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PROVINCE ISPANICHE E GALLICHE: LA DECORAZIONE ARCHITETTONICA NELLE PIETRE LOCALI TRA IL I SECOLO A.C. E LA FINE DEL II SECOLO D.C.

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PROVINCE ISPANICHE E GALLICHE: LA DECORAZIONE ARCHITETTONICA NELLE

PIETRE LOCALI TRA IL I SECOLO A.C. E LA FINE DEL II SECOLO D.C.

HISPANIC AND GALLIC PROVINCES: ARCHITECTURAL DECORATION IN LOCAL STONES BETWEEN THE 1ST CENTURY BC AND THE END OF THE 2ND CENTURY AD.

PATRIZIO PENSABENE

RIASSUNTO

Si affronta la tematica delle officine che tra il I sec.a.C. e la fine del II sec.d.C.

lavorano quasi esclusivamente le pietre locali e sono attive nella decorazione architettonica soprattutto all’interno delle provincie ispaniche e galliche. Vengono prese in considerazione la continuità di tradizioni repubblicane e il loro incontro con le nuove mode provenienti da Roma e l’Italia. In particolare ci occuperemo del ruolo che hanno avuto la prima e seconda normalizzazione del capitello corinzio che hanno avuto luogo rispettivamente nell’età del Secondo Triunvirato e in quella pieno augustea nel determinare o modificare le forme architettoniche in uso presso le officine regionali, che utilizzano appunto le pietre locali e non i marmi. I centri di cui ci occuperemo nel testo si trovano soprattutto nella Tarraconense, nella Betica, nella Narbonense, nell’Aquitania e nella Gallia Belgica, con riferimenti ai percorsi e ai collegamenti con le città principali delle provincie, in genere affacciate sul mare.

PAROLE CHIAVE: Hispania, Gallia, decorazione architettonica, capitelli corinzi, officine, pietre locali e regionali.

RESUMEN

Se afronta el análisis de los talleres que entre el siglo I a.C. y finales del siglo II d.C. trabajaron casi exclusivamente con piedras locales y que participaron activamente en la decoración arquitectónica, especialmente de las provincias hispanas y galas. Se toma en consideración la continuidad de las tradiciones republicanas y su encuentro con las nuevas modas procedentes de Roma e Italia. En particular, nos ocuparemos del papel que jugaron la primera y la segunda normalización del capitel corintio, que tuvieron lugar respectivamente en la época del Segundo Triunvirato y medioaugustea, en la determinación o modificación de las formas arquitectónicas en uso por los talleres regionales, que utilizan de hecho las piedras locales y no los mármoles. Los

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centros de los que nos ocuparemos se encuentran principalmente en la Tarraconense, en la Bética, en la Narbonense, en la Aquitania y en la Galia Bélgica, sin perder de vista las rutas y conexiones de estos centros con las principales ciudades de las provincias, generalmente situadas en la costa.

PALABRAS CLAVE: Hispania, Galia, decoración arquitectónica, capiteles corintios, talleres, pietra locales y regionales.

Un tema che ha sempre attraversato la storia degli Studi sulla decorazione architettonica è quello delle modalità di trasmissione delle forme che porta con se i temi della mobilità delle officine, dell’uso dei cosiddetti cartoni, probabilmente modelli in gesso (cfr. v. Hesberg, 1990: 355, 363), per riprodurre gli elementi architettonici. Ad essi si aggiunge il ruolo delle committenze nel determinare l’adozione di una tipologia di edifici e anche di decorazioni che eventualmente esse potevano aver visto a Roma stessa o nelle capitali provinciali o in santuari importanti.

Ma il quadro generale in cui vanno poste tali problematiche è quello delle influenze che un ambiente culturale può aver generato o subìto a seconda dei momenti storici e dei contesti. Attualmente si tende a rifiutare l’uso dell’influenza come spiegazione: è infatti un concetto generico che può determinare confusione di come avvenga il processo storico che sta dietro all’emergere di nuove forme in un determinato ambiente. Si preferisce più correttamente affrontare le storie dell’architettura e della decorazione architettonica per ogni singola città o regione o provincia e valutare come si pongano rispetto all’architettura e all’arte ufficiale dell’impero romano: in una parola sto accennando a quel campo di studi che ora va sotto il nome di glocalizzazione, che studia i rapporti tra le forme locali e quelle diciamo internazionali, partendo però dalle prime, per capire quando e come vengono introdotti cambiamenti nelle specifiche tradizioni affermatesi nel corso del tempo nei vari territori: l’accento è dunque sulle singole comunità composte da una o più civitates, vici, tribù, santuari o altro e non sui grandi centri, come Roma e le capitali provinciali o altre città o luoghi importanti da cui le forme artistiche locali sarebbero influenzate, perché in tal modo si perde la comprensione dei fenomeni culturali che fanno parte della storia di ogni insediamento, grande o piccolo che sia.

Connessa alla formazione delle officine è anche l’uso dei materiali per scolpire la decorazione. Si è visto che dove prevalgono pietre del posto o regionali le officine tendono maggiormente a seguire le tradizioni locali ed è ben distinguibile l’introduzione di nuove forme connesse con l’arrivo del marmo. Anzi in alcune regioni si stabilisce nel corso dell’età imperiale una dicotomia tra l’uso delle pietre locali che tende ad essere confinato all’edilizia privata e quello del marmo invece prevalente nell’architettura pubblica e che si accompagna con maggiore frequenza all’adozione delle forme dell’architettura ufficiale romana. In questo senso basta citare quanto avviene in alcune regioni del Mediterraneo Orientale, l’Egitto, la Cirenaica e Cipro, dove durante l’età imperiale nella decorazione architettonica delle case continua la tradizione alessandrina anche se modificata dalle singole storie edilizie regionali, mentre nell’edilizia pubblica spesso marmorizzata, ma non sempre, a partire dall’epoca antonina è completa l’adesione alle mode architettoniche in questo caso

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dell’architettura ufficiale della parte orientale dell’impero. Dove predomina anche nei monumenti pubblici l’uso della pietra locale, come ad esempio all’interno della Siria - v. i casi di Gerasa, Bosra, Apamea, Palmira -, dovuto probabilmente ai grandi costi dell’importazione e del trasporto del marmo lungo le strade interne, vi è meno separazione tra la decorazione degli edifici pubblici e quella delle case e in entrambi i casi si avverte maggiormente la continuità delle tradizioni ellenistiche.

Queste affermazioni naturalmente vanno misurate rispetto di nuovo alle situazioni diversificate nelle varie parti dell’impero.1 Una buona esemplificazione può essere data dalla Hispania romana caduta in mano romana già a partire dalle fine del III sec.

a.C., anche se in varie tappe successive e dalla Gallia, dove il grosso della conquista avviene con Cesare, a parte la Narbonense che già nel II sec. a.C. diviene provincia ed era attraversata dalla via Domitia che collegava l’Italia con la Hispania permettendo il transito non solo delle legioni, e dei magistrati, ma anche di mercatores, di artigiani, ecc.2 La storia degli studi ha ormai messo a fuoco per l’età imperiale la differenza nell’uso dei materiali tra le città costiere sul Mediterraneo o presso la costa o raggiungibili facilmente da un fiume, dove è più frequente l’uso del marmo, e invece le città dell’interno o affacciate sull’Atlantico dove nella decorazione architettonica degli elevati prevale l’uso delle pietre locali, mentre il marmo, quando c’è, è limitato ai rivestimenti. È in queste ultime aree citate, dunque, che la presenza di manufatti architettonici di marmo e anche di cicli di statue della famiglia imperiale, riflette episodi isolati, anche se spesso importanti, nella storia dei rapporti dei governi e delle élites locali con i governi centrali delle province e anche con l’amministrazione statale facente capo a Roma. Sono episodi che hanno un’eco maggiore o minore nell’architettura pubblica, nella decorazione architettonica e nell’attività delle officine.

Un buon esempio in tal senso è dato dalle terme di Muraille Bourg a Mandeure, l’antica Epomanduodurum, che si estendeva in un meandro del fiume Doubs, importante centro della “Sequania” (parte della provincia della Gallia belgica). Le terme hanno infatti restituito due iscrizioni evergetiche di II secolo d.C., che c’informano che un Flavius Catullus legò un lascito testamentario di 75 mila denari

“ad marmorandum balneum” (CIL, XIII, 5416, 5417; Blin, 2020: 83-94); vari ritrovamenti succedutisi negli ultimi secoli indicano che l’edificio presentava le pareti rivestite di marmo sia bianco (lunense), sia colorato (tra cui verde antico,

“greco scritto”) e disponeva di un arredo statuario in marmo di cui resta la statua di una Venere pudica (Blin, 2020: 85-86). È possibile, data l’entità della donazione destinata solo al decor dell’edificio, che essa riguardasse anche l’esecuzione di elementi architettonici, quali colonne, capitelli e trabeazioni (Blin, 2020: 91).

La marmorizzazione è ricordata nelle due iscrizioni di Mandeure perché rappresentava un fatto eccezionale, insieme anche alla grande somma destinata per la sua realizzazione. A Mandaure era utilizzato normalmente un calcare regionale di buona qualità anche per la decorazione architettonica, che si differenzia nettamente sia

(1) Sarebbe necessaria una base molto più ampia di quella esistente di microanalisi delle singole strutture insediative per avere un’idea più chiara delle componenti della popolazione e delle loro manifestazioni culturali, ma studi di questo tipo sono ancora limitati. Per l’Hispania v. ora Schneider, 2017: 657-679.

(2) Sui legami di una parte dell’aristocrazia gallica con Roma già prima della conquista romana: Goudineau, 1996:12-20.

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per la tipologia sia per lo stile dalle scarse testimonianze dell’epoca augustea e giulio- claudia di elementi in marmo: questi compaiono nella Belgica e nella Germania in modo più generalizzato a partire dall’epoca flavia e a Mandeure sono restituiti dal santuario di Clos du Château dove tra l’altro sono documentati alcuni capitelli corinzi in marmo che riprendono i modelli urbani della Domus Flavia (Blin, 2012: 398) (Fig.

1) e Séverine Blin sottolinea come le regioni del nord est della Gallia e della Germania pre sentino la concentrazione di un gran numero di elementi architettonici in marmo (tra cui capitelli, corinzi, corinzieggianti e compositi), nonos tante l’area geografica di confine, in un panorama di architettura provinciale in cui domina il calcare e l’impiego di officine locali o regionali3. Anche Périgeux ha restituito frammenti di capitelli corinzi di pilastro, in marmo, che hanno diretti riscontri a Roma con esemplari del periodo traiano- adrianeo4.

Se un discorso analogo può essere fatto per alcune città ispaniche importanti, come Tarraco e Italica, dove la comparsa di capitelli corinzi e compositi in marmo, uguali a esemplari di Villa Adriana, ha permesso di ipotizzare lo spostamento di maestranze urbane anche in età adrianea nella penisola iberica5, tuttavia nelle città dell’interno il marmo d’importazione dall’Italia o dal Mediterraneo orientale oppure ispanico è testimoniato soprattutto nei rivestimenti.

Peraltro, la presenza nell’aree suddette di capitelli e decorazioni architettoniche in marmo non implica un cambiamento nelle mode decorative locali nelle quali continuano a prevalere tradizioni più antiche, su cui appunto si sono formate le officine che abitualmente utilizzano le pietre locali. È necessario partire quindi dall’epoca repubblicana per spiegare tale continuità e devono essere chiamati in causa altri fattori per spiegare la formazione del linguaggio decorativo adottato in architettura. A questo proposito dobbiamo menzionare il ruolo che hanno avuto i capitelli corinzi italici, la cui forma è stata introdotta in Hispania e in Gallia ad opera di elementi della popolazioni provenienti dall’Italia e in particolare dalla Campania e dall’area centro meridionale, che accompagnarono l’opera di conquista di queste province durante il II e I secolo a.C. Citiamo un capitello in arenisca del museo di Tarragona (Fig. 2), da un monumento funerario, che dipende direttamente da tipi campani dell’ultima fase del corinzio-italico:

(3) Blin, 2014: 257-268: se in quest’area il fenomeno già si manifesta nella prima metà del I sec.d.C. è però con l’età flavia che si espande in coincidenza con il processo di municipalizzazione delle città dell’est della Gallia e delle Germanie, per raggiungere notevoli livelli di marmorizzazione nel II secolo che produrrà una moltiplicazione di capitelli ionici e corinzieggianti in marmo.

(4) Tardy, 2005: 122, Fig.103 (inv. 2000. 3. 71). La presenza di capitelli e cornici in marmo opera di maestranze urbane è noto anche a Nîmes (Gans, 1990: 118, 119, tav 30, 3: capitelli forse dalla Basilica che Adriano fece costruire per Plotina nata a Nîmes) e Vienne (Pensabene, 2013: 441, Fig. 10.10) per l’età adrianea (cfr. Roth-Congès, 1987: 127, tav. I, 2).

(5) Pensabene, 1993: 33, 34, cat. nn.1,2; Id., 1993a: 203, figg. 7, 10-12; Pensabene, 2006; 121, nota 16; Pensabene e Domingo, 2019: 91, nota 306, Fig. 42; Ahrens, 2005: 101, tav. 48a.

Fig. 1. Mandaure, Clos du Château, capitello corinzio in marmo (da Blin, 2012).

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esso ha fatto supporre la presenza di un’officina campana a Tarraco già dalla fine II- inizi I sec. a.C.6: Allo stesso periodo appartengono due frammenti di capitelli corinzi-italici rinvenuti ad Italica, forse già prodotti da officine ivi residenti (Ahrens, 2005: 26, tav. 10a,b). Si spiega così, con una conoscenza abbastanza lunga del corinzio- italico nella penisola iberica, il c.d. gruppo di Barcellona nella pietra locale di Montjuïch, già da tempo individuato nella storia degli studi e attribuito al periodo tardo repubblicano7 (Fig. 3). Rileviamo che tali forme dettero luogo ben presto alla nascita di tipi ibridi, che costituiscono nuovi tipi regionali: essi mescolano eredità corinzio- italiche con le forme del corinzio normale (“corinzi-iberici”), come si riscontra in molti mausolei della Tarraconense e anche in un esemplare in calcare da Cordova nella Betica con foglie semplificate rettangolari (Fig. 4) 8. Va ricordato che anche in capitelli corinzi vicini al tipo “normale” per la forma dei caulicoli e dei calici, di età tardorepubblicana- primoaugustea (terzo quarto del I sec. a.C.) sussistono tali forme, come indicano due capitelli corinzi e alcuni frammenti di Italica in un calcare poroso chiaro, in origine rivestito di stucco, con una sola corona di foglie ancora plastiche del tipo “à gouttes”9. Infine va citata la metà di un grande capitello corinzio pare in marmo (alto circa 4 piedi) di Carmona forse dal foro repubblicano con acanto ad occhielli dalle cime arrotondate fortemente sporgenti e caulicoli, che ha riscontri nei capitelli del tempio B di Largo Argentina a Roma (Márquez, 2017: 270, Fig. 2): esso testimonia negli anni finali del

(6) Díaz Martos, 1985: 40, cat. A21; Lauter-Bufe, 1987: 47, 81, cat. n. 145; Gutiérrez Behemerid, 1992: 63, cat. 129. Per un unico frammento da Cartagena, trovato presso un monumento funerario: Ramallo Asensio, 2004: 170.

(7) Gutiérrez Behemerid, 1986: 12, cat.nn. 2-8; Ead., 1992: 61-63, cat.nn. 129-137, che è d’accordo nel rilevare una officina campana attiva a Tarragona tra fine II e inizi I sec.a.C.; Garrido, 2011: 96-97, 233, cat.nn. 203-209 e, con foglie d’acanto influenzate dai capitelli corinzi normali, cat.nn. 210-234.

(8) Márquez, 1993: 35, cat. n. 37. A Tarragona è da considerare in questa produzione uno dei capitelli che erano stati reimpiegati nell’anfiteatro: Domingo, 2005: 208, cat. n. 28.

(9) Ahrens, 2005: 27, 28, E3-E4, che stabilisce stretti paralleli con capitelli di Jerez de la Frontera, Cordova e dei templi gemelli di Glanum.

Fig. 2. Tarragona, Museo, capitello corinzio-italico in arenisca.

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Fig. 3. Barcellona, Museo, capitello corinzio-iberico in pietra di Montjuich (da Gutiérrez Behemerid, 1986).

Fig. 4. Cordova, Museo, capitello corinzio-iberico in calcare (da Marquez, 1993).

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II-primo del I sec.a.C. l’arrivo nella Betica di forme tardorepubblicane, non direi dalla Grecia, piuttosto dall’Italia centrale (cfr. a Gaeta, ecc., Pensabene e Mesolella, 2018:

73, Fig. 7b), che agiscono parallelamente a quelle del corinzio-italico.

Possiamo parlare di una certa continuità di questi tratti più antichi ancora nella prima età imperiale ad opera di officine locali, come indica il tipo dei capitelli corinzi in calcare tenero del secondo ordine della Basilica giulio-claudia di Torreparedones (Baena), presso Cordova, definito “corintio hispánico” (Borrego e Felipe, 2014: 101):

sono intagliati con il sommoscapo e un tondino sporgente alla base del kalathos, presentano una sola corona di foglie d’acanto le quali richiamano il tipo più antico “à gouttes”, ma con le fogliette dei lobi lanceolate, e vi sono inseriti caulicoli da cui nascono steli ancora verticali delle volute e delle elici che nel punto in cui si dividono a V danno luogo a una foglietta liscia triangolare. La resa delle foglie e degli altri elementi vegetali è però piatta, meccanica e priva di plasticità.

Un fenomeno simile avviene nella Narbonense (Drerup, 1972-1974), come mostrano i capitelli con “acanthe phrisée” (Roth-Congès) in calcare della tholos del Mausoleo dei Julii a St.-Remy (Glanum) della seconda metà del I sec. a.C., probabilmente dal 40 al 30 a.C.10, e in altri mausolei che si ritengono appartenere a veterani romani o galli, che testimoniano di nuovo l’esito dell’adozione di forme corinzio italiche (Lauter Bufe, 1987: 64, 81, cat.nn. 217-226) e corinzio normali11 alla base di tipi regionali della Gallia meridionale; lo stesso i capitelli di pilastro del mausoleo di Salonius a Lione (Lauter-Bufe, 1987: 63, cat.n. 216) e altri esempi a Bibracte nella Lugdunense che confermano come nell’architettura funeraria si conservassero più a lungo forme miste derivate dal corinzio italico12.

All’opera di colonizzazione romana in Hispania (cfr. Torelli, 1997: 99-106) probabilmente si deve anche l’introduzione di edifici templari che ripropongono schemi di santuari italici su terrazze, ma insediati su antichi luoghi di culto iberici.

Citiamo soltanto il tempio B di La Encarnacion a Caravaca de la Cruz presso Murcia (dunque ancora nella Tarraconense, ma al confine con la Betica (Ramallo, 1997: 257- 268; Ramallo e Tortosa 2015): esso avrebbe avuto una fase importante –la seconda- tra III e II secolo quando sarebbe stato tetrastilo in antis con forti paralleli nell’architettura etrusco-italica confermati dall’uso di terracotte architettoniche rinvenute in notevole quantità. Il tempio di questa seconda fase, insieme a quello di Cerro de los Santos a Murcia, testimonierebbe un processo di monumentalizzazione degli antichi santuari iberici avvenuta in epoca tardo repubblicana. Nella fase successiva (terza fase) il tempio viene trasformato in uno molto più grande, di m 27,25x17,25, pseudo diptero, senza podio, ma con basamento: presentava otto colonne sul fronte e 10 sui fianchi, a 20 scanalature, su basi attiche senza plinto. Ad una datazione agli inizi I secolo avanti Cristo porterebbero i capitelli ionici frammentari, che ad esso si attribuiscono, di cui uno intero (ora nel museo di

(10) Gros, 1986: 66 (30-20 a.C.): gli Julii appartengono all’élite locale che devono il loro gentilizio a Cesare; v. Gladiss, 1972: 71; Roth-Conges, 1983: 130; Ead., 2007: 62.

(11) Mausoleo di Lattara, vicino Montpellier, in calcare oolitico bianco a grana fine delle cave di Bois des Lens: Pellè, 2014: 217-226. Il calcare usato, che ricorda il marmo, si ritrova in tutti i monumenti augustei di Nîmes e fu esportato per singoli elementi architettonici e non per interi monumenti nell’area compresa tra Narbona (colonia Narbo Martius) e Frejus (Forum Julii): Id., 222.

(12) Elenco di monumenti decorati con capitelli in stile italo-corinzio in Roth-Congès, 2007: 63.

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Caravaca), in calcare giallastro, è a quattro facce che, pur ricordandoli, si differenzia dai capitelli ionico-italici per la forma delle grandi semipalmette, l’ampiezza del canale delle volute e la posizione del kyma ionico che richiama diversi capitelli di Carthago Nova e anche di ambiente punico ellenistico in Africa (Ramallo Asensio, 2004: 162, 167, Fig. 12), e forse anche un frammento di cornice con dentelli stretti e allungati che ben si collocano in quegli anni.

Citiamo ancora la presenza nella penisola iberica del tempio italico periptero sine postico su podio13, quale noto a Carteia, città di origine punica nell’enclave dello stretto di Gibilterra e prima colonia latina (fondata nel 171 a.C.) fuori dal territorio italiano. Il tempio di m 22,46x17,85 (Fig. 5), che prese il posto di un precedente santuario punico, fu eretto tra la fine del II e gli inizi del I a.C. (Roldan, Bendala, Blanquez, Martinez, 1999:

189, Fig. 217) Gli elementi architettonici superstiti appartengono però alla trasformazione del tempio in età augustea, ma è probabile che essi abbiano ripreso alcune delle forme della fase tardo repubblicana. Infatti gli elementi di un fregio con protomi di toro (Fig.

6a-b) sono riportabili ad un modello noto a Delos, molto frequentata dai mercatores italici.

Anche le colonne scanalate, divise in rocchi, nel calcare fossilifero locale dovevano imitare quelle originarie: sono dotate di basi attiche con due tori quasi uguali e senza plinto (Fig. 7a-b) secondo un tipo che avrà molto successo anche in seguito in Hispania14. Ma alle nuove forme di capitelli corinzieggianti elaborati a Roma e nell’Italia centro- meridionale si deve l’utilizzo a Carteia di capitelli con motivo liriforme (Fig. 8a-b), che soprattutto nell’Hispania meridionale ebbe un’ampia diffusione15. A tale scelta iconografica (ma non formale) non sono forse estranee tradizioni punico-ellenistiche ancora vive nell’entroterra, nell’enclave dello stretto o nelle regioni sull’Atlantico (fino all’Aquitania). Sono tradizioni che condizionano ad esempio la produzione locale in granito a Mérida in Lusitania16 (Fig. 9) e a Braga (Bracara Augusta) in Gallaecia nel versante atlantico della Tarraconense (Figg. 10-11), dove si hanno capitelli corinzi arricchiti da vari motivi estranei al corinzio normale augusteo (Tempio di Diana)17. Una conferma che anche nella Betica le maestranze specializzate nella lavorazione delle pietre locali fossero interessate non solo ai capitelli corinzi, ma anche a quelli corinzieggianti viene dalla produzione delle officine di Antequera (Antikaria) presso Malaga in cui si usa il calcare bianco del Torcal de Antequera18: essa raggiunge anche Córdoba e Écija (Colonia Firma Augusta Astigi) e si rivolge soprattutto all’edilizia privata.

(13) Cfr. Trunk, 1991, sull’evoluzione del periptero e del periptero sine postico nelle province del nordest della Gallia e Germania.

(14) Gimeno, 1991: 80-89 che a proposito delle basi attiche del tempio di Barcellona parla di una forma corrispondente alla tradizione provinciale triunvirale o protoaugustea che caratterizza l’Italia padana e soprattutto l’architettura sudgallica, a cui s’ispira il tempio di Barcellona. A Barcellona le basi senza plinto in arenisca di Montjuïc hanno i tori uguali: Gimeno, 1991: 131-132; Escrivá Chover, 2005: 47; Labriola, 2020: 91, Fig. 7.

(15) Barrera Antón, 1984: cat.nn. 68, 70, 72, 76, 79, in marmo locale; Gutiérrez Behemerid, 1992: 184-185. cat.nn. 797- 843 (prevalentemente in marmo locale), che rileva come non mancano anche esemplari con il motivo del calice centrale e delle volute a doppia S; Márquez, 1993: cat. nn. 255- 282; Peña Jurado, 2010: 133, 136, tavv. 14-16.

(16) Sul tipo di granito (alcalino) e sull’analisi petrografica dei capitelli del tempio di Diana (in origine rivestiti di stucco) Álvarez Martínez e Nogales Basarrate, 2003: in particolare p. 443, cat. 57-EM.

(17) I capitelli del tempio di Diana sono già compresi nel catalogo dei capitelli di Mérida in Barrera Antón, 1984: cat.

nn.20 a-k, e successivamente in Barrera Antón, 2000: cat. nn. 3, 4, tavv.2-8: in essi si può osservare la coesistenza dell’acanthus mollis augusteo a fogliette lanceolate e zone d’ombra tra i lobi ogivali e oblique, con vari motivi vegetali e decorativi (piccole cornucopie ai lati di pigne, foglie di vite ecc.) estranei al tipo canonico corinzio legato alla seconda normalizzazione inaugurata nel Foro di Augusto.

(18) Loza e Beltrán, 2012: 286, Fig. 8; Márquez, 2017: 275, Fig. 5. Abbiamo citato in particolare due capitelli corinzieggianti in cui è rielaborato il motivo a lira che si trasforma in uno stelo principale con due rosette ai lati o isolati o emergenti da un ramo curvo; le foglie riproducono in modo semplificato palmette e foglie acantizzanti con lobi romboidali che si raccolgono direttamente sull’unica nervatura centrale.

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Fig. 5. Carteia, tempio italico, pianta (da Carteia, 1999).

Fig. 6. Carteia, tempio italico: fregio con protomi taurine e cornice in calcare fossilifero; b. rilievo (da Carteia, 1999).

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A Carteia i capitelli corinzieggianti, date le grandi dimensioni, presentano il kalathos lavorato in due blocchi diversi; le loro foglie di acanthus mollis ne confermano l’appartenenza alla fase di trasformazione del tempio in età augustea. In questa fase i capitelli non si adeguano al corinzio canonico usuale nei templi augustei, ma richiamano la forma corinzieggiante dei capitelli originari tardorepubblicani; lo rileva il collarino a toro alla base del kalathos che è tipico dei

Fig. 7. Carteia, tempio italico: a. base attica in calcare fossilifero; b. rilievo (da Carteia, 1999).

Fig. 8. Carteia, tempio italico: a. capitello corinzieggiante in calcare fossilifero; b. rilievo (da Carteia, 1999).

Fig. 9. Mérida, Museo, dal Tempio di Diana, capitello corinzio in granito.

Fig. 10. Braga, Museo Pio XII, capitello corinzio in granito.

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(19) Numerosi gli esemplari di reimpiego nelle chiese di Roma: Pensabene, 2015: nn. 840-853 con acanto nello stile del secondo triunvirato (S. Costanza); cat. nn. 853-856, con acanto derivante dallo stile del Foro di Augusto.

(20) Palmentieri, 2017: 215-217, figg. 9-13; Pensabene, 1998: 200, tav. 1, Fig. 6. Capitelli corinzieggianti con la parte libera del kalathos strigilata si trovano anche in Italia settentrionale (Gans, 1990: 107, nota 95).

(21) Legrottaglie, 2016: 48, figg. 5,5. Cfr. Gans, 1990: 96, 109, tav. 23,5; Gans, 1992: cat. nn. 44, 52, 64, per foglie d’acanto simili in capitelli corinzieggianti di Roma, del cd. Tempio di Diana a Nîmes, dell’Arco dei Gavi a Verona.

capitelli corinzio-italici. Nello stesso tempo altre particolarità delle cornici con mensole vegetalizzate tipiche invece dello stile urbano di età augustea, insieme al contorno rigidamente triangolare delle palmette che si alternano alle foglie d’acanto nella sima testimoniano già il formarsi di uno stile eclettico (Bendala Galan e Roldan Gomez, 2005: 157-159) in cui sono confluite varie tradizioni.

Ma una particolare fortuna avranno nelle province occidentali alcune forme di capitelli corin - zieggianti e compositi con il kalathos corinzio o corinzieggiante: si tratta di forme elaborate a Roma e in Campania in età tardo repubblicana e primo augustea19: per la Campania un buon esempio di fine II sec.a.C. è dato a Paestum da un capitello ionico a quattro facce intagliato insieme ad un collare (hipotrachelion) con foglie d’acanto che si trova presso la Basilica (v. anche il disegno di F. Debret pubblicato da Palmentieri, 2017: Fig. 11). Un altro esempio con kalathos corinzieggiante, che riprende le foglie d’acqua allungate o le strigilature dei capitelli a calice orientali, è offerto da un capitello composito (trasformato in acquasantiera) con l’acanto nello stile del Secondo Triunvirato maturo e la parte libera del kalathos strigilata, che fa parte della collezione raccolta nel castello di Lunghezza presso Roma (Qulici, 1974: 223, Fig. 444; Gans, 1990: 107, nota 96). Tali capitelli, con forme variate, vanno soprattutto dal periodo augusteo, giulioclaudio –ad esempio a Ercolano (teatro) e, di reimpiego, a Napoli, Amalfi (Fig. 12), Salerno-cattedrale (Gans, 1992: cat. n.75) (Fig. 13) e S. Benedetto (Fig. 14)–, a quello adrianeo, a Benevento, nel museo (Fig. 15) e di reimpiego a S. Maria Capua Vetere (Fig. 16) e a Salerno (Fig.

17)20. Certo è che in Campania c’è un forte interesse per le forme associabili al capitello composito, come testimonia un esemplare di età giulioclaudia (Fig. 18), del museo di Nola (rinvenuto a Piazzolla di Nola), forse proveniente dal tempio di Augusto che Tiberio era andato a inaugurare (Tac., Ann., IV, 57) e che è possibile fosse stato eretto sulla villa in cui l’imperatore morì (Suet., Aug., II, 97-99): presenta in luogo del kyma ionico un tralcio con rosette di un tipo simile quello che s’incontra sui bordi di clipei in marmo lunense di Parma e di Luni21, ma un richiamo, anche se non iconografico, è anche con l’echino del capitello di Benevento sopracitato (v. Fig. 15). È evidente la sperimentazione sull’ordine composito effettuata a Roma durante tutto il I sec.d.C., che in un certo senso culmina in un capitello composito proveniente dalla Domus Flavia e ora facente parte dei “Trofei Farnese” (Pensabene, 2015: 836, Fig. 1326, e bibl. citata) (Fig. 19).

Fig. 11. Braga, Museo Pio XII, capitello corinzio in granito.

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Tali forme hanno avuto un grande ruolo nell’adozione e nella diffusione di forme analoghe nelle province gallo-ispaniche da parte delle officine locali che utilizzavano le pietre regionali, ma anche il marmo. Vi si distinguono una direzione più fedele alle forme del capitello composito che diverranno canoniche a Roma e un’altra invece che sviluppa le possibilità insite nell’adozione di un kalathos strigilato e corinzieggiante.

Per la prima direzione basta citare i capitelli compositi del Foro Provinciale di Tarragona, probabilmente già previsti nella fase tiberiana, poi in parte riutilizzati, in

Fig. 12. Amalfi, cattedrale (S. Sacramento), capitello corinzieggiante in marmo.

Fig. 13. Salerno, cattedrale, capitello corinzieggiante in marmo.

Fig. 14. Salerno, San Benedetto, capitello composito in marmo.

Fig. 15. Benevento, Museo del Sannio, capitello composito in marmo.

Fig. 16. S. Maria Capua Vetere, cattedrale, capitello composito in marmo.

Fig. 17. Salerno, cattedrale, capitello composito in marmo.

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(22) Pensabene, 1993: i capitelli hanno un’impronta soprattutto giulioclaudia che corrisponde alla nuova cronologia della sede del Foro Provinciale al periodo in cui Galba era governatore della Tarraconense (60-68 d.C.) (Pensabene e Domingo, 2019: 59). La difficoltà nell’attribuire alcuni di questi capitelli nel periodo tiberiano in cui pare sia stato costruito il tempio di Augusto nasce dal fatto che il temenos intorno al tempio progettato in questa fase pare non sia stato mai completato (è stato notato che le fosse di fondazione del muro di fondo del portico non sono state completate: Hauschild, 1993: 116):

tuttavia è possibile che fossero arrivati già scolpiti nel cantiere insieme a parte delle colonne e della trabeazione che dovevano essere impiegate nel portico.

(23) Márquez, 1998: 99, 128, n. 876, tav. 15,4 e 16, 1-2, di provenienza sconosciuta. È comunque A. Peña ad interpretare questo frammento come appartenente al complesso di Calle Moerería di Córdoba (Peña, 2009: 575), che sappiamo era presieduto da un tempio tiberiano (Portillo, 2018).

(24) Cfr. Drinkwater, 1978: 818-821: gli Julii della Gallia probabilmente fecero pressione anche su Claudio per essere ammessi nel senato. (Tac., Ann., XI, 23); tra l’altro fu l’aquitano C. Julus Vindex, di famiglia nobile locale e membro del senato che istigò la protesta contro Nerone (Cassio Dione, I, XIII, 22.1)

(25) Tardy, 1989: 83-110; Tardy, 1996: 183-192; Tardy, 2005: 68-69: cfr. Kähler, 1939 (forme R, S). Per la Germania inferior, dove i compositi sono usati soprattutto nei monumenti funerari: Hesberg, 2004: 191, Fig. 1. Frequente è la sostituzione della spirale delle volute con fiori (ad esempio un capitello in marmo grigio di Tolosa dove il kyma ionico dell’echino è sostituito da uno schematico kyma lesbio continuo: Cazes, 1988: 71, cat. 57).

Fig. 18. Nola, antiquario del museo, capitello composito in marmo.

Fig. 19. Roma, “Trofei Farnese”, capitello composito in marmo.

parte imitati, nella fase tardogiulioclaudia o vespasianea22, ancora i capitelli compositi giulioclaudi di un importante edificio pubblico di Beja (Pax Iulia nella Lusitania) (Hauschild, 1992: 57-52; Pensabene, 2002: 193, figg. 21, 22) e infine i capitelli del portico del tempio di c/ Morería di Córdoba, nella sua prima fase tiberiana (fu poi ampliato in età flavia) a cui apparterrebbe un frammento di voluta di capitello composito, molto simile alle volute dei capitelli del foro di Tarragona23. Per la seconda direzione va subito osservato che in Hispania e soprattutto in Gallia le forme provenienti dall’Italia non furono mai, se non in un numero ristretto di casi, pedissequamente imitate, ma continuamente variate –v. la riduzione o perdita del canale orizzontale delle volute– e arricchite, forse anche in base a tradizioni iberiche o celtiche derivanti dai contatti tra le popolazioni e la cultura punico-ellenistica o greca in epoca precedente alla conquista romana (v. ad esempio il ruolo dei santuari, o di città come Gades/Cadice, Cartagho Nova, Ampurias o Massalia). L’introduzione nella Narbonense e in Aquitania del capitello composito con la parte libera del kalathos strigilata dovette avvenire in età augustea in quanto già s’incontra nel c.d. tempio di Diana a Nîmes (Fig. 20) (Gros, 1983: 163; Gans, 1990: 96, 107, tav. 23,4): poco più tardi è utilizzato nell’Arco di Germanico a Saintes del 18-19 d.C. (Tardy, 1989: 83, Fig. 40; Tardy, 2003(2005): 244, Fig. 4) dedicato all’imperatore Tiberio, a suo figlio Druso minore e a suo nipote e figlio adottivo Germanico da parte di un ricco membro dell’élite santona, C. Julius Rufus, sacerdos Romae et Augusti, che dunque lo finanziò24. Nel corso dell’età imperiale il numero dei capitelli compositi in Gallia e nelle regioni renane, proprio nelle forme elaborate dalle officine provinciali, è piuttosto alto25 e certamente le scelte operate dalle

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aristocrazie locali romanizzate nei monumenti da loro commissionati ebbero un ruolo importante nella diffusione di determinati apparati decorativi.

Ricordo brevemente che i nuovi ele- menti di popolazione emigrati dall’Italia in epoca tardorepubblicana, portatori di forme artistiche dell’ellenismo italico, spesso erano coinvolti nella produzione del vino e nei commerci, ma in alcuni casi inizialmente furono costituiti da sol- dati romani, sposati con donne locali, che volevano insediarsi nelle province. Tali elementi ben presto si fusero con le élites locali, come ad esempio avvenne proprio a Carteia: ne siamo informati da Livio che li definisce novi homines e di cui pre- cisa la provenienza centroitalica special- mente dal Piceno (Liv., XXVIII, 30-31).

Essi dettero luogo così a un incontro di tradizioni artistiche con esiti inizialmente defi- nibili ibridi; tuttavia ben presto furono all’origine di stili specifici in cui s’incrociarono tradizione italiche e locali, talvolta con una comune matrice ellenistica, e che si diver- sificarono nel tempo.

Su tale sostrato intervenne poi l’azione di normalizzazione della decorazione architettonica esercitata da Augusto, che proponeva alle classi dirigenti l’imitatio Romae anche nel campo delle scelte architettoniche. È noto come nel periodo augusteo si siano susseguiti due stili principali che ne caratterizzano l’epoca:

1- Lo stile cd del Secondo Triunvirato che perdura nella prima e media età augustea a Roma e in Italia, e che si prolunga nelle province: in questo stile le foglie d’acanto sono geometrizzanti, e il loro uso accompagna la prima normalizzazione del capitello corinzio della prima età augustea, che ben presto venne adottato nella Gallia Meridionale e nella Tarraconense. Una buona documentazione viene da Arles (colonia Arelate Sextanorum: Plin., NH, III,36): alla fondazione della nuova colonia nel 46 a.C. seguirono abbastanza presto la costruzione del primo tempio del Foro, del teatro, dell’arco probabilmente dedicato a C. Caesar, il figlio adottivo di Augusto, nei quali per gli elementi della trabeazione, capitelli e basi si utilizzò il marmo lunense.

Va ricordato che fino al 23 a.C. Augusto detenne il controllo diretto della Narbonense, ma anche che fu coadiuvato nell’amministrazione da Agrippa di cui è noto il ruolo di organizzatore anche delle costruzioni pubbliche e dell’approvvigionamento dei marmi. Sappiamo quanto l’imperatore fondasse la maiestas imperii sulle auctoritates dei publica aedificia (Vitr. I, 2; cfr. v. Gladiss, 1972: 77) ed è stato rilevato come anche la decorazione architettonica rivestisse un importante ruolo nella trasmissione dei messaggi propagandistici augustei: a tale scopo si avvalse di schemi ornamentali di origine ellenistica, di metope decorate e di fregi vegetali, anche con l’inserzione di animali ed eroti nelle girali, di bucrani,

Fig. 20. Nîmes, “Tempio di Diana”, capitello composito in calcare.

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(26) v. Gladiss, 1972: 77-78, dove si rileva la presenza nel teatro di una colossale statua di Venere, un’allusione alla Venere Gentrice l’antenata della gens Iulia.

(27) v. Gladiss, 1972: 74, nota 358 (dal primo tempio del Foro), tav. 50,1. Cfr. invece Bartette, 2014: 246, Fig. 2, sull’identificazione del capitello del Foro con un altro esemplare composto da due parti, ma dello stesso tipo di quelli del teatro, Coulot, 2020: 165, cat. MDAA.K. 0032, tav. 18, 3 che considera il capitello alla nostra Fig. 21 come proveniente dal frontescena del teatro. Inoltre, nel teatro di Arles, l’acanto delle mensole è sia a “gouttes”, sia ad “harpons”: Coulot, 2020: 77-79, figg. 107-116.

(28) Anche questo particolare, come pure l’orlo dei caulicoli, differenzia il capitello da serie dell’Italia settentrionale, come quella dell’Arco di Susa: Pensabene, 2015a: 90, figg. 17-20.

(29) v. Gladiss, 1972: 74, tav. 51,1; cfr. invece Agusta-Boularot, Badie e Laharie, 2009: 72 che preferiscono collegare la costruzione del tempio al soggiorno di Agrippa nella Narbonense tra il 40 e il 37 a.C. in Gallia.

rosette (ad Arles fregi esterni del teatro26 e fregio con trampoliere e serpente attribuito al Forum Adiectum) (Bartette, 2014: 249, Fig. 8, a cui si rimanda per altri esempi), in forme molto disinvolte che hanno il loro corrispettivo in pitture di II stile e meno, proprio per ciò che riguarda i “peopled scrolls” con eroti, nella decorazione architettonica augustea di Roma. Inoltre si tratta di motivi che ispirarono, anche se trasformati, molte scelte decorative e iconografiche nei monumenti successivi in Aquitania e nella Belgica. Ad Arles, nella fase primoaugustea di intensa attività costruttiva, in capitelli anche di marmo –di cui citiamo un esemplare datato al 30-20 a.C. e con foglie d’acanto “à harpons” (forse dal primo

tempio del Foro, ora al museo: Fig. 21) 27– già s’introducono varianti quali il calicetto a corolla rovesciata, l’orlo dei caulicoli a kyma lesbio naturalistico, la terza piccola foglia tra le due semifoglie dei calici28, che denotano cambiamenti rispetto al modello secondotriunvirale e scelte derivanti dalle tradizioni locali. Conservano ancora il tondino e il triangolo tra i lobi delle foglie i capitelli del tempio di Vernègues, ma con foglie piatte e nitide dell’acanto definito “chardonneuse à flèches” (Roth-Congès), e senza la piccola foglia tra le due che compongono i calici (Agusta-Boularot, Badie e Laharie, 2009: 72, figg. 2, 3), che permettono di proporre una datazione sempre in età augustea, ma posteriore a quella dei capitelli citati di Arles, probabilmente intorno al 20 a.C. A questa data alcuni autori hanno collocato il tempio della Valetudo a Glanum, con capitelli dall’acanto “a gouttes” (Roth-Congès) cioè con una sola zona d’ombra circolare o triangolare tra i lobi: il tempio è stato dedicato da Agrippa forse in occasione del suo viaggio in Gallia in quell’anno29 e va rilevato che questo tipo d’acanto già s’incontra nel “quadrifronte “ del mausoleo dei Julii a Glanum, ma anche in uno dei lati corti di un capitello della Porta di Augusto a Nîmes del 16-15 a.C.

(Kähler, 1939: 14-18, Beil 6,4-5; Roth-Congés, 2007: 65; Trunk, 2008: 21) che negli altri lati e negli altri capitelli mostra invece l’acanto augusteo più recente (v. oltre).

Certo è che nella decorazione architettonica dei teatri augustei di Lione e della Narbonense e in altri monumenti marmorizzati della provincia già compaiono i

Fig. 21. Arles, museo, capitello corinzio in marmo.

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principali tipi di acanto che si diffonderanno nelle tre Gallie nel corso dell’età giulio claudia. Ad esempio alla prima fase del teatro di Lione, di qualche decennio successiva (si è proposto il 16-15 a.C.) alla creazione del quadro urbanistico della nuova colonia fondata da L. Munazio Planco nel 43 a.C. (Desbat e Mandy, 1991: 79- 97), è attribuito un frammento di capitello corinzio con acanto “a gouttes”, di tradizione ancora ellenistica (Audin, 1967: 21, Fig. 123); nei magazzini del teatro di Orange sono conservati capitelli interi e frammentari di lesena in marmo in cui compare l’acanto “à gouttes” (Fig. 22), secondo forme con strette analogie nel Mediterraneo Orientale30, ancora l’acanto “a gouttes” ma in cui queste assumono una forma quasi ogivale o triangolare e sono seguite da triangoli chiusi(Fig. 23), ma non in asse, come invece nello stile del secondo triunvirato: le fogliette dei lobi sono in genere più o meno ogivali, allungate, appuntite e a sezione angolare31, e mostrano di aver superato lo stile del secondo Triumvirato, pur non avendo ancora aderito alla seconda normalizzazione dell’acanto dei capitelli corinzi inaugurata con il foro di Augusto a Roma (v.sotto). Sempre a Orange nei magazzini è ancora visibile un altro tipo di acanto “a gouttes” con fogliette arrotondate (Fig. 24) che ricordano quelle di kymatia e capitelli corinzieggianti del Tempio di Apollo Sosiano a Roma. Con gli esempi ora dati avremmo la prova della coesistenza nella media età augustea di diversi tipi o sottotipi di acanto, la cui lavorazione è dovuta a officine che si erano formate nella Narbonense nel corso dell’età augustea nelle quali erano confluite tradizioni più antiche insieme alle nuove mode.

A Tarraco, nel teatro, si possono seguire i cambiamenti tra modelli ora dalla Narbonense e tentativi di copie, tutti realizzati nell’arenisca locale, mentre a Barcino, nel tempio di Augusto i capitelli corinzi nella pietra di Montjuïc e in questo stile subiscono ancora influenze dal capitello corinzio italico, tanto da essere definiti

“misti”32.

2- Lo stile del Foro di Augusto che giunge nelle province a partire dal medio periodo augusteo (Porta di Augusto a Nîmes, in calcare locale, con iscrizione del 16 a.C.: CIL XII, 3151)(Kähler, 1939: Beil. 6, 4-5; v. Gladiss, 1972: 74, tav. 51,2) e soprattutto a partire dalla prima epoca giulioclaudia, come ben illustrato dai complessi marmorei di culto imperiale delle capitali delle province ispaniche e galliche. È ora introdotto l’acanhus mollis nella forma che viene definita parallelamente in Campania e a Roma nei cantieri del Foro di Augusto, dove accompagna la seconda normalizzazione del capitello corinzio dell’età augustea. Tale forma d’acanto si diffonde ovunque nelle province occidentali dove viene adottato dalle officine locali, sia quelle che avevano cominciato ad utilizzare il marmo, sia quelle che continuano a usare le pietre locali (v. di nuovo nel museo di Arles un capitello con questo acanto e con la variante locale di un astragalo a perline e fusarole nell’orlo dei caulicoli: Fig. 25) o l’acanto dei capitelli compositi già citati del

(30) Quali ad esempio capitelli di Atene, dell’Olympieion, o altri ora conservati nella Agorà settentrionale di Efeso: Leon, 1971: 159, tavv. 56, 3, 57,1,2.

(31) Tra i vari confronti citiamo alcuni frammenti di capitelli corinzi in marmo bianco a piccoli cristalli, forse lunense del teatro di Italica (Ahrens, 2005: 37, 38, E8-E9), probabilmente appartenenti alla prima fase augustea.

(32) Gutiérrez Behemerid, 1986: 15, cat.nn. 10-14; v. anche Labriola, 2020: 91, figg. 8, 9, che riprende la terminologia di acanto “à harpons” della Roth- Congés, 1983: 129-130, con la datazione al 30 a.C. del capitello del Tempio del Foro di Arles da noi riprodotto alla Fig. 21. Al 30-25 a.C. vanno datati i capitelli della scena del teatro sempre di Arles (da ultimo Coulot, 2020: 71).

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Fig. 22. Orange, antiquario del teatro, capitello corinzio in marmo di lesena.

Fig. 23. Orange, antiquario del teatro, capitello corinzio in marmo di lesena.

Fig. 24. Orange, antiquario del teatro, capitello corinzio in marmo di lesena.

Fig. 25. Arles, museo, capitello corinzio in calcare.

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c.d. Tempio di Diana a Nîmes (v. sopra Fig. 20). Nel corso del tempo si resterà fedeli all’articolazione dei lobi delle foglie in fogliette ovali più o meno allungate e lanceolate, anche se la struttura della foglia, come anche del capitello, già con l’età tardo giulio claudia e soprattutto con quella flavia subisce mutamenti e trasformazioni. Le variazioni e le nuove formulazione furono maggiori quando si usarono i calcari e altre pietre locali

che erano più facilmente lavorabili rispetto al marmo. Ad esempio a Saragozza, nel teatro, si realizza uno stile misto tra le tradizioni del Secondo triunvirato (file di zona d’ombra triangolari tra le semifoglie dei calici), lo stile augusteo (uso dell’acanthus mollis nelle foglie) e l’introduzione di particolari, come l’orlo a fogliette rovesce (kyma lesbio naturalistico) dei caulicoli – questi sommersi dalle foglie e con un’unica scanalatura mediana– (Fig.

26) che dipendono dalle nuove mode decorative flavie.

Affrontando il tema della decorazione architettonica nella prima e media età imperiale in Gallia, è forse utile un breve cenno storico per chiarire le possibilità reali o meno di individuare eventuali tradizioni che siano state tramandate dall’epoca celtica a quella romana. Iniziamo ricordando che all’opera di conquista di Cesare, seguirono spostamenti e migrazioni di popolazione (in particolare dopo la rivolta del 52 a.C.), di cui vedremo un riflesso a Burdigala è nell’onomastica dove compaiono nomi originari dalla Narbonense e dalla Belgica: essi rendono difficile isolare eventuali componenti decorative risalenti alla cultura originaria delle popolazioni locali prima dell’arrivo di Cesare. Inoltre il fatto che Agrippa dal 40 al 37 sia stato governatore della Gallia e che nel 38 sia intervenuto in Aquitania (Appiano, BC, V, 92, 386) per sedare i malcontenti della popolazione, fa ritenere probabile una sua azione riorganizzativa del territorio e della rete stradale33, con ridistribuzione e mescolanza delle popolazioni (Ziegle e Roussot-Larroque, 1991: 66) e forse l’arrivo di nuovi elementi non solo dalla Narbonense, ma anche dall’Italia. D’altronde è noto che già dopo il 35 a.C. e soprattutto dopo il 31 a.C., in seguito alla vittoria di Azio, furono insediati nelle Gallie numerosi veterani (Cass. Dio, 51,4; Suet., Aug. 17,3; Res Gestae 16.28) (Cfr. v. Gladiss, 1972:

77) che con le loro famiglie si stabilirono nelle nuove fondazioni coloniali e municipali:

tale processo si accompagnò ad un’architettura pubblica monumentale che certamente impressionò le popolazioni locali. Fu anche favorita la formazione di officine regionali, in quanto gli scultori inviati dall’Italia alle nuove colonie romane di Arles, Narbonne, Lione, Beziers, e latine di Nîmes e di Glanum, ma anche ad Orange e ad Autun, non si trasferivano insieme alla manodopera necessaria alla lavorazione delle pietre, che invece era reperita nei luoghi di destinazione, tra gli artigiani che erano avvezzi a trattare le pietre locali e non il marmo.

(33) Su quanto detto si rimanda a Bost et alii, 2003 (2005), e bibl. citata.

Fig. 26. Saragozza, teatro, capitello corinzio in calcare.

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A queste maestranze, in cui si è realizzato l’incontro fra tradizioni formatesi in epoca tardorepubblicana e primo augustea e le nuove mode urbane, inizialmente si rivolsero in Aquitania le aristocrazie romanizzate a cui si devono scelte architettoniche importanti per il ruolo che possono aver avuto nella diffusione di mode decorative, come abbiamo visto è il caso dell’Arco di Germanico a Saintes finanziato da un maggiorente locale, C. Iulius Celsus (v. sopra), o del contesto in cui un altro membro della famiglia, C. Julius Victor, fece una dedica a Claudio nel 49 d.C. (CIL XIII, 1042-1045; Drinkwater, 1978: 819). Anche a Burdigala, compare un C. Iulius (il cognomen non è pervenuto) che aveva fatto erigere nel 42 d.C. statue di Claudio e del padre di questi, Druso34. Infine ci si può chiedere se siano opera delle stesse maestranze i monumenti eventualmente dedicati nella sua patria d’origine, durante il corso della sua carriera, da Julius Africanus e Santonis Gallica civitate, citato da Tacito (Ann. VI. 8, 4) tra i senatore condannati nel 32 d.C. da Tiberio e padre del famoso oratore con lo stesso nome dell’epoca di Nerone.

Per la Narbonense un buon esempio di decorazione architettonica che documenta gli indirizzi delle officine regionali di età tardoaugustea, giulioclaudia che trattavano i calcari locali è dato dal complesso forense di Murviel-lès-Montpellier, l’antica capitale della tribù dei Samnagenses (l’oppidum di Altimurium?) dove la grande piazza con portici su tre lati di ordine tuscanico con fusti in calcare conchiglifero (si conservano le basi nel lato ovest e nord) è dotata sul lato sud di un grande tempio corinzio attribuito all’età augustea avanzata che s’inserisce in un semicerchio gradinato antistante che forma due esedre. Sul lato nord del portico si apre una serie di sale con pavimenti a mosaico e opus sectile marmoreo e probabilmente con un’aula dedicata al culto imperiale come si ricava dalle iscrizioni, tra cui una dedica ad Augusto datata tra l’11 e 12 d.C. (Gassend et alii, 1992; Thollard et alii., 2008;

Barberan et alii, 2009). Nel museo di Murviel sono conservati alcuni elementi architettonici che ben illustrano quanto finora si è detto. Essi s’inquadrano fra l’età augustea e quella giulioclaudia dopo la quale inizia la decadenza del sito. Non è nota la loro collocazione originaria, ma è probabile che provengano dal complesso templare sul foro. All’età tardo

augustea, primo giulioclaudia attribuiamo un capitello corinzio del museo (Fig. 27) nella pietra di Bois des Lens, con l’acanto condizionato dalla moda della seconda norma - lizzazione, ma con residui più antichi visibili nelle fogliette dei lobi lanceolate e nella riduzione accentuata dei primi lobi inferiori delle foglie delle due corone. Le zona d’ombra sono costituite da stretti triangoli allungati seguiti da triangoli aperti e va notato che le fogliette dei lobi che formano il

(34) CIL XIII,590; Drinkwater, 1978: 820. Forse potrebbe trattarsi del C. Julius Secundus che sotto il regno di Claudio dona alla città un acquedotto (CIL XIII, 592).

Fig. 27. Murviel-lès-Montpellier, museo, capitello corinzio in calcare di Bois des Lens.

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sottile triangolo chiuso si toccano senza sovrapporsi. Il calicetto è articolato in due sottili e corte semifoglie lisce che toccano le spirali delle elici. I piatti steli delle elici e delle volute non sono separati dalle foglie dei calici e terminano in piccoli spirali. Il fiore dell’abaco richiama una sorta di melograno e va notato il sottile kyma ionico che decora l’ovolo superiore dell’abaco. L’acanto ha perso qualsiasi plasticità e naturalismo e riveste in modo meccanico e appiattito il kalathos.

Diverso è invece il trattamento dell’acanto di un capitello corinzio di pilastro, sempre del museo (Fig. 28), in cui le fogliette dei lobi si allun- gano con una resa vivace, secondo modalità che incontreremo anche in Aquitania e nella Tarraconense, ad esempio a Valeria (v. sotto Fig. 48);

ma questo capitello si contraddistin- gue per l’introduzione di una variante costituita da foglie acantizzanti a lobi frastagliati che rivestano gli steli delle elici e delle volute lasciando spuntare soltanto parte delle spirali.

Lo stelo de fiore dell’abaco è sottile e leggermente ondulato e il fiore ha la forma di una rosetta a cinque petali con un largo pistillo circolare. Rile- vante è l’effetto di chiaroscuro dato da numerosi fori di trapano con cui sono trattati il pistillo del fiore del- l’abaco e le foglie acantizzanti che ri- vestono gli steli delle volute e delle elici.

In un altro capitello del museo poco più tardo (Fig. 29) s’incontra il tipo corinzieggiante con il motivo a doppia S, quattro rosette a cinque pe- tali e schematiche foglie acantizzanti a lobi frastagliati alternate a foglie palmettiformi in secondo piano:

siamo di fronte ad un’edizione sem- plificata di un motivo che avrà un certo successo nella decorazione ar- chitettonica delle Gallie.

Infine citiamo ancora un elemento di cornice del tempio del Foro (Fig. 30), probabilmente dal geison orizzontale del frontone in quanto manca della sima: si

Fig. 28. Murviel-lès-Montpellier, museo, capitello corinzio di pilastro, in calcare di Bois des Lens.

Fig. 29. Murviel-lès-Montpellier, museo, capitello corinzieggiante di lesena, in calcare di Bois des Lens.

Fig. 30. Murviel-lès-Montpellier, Tempio sul Foro:

elemento di cornice in calcare di Bois des Lens.

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presenta con dentelli cubici ravvicinati, kyma ionico con larghe lancette in alcuni casi con la punta cuoriforme a ricordo dell’originario calicetto da cui si originava uno stelo, poi trasformati in lancetta, con soffitto a mensole decorate da una foglia acantizzante che nella sua resa sviluppata soprattutto su un lato tiene conto della posizione in cui l’elemento di cornice si trovava nel geison (secondo modalità di correzione ottica ricorrenti, nelle cornici della Gallia e in particolare dell’Aquitania:

v. oltre) e infine con riquadri decorati con grandi rosette che si alternano alle mensole senza formare veri e propri cassettoni in quanto manco il lato anteriore.

Tutti gli elementi considerati di Murviel fanno parte di una produzione standardizzata ad opera di officine regionali specializzate nella lavorazione dei calcari locali, con una tendenza a semplificazioni e a rese meccaniche, dove non si esita a introdurre varianti: queste non prendono tuttavia il dominio rispetto all’esigenza di rimanere fedeli ai repertori dell’epoca augustea e giulioclaudia in voga nella Narbonense e a Lione.

Ma allontanandosi dal sud della Gallia, e avvicinandosi all’Aquitania il fenomeno delle variazioni e di un’evidente maggiore libertà compositiva porta sempre più all’uso disinvolto dei motivi decorativi, molti dei quali è vero già presenti nella stessa Narbonense –si vedano ad esempio i fregi esterni del teatro di Arles– ma rielaborati in tal modo da creare nuovi stili regionali. Tale fenomeno risulta chiaro dai materiali della prima e media età imperiale pubblicati da Dominique Tardy, che le hanno permesso di parlare di una “scuola aquitana”. Essi appartengono ai due capoluoghi dell’Aquitania atlantica, Saintes (Mediolanum Santonum) e Périgueux (Vesunna capitale della Sequania) (Tardy, 1989; Tardy, 2003 (2005); Tardy, 2005), a cui possiamo aggiungere Bordeaux (Burdigala) (Sull’origine delle tre città: Marin, 1991) e altre località e, come riflesso più locale, altri siti (Ribolet, 2016). Il superamento delle esperienze vissute in epoca giulioclaudia avviene con il periodo flavio, corrispondente, dunque, ad una “grande effervescence créatice”: si tratta del periodo in cui prima di tutto a Saintes si sono fissati i sovraccarichi repertori decorativi e le modalità della loro applicazione negli elementi architettonici (Tardy, 2005), in modo diverso da quanto avviene in epoca domizianea a Roma, pur avendo in comune l’horror vacui e il sovraffollarsi di motivi ornamentali.

Tra l’altro in Gallia, con l’accesso al potere di Vespasiano si verificano grandi cambiamenti, tra i quali anche la scomparsa o la rarefazione di alcune famiglie gallo- romane, in particolare gli Julii, che precedentemente avevano dominato la scena politica (Drinkwater, 1978: 822); parallelamente crebbe l’importanza di una diciamo nuova classe sociale dedita a varie imprese, tra cui soprattutto il commercio (Drinkwater, 1978: 833-835), ben presto proprietaria di terreni e ville, e che è noto si riflette nei loro prestigiosi monumenti funerari con rilievi che alludono alla loro attività (colonna di Igel da Treviri, mausolei di Neumagen, ecc.) (Cfr Hall,1951, in particolare pp. 174-177 per l’Aquitania). È la decorazione architettonica di questi monumenti ad essere meglio conservata, in quanto poi reimpiegata nelle cinte murarie, e su di essa, insieme ad alcuni monumenti pubblici, come l’Arco di Besançon, si è basata la ricostruzione della storia della decorazione architettonica nelle Tre Gallie.

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Dagli inizi del II secolo, repertori elaborati a Saintes si diffondono a Bordeaux, Tre- viri, Périgueux. Quest’ultima città già nel corso del secolo precedente aveva manifestato un’ intensa attività di edilizia pubblica, su iniziativa dell’élite locale (gli Auli Pompei per tre generazioni si occupano della costruzione dell’anfiteatro iniziato sotto Tiberio) (Tardy, 2005: 128.), ma senza raggiungere un’autonomia stilistica come provano gli unici due capitelli corinzi di età augustea (reimpiegati in scale della domus des Bou- quets) che ripropongono in chiave locale e meccanica lo schema geometrico del secondo Triunvirato dell’“acanthe symétri-

que” (Fig. 31), presente invece a Saintes con esemplari più raffinati di- pendenti direttamente dalla Narbo- nense e attribuibili all’epoca di fondazione della città35. È con il II se- colo che si avverte a Périgueux la presenza di officine fortemente im- pegnate al servizio di ricche associa- zioni professionali, tra le quali i laniones, che realizzano opere di grande unità stilistica, caratterizzate da nuove composizioni ornamentali (Tardy, 2005: 129). Le città menzio- nate, anche se in momenti e con gra- dazioni diverse, sono l’espressione di una koinè culturale aquitana, che ha reinterpretato modelli romani fino a raggiungere un’autonomia formale.

Per documentare con chiarezza l’autonomia raggiunta, basti citare tra i frammenti di II secolo provenienti dai grandi monumenti funerari di Pé- rigueux, alcuni pezzi in calcare gri- gio locale del museo: un capitello con delfini affrontati e conchiglia (Fig. 32), ispirato ai dorici arricchiti da decorazioni, noti a Roma (Pensa- bene, 2015: 872, cat. n. 28-53), ma qui senza l’esuberanza ornamentale spinta fino al sommoscapo intagliato

insieme al capitello; un blocco di fregio con elegante maschera d’acanto (Fig. 33) e una cornice, con le mensole sostenute da un segmento di tralcio orientato in base ad esigenze di correzioni ottiche, e con il trattamento metopale degli spazi tra di esse36 (Fig. 34).

A Burdigala si verifica già in età altoimperiale la crescita e la fioritura della sua economia, in quanto centro importante per i traffici con il mar del Nord resi possibili

(35) Tardy, 2003 (2005): 241-243, figg. 1 (capitello di Saintes), 2 (capitello di Périgeuaux); Tardy, 2005: 58-60.

(36) Tardy, 2005: 75, 86, 101, figg. 63, 73, 87, a cui si rimanda per la descrizione e l’inquadramento stilistico e cronologico.

Fig. 31. Périgeuax, museo gallo-romano, metà inferiore di capitello corinzio in calcare grigio detto di Périgeaux.

Fig. 32. Périgeuax, museo gallo-romano, capitello doricizzante decorato, in calcare grigio detto di Périgeaux.

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dal suo porto (tra l’altro era una delle tappe della via dello stagno) e dalla rete stradale che lo collegava al Mediterraneo, ma anche con l’Hispania attraverso i Pirenei occidentali (su una delle creste che segnava il confine fu eretto in età augustea un trofeo: la “tour” d’Urkulu) e fino ad Astorga (Ziegle e Roussot-Larroque, 1991: 4-67). Forse sostituì in età flavia Saintes come capitale della provincia (Etienne, 1988: 209) e il suo exploit urbano avviene nel II secolo. Ma già nella seconda metà del I d.C. si era avviata la sua monumentalizzazione e un riflesso di ciò si coglie negli elementi superstiti di decorazione architettonica conservati nel museo:

tra di essi citiamo la metà superiore di un capitello corinzio di colonna (Fig. 35) con acanto a fogliette cuspidate, che ha un confronto molto simile con un capitello di Saintes attribuito all’età giulioclaudia (Tardy, 1989: 33, Fig. 14, tipo A), con dentelli

Fig. 33. Périgeuax, museo gallo-romano, elemento di fregio in calcare grigio detto di Périgeaux.

Fig. 34. Périgeuax, museo gallo-romano, cornice in calcare grigio detto di Périgeaux.

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che occupano il cavetto dell’abaco, e con uguale trattamento dei calici, con i lobi inferiori interni delle semifoglie che hanno assunto la forma di piccole foglie, e degli steli piatti –con incisione lungo il bordo– delle elici e delle volute37: è possibile sia l’opera di un’officina itinerante la cui attività sarebbe dimostrata anche da una cornice del museo38, dello stesso periodo, con confronti diretti a Vienne (Pensabene, 1993: 296-298, Fig. 7, p. 316 nota 19). Per la media età imperiale citiamo uno degli elementi di cornice con mensole in calcare, rinvenuti nelle fondazioni della cinta muraria e forse proveniente dall’anfiteatro di Bordeaux datato tra la fine del II e gli inizi del III sec.d.C. (Valensi, 1970: 26-28, nn. 1,2), con calici, palmette, segmenti di tralcio, anche maschere d’acanto39 (Fig. 36) che decorano le strette mensole con spazi metopali intermedi che, oltre a motivi vegetali, presentano anche maschere40: lo stile e il trattamento del calcare sono molto simili alla cornice sopra citata di Périgueux (v.

Fig. 34), tanto da fa pensare alle stesse maestranze anche se a mani diverse, ma sono possibili altri confronti41.

Vediamo ora più da vicino quanto avvenne nella Hispania romana in età imperiale, dove all’interno della penisola erano già stati creati nuovi centri abitati spesso in conseguenza della permanenza o dell’avanzamento dell’armata romana: in essi non si avverte in modo netto una differenza tra la decorazione architettonica in pietra destinata agli edifici pubblici e quella per i monumenti funerari e per le case. Diversa è la situazione nei centri dove invece vi era già una stabilita tradizione architettonica risalente al periodo repubblicano e dovuta all’incontro tra le tradizioni iberiche, puniche e romano repubblicane. In questi centri, a seconda della destinazione se pubblica o privata, si avverte prontamente la dicotomia sopra accennata anche tra le decorazioni scolpite nella pietra locale. Tale dicotomia risalta ancora maggiore quando compaiono elementi architettonici in marmi di importazione dall’Italia o dalla stessa Hispania (in particolare quelli dalle cave di Almadén de la Plata nella Betica e di Estremoz nella Lusitania).

(37) Al museo di Bordeaux altri confronti: Badie et alii, 2014: 183, Fig. 1, D13.

(38) Inst. Neg. 1934. 783 del DAI a Roma.

(39) Sull’antropomorfismo delle mensole vegetalizzate: Badie et alii, 2014: 185, Fig. 5.

(40) Cfr. Badie et alii, 2014, sull’introduzione di questi spazi metopali decorati nella seconda metà del I sec.d.C. come innovazione degli ateliers provinciali,.

(41) Citiamo alcune cornici da un santuario di Genaiville (Piganiol, 1961: 294, figg. 15-16); del “Pilastro di Ifigenia da Neumagen (v. Massow, 1932: 51-65, tav. 9, figg. 8 d1, d3, d6), ma più rifinito nelle cornici rispetto a Bordeaux dove le cornici appaiono meno accurate.

Fig. 35. Bordeaux, museo, meta superiore di capitello corinzio in calcare.

Fig. 36. Bordeaux, museo, elemento di cornice in calcare.

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Come si è detto vanno esaminate singolarmente le varie situazioni che devono tener conto anche della stratificazione della popolazione ispanica, formata da varie componenti, in ognuna della quale si perpetuava un modo diverso di percepire l’architettura pubblica e privata radicato appunto nelle tradizioni culturali e abitative di origini così diverse.

Di questa varietà un buon esempio è fornito da città romane dell’interno della Tarraconense che sono rifondate presso antichi nuclei celtiberi in occasione degli spostamenti dell’armata romana dove sia maestranze che accompagnavano l’esercito (come in Lusitania era avvenuto a Mérida), sia provenienti da altri centri, vengono chiamate alla decorazione architettonica degli edifici pubblici. Sono dunque queste maestranze che introducono all’interno delle province ispaniche in età augustea e giulioclaudia le mode urbane, tra cui appunto quella dell’acanto con contatto asimmetrico tra le fogliette nei capitelli corinzi che supera i modelli del Secondo Triunvirato invece con acanto simmetrico (“à harpons”) e rosetta tra gli steli delle elici e delle volute. Si ritiene che per la Tarraconense i centri d’irradiazione di piccoli gruppi o singoli scultori itineranti, esperti in decorazioni architettoniche, siano da identificare con Carthago Nova e Tarraco, da cui si originavano i percorsi principali di penetrazione nella provincia. Per ciò che riguarda i capitelli corinzi normali, entrambe le città avevano subito in età tardorepubblicana-primoaugustea influssi vari dall’Italia del nord e dalla Narbonense, ma ebbero rivoluzionata la cultura decorativa in pietra locale dalla creazione di monumenti del tutto marmorizzati, quali il teatro nella prima e il Tempio di Augusto nella seconda, con l’intervento di manufatti architettonici d’importazione dall’Italia e anche di marmorari italiani, non sappiamo in che numero: questi probabilmente collaborarono o ispirarono le maestranze locali abituate alla lavorazione delle pietre regionali nella realizzazione di elementi architettonici che imitavano le nuove forme. Lo si osserva nel portico post scaenam del teatro di Carthago Nova in arenisca (“pedra arenosa”) e nella Basilica del foro municipale di Tarraco in calcare che in entrambi i casi traducevano nella pietra locale i modelli offerti dagli elementi in marmo, soprattutto dai capitelli corinzi42. Una delle vie di comunicazione, percorse da maestranze regionali tarraconensi, che avevano rinnovato il loro patrimonio culturale, partiva da Tarraco, attraversava la valle dell’Ebro e raggiungeva Caesaraugusta e Clunia; un’altra da Carthago Nova, passava per Sagunto arrivando a Segobriga, ed è stato osservato che in tal modo si spiegherebbe la somiglianza tra capitelli di Sagunto e del foro di Segobriga (Domingo, 2005: 136) (fogliette stilizzate e lanceolate nelle foglie d’acanto). Ma, soprattutto per la seconda metà del I sec.a.C., va anche considerata la via di

(42) Se esisteva a Tarraco un altro tempio gigantesco con capitelli corinzi dall’acanto a fogliette lanceolate e allungate che formano zone d’ombra senza sovrapporsi, ma accostandosi (di cui un grande frammento di un capitello di reimpiego è conservato nella piazza del Rovellat: Domingo 2005: 41, Fig. 8), dovremmo ritenere che il corinzio con l’acanto dipendente dalla seconda normalizzazione dell’epoca augustea forse era già stato introdotto prima della costruzione del tempio di Augusto in ogni caso tiberiano. In effetti nell’ acanto dei capitelli Corinzi dell’Arco di Berà (Domingo, 2005: 28, figg. 10,11, possiamo trovare forti somiglianze con le foglie di nuovo del Rovellat, ma anche di Cartagena (Domingo, 2005: 42, Fig. 9), dove non ci sono rigide e strette scanalature ai lati della costolatura e centrale e dove le fogliette apparirebbero forse più lanceolate e strette di quelle del frammento di capitello del Foro provinciale per dimensioni attribuibile al Tempio di Augusto (Domingo, 2005,41, Fig. 7). Certo la cronologia non si può stabilire esattamente in base a questi elementi tipologici ma la sicura datazione dell’Arco di Berà al 15-5 a.C., sempre se è fededegno il disegno che ne dà Duprè, potrebbe convalidare l’esistenza a Tarragona di un grande Tempio di età augustea lavorato nella pietra locale a cui potrebbe aver appartenuto il capitello del Rovellat. È anche vero che il capitello della Basilica del Foro Municipale (Domingo 2005: 41, 62 figg. 4, 43) appare simile, pur differenziandosene nelle foglie per la maggiore inclinazione delle zone d’ombra, la maggiore articolazione delle nervature centrali e la maggiore regolarità nella disposizione delle fogliette dei lobi inferiori e mediani, dati questi che porterebbero meglio ad una datazione nella prima età tiberiana.

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