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JUS- ONLINE 4/2021 ISSN RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell Università Cattolica di Milano

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a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano VALERIO NERI

Già Professore ordinario di Storia romana, Università di Bologna

Il dovere della carità: il rapporto diretto con i poveri ed il rapporto mediato dalle istituzioni ecclesiastiche (IV-VI secolo)

English title: The duty of charity: the direct relationship with the poor and the relationship mediated by the ecclesiastical institutions (IV-VI centuries)

DOI:10.26350/18277942_000037

Sommario: 1. Introduzione. Il valore cristiano dell’elemosina. 2.

L’imperatore cristiano e i poveri. 3. Le aristocrazie femminili e maschili e la carità. 4. Le istituzioni ecclesiastiche come mediatrici dell’elemosina.

1. Introduzione. Il valore cristiano dell’elemosina

Per tutti i cristiani dare ai poveri è un dovere. Per tutti i cristiani, non solo per i ricchi, ma anche per coloro che abbiano risorse appena sopra la semplice soddisfazione dei bisogni essenziali. Da parte di tutti bisogna dare a tutti senza distinzioni, anche religiose o morali (anche se presto cominciano ad affiorare criteri preferenziali), soprattutto sulla base di Lc 6, 30 (“dà a chiunque ti chieda”). Secondo il celebre passo di Mt 25, 31-46, nel giudizio finale il criterio essenziale con il quale Cristo giustifica o condanna gli individui è la carità nei confronti dei bisognosi, affamati, assetati, ignudi, forestieri, malati, carcerati (“ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”)1. Si tratta dunque di un dovere e di una via obbligata di salvezza

Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

1 Cfr. in generale P. Brown, Treasure in heaven: the holy poor in early Christianity , Charlottesville 2016; G.I. Gargano, Due grandi vescovi davanti alla povertà. Basilio di Cesarea e Gregorio Magno, in Euntes docete, 68 (2015), pp. 67-93; G.D. Dunn, Why care for the poor?: the role of almsgiving in Jerome's asceticism, in Zeitschrift für antikes Christentum, 18 (2014), pp. 283-301; F. Quéré Jaulmes, L' aumône dans l'Église ancienne , in F. Quéré-Jaulmes, G.Bady, , Chr. Bouchet, M. Cassin, A.

Hérouard, J.M. Salamito, M.H. Congourdeau, J. Marsaux (eds.), Riches et pauvres dans l’église ancienne, Paris 2011; L. Pidolle, L'amour des pauvres et son fondement dans la confession christologique de S. Léon le Grand. Ou comment donner avec foi!, in Nouvelle Revue Theologique, 135 (2013), pp. 196-217; B.W. Longenecker, Remember the poor: Paul, poverty, and the Greco-Roman world, Grand Rapids 2012; S. Sitzler,

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individuale, come non era nella Bibbia e non è nemmeno nel giudaismo rabbinico, ma presto si sviluppano forme di carità comunitaria, basate sulle offerte dei fedeli, che, nelle comunità più ricche, acquistano dimensioni considerevoli. Eusebio di Cesarea ci informa che la chiesa di Roma sotto il papa Cornelio, a metà del III secolo, assisteva più di 1.500 persone tra vedove ed altri poveri2. Si sviluppa dunque presto, e questo è l’oggetto del presente lavoro, una dialettica fra la carità individuale, nella quale per le aristocrazie si proiettano in qualche misura i valori dell’evergetismo classico, e la carità organizzata dalle gerarchie ecclesiastiche che tende a proporsi come un polo di attrazione per l’esercizio individuale della carità.

Nell’impero cristiano la centralità del rapporto con i poveri si espande e si rafforza e coinvolge tutta la società tardo antica a partire dalla figura imperiale. Anche il concetto stesso di povertà si espande e i beneficiari della carità cristiana comprendono altre categorie disagiate, che non rientravano nei ceti tradizionalmente assistiti come vedove e orfani, soprattutto i prigionieri e il clero stesso. Una particolare attenzione era poi riservata, come nel mondo giudaico, ai poveri che vivevano nascostamente la loro condizione, i pauperes verecundi, che erano particolarmente gli impoveriti, decaduti da una situazione di, almeno relativa, agiatezza.

2. L’imperatore cristiano e i poveri

L’imperatore cristiano, a partire da Costantino, ha modalità diverse di rapporti con i poveri ed i problemi della povertà, dall’intervento attraverso le istituzioni statali, ai benefici ai poveri di specifiche comunità, alle donazioni alle chiese. Della prima modalità abbiamo la sola testimonianza di due costituzioni di Costantino, nella prima parte del suo regno. La prima è una costituzione indirizzata ad Ablabio3, che in maniera Identity: the indigent and the wealthy in the homilies of John Chrysostom, in Vigiliae christianae, 63 (2009), pp. 468-479; A. Canellis, Maxime de Turin et les pauvres: à propos de la pauvreté et de la richesse, matérielles et spirituelles , in P. G.Delage (ed.), Les Pères de l’Eglise et la voix des pauvres, Jonzac 2006, pp. 131-148; V. Neri, I marginali nell’Occidente tardo antico: poveri, ‘infames’ e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998, pp. 83-132; B. Ramsey, Almsgiving in the Latin Church:

the late fourth and early fifth century, in Theological Studies, 43 (1982), pp. 226-259.

2 Eus. Caes., H.E. 6, 43, 11.

3 CTh.11.27.1: Imp. Constantinus A. ad Ablavium. aereis tabulis vel cerussatis aut linteis mappis scripta per omnes civitates italiae proponatur lex, quae parentum manus a parricidio arceat votumque vertat in melius. officiumque tuum haec cura

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convincente Pierfrancesco Porena ha identificato con il famoso prefetto del pretorio e console nel 331, in un fase iniziale della sua carriera, come vicarius Italiae4. Di essa viene ormai ampiamente accettata la datazione al 315 riportata dai codici5, non accettando la correzione proposta dal Seeck. La legge era ispirata dalla volontà di arginare il fenomeno dell’uccisione dei figli per l’impossibilità o la difficoltà di mantenerli (quae parentum manus a parricidio arceat). I figli di cui si parla sembrano essere neonati. I benefici infatti ai quali accenna la legge a favore dei parenti in difficoltà sembrano con tutta evidenza riguardare neonati (cum educatio nascentis infantiae moras ferre non possit). I figli per i quali i genitori ricevono alimenti e vestiario dallo stato sembrano essere di entrambi i sessi (si quis parens adferat subolem) e dunque sembra considerato parricidio anche l’infanticidio di femmine che, nel mondo antico, sia greco sia romano, era certamente più frequente dell’infanticidio di maschi. Responsabile della concessione degli aiuti era l’officium di Ablabio, dunque presumibilmente l’officium del vicarius Italiae, con sede a Milano. I poveri da assistere però erano dislocati in tutte le città della diocesi: il testo stesso della costituzione parla di portare e dunque presentare materialmente i figli che si riteneva di non poter mantenere (si quis parens adferat subolem), dichiarando il proprio stato di indigenza, che ovviamente doveva in qualche modo essere verificato da chi poteva conoscere la situazione del richiedente, come presumibilmente gli uffici cittadini, che avevano la possibilità di accertare la situazione patrimoniale dei richiedenti sui catasti cittadini e che potevano inoltre ricorrere a testimonianze plausibili. Accanto all’officium del vicario sono coinvolti anche quelli del fisco e della res privata, ai quali, come suggerisce Porena, presumibilmente era stata inviata copia del provvedimento costantiniano. Si può dunque pensare che questo accertamento delle situazioni famigliari, che erano nelle condizioni di fruire degli aiuti, avvenisse in presenza delle autorità cittadine e dei loro perstringat, ut, si quis parens adferat subolem, quam pro paupertate educare non possit, nec in alimentis nec in veste impertienda tardetur, cum educatio nascentis infantiae moras ferre non possit. ad quam rem et fiscum nostrum et rem privatam indiscreta iussimuas praebere obsequia. dat. iii id. mai. Naisso Constantino A. IVi et Licinio IV AA. conss.

4 P.F. Porena, Ancora sulla carriera di Flavius Ablabius, prefetto del pretorio di Costantino, in Zeitschrift f. Papyrologie und Epigraphik, 190 (2014), pp. 262-270.

5 Oltre al già citato Porena, cfr. M.G. Bianchini, Provvidenze costantiniane a favore di genitori indigenti, Per una lettura di CTh 11, 27, 1-2,, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova, 20 (1984-85), pp. 23-48; C. Corbo, Tra Italia e Africa: la legislazione di Costantino sugli “inopes parentes”, in Κοινωνια, 36 (2012), pp. 37-55.

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officia, che trasmettevano poi gli atti all’officium del vicario e a quelli dei rationales, i quali poi dovevano provvedere ad autorizzare l’erogazione dei beni.

Sono state spesso richiamate analogie del provvedimento costantiniano con gli alimenta traianei e quindi si è cercato di mettere in evidenza la continuità dei provvedimenti costantiniani con il sistema alto imperiale di sostegno alle famiglie con difficoltà nel mantenere i propri figli6. L’analogia evidente sta nel sostegno da parte dello stato alle famiglie indigenti per il mantenimento dei loro figli. Detto questo, ci sono molte rilevanti differenze. Il provvedimento costantiniano non ha le dimensioni e l’organizzazione di quello traianeo, che consentono ad esso di programmare in qualche misura il numero degli assistiti e di prolungare indefinitamente nel tempo l’assistenza. Il suo eventuale successo è legato alla buona volontà di burocrazie municipali e statali ed al loro coordinamento ed è evidentemente in rapporto con i limiti del finanziamento, che, nella costituzione, non vengono esplicitati. L’obiettivo che Costantino si pone esplicitamente non è demografico come negli Alimenta traianei, ma morale, con una sensibilità ispirata dal cristianesimo7, intende cioè, come abbiamo visto, contrastare il fenomeno dell’infanticidio, offrendo ai genitori poveri un’opzione positiva alla soppressione dei figli neonati.

Sotto il titolo di CTh 11, 27: de alimentis quae inopes parentes de fisco petere debent, troviamo, oltre a quella esaminata, solo un’altra costituzione, pure di Costantino, del 322, indirizzata ad un Menandro, che è forse un altro vicario, d’Africa. In questo caso non è l’officium del personaggio, probabilmente un vicario, ad essere investito della

6 Cfr. R. Duncan Jones, The purpose and the organisation of the Alimenta, in Papers of the British School of Rome, 32 (1964), pp. 23-146; Id., The economy of the Roman Empire,: quantitative studies, Cambridge 1974; E. Lo Cascio, Gli alimenta:

l’agricoltura italica e l’approvvigionamento di Roma, in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 33 (1978), pp. 311-351; I. Cao, “Alimenta”: il racconto delle fonti, Padova 2012; M.M. Page, La politique socio-agraire de l’empereur Nerva (96-98 d.C.), in Mélanges de l’Ecole Francaise de Rome Antiquité, 121 (2009), pp. 209-240; J.

Carlsen, Gli “alimenta” imperiali e privati in Italia: ideologia ed economia, in D. Vera (ed.), Demografia, sistemi agrari, regimi alimentari nel mondo antico, Bari 1999, pp.

273-288.

7 Lattanzio aveva decisamente in Epit. 59, 5 affermato che l’uccisione e addirittura l’esposizione degli infanti dovevano essere considerate un omicidio. In seguito, nel 374, anche Valentiniano considera l’infanticidio un reato che comporta la pena capitale, quindi un omicidio (CJ 9, 14, 1; 9, 16, 7). Cfr. . C. Lorenzi, L’infanticidio nel diritto tardoimperiale, S. Giglio (ed.) Atti dell’Acc. Rom. Costant. Organizzare, sorvegliare, punire. Il controllo dei corpi e delle menti nel diritto della tarda antichità, Roma 2013, pp. 779-800.

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responsabilità delle erogazioni, ma quelli dei governatori provinciali, come non era nella costituzione precedente, e dei rationales, che dovrebbero verificare le situazioni di reale indigenza, identificate con la mancanza di ogni proprietà8. Anche in questo caso dovrebbero essere coinvolti gli uffici municipali: da quale fonte se non dai catasti cittadini avrebbe potuto essere verificata questa assenza di res familiaris? Anche in questo caso l’intervento di Costantino è motivato dalla volontà di impedire comportamenti degni di condanna nei confronti dei fanciulli, non necessariamente in questo caso neonati: non però un reato come il parricidio, ma comportamenti socialmente tollerati come la vendita o l’offerta in pegno dei figli, a cui non fa cenno nella costituzione riguardante la popolazione italiciana alla quale sono indirizzati i benefici della costituzione precedente.

Questo sembra l’ultimo intervento imperiale a favore dei poveri realizzato attraverso l’impegno delle strutture amministrative dello stato, in cui si esaurisce la tradizione iniziata appunto con l’istituzione alimentaria di Traiano. In seguito, il sostegno e l’assistenza ai poveri sono delegati alle chiese o lasciati all’iniziativa privata. Nei testi legislativi della tarda antichità i pauperes sono i poveri assistiti dalle chiese, dai chierici o anche dai privati, ma non direttamente dall’imperatore cristiano9.

Un progetto di sostegno ai poveri finanziato dall’imperatore attraverso strutture pubbliche, come i sacerdozi provinciali, viene disegnato dall’unico imperatore pagano della tarda antichità, Giuliano, in una lettera scritta al sommo sacerdote della Galazia, Arsacio10. L’imperatore

8 CTh 11, 27, 2: Idem A. Menandro. provinciales egestate victus atque alimoniae inopia laborantes liberos suos vendere vel obpignorare cognovimus. quisquis igitur huiusmodi repperietur, qui nulla rei familiaris substantia fultus est quique liberos suos aegre ac difficile sustentet, per fiscum nostrum, antequam fiat calamitati obnoxius, adiuvetur, ita ut proconsules praesidesque et rationales per universam africam habeant potestatem et universis, quos adverterint in egestate miserabili constitutos, stipem necessariam largiantur atque ex horreis substantiam protinus tribuant competentem. abhorret enim nostris moribus, ut quemquam fame confici vel ad indignum facinus prorumpere concedamus. dat. prid. non. iul. romae probiano et iuliano conss. (322 iul. 6).

9 Cfr. V. Neri, Il lessico sociologico della tarda antichità: l’esempio delle «Variae» di Cassiodoro, in Studi Storici, 51 (2010), pp. 8-11.

10 L’epistola 84 di Giuliano, che non è conservata nei manoscritti giulianei ma tramandata solo da Sozomeno nella sua Historia ecclesiastica 5, 16, 5-15, è stata oggetto negli ultimi anni di una vivace polemica sulla sua autenticità. Essa viene contestata da P. Van Nuffelen (Deux fausses lettres de Julien l'Apostat (la lettre aux Juifs, ep. 51 [Wright] et la lettre à Arsacius, ep. 84 Bidez, in Vigiliae christianae, 56 (2002), pp. 131-150) , ma riaffermata da J. Bouffartigue (Authenticité de la Lettre 84 de l'empereur Julien, , in Revue de Philologie de littérature et histoire ancienne, 79 (2005), pp. 231-242) e da F. Aceto (Note sull'autenticità dell'Ep. 84 di Giuliano

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esorta Arsacio, con l’obiettivo di sottrarre ai cristiani il monopolio dell’assistenza ai poveri e agli stranieri, ad istituire nelle città della provincia luoghi di accoglienza per gli stranieri e i poveri non solo di religione pagana, ξενοδόχια (che non vengono necessariamente richiamati in analogia con le omonime istituzioni cristiane)11. Giuliano si impegna a finanziare annualmente queste istituzioni inviando 30.000 modii di grano e 60.000 sestarii di vino, ma al contempo chiede ad Arsacio di invitare alla contribuzione dell’iniziativa i cittadini abbienti, intendendola come una liturgia. Il sostegno ai poveri dovrebbe, nel progetto di Giuliano, essere assicurato, accanto al finanziamento dello stato, attraverso le contribuzioni dei privati, generalizzando valori e istituzioni greche, come la φιλανθρωπία e la λειτουργία. L’epistola descrive un progetto che sembra riguardare solo la Galazia e non viene inserito nel quadro di una generale riforma del sostegno pubblico ai poveri. Si può forse pensare che nelle aspettative dell’imperatore si trattasse di quello che chiameremmo un progetto pilota, il cui eventuale successo avrebbe consentito di replicarlo anche in altre provincie.

Lasciando alle chiese il compito di organizzare il sostegno e l’assistenza ai poveri, gli imperatori cristiani si facevano donatori di beni immobili e mobili alle chiese, non sempre indicando un loro specifico impiego a favore dei poveri. È questo presumibilmente il caso di una istituzione alimentare, un σιτηρέσιον, che Costantino aveva donato ai poveri di Alessandria12. L’istituzione era evidentemente affidata alla gestione da parte del vescovo della città, dal momento che il vescovo Atanasio viene accusato di aver guadagnato denaro vendendo il grano destinato ai poveri13. Sotto l’imperatore Costante, in relazione alla reazione che provocò nel movimento donatista in Africa e alla repressione di questa ribellione, viene ricordata da Ottato di Milevi la missione di Paolo e Macario con il compito di erogare ai poveri delle chiese cattoliche, imperatore, in Rivista di cultura classica e medievale, 50 (2008), pp.187-206). Gli argomenti addotti da Van Nuffelen a sostegno della sua tesi mi sembrano interessanti ma non definitivi.

11 Il termine si trova, nel II secolo d.C. anche nell’Oneirokritikon di Artemidoro Daldiano (1, 4).

12 Socr., H.E. 2, 17; Sozom., H.E. 3, 9, 5.

13 Ad Alessandria esisteva fin dal III secolo una distribuzione gratuita di grano ai cittadini che viene presumibilmente riorganizzata ed accresciuta da Diocleziano, ma poi decurtata dal prefetto Efestione (Proc., Anecd. 26, 36-37). Si può pensare che il σιτηρέσιον costantiniano intenda ristabilire un equilibrio a favore dei più poveri? Cfr.

J. Durliat, De la ville antique à la ville byzantine. Le problème des subsistances, Rome 1990, pp. 330 ss.

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escludendone i donatisti, generose elemosine14. Una donazione in denaro alle chiese cattoliche africane ha un precedente importante nella donazione da parte di Costantino al vescovo di Cartagine Ceciliano di 3.000 folles, da distribuire alle chiese secondo una lista approntata da Ossio di Cordova 15 . La donazione costantiniana non era diretta specificamente ai poveri e riguardava genericamente gli ambiti di spesa delle chiese, era stata fatta εἰς ἀναλώματα, comprendendo però certamente anche le erogazioni ai poveri.

Gli imperatori cristiani, a partire soprattutto da Costantino, facevano generose donazioni alle chiese, spesso di proprietà immobiliari e di oggetti preziosi, che venivano impiegati occasionalmente in opere di carità, come soprattutto il riscatto dei prigionieri, anche se non sempre senza contrasti16. I redditi provenienti dalle proprietà ecclesiastiche in parte venivano impiegati nel sostegno ai poveri, che, presumibilmente nel V secolo, la chiesa romana quantifica in un quarto, e di questo i donatori, a partire dall’imperatore, dovevano essere consapevoli17. Comunque si può pensare che anche le donazioni imperiali esplicitamente destinate ai poveri dovevano essere sottorappresentate nelle nostre fonti. Una situazione, quale quella che emerge dall’epistolario di Gregorio Magno, doveva essere relativamente comune in tempi di crisi, quale quella provocata dal conflitto fra Longobardi e bizantini. L’imperatore Maurizio nel 595 invia al pontefice 30 libbre d’oro da distribuire sacerdotibus egenisque. Gregorio giustifica la non completa corrispondenza dell’impiego di questo denaro alle richieste imperiali, richiamando l’attenzione dell’imperatore sulla condizione delle sanctimoniales feminae, che avevano trovato rifugio a Roma sfuggendo alla prigionia: è necessario che l’elemosina della chiesa vada ad esse oltre che ai

14 Opt. Milev., Contra Parm. 3, 3, 2: Aut quis negare potest rem cui tota Carthago principaliter testis est: imperatorem Constantem Paulum et Macarium primitus non ad faciendam unitatem misisse sed cum eleemosynis quibus subleuata per ecclesias singulas posset respirare, uestiri, pasci, gaudere paupertas? Cfr. G.A. Cecconi, Elemosina e propaganda. Un’analisi della “Macariana persecutio”nel III libro di Ottato di Milevi, in Revue des Etudes Augustiniennes, 36 (1990), pp. 42-66.

15 Eus. Caes., HE 10, 6.

16 Il vescovo milanese Ambrogio richiama nel suo de officiis (2, 28, 136) la sua decisione di impiegare nel riscatto di prigionieri i vasi argentei della chiesa milanese, dopo averli spezzati. La decisione incontra le critiche degli ariani, i quali obiettano che in questo modo oggetti di culto cristiani sarebbero andati in mano a pagani. Ambrogio ribatte che i vasi, una volta fusi, sono semplice metallo che non può essere preferito alla vita di cristiani

17 Cfr. Ch. Pietri, Evergetisme et richesses ecclésiastiques dans l’Italie du IVème à la fin du Vème siècles: l’exemple romain, in Ktema, 3 (1978), pp. 317-337.

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mendicanti18. Nello stesso anno invia al papa anch’essa trenta libbre d’oro in redemptionem captivorum dandas atque pauperibus erogandas, la sorella dell’imperatore, Theoctista19. Anche in questo caso l’impiego della donazione viene giustificata. Metà della somma viene spesa per il riscatto di prigionieri di elevata condizione fatti dai Longobardi a Crotone, mentre la metà che avrebbe dovuto essere destinata ai poveri viene spesa per l’acquisto di lectisternia per le monache romane il cui numero nella città era di 3.000. Nel 597 Gregorio riceve un’altra donazione da Costantinopoli, dal medico dell’imperatore, Teodoro, da impiegare captivis vel pauperibus. In età bizantina abbiamo attestati eventi caritatevoli organizzati direttamente dall’imperatore, per i quali non sappiamo a quanto prima potessero essere fatti risalire casi analoghi. Per esempio, è stata ritrovata una tessera, datata al regno di Costantino V, imperatore dal 741 al 775, che testimonia l’invito a pranzo nel palazzo imperiale di un numero definito di poveri20.

3. Le aristocrazie femminili e maschili e la carità

Più complessa è la questione delle modalità dell’impegno per i poveri delle aristocrazie, imperiali o cittadine, per il quale abbiamo testimonianze di numero e di rilevanza molto diseguale. L’attività caritatevole delle élites cristiane presenta certo significative differenze nei modi, nelle forme e soprattutto nei valori, rispetto all’evergetismo delle élites pagane, come ben mettono in evidenza Luce Pietri e Yvette Duval21, tuttavia in misura diversa a seconda dei personaggi e, in coesistenza con i valori cristiani dell’elemosina, continuano ad essere presenti atteggiamenti caratteristici dell’evergetismo antico, nella ricerca della centralità del donatore, della gratitudine dei beneficati (idealmente il rapporto con essi viene rovesciato in relazione a Dio ed alla vita eterna:

sono i poveri ad intercedere presso Dio a favore dei loro benefattori terreni), del consenso e del plauso della comunità cristiana.

18 Greg. Magn., Ep. 5, 30.

19 Greg. Magn., Ep. 7, 23.

20 Cfr. B. Caseau, L’exercice de la charité à Byzance d’après les sceaux et les tessères (ve-xiie siècle), in B. Caseau-V. Prigent-A: Sopracasa (eds.), Οὗ δῶρόν εἰμι τὰς γραφὰς βλέπων νόει, Mélanges J.C. Cheynet, Paris 2017, p. 46.

21 Y.Duval-L. Pietri, Evergétisme et épigraphie dans l’Occident chrétien (IV-VI s.), in M. Christol-N. Masson (eds.), Actes du X Congrès International d’épigraphie grecque et latine, Paris 1997, pp. 371-396.

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Una gestione personalistica dell’elemosina troviamo particolarmente, almeno abitualmente, in alcune aristocratiche a Roma e a Costantinopoli.

A Roma sono precipuamente le nobildonne dell’entourage geronimiano ad essere animate da un impulso caritatevole generoso e anarchico.

Gerolamo oppone in questo campo, in polemica con il clero romano, il comportamento di quelle donne che praticano l’elemosina attraverso la mediazione, non sempre disinteressata, di coloro che vengono definiti bucinatores22, a quello di chi, come Paola, preferisce fare personalmente l’elemosina ai bisognosi. Paola va in giro per tutta la città cercando poveri da beneficare curiosissime tota urbe perquirens23. La sua attività benefica la fa venerare dai suoi beneficati. Quando muore a Betlemme, Gerolamo scrive che alle sue esequie una folla di vedove e poveri gridava di aver perduto la loro patrona e la loro nutrice24, ma egli stesso confessa di non aver compreso, anzi di aver criticato le modalità di questa elemosina25. Ad un’altra nobildonna romana, Furia, Gerolamo propone un modello diverso. Approva la scelta di una selezione personale delle persone da beneficare, che venga incontro ai bisogni effettivi dei poveri anziché essere impiegata per innalzare il tenore di vita dei collettori26. I destinatari delle elemosine di Furia tuttavia vengono indicati, principalmente almeno, nelle vergini e nelle vedove, anziché nei poveri e nei malati27. Furia non è descritta come pervasa dall’ardore caritatevole di Paola, non va in cerca dei poveri e non li incontra personalmente, non si rende visibile a tutti, uscendo dalla sua domus. Come Paola, anche un’altra nobildonna romana, Fabiola, non si limita a distribuire o a far distribuire elemosine, ma entra in contatto con i bisognosi, si impegna anche fisicamente ad alleviare le loro miserie, opera personalmente nel nosocomio da lei fondato, nella descrizione di Gerolamo, lava le piaghe dei malati, porta addirittura sulle spalle dei lebbrosi, mentre i ricchi ed

22 I bucinatores sono da identificare con quei chierici e monaci che andavano raccogliendo elemosine adulando le nobili romane e solleticandone la vanità, che si arricchivano personalmente piuttosto che farsi tramite della generosità privata verso i poveri (cfr. Hieron., ep. 52, 9: sunt, qui pauperibus parum tribuunt, ut amplius accipiant, et sub praetextu elemosynae quaerunt diuitias: quae magis uenatio appellanda est quam elemosyna).

23 Hieron., Ep. 108, 5.

24 Hieron., Ep. 108, 29.

25 Hieron., Ep. 108, 15: fateor errorem meum: cur in largiendo esset profusior arguebam…

26 Hieron,, Ep. 54, 12: illis distribue divitias tuas, qui non Phasides aves, sed cibarium panem coemant, qui famem expellant, non qui augeant luxuriam

27 Hieron., Ep. 54, 14: nulla nuptias contemptura timeat egestatem, redime virgines, quas in cubiculum Salvatoris inducas, suscipe viduas…

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anche i religiosi fanno compiere questi atti ai loro schiavi ob stomachi angustiam 28 . Alle altre sue corrispondenti romane, Eustochio, Demetriade, Principia, Laeta, Gerolamo non propone però un modello di carità “eroica” come quello di Paola e di Fabiola29.

Il comportamento normale delle nobildonne romane riguardo all’elemosina era, oltre a donazioni più o meno generose a chierici e chiese, la distribuzione di elemosine attraverso propri schiavi, per lo più all’uscita della chiesa. Gregorio Magno ricorda una matrona che Gothorum tempore frequentava assiduamente la basilica dei santi Processo e Martiniano, la quale, vedendo due monaci e scambiandoli per peregrini, aveva ordinato al suo erogator di fare loro l’elemosina. I due apparenti monaci, dopo essersi avvicinati alla donna ed averle detto che si sarebbero ricordati di lei nel giorno del giudizio, scomparirono30. Delle aristocratiche orientali e del loro impegno nella carità un grande esempio è a Costantinopoli Olimpiade, nipote del famoso Ablabio, console nel 331, e vedova precoce del prefetto di Costantinopoli Nebridio. L’imperatore Teodosio blocca la gestione delle sue grandi proprietà fino al compimento del suo trentesimo anno. Entrata nella piena disponibilità di esse, la donna si dedica inizialmente ad una carità generosa ed anarchica, ἁπλῶς καὶ ἀδιακρίτως31. Ha però carattere esemplare l’evoluzione del suo impegno nella carità. Più tardi Olimpiade segue le indicazioni del vescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo e dona alla chiesa 10.000 libbre di oro, 20.000 di argento e le sue proprietà in Tracia, Bitinia e Cappadocia I32.

Per quanto riguarda l’aristocrazia maschile, ci sono in Occidente due importanti episodi di grandi elemosine organizzate da privati, in cui il donatore si pone al centro della scena. Il primo episodio è la

28 Hieron., Ep. 77, 6.

29 Sulle nobildonne romane dell’entourage geronimiano cfr. G. Dunn, Why care for the poor?The role of almsgiving in Jerome’s asceticism, in Zeitschrift f. antikes Christentum, 18 (2014), pp. 167-185; P. Laurence, Le monachisme feminin antique:

idéal hiéronymien et réalité historique, Leuven 2010; Id.,Proba, Juliana et Démétrias:

le christianisme des femmes de la « gens Anicia » dans la première moitié du 5ème siècle, in Revue des Etudes Augustiniennes, 48 (2002), pp. 131-163; Id., Jérôme et le nouveau modèle féminin: la conversion à la « vie parfaite », Turnhout 1997; F. E.

Consolino, Sante o patrone ?: Le aristocratiche tardoantiche e il potere della carità, in Studi storici, 30 (1989), pp. 969-991.

30 Greg. Magn., Hom. in ev. 2, 32, 7.

31 Vit. Olymp. 5: Αὐτὴ δὲ πάντα τὸν ἄπειρον ἐκεῖνον καὶ ἀμέτρητον πλοῦτον διασκορπίσασα πᾶσιν ἁπλῶς καὶ αδιακρίτως ἐπήρκεσε

32 Cfr. S. Destephen, L’évergetisme aristocratique au feminin dans l’empire romain d’Orient, in B. Caseau (ed.), Les réseaux familiales. Antiquité tardive et moyen age. In memoriam A. Laiou et E. Patlagean, Paris 2012, pp. 183-204.

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distribuzione, descritta da Paolino di Nola, di viveri e denaro nella chiesa di san Pietro a Roma da parte di un grande senatore romano, Pammachio, in memoria della defunta moglie Paolina, seconda figlia della Paola che abbiamo poc’anzi richiamato33. I poveri romani, qui tota Roma stipem meritant, vengono disposti all’interno della chiesa, ma anche nell’atrio e nel piazzale antistante e vengono fatti sedere per terra (residere in terra), sull’esempio della folla alla quale Gesù fece distribuire i pani e i pesci nel miracolo della loro moltiplicazione. Viene quindi evocata l’imitazione di Cristo e dunque suggerito il carattere specificamente cristiano dell’azione benefica. Pammachio, nella rappresentazione di Paolino, non imita solo Cristo, ha in sé Cristo in quanto nessuno può compiere senza Cristo le opere di Cristo. Il pane materiale che egli distribuisce viene trasformato in nutrimento spirituale. Dal richiamo al miracolo Paolino trapassa a metafore ludiche e dunque richiama tratti dell’evergetismo antico trasfigurato in registro cristiano. Pammachio viene lodato come un editore di spettacoli teatrali all’interno della chiesa: egli è un Christi munerarius che in Christi theatro, in posizione ben superiore a quella degli editori di spettacoli profani, riceve il plauso di benedicentes cunei alla presenza di Dio stesso, come un imperatore che lascia spazio alla gloria di un suo funzionario sapendo che essa contribuisce alla sua gloria.

La distribuzione di cibo e vestiario, a cui segue una distribuzione di denaro, è preceduta da una celebrazione eucaristica in memoria dell’apostolo. Il donatore Pammachio è al centro della scena: è lui che compie le distribuzioni e a lui va il plauso dei poveri che le ricevono.

L’espressione stipem meritant è un calco di stipendium merent che indica i militari regolarmente arruolati, dunque potrebbe indicare i poveri registrati nella matricula della chiesa romana, per cui la scelta dei poveri da beneficare viene affidata alla chiesa. Il clero vi partecipa come officiante, ma presumibilmente anche come collaboratore materiale all’organizzazione dell’evento. La distribuzione di elemosine da parte di Pammachio dunque unisce in una singolare sintesi tratti evergetici, che, come abbiamo visto, Paolino evoca richiamando l’analogia con i munera spettacolari, e tratti dell’elemosina cristiana, fornisce una rappresentazione dell’evergetismo e dei suoi valori in registro cristiano.

L’altro episodio importante di erogazione autonoma di una grande elemosina da parte di un privato si colloca nella Gallia del V secolo ed è

33 Paul. Nol., Ep. 13, 11-15.Cfr. Bazyli Degórski, Il pasto per i poveri presso la Basilica Costantiniana di S. Pietro a Roma secondo la lettera di san Paolino di Nola a san Pammachio, in Biblica et Patristica Thorunensia, 11 (2018), pp. 229-267.

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descritto da Gregorio di Tours34. Il patrizio Ecdicius, figlio dell’imperatore Avito, in un periodo di carestia sfamò in territorio burgundo 4.000 persone. L’operazione benefica è organizzata dal personaggio con l’ausilio del suo personale: vengono mandati in giro suoi schiavi con carri e cavalli per reperire coloro che soffrivano la fame e trasportarli ad domum eius, presumibilmente una grande villa in territorio burgundo, dove evidentemente aveva accumulato risorse ingenti e dove questi poveri vengono sfamati per tutto il tempo della carestia. Alla iniziativa dell’aristocratico gallico si affiancò, ma in maniera del tutto indipendente, quella del vescovo di Lione Patiens35. Tenendo conto del fatto che le nostre fonti sull’esercizio della carità da parte dei privati sono fonti principalmente ecclesiastiche, possiamo attenderci che gesti come quelli di Pammachio o di Ecdicio siano sottorappresentati.

Si può sospettare che le varie formule epigrafiche che celebrano l’attività caritatevole del personaggio onorato36 celino in qualche caso anche un’organizzazione privata delle elemosine. Di un grande personaggio, come Paolino di Bordeaux, poi diventato vescovo di Nola, che, seguendo il precetto evangelico, vende i suoi beni e dovrebbe distribuirli ai poveri, non abbiamo notizia dell’organizzazione di elargizioni di elemosine37. È significativa la scarsa risonanza che trova nella letteratura cristiana contemporanea la condanna che Gesù esprime, in Mt 6, 1-4, della pubblicità dell’elemosina e della vanagloria che in essa si manifesta. La troviamo espressa in forma accorata nel IV secolo in un Padre nelle cui omelie il tema dell’elemosina è particolarmente rilevante, Giovanni Crisostomo, nelle omelie sul vangelo di Matteo: è crudele cercare gloria personale nel rapporto con persone che soffrono la fame38. Condanna questo atteggiamento nell’elemosina affermando che è prevalente nei benefattori, il vescovo di Aquileia Cromazio39. Ci sono però posizioni autorevoli che tendono a relativizzare o addirittura a negare la condanna della pubblicità dell’elemosina che Gesù esprime nel passo di Matteo.

34 Greg. Tur., Hist. 2, 24.

35 Greg. Tur., ibid.

36 Per esempio larga o prompta manu, amator pauperum, pater pauperum, largitor egentium, panis egentum, esca inopum, statio miseris, perfugium miseris, portus egentis. Cfr. Y. Duval-L. Pietri, Evergetisme et epigraphie, cit., 16.

37 Cfr. Neri, La scelta di Paolino e Melania ed il dibattito contemporaneo sulla pericope del ‘giovane ricco’, in Adamantius, 20 (2014), pp. 366-388.

38 Ioh. Chrys., In Matth. Hom. (PG 57, 275)

39 Chrom. Aquil., Tract. 26 : Plerique enim ideo aliquid in usum pauperum largiuntur, ut inanem laudem hominum et famam saeculi de facultate mercentur. Vedi altre citazioni del passo di Matteo, senza specifiche riflessioni, in Aug., de serm. Dom. in monte 2, 5; Hieron,, Comm. in ev. Matth. , l. 709; Greg. Magn., Reg. past. 3, 20.

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L’esortazione alla segretezza nell’elemosina viene talora messa in relazione con l’invito evangelico a dare pubblicità alle proprie buone azioni (Mt 5, 16: luceat lux vestra coram homibus), perché possano essere imitate. Agostino discute a lungo l’apparente contrasto dei due passi.

Attendersi la lode dalla propria elemosina è un’intenzione che non può essere pienamente conosciuta se non da Dio, mentre l’approvazione del gesto in sé e l’impulso all’imitazione è una reazione naturale in chi vi assiste. Dunque non ci sono per il vescovo di Ippona obiezioni sostanziali alla pubblicità dell’elemosina: la vanagloria che viene condannata nel vangelo di Matteo viene deplorata in sé, ma non può essere rilevata e criticata nella beneficenza cristiana40. Cesario di Arles esprime un pensiero analogo: ciò che conta è l’intenzione con la quale l’elemosina viene fatta; se dunque l’elemosina viene fatta per averne merito presso Dio e non presso gli uomini, la sua pubblicità o la sua segretezza diventano irrilevanti41. Nella chiesa dunque non sembra esistere una diffusa contrarietà all’elemosina effettuata in pubblico dai ceti abbienti e dunque ad eventi caritatevoli come quelli di Pammachio e di Ecdicio.

C’erano però motivazioni contrarie ad un impegno diretto delle aristocrazie nelle elemosine. Il rapporto diretto con i poveri sollevava spesso in questi ceti fastidi e sospetti. Fulgenzio di Ruspe giustifica in qualche misura la petulanza con la quale le invocazioni dei poveri offendevano le orecchie dei ricchi, affermando che essa era una conseguenza della loro condizione, che spingeva a superare la naturale verecundia42. Per Cassiodoro l’erompere dei mendicanti in fastidiose invocazioni li avvicina addirittura alle bestie che, quando hanno fame, non si trattengono dal manifestare vocalmente il loro bisogno43. Questa preponderanza della comunicazione sonora da parte dei mendicanti e dunque della percezione uditiva di coloro ai quali rivolgono le loro invocazioni, è di ostacolo, secondo Ambrogio, ad un’equilibrata valutazione dei loro bisogni, per la quale più importante sarebbe la percezione visiva44.

L’incremento in età cristiana del numero dei mendicanti portò naturalmente ad un incremento delle frodi, del numero dei finti mendicanti e di coloro che si spacciavano per gente di elevata condizione impoverita o oppressa dai debiti per chiedere elemosine più generose di

40 Aug., serm.149.

41 Caes. Arel., serm. 146, 1.

42 Fulg. Rusp., Ep. 11,1.

43 Cassiod., Exp. in ps. 103, 14.

44 Ambr., de off. 2, 77.

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quelle che ordinariamente venivano riservate ai mendicanti, e quindi accresce la diffidenza nei confronti dei mendicanti. Giovanni Crisostomo lamenta che ci fosse, nei confronti dei mendicanti, una curiosità malevola circa la loro provenienza e la loro situazione e critica questo genere di indagine: ci si deve limitare a soddisfare un bisogno e a lenire la povertà45. I poveri sfigurati e malati, particolarmente i lebbrosi, suscitano repulsione, anche se talora questa reazione può trasformarsi in un’ambigua fascinazione di fronte ai poveri che offrono sé stessi come spettacolo46. Agostino, richiamando il mendicante Lazzaro disteso davanti alla porta del ricco, evoca nel comportamento dei passanti di quel tempo gesti di insofferenza famigliari ai suoi ascoltatori, come lo sputare addosso ai malcapitati tappandosi il naso47. Gregorio Magno parla del gesto dell’elemosina accompagnato da parole di insulto48. Si può pensare che questi atteggiamenti di disprezzo e di insofferenza rendessero forse non frequenti le grandi elemosine come quella organizzata in s. Pietro da Pammachio e facessero ritenere una soluzione migliore quella di investire del compito delle erogazioni di elemosine il vescovo ed il clero. Molti personaggi abbienti potevano condividere l’atteggiamento che riporta Giovanni Crisostomo: dare ai poveri era compito della chiesa49.

C’erano altre forme di evergetismo nei confronti delle comunità cristiane molto più gratificanti dal punto di vista dell’orgoglio aristocratico, come l’evergetismo monumentale, la costruzione e la dotazione di chiese e monasteri, la fondazione di xenodochi che potevano perpetuare la memoria del donatore. D’altra parte, da questo punto di vista, poteva essere considerato abbastanza soddisfacente per i donatori anche donare alla chiesa per scopi caritatevoli senza entrare in contatto con i poveri, dal momento che la generosità del benefattore poteva essere resa nota dalla chiesa stessa e attraverso questa notorietà ricevere la gratitudine della comunità ecclesiale. Se in età tardo antica, come abbiamo visto, c’erano motivi che spingevano piuttosto le aristocrazie a impegnarsi nell’elemosina attraverso la mediazione delle istituzioni ecclesiastiche, in età bizantina in qualche misura sembra delinearsi un movimento

45 Ioh. Chrys., Hom. in ep. I ad Cor. 21, 5 (PG 61, 177

46 Cfr. D. Stathakopoulos, Prêcher lee émotions incarnées. Evêques, mendiants et leurs publiques dans l,’Antiquité Tardive. In Medievales. La chair des émotions. Pratiques et réprésentations corporelles de l’affectivité au Moyen Age, 61 (2011), pp. 25-37.

47 Aug., Enarr. in ps. 36, serm. 2, 7: quomodo putatis detestatos homines transeuntes ulcerosum pauperem iacentem ante diuitis ianuam? quomodo forte hunc occlusis naribus conspuebant?

48 Greg. Magn., Mor. in Iob 21, 19, 29.

49 Ioh. Chrys., Hom. in ep. I ad Cor. 21, 6 (PG 61, 179).

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contrario. Béatrice Caseau mette brillantemente in evidenza in questa età l’evoluzione dell’organizzazione laica della carità: dal VI-VII secolo le diaconie diventano istituzioni che forniscono ai laici la possibilità di esercitare la carità senza passare attraverso la mediazione ecclesiastica50.

4. Le istituzioni ecclesiastiche come mediatrici dell’elemosina

Da parte loro i vescovi incoraggiano le donazioni caritatevoli alle chiese, rivendicando ad esse una superiore capacità di comprendere i bisogni dei poveri. Leone Magno esorta a donazioni alle chiese ad expensas misericordiae, per poter godere della beatitudine promessa a chi intelligit super egenum et pauperem (ps. 40). Il papa spiega subito dopo il significato dell’espressione: i poveri ai quali allude il salmo sono i poveri che vivono pudicamente la loro povertà51. La chiesa ha la capacità, che i privati non hanno, di conoscerli e beneficarli. Gregorio Magno, trattando, nella Regula pastoralis, dei consigli da impartire a coloro che sua misericorditer tribuunt, mette in luce in maniera dettagliata la difficile accortezza che è richiesta al benefattore nel suo rapporto, evidentemente diretto, con gli indigenti52. L’insistenza sulle difficoltà di una buona elemosina sembra suggerire implicitamente l’adeguatezza delle donazioni fatte alle chiese. In ambito orientale, nelle Costituzioni apostoliche, scritte tra il 375 ed il 380, forse in Siria, si prescrive di offrire le elemosine al vescovo, perché egli conosce i bisognosi e sa dare a ciascuno ciò che conviene53. È significativo che quello che è e resta individualmente per gli autori cristiani un tema teologico, l’elemosina ai poveri come percorso essenziale di salvezza, venga presentato ai fedeli, in rapporto alle istituzioni ecclesiastiche, come un tema con essenziali caratteri sociali ed

50 B. Caseau, L’exercice de la charité, cit.

51 Leo Magn., Tract. 9, 3: Ad quem intellegendum, dilectissimi, sollicita benignitate uigilandum est, ut quem modestia tegit et uerecundia praepedit, inuenire possimus.

Sunt enim qui palam poscere ea quibus indigent erubescunt, et malunt miseria tacitae egestatis affligi quam publica petitione confundi.

52 Greg. Magn., Reg. past. 3, 20: Vnde et necesse est ut sollicite perpendant ne commissa indigne distribuant; ne quaedam quibus nulla, ne nulla quibus quaedam, ne multa quibus pauca, ne pauca praebeant quibus impendere multa debuerunt; ne praecipitatione hoc quod tribuunt inutiliter spargant; ne tarditate petentes noxie crucient; ne recipiendae hic gratiae intentio subrepat; ne dationis lumen laudis transitoriae appetitio exstinguat; ne oblatum munus coniuncta tristitia obsideat; ne in bene oblato munere animus plus quam decet hilarescat, ne sibi quidquam, cum totum recte impleuerint, tribuant, et simul omnia postquam peregerint perdant.

53 Const, apost., 2, 27, 3-4.

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economici: mentre per gli individui l’essenziale è il dare ai poveri, la cui forma e la cui efficacia paiono indifferenti, nell’attività benefica della chiesa le modalità del dare e i loro valori sociali ed economici diventano importanti. La ragione per la quale è opportuno dare alla chiesa perché distribuisca ai poveri e non limitarsi a dare individualmente senza queste discriminanti viene indicata, pur restando fermo il valore salvifico dell’elemosina anche esercitata attraverso la chiesa, nella più ampia e più equilibrata ricognizione da parte delle istituzioni ecclesiastiche del fenomeno della povertà e la maggiore adeguatezza degli interventi ecclesiastici ai bisogni reali dei poveri, soprattutto dei pauperes verecundi.

Le testimonianze che possediamo di massiccio impiego di ricchezze in beneficenza, descrivono queste operazioni come donazione a chiese e monasteri, soprattutto da parte di benefattrici. Un caso significativo è, in Occidente, quello di Melania juniore. Palladio offre una dettagliata descrizione della donazione dei suoi beni mobili, al momento in cui la nobildonna, dopo la morte dei suoi due figli, decide assieme al marito Piniano, di rinunciare alle proprie ricchezze. Vengono donate a varie chiese le sue vesti seriche, oro e argento ad un presbitero dalmata, Paolo, 45.000 solidi alle chiese orientali e una somma non specificata alle chiese occidentali54. In Africa, dalla vendita delle loro ingenti proprietà, la coppia ricavò risorse da donare a chiese e monasteri. Melania e il marito si fermarono a Tagaste per la loro ammirazione per il vescovo Alipio e qui donarono alla chiesa oggetti preziosi, e, secondo la versione latina della vita, una grande proprietà terriera, che conteneva anche terme, artigiani di varia natura e addirittura due vescovi, uno cattolico ed uno donatista55. A Gerusalemme i due distribuirono ciò che restava del loro denaro agli incaricati del servizio ai poveri della basilica della Resurrezione, non volendo donare personalmente, anche qui, secondo la narrazione di Geronzio, sulla scorta di un passo matteano, che abbiamo poc’anzi richiamato, Mt 6,1-4, sull’esortazione a non dare pubblicità ai propri gesti caritatevoli. Diversamente da Melania juniore la nonna, Melania seniore, aveva venduto i suoi beni mobili, lasciando gli immobili al figlio, ed aveva per molti anni generosamente beneficato i monaci in Egitto e in Palestina e poi fondato un monastero a Gerusalemme in cui accoglieva i pellegrini in Terra santa. Un’altra grande aristocratica romana, Anicia Faltonia Proba, moglie dell’esponente più illustre e potente della gens Anicia nel

54 Pall., Hist. Laus. 61, 3.

55 Vit. Melan. 21.

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IV secolo, Sesto Claudio Petronio Probo, aveva donato nel 432 al papa Celestino clericis pauperibus et monasteriis erogandas le rendite di una sua grande proprietà asiatica. In ambito orientale Olimpiade, dopo un periodo iniziale di carità anarchica, donò al vescovo Nettario di Costantinopoli 10.000 libbre d’oro, 100.000 di argento e le sue proprietà terriere in Tracia, Cappadocia I e Bitinia. All’inizio del V secolo Thedote sorella del prefetto d’Egitto fece avere al presbitero Isidoro 1.000 solidi per l’acquisto di vestiario per le donne povere, sollevano l’irritazione del vescovo Teofilo che non era stato avvertito della donazione56.

Meno frequentemente attestate sono le donazioni per i poveri da parte dei membri maschili delle aristocrazie. Gerolamo, richiamando la vendita dei suoi beni e la distribuzione del ricavato ai poveri dello spagnolo Lucinio, dice che questo era avvenuto attraverso donazioni non solo alle chiese spagnole, ma anche a quelle di Gerusalemme e di Alessandria 57. Dell’impiego della vendita del grande patrimonio di Paolino di Bordeaux, che egli compie mettendo in pratica l’invito di Gesù nella parabola del

‘giovane ricco’ e che, seguendo le parole di Gesù, avrebbe dovuto essere destinato ai poveri, non abbiamo alcuna notizia precisa. Siamo occasionalmente informati del fortunato approdo sulla spiaggia della proprietà campana di Paolino di una nave carica di denaro, argentum sacri commercii, che, secondo una interpretazione plausibile, avrebbe potuto essere destinato all’edificazione della basilica di s. Felice a Cimitile, nei pressi di Nola58. Del senatore Pammachio, di cui abbiamo ricordato la grande elemosina nella basilica di s. Pietro, sappiamo del costante impegno nella carità: Paolino, nell’epistola in cui descrive questa elemosina, definisce le sue ricchezze ubera pauperum, presentandole quindi come fonti alle quali i poveri potevano continuamente attingere,

56 Pallad., Dial. de vit. Ioh. Chrys., 6; Georg. Alex., Vit. Ioh. Chrys., 37.

57 Hieron., Ep. 75, 4.

58 Paulin. Nol., Ep. 16, 2. Cfr. P. Brown, Through the eye of a needle. Wealth, the fall of Rome and the making of christianity in the West, 350-550 AD, Princeton 2014, pp.

216-221; S. Mratschek, Der Briefwechsel des Paulinus von Nola. Kommunikation und soziale Kontakte zwischen christlichen Intellektuellen, Göttingen 2002, p. 81. Un parallelo significativo dell’espressione argentum sacri commercii potrebbe essere costituito da un testo di Ambrogio che fa riferimento all’arrivo da Thasis al re Salomone di navi cariche di argento e di altri materiali preziosi destinati alla edificazione del Tempio (Ambr., In ps. 47, 14, 3: habebat enim cum rege Hiram sacrae negotiationis spiritale commercium.L’aggettivo sacrum fa riferimento alla finalità dell’impiego del denaro che appunto nel testo biblico viene destinato alla costruzione del tempio di Gerusalemme. Si può pensare dunque che anche nel testo di Paolino venisse riferito all’edificazione di un edificio sacro come la basilica di Cimitile.

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presumibilmente provenienti dalle sue rendite fondiarie piuttosto che dalla vendita delle sue proprietà59.

Credo che sia opportuno distinguere tra grandi elemosine ed elemosine ordinarie. Eventi come quello della distribuzione ai poveri congregati in s.

Pietro da parte del senatore Pammachio, che richiedevano una complessa organizzazione, erano senza dubbio eventi eccezionali e dovevano svolgersi in momenti particolari, come, nel caso di Pammachio, la commemorazione della defunta moglie Paolina. In questi casi avranno avuto tratti in comune con le distribuzioni analoghe di cibo e denaro alla popolazione cittadina che avvenivano in occasioni solenni in età imperiale, anche se non erano esplicitamente presentate come distribuzioni ai poveri60. Non abbiamo per il periodo considerato altre testimonianze di distribuzioni da parte di un privato all’interno di una chiesa, come era stato il caso di Pammachio, che quindi per questa ragione definissero in maniera inequivocabile il loro carattere cristiano.

Le ordinarie elemosine venivano elargite alle porte della propria domus, come abbiamo visto, o all’uscita dalla chiesa. Gerolamo racconta che le porte della dimora di Pammachio a miseris obsidentur61 e lo stesso dice a proposito di Nebridio62. Agostino racconta delle pressioni che riceveva dai mendicanti che stazionavano fuori della chiesa tutte le volte che entrava in chiesa, ed egli, parlando ai fedeli nell’omelia, li esorta alla carità, all’uscita dalla messa, dichiarandosi ambasciatore dei poveri63. Un atteggiamento eccezionale era anche quello di muoversi per la città alla ricerca di poveri da beneficare, come Gerolamo dice di Paola64.

Le chiese sollecitavano queste piccole elemosine da parte dei fedeli, mentre tendevano a riservarsi il controllo e la gestione di opere di carità più organizzate e capillari. I Padri insistono sulla generalità del dovere dell’elemosina, anche in forme minimali, un bicchiere di acqua fresca, vestiti usati, se non se ne possono offrire dei nuovi, un pezzo di pane se non si può offrire un pane intero. Leone Magno esorta all’elemosina anche il ceto che egli definisce dei mediocres, di coloro che possiedono un

59 Paulin. Nol,., Ep. 13, 22.

60 Cfr. S. Mrozek, Les distributions d’argent et de nourriture dans les villes italiennes du Haut Empire romain, Bruxelles 1987.

61 Hieron., ep. 66, 5.

62 Hieron., ep. 79, 2.

63 Aug., serm. 61, 13.

64 Hieron., ep. 108, 5.

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reddito che eccede anche di poco la soddisfazione dei bisogni essenziali, la sufficientia65.

Le chiese e i vescovi tendevano a compiere in maniera organizzata e continuativa sia le elemosine ai mendicanti, sia la elargizione di contribuzioni regolari ai poveri iscritti nella matricula pauperum.

Nell’epistola scritta da Gregorio Magno al vescovo di Napoli Paschasius, a proposito della spesa a favore del clero e dei poveri della città della somma di 400 solidi, che non era stata spesa dal suo predecessore, vengono distinti gli homines honesti ac egeni quos publice petere verecundia non permittit ai quali andrebbe erogata complessivamente la somma di 150 solidi, dai pauperes qui elemosinam publice petere consueverunt, ai quali dovrebbero essere distribuiti complessivamente 36 solidi66.

Già presumibilmente nel V secolo la chiesa romana aveva stabilito un impiego in quattro parti delle risorse delle chiese, i redditi delle proprietà fondiarie e le oblationes fidelium. La prima attestazione di questo sistema è in una epistola di papa Simplicio indirizzata ai vescovi Equizio, Florenzio e Severo, in cui si stabilisce che il vescovo Gaudenzio di Aufinum venga privato della gestione delle parti dei redditi della chiesa destinati ai poveri e agli edifici di culto, che verranno in futuro amministrate da un presbitero, e di quella destinata al mantenimento del clero che verrà amministrata autonomamente dal clero stesso. A Gaudenzio viene lasciata solo la gestione della quarta parte riservata al vescovo67. Questo sistema è confermato nel 494 da papa Gelasio in un’epistola inviata ai vescovi di Lucania, Bruzzio e Sicilia68, ed è richiamato in seguito anche dai papi Felice IV e Gregorio Magno69. In Gallia il concilio di Orléans del 511 stabilisce che i proventi delle chiese, generati dalle donazioni del re, debbono essere impiegati reparationibus ecclesiarum, alimoniis sacerdotum et pauperum, oltre che essere riservati alle spese del vescovo70. Viene quindi ripresa la quadripartizione delle spese della chiesa enunciata dai pontefici romani del secolo precedente, pur senza specificare la l’ equivalenza quantitativa delle

65 Leo Magn., Tract. 15, 2: non tardentur in hoc opere mediocres quia parum sit quod possint de facultate sua decerpere. Cfr. N. Bronwen, Models of gift living in the preaching of Leo the Great, in Journal of early christian studies, 18 (2010), pp. 225- 259.

66 Greg. Magn., Ep. 11, 22.

67 Simpl. pap., Ep. 3.

68 Gelas. pap., Ep. 14, 27.

69 Fel. IV pap., Const.de eccl. Rav (PL 65, 12).; Greg. Magn., Ep. 4, 11; 5, 12; 27; 48; 8, 7.

70 Conc. Aurel. A. 511, can. 5 (CC 148°, 6)..

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quattro parti. Nella Spagna visigotica invece, nel concilio di Braga del 561, viene stabilita una tripartizione dell’impiego dei proventi delle chiese, una parte per il vescovo, una per il clero e la terza per il restauro e l’illuminazione degli edifici di culto, lasciando dunque presumibilmente al vescovo la quantificazione delle erogazioni a poveri e mendicanti71. Queste partizioni fanno pensare ad una relativa stabilità dei redditi ecclesiastici, provenienti dunque principalmente da rendite fondiarie, che dovevano consentire ai poveri beneficati delle aspettative relativamente stabili di reddito, quote che dovevano essere rivalutate in relazione agli eventuali incrementi dei redditi ecclesiastici. Papa Felice III insiste sul fatto che un quarto delle entrate della chiesa ravennate, 3.000 solidi, doveva essere interamente erogato al clero della città e la somma doveva essere accresciuta se ci fossero stati incrementi dei redditi della chiesa. Si può pensare che questo adeguamento delle quote, se in questo caso è specificamente affermato per la somma destinata al mantenimento del clero, valga come principio anche per le altre quote.

I poveri assistiti dalla chiesa erano registrati in una matricula, l’ammissione nella quale era dipendente dalla valutazione del vescovo. In una delle epistole di Agostino edite da Divjak si racconta il caso di un Antonino giunto in tenera età ad Ippona con la madre ed il patrigno, una famigliola così povera da non avere il necessario per vivere. Madre e patrigno di Antonino convivevano, come viene ad apprendere Agostino, in una situazione irregolare, dal momento che il padre del bambino era ancora vivo e dunque la coppia era adultera. I due vengono convinti alla continenza e le loro difficoltà materiali vengono risolte facendo ospitare il patrigno e il bambino nel monastero della città e iscrivendo la donna nella matricula pauperum quos sustentat ecclesia72 . In Gallia troviamo attestate matriculae pauperum legate a specifici santuari, come la famosa basilica di s. Martino a Tours73. I poveri di questa matricola vengono mantenuti dalle elemosine dei fedeli specificamente destinate a loro (cum ad matriculam illam quam sanctus suo beneficio de devoto rum elymosinis pascit cotidie a fidelibus necessaria tribuantur), ma sembrano gestire autonomamente queste donazioni. Si racconta che i poveri della matricola avevano l’abitudine di lasciare presso la basilica un loro incaricato, un custos, per ricevere le elemosine. All’ora sesta i pauperes si riuniscono per conoscere se nella mattinata c’erano state

71 Conc. Brac. II, can. 16 (Vives, 90).

72 Aug., Ep. 20*, 2.

73 Cfr. V. Neri, I marginali. cit., pp. 97-102.

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elemosine e per distribuirle fra loro. C’era stata l’elemosina di un triente, un terzo di solido, che però non viene dichiarata dal custos, che afferma giurando di aver ricevuto solo un argenteus. Il custos spergiuro stramazza a terra (un chiaro richiamo all’episodio, negli Atti, di Anania e Saffira) e muore dopo aver ammesso di aver occultato il triente e averlo restituito alla matricola74. Nella sua Historia Gregorio di Tours racconta che matricularii e reliqui pauperes cercarono addirittura di scoperchiare il tetto della cella dell’abate presso la basilica di s. Martino a Tours, in cui avevano trovato rifugio gli uccisori del cubicularius di Chilperico Eberulfo. I matricularii sono da identificare con gli iscritti alla matricola della basilica di s. Martino, e costituiscono dunque un gruppo privilegiato rispetto agli altri poveri che non possono godere delle elemosine destinate ai poveri protetti da s. Martino75.

Come abbiamo visto, a Napoli sono attestati honesti ac egeni, percettori di contributi diversificati da parte della chiesa (un tremisse, due tremissi o un solido) a titolo nominale, presumibilmente iscritti in una matricula, e mendicanti che ricevono indistintamente elemosine, di un importo complessivo molto minore della somma destinata agli honesti ac egeni (36 solidi annui contro 150), tenendo anche conto del fatto che il loro numero sarebbe dovuto essere maggiore. I poveri iscritti nelle matricole ricevono contributi di ammontare differenziato, in rapporto non solo alla valutazione dei loro bisogni, ma anche della loro condizione sociale, nel senso che le persone di elevata condizione sociale impoverite ricevono pensioni più elevate, secondo un principio sancito anche in molte regole monastiche, per il quale bisogna tenere conto che la percezione del proprio stato di povertà è in questo ceto più acuto, per l’importanza del cambiamento del loro tenore di vita, di quello di coloro che sono sempre stati poveri. Ne abbiamo testimonianza, certo parziale, nell’epistolario di Gregorio Magno. Ci sono poveri che ricevono pensioni annue insufficienti al loro mantenimento, soprattutto se hanno familiari a carico, che debbono quindi essere integrate da altre fonti di reddito, se teniamo presente che la somma annuale per il mantenimento in termini essenziali di una persona poteva essere calcolata in almeno due solidi76. Il cieco Filimoud riceve 24 modii di grano (un prezzo normale del grano poteva essere di 30 modii per solido) e 12 modii di fave, oltre a 20 decimati di vino; il cieco Albino riceve invece una somma di denaro, due tremissi

74 Greg. Tur., de virt. s. Mart. 1, 31.

75 Greg. Tur., Hist. 7, 29.

76 Cfr. Neri, Marginali, cit., 95 e n. 60.

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