall’autorità anonima del senso comune e dell’opinione pubblica quali strumenti di conformismo. Essendoci liberati dalle vecchie forme palesi di autorità, non ci rendiamo conto di esser caduti preda di un nuovo genere di autorità. Siamo diventati automi che vivono nell’illusione di essere individui autonomi”5.

2. La estenuazione, tipicamente postmoderna, di ogni enfasi posta sull’elevazione trascendentale della soggettività riflette il progressivo ridimensionamento, che in molti casi diviene una vera e propria revoca, dell’istanza di unificazione del senso. Lo scontro tra immanenza e trascendenza, perso il suo carattere qualificante di scelta di campo pregiudiziale ed esplicita, attorno alla quale diverse tradizioni filosofiche avevano combattuto una battaglia intensa e appassionata, subisce una lenta trasformazione in senso fenomenologico-esistenziale, mentre l’orizzonte del senso si frammenta fino alla polverizzazione, si privatizza, si libera da rigidezze ideologiche e da romantiche velleità speculative.

La tentazione storicistica è respinta nelle sue forme più ambiziose, ma viene mantenuta, anche se a livelli diversi, più occulti e subdoli, la chiusura immanentistica.

L’orizzonte delle scelte possibili si decanta e si rimpicciolisce: il disincanto della finitezza mortifica e riduce ogni apertura intenzionale. La battaglia kierkegaardiana in difesa della irriducibilità del singolo appare così inesorabilmente snaturata: all’esistere viene riconosciuto un margine di autonomia onticamente incondizionata, ma sullo sfondo di una condizione ontologica ultimamente insuperabile. La libertà, in tale contesto, diventa il sintomo di una autosufficienza del vissuto, che va gelosamente tutelata nella sua sovranità interna, ma condannata ad affermarsi entro confini sempre più ristretti.

5 E. F , Fuga dalla libertà, tr. it. C. Mannucci, Mondadori, Milano 1994, p. 199.

(5)

Qui sembra consumarsi la seconda metamorfosi, quella attraverso la quale, ridimensionata la proiezione intenzionalmente infinita dell’atto libero, esso tende sempre più a riconoscersi come modalità indipendente e finita di consumo del vissuto.

Intorno all’agire umano non è più possibile per il filosofo allestire il teatro di una rappresentazione infinita né accendere il pathos delle grandi narrazioni. Il pensiero moderno, che tanto aveva combattuto per affermare il bene della libertà, deve ora fare i conti con una libertà che si colloca, in qualche modo, “al di là del bene e del male”;

senza nemmeno quella carica di radicalismo alternativo che ne faceva in Nietzsche il manifesto di un vitalismo titanico e antimoderno.

Messa la sordina ad ogni ambizione metafisica, screditata come metanarrazione frutto di una inaccettabile ibridazione ontoteologica, la libertà tende a trasformarsi in una scala delle preferenze soggettive, dipendente, in ultima analisi, da un criterio di gratificazione interna e da assenza di impedimenti esterni. In questa prospettiva la spontaneità prende il posto della originarietà, il resoconto empirico delle preferenze sostituisce la ricognizione trascendentale intorno alla purezza delle radici; il compito del filosofo non è tanto quello di ripercorrere all’indietro la catena causale per risalire a quello strano atto che è causa di se stesso, ma di spingersi in avanti per raccontare la dinamica di sviluppo e di intreccio intersoggettivo delle scelte. All’interiorità speculativa subentra l’esteriorità pragmatica; l’indeducibilità del potere si converte nell’eccedenza dell’agire.

In questa mutata temperie culturale c’è spazio solo per un’”etica minore”, che privilegia, rispetto alla purezza di evidenze valoriali originarie e alla forza di mediazioni normative conseguenti, i temi della felicità e del benessere, dell’autenticità e della bellezza, della pietas e dell’empatia. Quando è riconoscibile e apprezzabile come tale, l’atto libero può essere soltanto raccontato, descritto come una espressione di autenticità vissuta, come singolare prerogativa di un soggetto ridotto ad

“attaccapanni psicologico” (MacIntyre). Anzi: in molti casi esso si costituisce proprio in virtù di una particolare modalità narrativa; in se stesso, infatti, non è altro che un modo speciale di raccontare l’agire umano.

3. Le forme di questo alleggerimento trascendentale, attraverso le quali s’intravede una problematica presa di distanza dalla modernità, possono essere le più svariate.

Nella tradizione filosofica “continentale”, attraversata nel suo variegato arcipelago post-heideggeriano dall’intreccio di fenomenologia ed ermeneutica, emerge il dibattito tra disseminazione e polisemia, tra una fruizione del senso rassegnata ad una insuperabile incommensurabilità dei frammenti e delle differenze (Derrida, Deleuze) ed una fiducia ermeneutica nella possibilità di intravedere la “terra promessa”

dell’ontologia, attraverso il cammino faticoso e accidentato del conflitto delle interpretazioni (Ricoeur).

(6)

Nella tradizione analitica, segnata dalla difficile eredità wittgensteiniana, il problema riaffiora attraverso l’imbarazzante questione della genesi ineffabile del senso, che si tenta invano di allontanare dal dominio ispezionabile e positivo del linguaggio. La forte istanza riduzionista, che si ripercuote a livello epistemologico, condiziona il dibattito intorno al Mind-Body Problem, dominato da una vera e propria ossessione antidualistica e anticartesiana, ma finisce gradualmente per incorporare valenze nuove, che allontanano dalla rigida ipoteca empirista di partenza. Si arriva allora a parlare di

“monismo interazionista” (Searle) o di “anomalia del mentale” (Davidson), mentre la filosofia post-analitica conosce una contaminazione sempre più accentuata di pragmatismo ed ermeneutica (Rorty)6.

Può essere infine segnalato, come luogo sintomatico di tensione, il dibattito tra universalisti e contestualisti, che incrocia questioni e orientamenti speculativi diversi.

Da un lato i sostenitori di un'etica contestualista e comunitaria riconoscono in un orientamento teleologico al bene il costitutivo dell'esperienza morale (MacIntyre, Taylor, Walzer); essa manifesta il suo spessore comunitario alimentando una rete di pratiche di vita storicamente determinate e socialmente condivise, che trovano nell'ethos una forma di insuperabile mediazione storica.

Da un altro lato incontriamo un ripensamento del trascendentalismo kantiano, che declina l'istanza universalistica o dandone un’interpretazione procedurale in grado di legittimare la finzione di una qualche comunità deliberativa (Rawls) o in nome di una riabilitazione della ragione comunicativa (Apel, Habermas), che rivendica una anteriorità delle regole dell'intesa rispetto alla effettualità dell'agire storico; in quest’ultimo caso viene contrastato l'esito scettico che incombe su ogni etica non- cognitivistica, a prezzo però di una differenza insuperabile fra la sfera trascendentale della moralità e la sfera storica della eticità.

Più in generale, dietro questo dibattito il discorso potrebbe allargarsi, fino a rintracciarvi gli esiti di una antica divaricazione fra rigore e passione, fra un modello illuministico di ragione e un modello romantico di sentimento. Nel fortunato romanzo di Robert Pirsig Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta questa dicotomia viene efficacemente rappresentata nella contrapposizione fra “intelligenza classica” e “intelligenza romantica”: la prima vede il mondo come “forma soggiacente”, cioè come struttura, ordine, schema, mentre la seconda lo vede in termini di “apparenza immediata”, cioè come ispirazione, intuizione, esperienza vissuta; insomma come autenticità7.

6 Su alcuni di questi aspetti mi sono soffermato nel saggio Trascendentalità e persona, in AA.VV., Verum et certum. Studi di storiografia filosofica in onore di Ada Lamacchia, Levante Editori, Bari 1998, pp. 1-27.

7 “E’ improbabile che un romantico - scrive Pirsig - trovi interessante un disegno tecnico o meccanico o uno schema elettronico: per lui queste cose non hanno nessun fascino, perché non ne coglie che la realtà superficiale. Complessi e noiosi elenchi di nomi, linee e numeri. Niente di interessante. Ma lo stesso progetto, lo stesso schema, la stessa descrizione affascineranno uno spirito classico, perché egli

(7)

Il libro di Pirsig narra la ricerca sofferta, alla fine drammatica, di una radice unitaria, alla quale si dà il nome di Qualità, che consenta di portarsi alle spalle di questa divisione; se non si riesce a risolvere tale dualismo, infatti, si finisce per sovrapporre malamente il romantico al classico, ottenendo risultati ibridi e inaccettabili: “Il risultato - scrive ancora Pirsig - è tipico della tecnologia moderna: una patina di squallore così deprimente che per renderla accettabile è necessario ricoprirla con una patina di ‘stile’ […] Mettete insieme le due cose e avrete una descrizione succinta ma piuttosto precisa della moderna tecnologia americana: la bruttezza tecnologica innaffiata con la sciropposità romantica”8.

Occorre a questo punto ricordare, con Taylor, che l'autenticità non può accompagnarsi ad una libertà intesa come assoluta autodeterminazione antropocentrica; come egli scrive, “io posso definire la mia identità soltanto sullo sfondo di cose che hanno un'importanza […] Soltanto se esisto in un mondo in cui la storia, o le esigenze della natura, o le necessità dei miei simili, o i doveri della cittadinanza, o l'appello di Dio, o qualcos'altro di questo genere ha un'importanza essenziale, posso definire un'identità per me che non sia banale. L'autenticità non è il nemico delle istanze che provengono dall'esterno dell'io; essa anzi le presuppone”9.

4. Si potrebbe a questo punto provare a ripensare le forme più significative e problematiche di questa metamorfosi postmoderna della libertà, riordinandole attorno ad alcuni nodi fondamentali nei quali si riflettono molte delle questioni aperte, non di rado irrisolte, della modernità.

4.1 Il primo di questi nodi potrebbe riguardare la distinzione tra un’accezione positiva e negativa di libertà. Paradigmatica si può ritenere al riguardo la tesi di Isaiah Berlin, che distingue “due concetti di libertà”; mentre nell’accezione negativa, “si ritiene che io sia libero nella misura in cui nessun individuo o società interferisce con la mia attività”10, “il senso ‘positivo’ della parola ‘libertà’ - egli aggiunge - deriva dal desiderio da parte dell’individuo di essere padrone di se stesso”11. Su quest’ultimo desiderio di autodirigersi finiscono però per innestarsi “tutte le teorie politiche dell’autorealizzazione”, poiché l’io positivamente libero può essere gonfiato “fino a farne un’entità sovrapersonale”, con la conseguente “scissione in due della personalità:

vedrà nelle linee, nelle forme e nei simboli una incredibile ricchezza di forme soggiacenti” (R. M.

PIRSIG, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, tr. it. D. Vezzoli, Adelphi, Milano 1981, p. 75).

8 PIRSIG, Lo Zen, p. 283.

9 CH.TAYLOR, Il disagio della modernità, tr. it. G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Bari 1994, p. 48.

10 I. BERLIN, Due concetti di libertà, in Quattro saggi sulla libertà, tr. it. M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 189.

11 B , Due concetti, p. 197.

(8)

un controllore trascendente in posizione di dominio e una matassa empirica di desideri e passioni che dev’essere disciplinata e portata alla sottomissione”12.

In un certo senso, quindi, la rinuncia ascetica a se stessi o la identificazione con un principio irresistibile e superiore di liberazione sono due esiti della medesima degenerazione razionalistica dell’autonomia, rendendo possibile il passaggio “da una dottrina etica della responsabilità individuale e dell’autoperfezionamento individuale a uno stato autoritario sottomesso alle direttive di un’élite di guardiani platonici”13. In realtà, secondo Berlin occorre distinguere nettamente tra la pretesa di un controllo collettivo dell’autorità, esercitato, da Rousseau fino a Marx, in nome di un ideale di autorealizzazione razionale, e, al contrario, la volontà di ridurre l’autorità in quanto tale; in questo secondo caso, la libertà s’identifica, molto più semplicemente, con il massimo grado di non interferenza compatibile con le esigenze minime della vita sociale, come hanno insegnato i padri del liberalismo Mill e Constant. Per questo motivo, conclude Berlin, “il pluralismo, con la quantità di libertà ‘negativa’ che esso comporta, mi sembra un ideale più vero e più umano degli obiettivi perseguiti da coloro che cercano nelle grandi strutture autoritarie e disciplinate l’ideale del dominio di sé ‘positivo’ da parte delle classi, dei popoli o dell’umanità intera”14.

Intervenendo nel dibattito suscitato da questo saggio15, anche Taylor si interroga sulle conseguenze politiche dei due modelli, mettendo in guardia però contro una loro esasperazione caricaturale; non è accettabile infatti, secondo lui, identificare la versione positiva con la pretesa di un controllo collettivo sulla vita comune, così come è insostenibile “l’idea negativa grezza di libertà - la definizione hobbesiana”, in quanto

“la libertà non può essere solo l’assenza di ostacoli esterni, perché ve ne sono anche di interni”. Non solo: “non possiamo nemmeno dire - continua Taylor - che gli ostacoli interni si limitano a quelli che il soggetto identifica come tali, in modo che egli sia l’arbitro finale”16. Per essere libero, in altri termini, debbo essere in grado di riconoscere i miei scopi più importanti e quindi di raggiungere una certa condizione di autocomprensione; insomma “devo esercitare effettivamente l’autocomprensione per essere realmente o pienamente libero”17.

Qui tocchiamo effettivamente uno dei nervi scoperti della riflessione contemporanea sulla libertà: ha ragione Berlin nel denunciare le involuzioni in senso totalitario della tradizione razionalista, ma una sorta di eccesso di legittima difesa lo porta a scartare in partenza qualsiasi tematizzazione positiva. Il sospetto nei confronti di una determinazione troppo “forte” della “libertà-per” finisce per indebolire e capovolgere

12 BERLIN, Due concetti, p. 200.

13 BERLIN, Due concetti, p. 217.

14 BERLIN, Due concetti, p. 235.

15 Cfr. su questo problema la raccolta di saggi di AA.VV., L’idea di libertà, a cura di I. Carter e M.

Ricciardi, Feltrinelli, Milano 1996.

16 CH.TAYLOR, Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in AA.VV., L’idea di libertà, p. 97.

17 T , Cosa c’è che non va, p. 98.

(9)

il cammino ordinato verso il bene, nel quale la libertà trova il suo fondamento e il suo approdo: il positivo della libertà, anziché essere il fine primario alla luce del quale si determina anche il momento negativo, si riduce allora ad un’appendice residuale e vuota del processo di liberazione. A questo punto la “libertà-per” assomiglia sempre più alla “libertà-di”, cioè al semplice evento ontico della scelta18.

I riscontri sul piano politico non sono difficili: da un lato, in prospettiva marxista, soprattutto nella sua “corrente calda”, per usare la fortunata metafora di Ernst Bloch, il disegno rivoluzionario, che persegue il superamento di ogni alienazione, subordinandolo alla realizzazione compiuta della volontà generale, appare sempre più screditato, fino a conoscere, dopo una egemonia culturale forse immeritata, un declino forse troppo frettoloso; da un altro lato invece, la tradizione del liberalismo, che valorizzava al massimo il momento negativo, puntando tutte le sue carte su un radicale ridimensionamento del politico, subisce una estremizzazione liberistica sempre più spinta, nella convinzione che lo spazio lasciato aperto dallo Stato corrisponda automaticamente ad una espansione delle libertà individuali (a cominciare dalla sfera economica).

Per la cultura contemporanea resta comunque difficile, in tale contesto, legittimare una prospettiva etica che possa orientare la spinta in avanti di una libertà positiva senza le rigidezze soffocanti del collettivismo e senza il “relativismo morbido”19 di un’ideologia individualistica; in quest’ultimo caso dietro il mito della neutralità sembra nascondersi il tentativo, non sempre disinteressato, di consacrare lo status quo, letteralmente demoralizzando la logica della cooperazione a favore di una logica di mera competizione, che finisce per egemonizzare tutti gli spazi della convivenza.

4. 2 Un secondo nodo riguarda il rapporto tra intenzione e responsabilità. La distinzione, a suo tempo messa a fuoco da Weber e ormai consolidata in molti autori, da Schulz fino a Jonas, sembra configurarsi per lo più in termini irriducibilmente oppositivi: per un verso nell’etica dell'intenzione vengono fatte confluire, con evidenti forzature, due diverse declinazioni della vita morale, quella spiritualistica e quella kantiana, ricondotte entrambe ad un comune impianto deontologico, che risolverebbe la qualità dell'atto morale nella sua conformità alla purezza formale del volere o del dovere, dimenticando la vocazione ontologico-metafisica della prima e il severo impianto trascendentale della seconda; per altro verso si guarda all’etica della responsabilità come ad una visione finalmente libera da ogni ancoraggio in una

18 Questa identificazione impropria della libertà negativa come “libertà da” e dell’accezione positiva come “libertà di” è puntualmente criticata anche da I. SCIUTO, Libertà e liberazione, in Bene, male, libertà, “Annuario di filosofia”, 1999, pp. 69-90, il quale sottolinea che “le forme della libertà ‘di’ e

‘da’ si riferiscono entrambe all’agire e non al volere: sono, quindi, specificazioni della libertà negativa”

(p. 78).

19 L’espressione è di T , Il disagio della modernità, p. 22.

(10)

soggettività monologica, rovesciando verso l’esterno il baricentro della vita morale e chiamando il soggetto a rispondere delle conseguenze “lontane” dei suoi atti.

Anche in questo caso la riduzione dell’orizzonte trascendentale, considerato con sospetto come la fonte ultima di legittimazione di ogni forma autorefenziale di soggettività, perde progressivamente ogni riferimento vincolante all’universalità del bene; mentre nell’orizzonte “interno” la dinamica decisionale della scelta si svincola dalla tutela ritenuta soffocante della coscienza morale, l’orizzonte “esterno” autorizza solo declinazioni in senso empiristico: è il caso delle dottrine utilitaristiche, le quali si appropriano del paradigma teleologico, dandone però una versione radicalmente diversa e affidando il valore morale dell’azione solo al calcolo delle sue conseguenze fattuali e dunque non morali. Emotivismo e utilitarismo diventano allora i due esiti estremi di questa divaricazione, che costringe la ricognizione intorno all’agire morale nella strettoia di una mera esteriorità pragmatica, dove la responsabilità sembra accontentarsi di un rispetto puramente legalistico della norma positiva.

Ben diversa è invece la tematizzazione della responsabilità che ci è offerta da altri autori: come ad esempio Lévinas, secondo il quale la solitudine della ragione è scavalcata dall'irruzione del volto dell'altro, che nella sua immediatezza indeducibile e nella sua nuda fragilità lascia filtrare l'infinito, mandando in frantumi il cristallo di una soggettività imperialistica e piegandola all'accusativo; questo significa “non potersi sottrarre alla responsabilità, non avere come nascondiglio un'interiorità in cui entrare in sé”20. Oppure come in Jonas, il quale invece vede nella responsabilità una sorta di “consegna” assoluta, irrevocabile e non negoziabile, che la natura affida per così dire all'uomo nella forma di un “comandamento ontologico in base al quale l'umanità deve continuare ad esistere”21. O ancora come in Ricoeur, che inscrive l’incontro tra l’io e l’altro nella anteriorità del “noi”, grazie alla quale possiamo aprirci ad un ventaglio di attitudine etiche, dispiegate “fra i due estremi della chiamata alla responsabilità, in cui l'iniziativa procede dall'altro, e della simpatia per l'altro sofferente, in cui l'iniziativa procede dal sé”22.

In ogni caso, tutte le volte in cui la riabilitazione della responsabilità appare rigidamente subordinata al rifiuto di un’idea riflessiva di interiorità e di coscienza morale, assimilata ad una improponibile caricatura cartesiana, diventa arduo riconoscere la libertà come una originaria grandezza morale e si finisce prima o poi con il ridurla ad una mera grandezza pragmatica, sulla quale semmai si cercherà di far pesare, in nome del principio di imputabilità, una ipoteca di ordine retributivo. Quando la vita morale si riduce ad una prassi definita in ultima analisi unicamente dal volume del potere disponibile, anche la responsabilità rischia di essere invocata “troppo tardi”

20 E. LÉVINAS,La traccia dell'altro (Scorciatoie), tr. it. F. Ciaramelli, Libreria Tullio Pironti, Napoli 1979, p. 37.

21 H. JONAS,Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, tr. it. P. Ribaudo, Einaudi, Torino 1990,p. 126.

22 P.R , Sé come un altro, tr. it. D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, p. 288.

(11)

e considerata come una sorta di “ultima spiaggia”, sulla quale può attestarsi solo un

“cartello dei no”, legalista e mortificante.

4. 3 Un terzo nodo, che può essere considerato come una conseguenza del precedente23, riguarda la distanza tra orizzonte vicino e orizzonte lontano, tra la sfera personale più immediata e la lunga catena delle mediazioni interpersonali, istituzionali e culturali, dalle quali dipende la edificazione di un ethos condiviso. Distanza che può anche trasformarsi in una divaricazione incommensurabile. La filosofia moderna aveva speso molte delle sue migliori energie speculative per dominare concettualmente questo scarto, nel quale si riproponeva l’antico dilemma di identità e differenza. La dialettica hegeliana e il suo rovesciamento pratico-rivoluzionario ad opera del pensiero marxiano sono stati indubbiamente due fra i tentativi maggiori di raggiungere una sintesi compiuta, cercandola però dalla parte dell’intero. Per altro verso Kierkegaard e Nietzsche, con intenti e in prospettive diverse, hanno eretto due formidabili barriere di resistenza, assumendo al contrario le difese del singolo e della sua irriducibilità esistenziale.

L’orizzonte contemporaneo ci presenta una versione esperienziale e indebolita di questa dialettica. Se l'ideale kantiano di una comunità della ragione sembrava già a Hegel troppo lontano dalla concreta fisionomia sociale e storica entro cui si sviluppa la vita etica, venute ormai meno le garanzie di una dialettica trascendentale capace di trasformare una comunità storica in comunità etica, sembrano saltare tutti i ponti che potevano consentire una mediazione della fattualità, e quindi quella universalizzazione del particolare che consente un’apertura cooperativa nell’orizzonte del bene comune.

In tale contesto l’istanza della totalità, alla quale rimanda il mondo storico dei rapporti intersoggettivi, sembra ereditata soltanto dall’olismo metodologico delle scienze umane; nello stesso tempo, dal piano trascendentale del rapporto tra eticità e persona si discende al piano storico del rapporto tra individuo e istituzioni, dove si possono combattere battaglie aspre e sovversive, come in Foucault e Nozick, che di fatto si risolvono in un rafforzamento dell'individualismo24. In questo dilemma si fa quindi sempre più difficile la ricerca di un “terzo paradigma”, alternativo al funzionalismo del modello olistico e all’utilitarismo del modello individualistico25.

All’allontanamento dell’orizzonte vicino dall’orizzonte lontano corrisponde quindi una frattura tra etica privata ed etica pubblica: la prima assimilata al semplice vissuto

23 Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, nell’opera di W. SCHULZ, Le nuove vie della filosofia contemporanea. V: Responsabilità, tr. it. M. Garda, Marietti, Genova 1988.

24 Si può rimandare su questo punto, tra l’altro, a G. VATTIMO, Individuo e istituzioni: una prospettiva ermeneutica, in AA.VV., La dimensione etica nelle società contemporanee, Fondazione Agnelli, Torino 1990, pp. 81-112.

25 E’ quanto cerca di proporre nella sua opera A. CAILLÉ, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1998, che vede appunto nella dinamica del dono il performatore per eccellenza delle alleanze, che immette nella logica contrattuale del mercato e in quella giuridico-istituzionale dello Stato una rete alternativa di circolazione di beni.

(12)

soggettivo, che guarda allo spessore storico-sociale di ogni comportamento come ad un livello depotenziato e inautentico della vita morale, la seconda intesa come un volume di atti esterni, sui quali si riversa un accanimento legalistico. Qui il giusto

“scarta” rispetto al buono, optando per il legale: mentre le questioni valutative investono il campo della vita buona e sono affidate ad opzioni in ultima analisi insindacabili, le questioni normative investono unicamente il terreno convenzionale delle regole. In questo modo il proceduralismo finisce con il respingere i valori della solidarietà e della sollecitudine nel circuito privato degli affetti, accontentandosi di gestire l'arbitraggio degli interessi: l'amore diventa uno stile estetico-emozionale, che può impreziosire la fenomenologia dei rapporti corti, mentre la giustizia si riduce ad una sentinella che sorveglia lo spazio degli egoismi privati.

Come espressione esemplare di questa divaricazione si può citare l’estrema disinvoltura con la quale si brucia qualsiasi vincolo normativo nella sfera delle abitudini di vita “private”, a cominciare dalla sessualità con tutto il corredo di opzioni offerte dalle biotecnologie, mentre al contrario si invocano misure rigidamente prescrittive nell’ambito della moralità pubblica e di alcune grandi battaglie ideali:

contro la guerra, il razzismo, l’inquinamento; valori innegabili, emotivamente coinvolgenti, ma anche indolori, se tenuti troppo a distanza dalla vita quotidiana.

Dietro il paradosso di una moralità molto tollerante in bioetica e altrettanto intollerante in ecologia26 si nasconde la mortificazione di una libertà più o meno legittimata e

“svincolata” a seconda della sua incidenza diretta sulle nostre immediate abitudini di vita e di consumo. Con due conseguenze gravi: anzitutto una delimitazione del tutto arbitraria della dimensione pubblica e di quella privata, accompagnata da un uso equivoco del principio di tolleranza. Le esemplificazioni non mancano. Come sostenere, ad esempio, che aborto, fecondazione artificiale o eutanasia siano questione privata, quando investono l’assetto giuridico, le risorse economiche, le abitudini sociali di un’intera comunità?

Dietro questa assunzione non ricompare forse la dicotomia già denunciata tra coscienza e responsabilità, che attribuisce alla coscienza solo una sfera circoscritta e deresponsabilizzata? Come assicurare la compatibilità sociale di scelte di coscienza ritenute insindacabili? L’appello alla tolleranza, inscritto in questo contesto di sostanziale relativismo e prolungato sul piano dell’ordinamento giuridico, finisce a questo punto per capovolgersi, mascherando la sostanziale imposizione di un modello comportamentale su un altro: ad esempio, tollerare la bigamia equivale ad abolire il modello monogamico27.

26 Sottolinea questo aspetto anche F. VIOLA, Dalla natura ai diritti; I i luoghi dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997.

27 L’esempio è di F. D’AGOSTINO, Una filosofia della famiglia, Giuffrè, Milano 1999, p. 186. Sempre D’Agostino afferma che “la critica al soggettivismo non è una critica al principio di libertà; all’opposto è l’unico modo per difendere la libertà reale, la sola che nell’esistenza l’uomo possa davvero esperire”.

(13)

In secondo luogo, questa differenza annuncia anche un sostanziale scadimento dell’ethos, inteso come quella rete di mediazioni etiche oggettivabili e istituite, attraverso le quali la vita di relazione s'irrobustisce e acquista spessore, anche se in un equilibrio storicamente precario e sempre rettificabile tra esteriorità giuridica e tensione comunitaria. Delegittimando qualsiasi forma di oggettivazione etica, il comportamento umano finisce per volatilizzarsi, condannandosi all’impotenza dinanzi ad un destino ultimamente intrascendibile, anche se variamente caratterizzato (l’oblio dell’essere, il gioco linguistico, il determinismo della natura, l’irresistibile potere tecnologico).

In tal caso, come ci ha ricordato anche Taylor, si assottiglia pericolosamente lo spessore della Sittlichket, cioè “di quella dimensione dei nostri doveri etici verso una vita più vasta che siamo chiamati a sostenere e continuare. La dimensione sittlich è importante nella vita morale degli uomini - egli continua - se essi si identificano profondamente con la loro società e le sue istituzioni. Se non lo fanno, se ciò che ha veramente importanza si trova altrove, si ha ciò che Hegel caratterizza come condizione di vita alienata”28.

4. 4 Un quarto nodo riguarda l’interpretazione del rapporto tra autonomia ed eteronomia. Sullo sfondo sta indubbiamente la lezione esemplare di Kant, secondo il quale una volontà incondizionatamente buona si legittima come autolegislatrice, secondo un supremo principio di autonomia, attraverso una messa a distanza dall'impurità empirica dell'inclinazione ed una regola di universalizzazione, alla quale si sottomettono le massime dell'azione: l'imperativo categorico sarà precisamente quello che supera l'esame di universalizzazione. In altre parole in Kant un'azione compiuta per dovere trae il suo valore morale non dalla finalità che persegue, ma dalla massima in base alla quale la si decide: “Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale”.

Eppure già in questo impianto rigorosamente elaborato in senso trascendentale si possono individuare alcuni luoghi aporetici, come ha rilevato anche Ricoeur: la deduzione del principio di autonomia anzitutto si arresta dinanzi ad un insuperabile

“fatto della ragione”, che sembra limitare la volontà; Kant parla inoltre di “rispetto”

come movente impresso nel cuore umano, che introduce in qualche modo un'affezione, un fattore di passività alla base dell'autonomia; infine, riconoscendo un male radicale, si ripropone l'enigma di una ferita originaria nell'uso stesso della libertà e si riapre una prospettiva etica, come impegno a volere che non sia ciò che non dovrebbe essere.

Ricoeur si sofferma in particolare sul passaggio dall'autonomia al rispetto, che

Il libertario invece è destinato fatalmente ad autoconfutarsi, “non riuscendo per nulla, secondo i propri principi, a garantire quella totale libertà che esso stesso proclama come diritto di tutti” (Ivi, p. 126).

28 C .T , Hegel e la società moderna, tr. it. A. La Porta, Il Mulino, Bologna 1984, p. 177.

(14)

rappresenta la struttura dialogica dell'autonomia e corrisponde alla figura etica della sollecitudine.

Tale passaggio può riassumersi nella seconda formula dell'imperativo kantiano:

“Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Qui l'idea di persona introduce qualcosa di nuovo rispetto a quella di umanità: il rispetto per le persone nella loro diversità e alterità, appunto come fini in sé. A questo livello la pluralità sembra ridimensionare l'autonomia e riproporre un qualche appello all'eteronomia: “la voce della sollecitudine […] chiede che la pluralità delle persone. e la loro alterità non siano obliterate dall’idea inglobante di umanità”29.

In senso ancora più ampio, si potrebbe aggiungere, la soluzione kantiana attesta la rottura dell’equilibrio speculativo che aveva fatto la fortuna del modello tommasiano, nel quale la rilevanza teleologica del bene perdeva ogni parvenza di estrinsecismo in virtù di una fondamentale somiglianza di ordine ontologico fra il fine e il soggetto che vi tende. Lo rileva bene Botturi: “Se dunque l’agatologia tommasiana si dispone secondo i criteri della teleologia aristotelica, - scrive - è anche vero che essa si fonda su un’ontologia della somiglianza-partecipazione di ascendenza neoplatonica e, in ultima istanza, su una metafisica esemplaristica (in cui efficienza e finalità vengono a coincidere)”30.

Quando questi due aspetti non riusciranno più ad essere coniugati entro un medesimo impianto teorico, la cultura moderna comincerà a guardare con sospetto crescente ad ogni forma di pressione normativa metafisicamente fondata, respingendola come un inaccettabile intervento esterno. Anche la via di Kant sembra risentire di una precomprensione dell’eteronomia in questo senso estrinsecista, che lo induce a delegittimarla come un’alternativa impropria alla purezza trascendenza della legge;

perciò lo scarto tra fenomeno e noumeno sottrae il soggetto morale non solo al regno della causalità naturale, ma anche ad un qualsiasi rapporto con il suo Creatore. La critica kantiana del bene come fine, anche secondo Vigna, comporta quindi “la sua relativa emarginazione nell’ambito della morale vera e propria, in nome del toglimento dell’eteronomia dell’agire”. In questo modo, “la modernità non poteva non congedare il bene come fine, una volta perduta di vista la struttura della causa finale”31. A questo punto anche la teonomia risulterà fatalmente assimilata ad una forma di invadenza eteronoma.

Nel contesto culturale odierno, poi, quanto più l’ideale dell’autonomia pretende di autolegittimarsi prescindendo completamente da qualsiasi garanzia di ordine

29 RICOEUR, Sé come un altro, p. 328.

30 F. BOTTURI, Tommaso: bene, fine, tendenza. Profilo dell’agatologia di Tommaso d’Aquino, in AA. VV., La libertà del bene, p. 199.

31 C.VIGNA, Introduzione. Sulla libertà del bene, in AA.VV., La libertà del bene, p. 10. Nel volume questa tesi di Vigna viene ripresa e sviluppata più avanti, nel saggio Bene e male. Una riconsiderazione, pp. 55-80.

(15)

trascendentale, tanto più esso finisce per essere sistematicamente contaminato da pericolose infiltrazioni eteronome, rispetto alle quali la libertà stessa può diventare assoluta indifferenza. Il paradosso dell’autonomia mancata può essere verificato a livelli diversi.

Anzitutto a livello interno: una autonomia assunta come un dato di fatto immediato, opposto a qualsiasi normatività esterna, assomiglia sempre più ad una forma di ingenua spontaneità soggettiva, che aggioga l’agire umano alla precarietà di pulsioni istintuali, di bisogni effimeri, di situazioni occasionali, che possono diventare il volto più subdolo di una schiavitù radicata e invisibile. La rivendicazione orgogliosa dell’indipendenza da qualsiasi interferenza esterna è solo il primo passo, in molti casi il più facile, verso un’autentica emancipazione.

A livello esterno, peraltro, un male inteso senso di autonomia può accreditare l’equivoco secondo il quale la libertà della scelta è direttamente proporzionale all’azzeramento di ogni limite, che in realtà rappresenta le condizioni materiali della scelta stessa. Quando poi tali limiti restringono notevolmente i margini di indipendenza e vengono avvertiti come troppo complessi e faticosi da accettare, allora l’individuo li considera come nemici della propria vita e tende a rifuggire da essi, per autoesiliarsi in uno spazio dove assaporare un’autonomia solo apparentemente incondizionata. Caduto il filtro trascendentale, l’autonomia si quantifica unicamente con il metro delle possibilità operative o delle gratificazioni immediate, mentre si afferma il principio secondo il quale tutto ciò che rappresenta una mortificazione del bisogno, o che aumenta il vincolo di dipendenza dagli altri, è indegno della persona.

Gli esempi non mancano: nella sfera della vita biologica e psicologica autonomia significa massima indipendenza, dagli altri e da tutti quei fenomeni difettivi che, a cominciare dalla malattia, limitano il nostro desiderio. Su questa scala occupano la posizione più alta i soggetti sani, brillanti, benestanti, di pelle bianca, che si illudono di non aver bisogno di nessuno per esercitare il loro rampantismo spregiudicato, mentre stanno al punto più basso gli embrioni umani, i malati terminali, gli handicappati, le minoranze, tutti i dannati della terra. Il rifiuto di riconoscere uno statuto personale all’embrione umano o la domanda di eutanasia come via d’uscita per non vedere tragicamente sconfessato un modello adolescenziale di libertà sembrano nascere proprio da qui.

Allo stesso modo nasce da qui una visione puramente strumentale della vita di relazione, che alla fine nega alla dimensione politica qualsiasi dignità valoriale, declassandola cinicamente a luogo di rapporti di forza. La persona umana è in realtà insuperabilmente fragile, vulnerabile, dipendente dagli altri e da una rete complessa e variabile di fattori: fisico-biologici, educativi, affettivi, spirituali. Persona autentica quindi è anche chi vive nell’indigenza, nel disagio, nella malattia, nella solitudine, nell’approssimarsi della morte; in queste condizioni ha costantemente bisogno degli

(16)

altri, fino al punto da dover ammettere, con S. Paolo, un mutuo indebitamento. La libertà si misura, per fortuna, con parametri diversi da quelli quantitativi.

4. 5 Un quinto nodo, infine, riguarda il rapporto della libertà con il bene e con il male.

Il processo di autoaffermarzione antropocentrica tocca indubbiamente il suo culmine nel momento in cui s’impadronisce dei criteri stessi del giudizio morale, portando alle estreme conseguenze quel fenomeno di progressiva divaricazione tra la libertà e il bene cominciato da lontano. Secondo MacIntyre, bene e male, per l’uomo moderno, da principi supremi della vita morale, si sono progressivamente trasformati in oggetti stessi di scelta. Kierkegaard ha “fotografato” da vicino questo slittamento, mostrando come lo scarto tra l'etico e l'estetico non corrisponde più ad una scelta interna alla scala del bene e del male, ma alla possibilità, ancor più originaria, di scegliere il parametro etico, dove si valuta in termini di bene e di male, oppure altri parametri, ad esempio il parametro del gusto. Se però i principi che definiscono la vita etica sono frutto di pure opzioni alternative e razionalmente indecidibili, si chiede MacIntyre, dove l'etico può attingere la sua forza normativa?32.

Potremmo provare ad accostare a questa tesi la nozione di chances di vita, elaborata, in un contesto molto diverso, da Ralf Dahrendorf. Queste “sono le impronte dell’esistenza umana nella società”33 e si qualificano in funzione di due elementi:

opzioni e legature (ligatures); le prime si riferiscono ad un ventaglio di beni disponibili, le seconde ad una insieme di vincoli di appartenenza, che legano le persone alle loro comunità. Un bilanciamento dinamico fra questi due fattori è però indispensabile: “Le legature senza opzioni significano oppressione, mentre le opzioni senza legami sono prive di senso”34. Mentre nelle società premoderne si poteva facilmente rilevare una prevalenza delle legature sulle opzioni, oggi tale rapporto sembra essersi capovolto, rischiando di diventare squilibrato nella direzione opposta:

“C’è un rapporto ottimale tra opzioni e legature che forse è stato turbato nelle società odierne”35.

Proviamo a spostare tale nozione dal suo originario ambito storico-sociale ad un ambito ontologico-trascendentale (che nel discorso di Dahrendorf non sembra esser

32 Lo stesso MacIntyre ci offre una efficace esemplificazione: “Bertrand Russell ha raccontato come un giorno del 1902, mentre andava in bicicletta si accorse all'improvviso di non essere più innamorato della sua prima moglie: e dal fatto di essersene accorto seguì molto presto la rottura del matrimonio.

Kierkegaard avrebbe detto, e certamente a ragione, - egli aggiunge - che qualsiasi sentimento la cui assenza può essere scoperta con una illuminazione improvvisa mentre si va in bicicletta è soltanto una reazione estetica, e che un'esperienza del genere non deve influire sull'impegno che un autentico matrimonio comporta, sull'autorità dei precetti morali che definiscono il matrimonio. Ma - è questo il punto, secondo MacIntyre - di dove trae l'etico questa specie di autorità?” (A.MACINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, tr. it. P. Capriolo, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 58-59).

33 R. DAHRENDORF, La libertà che cambia, tr. it. P. Micchia Laterza, Roma-Bari 1995, p. 16.

34 DAHRENDORF, La libertà che cambia, p. 42.

35 D , La libertà che cambia, p. 43.

(17)

tenuto presente, ma che non può nemmeno essere escluso in linea di principio);

incrociando questo contributo con quello di MacIntyre si potrebbe dire: l’equilibrio morale viene alterato quando il bene è disconosciuto come legatura e trasformato in opzione. In tal caso l’area delle opzioni si amplia a dismisura, rischiando però di delegittimare il senso stesso dell’agire. Quando le opzioni aumentano in assoluto a scapito delle legature, non aumentano realmente le chances di vita.

Insomma, nel momento in cui l’autonomia del gesto viene a coincidere con la neutralizzazione del carattere vincolante dello scopo, il rapporto tra libertà e bene conosce la sua metamorfosi più radicale36. E se è vero, come ci ha ricordato Maritain ponendosi alla scuola di Tommaso, che il bene è l’essere in quanto posto dinanzi all’amore e al volere, l’erosione dell’ordine morale non può non andare di pari passo con l’erosione dell’ordine ontologico, evocando lo spettro del nichilismo. Quando infatti l’orizzonte si abbassa e il pathos della scelta si smorza, il bene perde la sua carica di attrazione e viene meno con esso l’intera scala assiologica, entro la quale si possono ricondurre e valutare i conflitti morali; nello stesso tempo anche il male si spoglia di tutto il suo alone di enigmatica tragicità, assumendo la fisionomia ben più modesta e pragmatica di un mero incidente di percorso. Si smarrisce di conseguenza anche l’avvertimento di uno squilibrio antropologico che altera l’equidistanza del soggetto agente nei confronti del bene e del male, annunciando il fenomeno ambiguo della fragilità del volere e aprendo la strada ad una ripresa teologica dei temi del peccato e della grazia.

Una libertà posta al di là del bene e del male, cioè giocata tutta su un registro di opzioni assolutamente “slegate” o svincolate, diventa in se stessa fonte di un indebolimento ontologico, nel quale le differenze si attenuano sfumando in una generica rivendicazione di autenticità. Ma, come Taylor ci ha ricordato, "l'autenticità non può essere difesa in maniere che distruggano gli orizzonti di valore"37. Egli ce ne offre una esemplificazione efficace, ricordando i tentativi di giustificare orientamenti sessuali diversi, in quanto modalità “autentiche” e insindacabili di autorealizzazione.

Così, difendere la scelta omosessuale affermandone l’“eguale valore” rispetto ad ogni altra scelta equivale a renderla assolutamente indifferente, equiparandola, alla fine, persino alla possibilità di scegliere partners sessuali alti o bassi, biondi o bruni:

“Affermata in questo modo, - conclude Taylor - la differenza diventa insignificante”

38. Insomma, quando tutto ha valore solo perché è scelto, nulla è scelto perché ha valore.

Ed anche se la gamma delle esemplificazioni possibili attraversa tutta la scala dell’agire morale, fino ai livelli più vistosi della macroetica economica e politica, non

36 Ancora con Vigna: “La divaricazione tra la libertà del gesto e lo scopo del gesto a me pare una delle grandi malattie del nostro tempo” (VIGNA, Introduzione, p. 3).

37 TAYLOR, Il disagio della modernità, p. 46.

38 T , Il disagio della modernità, p. 45.

(18)

si può non includervi anche l’insieme di quei comportamenti apparentemente

“privati”, per i quali solo un estremismo ideologico individualista può invocare un’improbabile franchigia morale, presumendo di assolverli come pubblicamente irrilevanti e socialmente inoffensivi. Ma anche il consumo ludico della vita e della sessualità è un sintomo evidente e non secondario di questo gigantesco processo di spostamento dei principi morali dal campo delle “legature” a quello delle “opzioni”.

Riconoscersi interpellati da questo diffuso fenomeno di cultura e di costume e impegnati a riflettere sulle sue radici profonde e sull’ethos che ne discende non può essere solo una anacronistica fissazione dei credenti, ma un impegno morale e civile di chiunque intenda professare una libertà realmente appassionata alle ragioni del bene.

(19)

I,2. I vincoli della libertà

1. Identità e relazione

Questo contributo si pone in continuità ideale con un precedente intervento, di cui raccoglie le principali istanze problematiche e condivide le medesime preoccupazioni di ordine etico e antropologico. La riflessione sulle “metamorfosi della libertà”, abbozzata in quel testo, aveva sollevato una serie d’interrogativi, riconducibili, al di là dei diversi scenari in cui hanno preso forma, ad un medesimo nodo di fondo, da cui questo studio vorrebbe enucleare il tema della relazione, assumendolo in senso ampio e radicale, per ricomprendervi il modo d’intendere il rapporto interpersonale, come un aspetto specifico, anche se dei più vistosi e dibattuti.

Un’antica controversia intorno ai confini della libertà soggettiva e alla componibilità politica dei diritti individuali pesa sui tentativi opposti di legittimare o delegittimare la convivenza, configurandola come fonte di piena fioritura interumana o d’insuperabile conflittualità sociale. Eppure, a voler guardare ancora più lontano, è possibile che l’esercizio stesso della libertà dipenda da un difficile equilibrio, che investe prima di tutto la relazione dell’io con se stesso e che la dinamica intersoggettiva riflette ed amplifica. Al centro della riflessione sarà quindi, più che la pluralità interattiva degli individui, il plurale stesso della libertà: non solo nel senso più scontato della molteplicità delle scelte, attorno alle quali ogni persona umana costruisce il proprio vissuto, ma com’espressione di un dislivello costitutivo, attraverso il quale si costruisce il difficile processo della genesi interiore e dell’incarnazione storica dell'atto libero.

Il percorso che si cercherà di abbozzare può essere riassunto secondo la seguente scansione tematica: l’orizzonte sociale in cui si dispiega l’atto libero rinvia ad una relazione ancor più originaria, di tipo “verticale”, dell’io con stesso, nella quale si annuncia un vincolo di partecipazione, che è alla radice della orizzontalità di tutti rapporti interpersonali e della conseguente ricerca di una mediazione istituzionale e politica di tali rapporti. La domanda intorno alle valenze relazionali della libertà investe quindi il luogo strategico in cui s’intersecano identità e relazione, chiamando in causa un orizzonte partecipativo, rispetto al quale il pensiero moderno e contemporaneo sembra continuamente oscillare fra le opposte declinazioni dell’olismo e dell’individualismo.

Il paradigma olistico e quello individualistico, nelle diverse forme che hanno ricevuto, appaiono infatti come i punti di approdo estremi d’una oscillazione nel modo d’intendere il nesso tra identità e relazione: in un caso risolvendo compiutamente l’identità personale nella relazione, fino ad attribuire alla relazione stessa lo statuto totalizzante di un’entità sovrapersonale; nell’altro caso ipostatizzando l’io come nucleo autoreferenziale di bisogni, rispetto al quale la dinamica relazionale viene screditata come sovrastruttura estrinseca. Il pensiero moderno ci ha offerto versioni

(20)

alte e radicalizzate di questi due eccessi, che la deriva culturale contemporanea ha sottoposto ad un’implacabile opera d’erosione speculativa, restituendoci delle forme subdole e striscianti, a malapena mascherata dallo stereotipo tranquillizzante della crisi delle ideologie.

Anzitutto, l’istanza della totalità unificante sembra aver conosciuto un rapido declino, in coincidenza con la crisi dello storicismo moderno e il successivo affermarsi della cifra postmoderna della disseminazione. Nello stesso tempo, sostenuta da una forte spinta riduzionistica, la domanda di unificazione ha conosciuto una fortuna crescente nell’ambito delle scienze umane, legittimandosi come metodo per dominare i dati empirici inscrivendoli in un contesto analitico unidimensionale. Da tale impianto è nata un’intera costellazione di approcci metodologici, che in molti casi si sono trasformati negli “ismi” di varie ideologie emergenti: dallo strutturalismo al sociologismo, dall’ecologismo all’animalismo e alle versioni più o meno hard di

“etiche della terra”. Questa svolta metodologica ha rappresentato un’alternativa metodologicamente funzionale e speculativamente non impegnativa alle forme più ambiziose di monismo speculativo, depurandole da ogni valenza trascendentale e rovesciando in senso archeologico ogni proiezione teleologica.

Oggi questo processo sembra conoscere però un approdo paradossale:

propugnando una sorta di ambiguo ideale di anti-liberazione, l’apparato teorico di molte scienze umane le ha condotte ad una professione di disimpegno antropologico, che spesso giunge ad una vera e propria professione antiumanistica. La vera libertà consiste nello sbarazzarsi completamente dall’ingombrante fardello umanistico, deponendolo ai piedi delle figure tipicamente post-moderne del congedo e del disincanto. Il distacco totale della psicoanalisi e dello strutturalismo dal titanismo esistenzialista, cordialmente ricambiato dalla pungente polemica sartriana contro la malafede, può essere un’immagine emblematica e non secondaria di questa neutralizzazione olistica della libertà.

Analoghe considerazioni potrebbero farsi per la crisi di molte dottrine filosofiche ad esito individualistico, che hanno segnato la “grande svolta” dell’Occidente, come la chiama Bobbio, anteponendo al primato dei doveri il primato dei diritti. Rispetto alla teorizzazione più estremistica, da Hobbes fino a Nozick, che ha proclamato l’assoluta autonomia e autosufficienza dell’individuo nei confronti della società, anche in questo caso la cultura contemporanea ha elaborato una versione indebolita, ma non meno radicale, di individualismo; essa consiste essenzialmente nel legare l’identità individuale non più ad una visione autocentrata della natura umana, in cui l’io è visto come ontologicamente proprietario di interessi e vantaggi, ma ad una scala di preferenze di cui il soggetto è semplicemente depositario e la cui soddisfazione è di per sé riconosciuta come fonte di autonomia e di libertà. Svincolata da una qualche antropologia di riferimento, la scala delle preferenze soggettive finisce per includere non solo la tradizionale sfera degli interessi, ma l'idea stessa d’individuo; in un certo

(21)

senso, dall’incertezza degli interessi si passa all’incertezza dell’identità, imprimendo all'apertura pluralistica un’insaziabilità libertaria, che alla fine destabilizza persino il tradizionale vincolo del mercato. Di questo passo lo stesso primato della cosiddetta libertà negativa, con tutte le difficoltà e gli equivoci che tale nozione comporta, rischia di rivoltarsi contro l’idea stessa d’autonomia individuale.

Queste versioni nuove d’olismo e individualismo tendono oggi non soltanto a convivere, ma addirittura a compenetrarsi in una sorta d’ibrida commistione, disegnando uno dei tratti più caratteristici del nostro tempo: il paradigma olistico sembra fornire un impianto sistemico a tutti gli approcci dominanti nelle analisi dei fenomeni macro-culturali (dalla sociologia all’economia, dall’antropologia culturale alla psicologia sociale), trovando nel tema (ma anche nella retorica) della globalizzazione un decisivo punto di coagulo e di giustificazione; il paradigma individualistico sembra essersi scavato, invece, una specie d’insindacabile nicchia protetta nel microcosmo privato dei bisogni, degli interessi e dei sentimenti. In tal modo la stessa contrapposizione fra complessità sistemica e autonomia individuale conosce una profonda metamorfosi, che radicalizza, anziché attenuarli, i conflitti intorno all'idea di libertà, portando in primo piano, in entrambi i casi, il nodo irrisolto del rapporto fra identità e relazione.

2. “Legature” e “opzioni”

E’ quindi necessario, a questo punto, dirigere l’attenzione verso quel nodo tematico di fondo che sembra all’origine delle “metamorfosi” e delle “avventure postmoderne” della libertà. Lo spunto per abbozzare questo percorso ci è offerto dalla possibilità di riprendere e rielaborare in prospettiva etica la nozione di “chances di vita”, elaborata da Dahrendorf come uno strumento “particolarmente fruttuoso” per identificare la capacità creativa dell’uomo nella storia. Tale nozione individua “le impronte dell’esistenza umana nella società”; esse infatti “definiscono fino a che punto gli individui possono svilupparsi”.

Sempre secondo Dahrendorf, le “chances di vita” sono il risultato di un bilanciamento dinamico tra due elementi, definiti “legature” e “opzioni”. Le prime indicano appartenenze, legami, relativi a campi dell’agire umano strutturalmente precostituiti: “Dal punto di vista del singolo, le legature si configurano come relazioni.

Danno significato al posto che egli occupa”. Al contrario, le opzioni aprono ad un ventaglio di beni disponibili: “E’ soprattutto l’elemento del senso e dell’ ‘ancoraggio’

– precisa ancora Dahrendorf – che contraddistingue le legature, mentre le opzioni mettono in rilievo lo scopo e l’orizzonte dell’agire”. Insomma “le legature istituiscono relazioni e con ciò i fondamenti dell’agire; le opzioni esigono decisioni di scelta e sono perciò aperte al futuro”.

Le “chances di vita” dipendono fondamentalmente dalle “relazioni ottimali” che possono intercorrere o meno tra questi due fattori, cioè da un equilibrio che non deve

Riferimenti

Documenti correlati

Dato che il mercato è in regime di monopolio, i prezzi sono da ricavare dalle due funzioni di domanda, le quali, in questo caso, dipendono non solo dal prezzo del bene considerato,

Gli esercizi fenomenologici della «brocca», della «montagna», sino a quello riferito all’«essere in quanto essere», presentati nel Settimo capitolo, L’esperienza della cosa

Nello specifico questa parte del progetto educativo AccadueOro ha visto durante l’anno scolastico 2007-2008 la progettazione, la realizzazione e la consegna a

( Molluschi, Glutine e derivati°, Sedano, Latte e derivati, Anidride solforosa). Riso riserva invecchiato 12-18 mesi, parmigiano

La valvola di sicurezza completa il sistema con disegni, libretto di istruzioni e dichiarazione di conformità CE secondo la direttiva europea 97/23/CE - PED come “INSIEME“

Il dottor Ansaloni si avvicinò, toccò anche lui la gamba e tutto il resto, poi mi sollevò dal cuscino; la ferita al fianco, che doveva essere la più profonda, mi fece stringere

Sullo sfondo, la ricerca del bene comune e di un nuovo umanesimo, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa e delle encicliche di Papa Francesco, come sottolineato da don

La batteria è dichiarata con vita utile di almeno 10 anni e alla fine del suo lavoro è sufficiente portarla in un centro di smaltimen- to: l’inverter può continuare a