INTRODUZIONE
L’oggetto principale della ricerca sviluppata nella tesi è la ricostruzione e l’analisi delle politiche elaborate dall’Unione Europa nei confronti della propria turbolenta periferia, comunemente conosciuta sotto la denominazione di Balcani Occidentali. In seguito all’implosione dell’ex Jugoslavia agli inizi degli anni ’90, e congiuntamente alle transizioni dal sistema socialista a quello capitalista in atto nei Paesi limitrofi, l’Unione è stata chiamata a svolgere il ruolo di protagonista e di nuovo regolatore nelle dinamiche geopolitiche nell’area. La situazione che è venuta a cristallizzarsi negli anni successivi ha suggerito alla comunità internazionale come i problemi che affliggevano la regione non potevano essere risolti su basi esclusivamente nazionali o tramite azioni bilaterali, ma esigevano misure in grado di inglobare tutte le parti interessate. In altre parole, le caratteristiche regionali andavano risolte all’interno di un quadro regionale, costituito sia dagli attori interni dalla regione, in primis gli Stati nazionali, sia da quelli esterni, Unione Europea in testa.
Questa convinzione traeva le proprie ragioni da un altro processo in atto in quegli anni, che in qualche modo stava agli antipodi della crisi dilagante nei Balcani. Lo scenario post‐
bipolare, infatti, testimoniava la rinascita del regionalismo sulla scena internazionale,
caratterizzato da una crescente attività interstatale a livelli regionali. Questa tendenza era
particolarmente sentita nel continente europeo, dove questo tipo di neoregionalismo ha
assunto principalmente due forme. Da una parte, le organizzazioni regionali preesistenti,
quali la stessa Comunità/Unione Europa, il Consiglio d’Europa, l’OSCE e la NATO, sono
mutate in maniera sostanziale sia nella forma che nei ruoli, consolidando le proprie
mansioni e aggiudicandosene altre, arrivando addirittura in alcuni casi, come nel caso
dell’Unione, a delle forme sovranazionali. Dall’altra parte invece, in varie parti d’Europa
sorgevano forme sub‐regionali originali, di incarichi multidimensionali. Lo scopo era
quello di tessere una rete di reciproca interdipendenza, coniugando le azioni bilaterali e
multilaterali provenienti dai governi, dalle autorità locali, dalla società civile e dal mondo
dell’industria. Tale processo riguardava essenzialmente il modo di trovare un
denominatore comune per le politiche in materia economica, di sicurezza, di cooperazione
culturale, fino ad includere le collaborazioni transfrontaliere. L’Accordo Centroeuropeo di
Libero Scambio (CEFTA), l’Iniziativa Centro Europea (INCE) e l’Organizzazione della
Cooperazione Economica del Mar Nero (BSEC) ne costituiscono alcuni esempi.
Erano quindi le due dinamiche della dissoluzione della Jugoslavia insieme al fenomeno del sub regionalismo, che peraltro si svolgevano in contemporanea, a condizionare le politiche dell’Unione Europea nei confronti dei Balcani. Tuttavia il buon esito di queste azioni dipendeva da un insieme di fattori rintracciabili sia all’interno dell’Unione, sia all’interno dell’ambiente balcanico, i quali molto spesso erano in netta contrapposizione. Per questi motivi, le strategie attivate nel corso degli anni hanno avuto degli esiti diversi: alcune hanno avuto un successo limitato, se non un clamoroso insuccesso, mentre altre sono riuscite a produrre degli esiti eccellenti, che a tutt’oggi rappresentano il perno dell’azione geopolitica europea.
I piani e le politiche implementate nel corso di un decennio, il ruolo degli attori interni e soprattutto di quegli esterni ai Balcani Occidentali, gli esiti negativi e le soluzioni positive ai problemi, nonché gli argomenti geopolitici, geostrategici e geoeconomici caratterizzanti la regione, costituiranno quindi i capitoli di questa tesi.
Nel primo capitolo si passeranno in rassegna i principali discorsi e le narrative
geopolitiche che hanno portato alla creazione della sub‐regione balcanica. Quest’ultima è
stata infatti oggetto di numerose classificazioni, conolidatesi sulla base di percezioni
provenienti dall’esterno. Sin dall’ottocento, la Penisola Balcanica è stata percepita come
uno dei generatori principali delle crisi che inondavano il continente europeo. Le guerre
che si sono susseguite durante il XIX e XX secolo non hanno fatto altro che rafforzare
ulteriormente la visione che la comunità internazionale si è fatta della regione: una zona
grigia dell’Europa, articolata in Stati piccoli, in una perenne condizione di antagonismo,
con forti tendenze interne all’intolleranza. Con il crollo del Muro di Berlino, seguito dalla
prepotente rinascita dei nazionalismi all’interno della Jugoslavia, la percezione negativa
sui Balcani si è acuita a dismisura, portando ancora una volta alla ribalta il problema che la
regione presentava per la stabilità dell’unità dell’Europa. L’ancoraggio a vecchie
definizioni che illustravano i Balcani come la polveriera dell’Europa, una periferia e un
coacervo di pratiche politiche incivili il cui comune denominatore era la cosiddetta
balcanizzazione della politica, ha fatto in modo che lo scoppio delle ostilità fosse
trascurato e, per molto tempo, gestito in modo del tutto superficiale. Pur costituendo una
delle parti più danneggiate dal conflitto in atto ‐ giacché doveva accogliere un gran
numero dei profughi e fornire ingenti aiuti umanitari ‐ l’Unione Europea non si è
discostata dalla sua tradizionale politica fatta di raccomandazioni e pareri intorno a
decisioni ormai prese altrove. E’ stato necessario quindi attendere la fine della guerra in
Bosnia ed Erzegovina, anzitutto grazie alla politica proattiva degli Stati Uniti d’America,
affinché l’Unione abbandonasse i vecchi paradigmi sui Balcani e si adoperasse per una politica più pragmatica. Nelle capitali europee si venne a sviluppare un interessante dibattito circa la convenienza nel considerare i Balcani non più come la polveriera dell’Europa, ma come il destinatario privilegiato di una politica nuova, fondata su democratizzazione, ricostruzione, sviluppo e transizione verso l’economia di mercato.
L’articolazione di queste nuove idee partiva dal presupposto di quanto fosse indispensabile creare quei valori di coesistenza e di benessere per i popoli balcanici, in modo che essi cessassero definitivamente con le politiche di nation‐building, legate all’omogeneizzazione ed esclusione delle minoranze etniche, cause principali della guerra.
La transizione da un’identità negativa dei Balcani verso una sua accezione positiva è passata attraverso la cooperazione regionale e la ridefinizione dell’intera area. Si è trattato, in sostanza, di un qualcosa di antitetico rispetto alla consolidata immagine negativa dell’identità dei Balcani, di qualcosa che potesse superare le divisioni relative all’appartenenza etnica. La formula comprovata dall’evoluzione dell’Unione Europea, dove la cooperazione funzionale in campi specifici ha portato ad una maggiore integrazione politica, era il modello da emulare. Fu questo il contesto in cui l’Unione Europea decise di creare una sub‐regione nuova, all’interno della quale avrebbe assunto il ruolo egemone: il Sud Est Europeo, comprendente gli Stati nati dalle ceneri della Jugoslavia, eccetto la Slovenia, ma con l’inclusione dell’Albania. Le tendenze verso il multilateralismo sfociarono nella prima strategia comunitaria verso il Balcani denominata Approccio Regionale.
L’Approccio Regionale ha in modo definitivo delimitato, geograficamente e strategicamente, i confini di una regione che da allora in poi sarebbe stata la destinataria unica di numerose politiche messe in atto da parte di Bruxelles. Tuttavia, quell’esercizio ha mostrato alcuni punti deboli che ne avrebbero limitato la portata e gli effetti. In primo luogo, il numero elevato di condizionalità e le relative problematiche sono state ancora una volta affrontate in un’ottica eccessivamente bilaterale, lasciando da parte – a dispetto della sua denominazione – quella regionale.
Per questi motivi, ed in seguito all’ultima crisi consumatasi sul suolo della ex‐Jugoslavia,
quella del Kosovo, Bruxelles decise di avviare due iniziative che avrebbero ancora una
volta mutato il volto geopolitico dei Balcani Occidentali. Il secondo capitolo passeranno in
rassegna questi due strumenti: da una parte, si analizzerà il Patto di Stabilità per l’Europa
Sud‐Orientale, mentre, dall’altra, si cercherà di delineare i tratti salienti del Processo di
Stabilizzazione ed Associazione. Il Patto di Stabilità venne formulato durante la
presidenza tedesca del Consiglio Europeo e rispecchia un chiaro intento di posizionare i Balcani Occidentali al vertice della propria agenda politica. Con la crisi Kosovara in atto, che ancora una volta non poteva essere risolta da parte della sola Unione a causa del proprio deficit operativo, Berlino, appoggiata dagli Stati Uniti e dalle principali organizzazioni internazionali, elaborò un piano, da implementarsi immediatamente, che avrebbe non solo reso l’azione internazionale più decisa ma, avrebbe soprattutto dato ai Paesi della regione una chiara prospettiva per l’integrazione nell’Unione. Istituito contestualmente con la fine dell’intervento della NATO nella provincia serba di Kosovo nell’estate 1999, il Patto sin dall’inizio pareva un progetto ambizioso: favorì la raccolta di ingenti mezzi finanziari per la ricostruzione delle economie regionali e creò un forum politico con l’auspicio di rafforzare la collaborazione interregionale. Lo sviluppo economico e i rapporti di buon vicinato erano, a parere di quanti elaborarono il piano, i due assi principali sui quali costruire un quadro regionale prospero e sicuro, dove l’impegno di mezzi militari, allo scopo di rimediare alle dispute tra i Paesi, sarebbe diventato non solo inutile, ma impensabile. Nonostante il Patto avesse indubbi meriti nella costruzione di un nuovo quadro regionale, non tenne sufficientemente conto delle circostanze endogene ad ogni singolo Stato. Secondo le capitali della regione, un approccio eccessivamente multilaterale precludeva loro la possibilità di tracciare una precisa traiettoria verso le strutture europee, considerando pertanto il Patto sì uno strumento utile, ma decisamente inadeguato a stringere rapporti contrattuali con Bruxelles.
L’Unione Europea, da parte sua, non nascose una certa dose di scetticismo circa la proposta tedesca di estendere ai Balcani Occidentali la prospettiva di un’adesione all’Unione. La debolezza strutturale della regione, la presenza in alcuni dei Paesi di regimi autoritari e di economie devastate dalle operazioni belliche, erano solo alcune delle circostanze che non permettevano l’attuazione di un’ipotetica strategia volta all’
integrazione. Per queste ragioni, l’Unione si adoperò alla stesura di un nuovo piano
politico, di suo esclusivo patronato, più attento alle dinamiche regionali e prudente nel
considerare le congiunture interne ai Singoli Stati. Pertanto, nella tarda primavera del
1999, l’Unione Europea elaborò il Processo di Stabilizzazione ed Associazione, una
complessa struttura di natura anzitutto normativa, che tutt’oggi rappresenta il cardine
della politica comunitaria nei Balcani Occidentali. L’innovazione di maggior rilievo
riguardava la decisione di Bruxelles di includere i Balcani Occidentali in un unico
meccanismo che aveva come scopo quello di permettere a quest’ultimi l’adesione
all’Unione. Un’adesione subordinata all’ottemperanza di precise condizioni, generate dagli
Accordi di Stabilizzazione ed Associazione, che a loro volta delineavano il primo passo contrattuale tra le parti. La politica di condizionalità, i progressi compiuti negli anni successivi da parte dei Paesi interessati, che tra l’altro videro la nascita di scetticismo intorno ai futuri processi di allargamento in seguito alla bocciatura francese ed olandese del trattato costituzionale, saranno i punti centrali del secondo capitolo.
Il terzo capitolo analizzerà gli aspetti prettamente geostrategici emersi dalla crisi nei Balcani. La dissoluzione dell’ex Jugoslavia, infatti, ha inesorabilmente riproposto la questione critica circa le capacità militari di Bruxelles nella gestione delle crisi ed il suo ipotetico ruolo di protagonista sulla scena internazionale, che a partire dal 1990 ha perso la caratteristica di bipolarità. Ci si domandava, in quegli anni, quale fosse l’idea dell’Europa nel mondo, partendo dall’altezza delle capacità interne, dal peso oggettivo e dalle aspettative esterne. Pareva chiaro che l’Unione Europea dovesse dapprima dotarsi di quegli strumenti istituzionali idonei a rispondere alla crescente “domanda d’Europa”
proveniente dal Mondo in generale, e dai Balcani in particolare, orfani della “certezza geopolitica” bipolare, fino a essere in grado di evolvere da spazio economico in gigante politico e militare. Lo sviluppo e la genesi degli strumenti quali PESC e PESD sono due concetti chiave del capitolo. Il sorgere, inoltre, di problemi relativi alla sicurezza sarà preso in esame in questa fase d’analisi. In particolare, verranno esaminate le minacce, potenzialmente in grado di rendere la zona dei Balcani Occidentali instabile e insicura. Da una parte, si analizzeranno le questioni legate alla sicurezza “hard”, e quegli elementi di instabilità che, usando i metodi propri del potere militare, possono travalicare i confini della regione per interessare le aree limitrofe. Il terrorismo internazionale, la presenza di Stati deboli, così come l’uso del territorio a scopi illeciti saranno solo alcuni degli esempi.
Dall’altra parte, verranno presi in considerazione i problemi di sicurezza “soft”, ossia quelle attività illecite in grado di procurare disfunzioni ai meccanismi istituzionali, mettendone in pericolo il funzionamento nel lungo termine, con conseguenze sulla stabilità dell’intero apparato statale. La criminalità organizzata, il traffico degli stupefacenti oppure la corruzione dilagante ne sono degli esempio più eclatanti.
Un altro aspetto fondamentale nell’indagine delle politiche complessivamente messe in
atto nei Balcani Occidentali è senza dubbio quello economico. La costruzione di una
regione economicamente omogenea, attraverso la stipula di un accordo multilaterale che
permetta la formazione di un mercato unico sarà l’oggetto del quarto capitolo del presente
elaborato. Forte dell’esperienza del secondo dopoguerra, quando il fattore economico fu il
vettore principale dell’integrazione, e testimone del positivo contributo al mercato
regionale creato da parte dei Paesi dell’ex blocco sovietico, del CEFTA, Bruxelles si fece promotore di un analogo approccio nei Balcani. Oltre a ciò, la crescente complessità in materia energetica spinse le parti affinché si creasse una comunità energetica regionale, da integrare nel sistema europeo. A completamento del quadro economico, verranno analizzate le iniziative che vedono i Balcani Occidentali pienamente inseriti nella costruzione e realizzazione dei cosiddetti corridoi paneuropei.
Il quinto capitolo, infine, si articolerà intorno agli scenari di natura geopolitica relativi ai singoli Paesi. Verrà offerta una valutazione del percorso futuro della Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, FYROM e Albania verso l’integrazione europee. Ciascuno di questi Paesi, nonostante faccia parte della medesima strategia dell’Unione Europea, possiede peculiarità che risulteranno decisive in vista dell’adesione nelle strutture euro‐
atlantiche. A dieci anni dalla svolta geopolitica di Bruxelles nei confronti dei Balcani Occidentali, non vi è ancora un Paese che sia entrato a pieno titolo nell’Unione. I progressi compiuti dai singoli Paesi, segnatamente dalla Croazia, non risultano tuttora sufficienti perché il processo di integrazione possa considerarsi concluso. Le numerose strategie dell’Unione Europea sembrano aver prodotto risultati parziali, ma il loro aspetto positivo rimane indubbiamente quello predominante.
CAPITOLO I
COSTRUZIONE DELLA SUBREGIONE BALCANICA: APPROCCIO REGIONALE
1.1. L’ABBANDONO DEI VECCHI PARADIGMI
1.1.1. Interpretando i Balcani
Per secoli la penisola balcanica è stata percepita come una regione estranea al resto dell’Europa e ciò grazie alla coesistenza di una moltitudine di fattori tra i quali quelli geografici, geopolitici, storici, culturali ed economici risultano essere di primaria importanza. La diversità diffusa è parte integrante della geografia politica della regione.
Sebbene le caratteristiche prettamente geografiche frequentemente inducano alla conclusione che si tratti di una regione relativamente omogenea, i fatti storico‐politici dimostrano come i Balcani non siano mai un dato definitivo, ma traggano le proprie origini da dinamiche sia esterne che interne, dalle quali poi si deducono le interpretazioni più variegate. Una seppur breve analisi di queste ultime è necessaria allo studio delle recenti politiche dell’Unione Europea nei confronti del suo sud est, poiché aiuta a capire la discordanza, nonché l’ambiguità delle politiche messe in atto negli ultimi vent’anni.
I principali filoni di studio relativi all’identità dei Balcani oscillano tra due estremi: vi sono teorie secondo le quali i Balcani rappresentano una comunità‐regione naturale, quasi ancestrale, ancorata a valori derivanti da una storia condivisa, e quelle secondo le quali i Balcani appaiono come un laboratorio nel quale vengono costituite le comunità immaginarie.
Pertanto, le cosiddette teorie primordiali individuano una serie di elementi costitutivi
necessari per la definizione di una regione, vista come un’entità stabile di carattere
culturale. Lo stile di vita, l’uso di una lingua comune, le tradizioni e le usanze travalicano i
singoli confini nazionali e si fondono in una struttura regionale che proietta un’identità
specifica. In questo modo, l’aspetto identitario nei Balcani, basato su tratti culturali che
vanno oltre i confini nazionali, immodificabili nel tempo e nello spazio indipendentemente
dal contesto sociale, si inquadra nel più ampio approccio teorico sui conflitti internazionali
dell’epoca contemporanea ideata da Samuel Huntington. Egli, infatti, individua
nell’omogeneità culturale e religiosa, vale a dire nelle concentrazioni di civiltà, piuttosto
che nell’integrazione economico‐politica, il successo di un progetto regionale. Adottando questo modello di costruzione regionale, Huntington ha cercato di illustrare il risveglio di antichi odi che si sono plasmati nell’ex Jugoslavia, inglobandoli negli impermeabili contenitori culturali dell’Islam e del Cristianesimo cattolico e ortodosso
1. Seppur nella presenza di identità frammentate, i popoli del sud est europeo, ed è questo il punto principale della tesi esistenzialista, condividono una serie di tratti comuni che trascendono i singoli confini nazionali.
Una lettura differente, che tuttavia attinge agli identici assiomi primordiali sull’esclusività dei Balcani all’interno del continente europeo, è di stampo storico. Questa tesi indica una serie di forze profonde che sottostanno alle successioni spazio‐temporali della regione che ne hanno poi influenzato la posizione internazionale. La secolare appartenenza agli imperi esterni che si sono succeduti sul suolo balcanico, assieme al lascito che si è radicato nella vita politico‐economica della regione, appare essere l’argomento principale di tale pensiero. L’analisi parte dal fatto che fino alla seconda metà dell’800 i Balcani erano chiamati “la parte europea della Turchia”, investendo l’intera regione di connotati negativi
2. L’appartenenza all’Impero Ottomano quindi rappresenterebbe il vettore principale della riproduzione identitaria dei Balcani ed i rapporti con i loro vicini, nello specifico con l’Impero Austro‐Ungarico, non avrebbero fatto che acuire tale sentimento.
Secondo gli esponenti di questa teoria, i rispettivi movimenti di indipendenza sorti agli inizi del ‘900 divennero parte dello stesso problema, della cosiddetta Questione Orientale, e il loro destino si sarebbe definitivamente compiuto all’inizio del XX secolo, durante le Guerre Balcaniche per la ridistribuzione del territorio ottomano
3. Di conseguenza, l’unicità della regione balcanica è descritta nel suo rapporto con l’esterno, un compito arduo in quanto la ricerca di una vacillante comunanza di valori esclude l’handicap dell’eterogeneità endogena. Anziché la preponderanza del fattore culturale sono le caratteristiche storicamente condivise che forgiano un’identità regionale, come ad
1 Huntington S., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2001.
2 Il termine “Penisola Balcanica” venne introdotto nel linguaggio comune da parte di geografo tedesco August Zeune, per sostituire la definizione non politicamente corretta di “La parte europea della Turchia”, Simic P., “Do the Balkans Exist?” in Triantaphyllou D., Gnesotto N. (a cura di), The Southern Balkans: Perspectives form the Region, Chaillot Paper, no. 46, EUISS, Parigi, 2001, pag. 20.
3 Tzifakis N., “EU’s region‐building and boundary‐drawing policies: the European approach to the South Mediterranean and the Western Balkans”, Journal of Southern Europe and the Balkans, 9:1, Routledge, London, Aprile 2007, pag. 56.
esempio l’eredità imperiale ed il conseguente ritardo nello sviluppo economico, nonché la posizione periferica rispetto al resto dell’Europa.
Agli antipodi di questi due approcci si sviluppa una corrente di pensiero costruttivista secondo la quale le regioni sono invenzioni politiche contenute nell’ambito di programmi politici, stilati dai politici stessi, volti al perseguimento di scopi precisi
4. L’impeto alla teorizzazione delle regioni risale alle origini della Guerra Fredda quando esse emergono come delle entità relativamente malleabili, attente alle varie pratiche sociali che conducono alla generazione ed all'accumulazione di conoscenza, di significati e di valori comuni
5. Incalzava inoltre la necessità di costruire, ma soprattutto di mantenere, il senso di coesione e di solidarietà all’interno delle regioni e pertanto, analogamente a quanto fosse già sperimentato nella formazione dello stato‐nazione, si applicarono quegli strumenti di pratica sociale diretti alla costruzione di un’identità esclusiva, contrapposta all’identità altrui. Il caso dei Balcani è l’esempio per eccellenza di come le entità regionali si costruiscano, di come vengano strumentalizzate e contestualizzate a seconda delle epoche e delle circostanze storiche, e di come la costruzione di un’identità puramente europea, occidentalizzata, si collochi in una relazione strutturale con quella dei Balcani.
È perciò necessario esaminare le rappresentazioni simboliche, tanto esterne quanto interne, dei Balcani e il potere del mezzo discorsivo tramite il quale si sono cementate nell’immaginario collettivo europeo. Il percorso che i rappresentanti di questo pensiero tendono a seguire è quello di collocare i Balcani all’interno della discussione intellettuale sull’orientalismo attraverso strumenti filologici
6. Sono la storia, la filosofia e la letteratura i mezzi che consentono di comprendere come a lungo l’occidente abbia considerato il Sud‐
Est europeo un’entità a sé, come se si trovasse collocata altrove, al di fuori dell’Europa stessa. Il punto di partenza è l'orientalismo di Said, quell'insieme di discipline accademiche occidentali che per decenni hanno studiato l'Oriente da lontano e dall'alto, definendo così tutto ciò che è altro rispetto all'Occidente in modo semplicistico,
4 Neumann I., “Regionalism and Democratisation” in Zielonka J., Pravda A. (a cura di.), Democratic Consolidation in Eastern Europe, Vol. 2, International Dimensions, Oxford and New York: Oxford UP, 2001, pag. 58.
5 Bechev D., “Constructing South East Europe: The Politics of Regional Identities in the Balkans”, Ramses Working Paper 01/06, European Studies Centre, University of Oxford, Marzo 2006, pag. 5.
6 Per un’analisi approfondita e più conosciuta di tale approccio si veda Todorova M., Immaginando i Balcani, Argo, Roma, 2002.
esprimendo giudizi nei suoi confronti, descrivendolo, insegnandolo, fissandolo, governandolo
7. Tuttavia, non è possibile fare un paragone tra l’Oriente e i Balcani, in quanto questi ultimi mancano di un’eredità coloniale e si collocano in una posizione geopolitica differente dall’Oriente, in perenne contrasto con l’Occidente. I Balcani invece, secondo Todorova, sono l’Europa, costituendone le esternalità di un passato da dimenticare: il genocidio, la pulizia etnica, l’Olocausto e l’intolleranza concentrati nell’immagine cupa dei Balcani
8. Le radici di questa problematica sono da ricercare nel XVIII secolo, il secolo dell’Illuminismo, con la conseguente svolta intellettuale che nasce intorno al concetto di civilizzazione, al quale è legata una lunga tradizione storiografica connessa all’immagine del turco dispotico, il turco che dimorava anche nelle terre balcaniche. Ciò che dei Balcani si conosceva, era la loro composizione non uniforme soggiogata dall’elemento turco. Queste popolazioni, considerate primitive, servirono all’Europa occidentale da ago della bilancia per legittimare l’alto grado di civilizzazione da essa raggiunto: la nostra civilizzazione diventa la civilizzazione, non essere noi significa quindi essere l’altro.
Il punto di svolta per la costruzione, in termini senz’altro peggiorativi, dei Balcani, è rappresentato da due momenti sequenziali. Da una parte, lo scoppio di due guerre balcaniche nel biennio 1912‐1913 e, dall’altra, l’assassinio dell’Arciduca Ferdinando a Sarajevo. I due episodi consentirono ai politici e agli intellettuali europei di considerare definitivamente questa regione come un luogo selvaggio, dimora di popolazioni barbare ed anarchiche.
Ed ecco che, in questa visione dell’altro, nasce il feticcio epistemologico del balcanismo, ossia un’immagine stereotipata dei Balcani da parte della cultura occidentale, che, da almeno un secolo, ne fa il nido di tutte le nefandezze e violenze di cui il genere umano risulta essere capace; è il luogo per eccellenza dell’instabilità politica e della conseguente frammentazione statuale in virtù di significati fin troppo carichi di semplificazione
9. La
7 Said E., Orientalism , Vintage Books, New York, 1979, pag. 3.
8 Todorova M., “The Balkans: from discovery to invention”, Slavic Review, 53(2), American Association for the Advancement of Slavic Studies, Harvard, 1994, pag. 455.
9 Al balcanismo alcuni studiosi hanno perfino attribuito la nascita del nazismo. In questo modo Robert Kaplan affermava che il nazismo può rivendicare origini balcaniche. Fu tra le infime pensioni di Vienna, una terra fertile per i risentimenti etnici vicina al mondo slavo meridionale, che Hitler imparò ad odiare in modo così contagioso. Kaplan R., Gli Spettri dei Balcani. Un viaggio attraverso la storia, Rizzoli, Milano, 2000.
condivisione di questo postulato da parte dei politici europei si protrasse per decenni, fino a giungere al culmine agli inizi degli anni’90: il discorso balcanico raccomandava il non intervento e pertanto, in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, il conflitto poteva dilatarsi indisturbato. In questo senso si comprende come l’identità balcanica studiata non inerisca alla sua essenza, ma in gran parte dipenda da decisioni classificatorie esterne.
1.1.2. La costruzione del Sud Est Europeo
Il principio regionale, derivante dalle dinamiche dell’immediato secondo dopoguerra, può assumere significati diversi, persino ambigui. Regione e regionalismo sono due concetti cardine di questo principio, il cui significato varia secondo la scala geografica analizzata: a concetti di regione si possono ricondurre anche strutture spaziali statali fino ad inglobare l’intero sistema continentale.
Il regionalismo spesso denota il processo di devoluzione del potere politico ed economico che dal centro si sposta verso il locale ed è associato alla rinascita di sentimenti di appartenenza, anch’essi regionali. Potrebbe accadere che questi sentimenti di appartenenza al regionale trascendano dai confini di uno Stato e quindi interessino aree adiacenti a più Stati e le rispettive popolazioni, secondo il modello di formazione delle Euroregioni. L’altra accezione circa il regionalismo riguarda i movimenti verso l’alto, dove il potere statale non è decentrato ma piuttosto delegato a favore di organismi sopranazionali. In quanto alle finalità, questo tipo di regionalismo fa la sua comparsa soprattutto con riferimento alla soluzione di bisogni economici, ma tende esplicitamente, fin dall’avvio della sua sperimentazione, ad abbracciare lo spazio della politica e della sicurezza. Si tratta quindi di fenomeni aventi una tendenza spontanea a fornire risposte al complesso dei problemi posti dalle relazioni internazionali, primo fra tutti le modalità attraverso le quali ricercare l’equilibrio e la sopravvivenza. Alcuni processi di questo tipo di regionalismo tendono al fenomeno dell’integrazione e sono addirittura equiparabili ad esso. La costruzione della CECA prima e dell’Unione Europea dopo sono senza dubbio l’esempio chiave di quest’evoluzione del principio regionalista
10.
10 Hughes J., Sasse G., Gordon C., “Enlargement and Regionalization: the Europeanization of Local and Regional Governance in CEE States”, in Wallace H. (a cura di), One Europe or Several?
Interlocking Dimensions of European Integration, Basingstoke, Palgrave, London, 2001, pagg. 145‐
178.
A parte i due tipi di regionalismo menzionati, è necessario analizzare una terza tipologia regionale, distinta sia dal regionalismo sub‐statale, che da quello sopranazionale e strettamente legata alla caduta del comunismo nell’Est Europeo. Difatti, contrariamente alla solidità dell’Europa occidentale, nel 1990 il blocco comunista si è disgregato in tre differenti gruppi
11. Il primo gruppo è composto dagli Stati nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica che hanno convenuto di istituire la Comunità degli Stati Indipendenti, con scopi e finalità non meglio precisati, ma tuttavia saldamente legata alla Federazione Russa. La seconda compagine raggruppa i Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale (PECO) i quali hanno con successo intrapreso la via della transizione, soprattutto grazie al pronto appoggio da parte dell’Occidente. Con lo scopo inoltre di rafforzare la cooperazione nei campi della politica, della sicurezza e dell’economia, questi Paesi hanno dato vita ad una serie di organizzazione regionali. Gli acronimi quali CEFTA, INCE oppure BSEC col tempo sono diventati forum per diplomatici ed esperti e la loro proliferazione ha permesso di teorizzare il termine sub‐regionalismo, per distinguere le dinamiche in atto dai progetti di integrazione e regionalismo più ampi ed impegnativi, quali ad esempio l’evoluzione dell’Unione Europea
12.
Ipotizzare un simile sviluppo di organizzazioni regionali diventa quasi impossibile qualora l’interesse delle analisi si rivolga verso il terzo gruppo, ossia i Balcani dei primi anni ’90 del secolo scorso, laddove i sintomi di nazionalismi e di rinate sovranità hanno reso inattuabili le cooperazioni interstatali. Gli antagonismi su base nazionale, generatori della frammentazione territoriale della Jugoslavia, hanno sancito l’emarginazione della regione, il suo declino economico, la proliferazione di Stati deboli e la conseguente crescita del crimine organizzato. Il caos divampante alla periferia Sud‐Est dell’Europa veniva spesso letto attraverso il prisma della balcanizzazione, mentre lo scoppio della cruenta guerra nella Bosnia ed Erzegovina ha indotto gli amministratori di Bruxelles a considerare la possibilità di un conflitto più ampio. Ignorando le origini puramente interne, vale a dire jugoslave, della crisi, si temeva che la polveriera balcanica potesse generare conflitti su scala regionale, se non addirittura globale. La cosiddetta Terza guerra balcanica si sarebbe in questo modo estesa dai focolari originari, come ad esempio il Kosovo, verso le Repubbliche limitrofe, dapprima in Macedonia per assorbire in seguito l’Albania e, da
11 Simic P., in Triantaphyllou D., Gnesotto N. (a cura di), op. cit., pag. 18.
12 Cottey A., Subregional cooperation in the new Europe : building security, prosperity and solidarity from the Barents to the Blak Sea, Basingstoke, Macmillan, London, 1999.
ultimo, anche la Turchia e la Grecia. Agli occhi dell’Occidente terrorizzato nei Balcani si consumava la visione locale del bellum omnium contra omnes.
13Per queste ragioni, gli Stati europei e le organizzazioni internazionali, prive di una visione analoga a quella riservata ai PECO, applicarono all’area di crisi una serie di interventi dalle modalità diverse ‐ come ad esempio il monitoraggio, la diplomazia, la ricognizione, la salvaguardia piuttosto generica dei diritti umani – a seconda delle congiunture del momento
14. Il principio di questi provvedimenti ad hoc era sia contenere la crisi e garantire lo status quo sia precludere la possibilità che la crisi investisse le aree confinanti.
L’iniziale percezione che i Paesi dell’ex Jugoslavia hanno avuto dell’Unione Europea era senz’altro positiva: essa raffigurava l’organizzazione principale in grado di guidare la transizione nonché di porre in essere azioni volte ad attenuare le conseguenze del turbolente processo di transizione. Eppure, queste aspettative si mostrarono illusorie dal momento che Bruxelles non era riuscita, almeno inizialmente, a pervenire lo scoppio delle ostilità e a contenere l’escalation della crisi in seguito. In particolare, il prolungarsi del conflitto nella Bosnia ed Erzegovina mostrò il deficit dell’Unione in termini di coesione, determinazione e strumenti in grado di concepire una politica estera comune indirizzata a riportare la situazione sotto controllo
15. Secondo questa visione interna dei Balcani, mancò, in ultima istanza, una comprensione profonda delle ragioni della crisi, che fu analizzata superficialmente ed affrontata secondo i tradizionali paradigmi delle diplomazie europee.
La reciproca diffidenza tra le capitali balcaniche e Bruxelles cominciò a venir meno quando l’Unione Europea decise di applicare un rimedio contro i mali provenienti dai Balcani, adottando un approccio meno prevenuto e, per forza di cose, più pragmatico.
Nelle capitali europee si è sviluppato un interessante dibattito circa la convenienza di considerare i Balcani non più come la polveriera d’Europa, ma come il destinatario
13 Bechev D., “Contested Borders, Contested Identity: The case of regionalism in South East Europe”, Journal of Southern European and Black Sea Studies, Vol. 4, no.1, 2004, pag. 11.
14 Siani Davies P., “Introduction: international interventions (and non‐interventions) in the Balkans”, in Siani Davies P. (a cura di), International Interventions in the Balkans since 1995, Routledge, London and New York, 2003, pag. 17.
15 Lehne S., “Has the “Hour of Europe” come at last? The EU strategy for the Balkans”, in Batt J. (a cura di), The Western Balkans: Moving On, Chaillot Paper No. 70, EUISS, Parigi, 2004, pag. 11.
privilegiato di una politica nuova, fondata sulla democratizzazione, la ricostruzione, lo sviluppo e la transizione verso l’economia di mercato. L’articolazione delle nuove idee partiva dal presupposto di quanto fosse indispensabile creare i valori della coesistenza e del benessere per i popoli balcanici, in modo che essi abbandonassero definitivamente le politiche di nation‐building, legate all’omogeneizzazione ed esclusione delle minoranze etniche, cause principali della guerra. Infine, i fallimenti delle politiche fino a quel momento attuate restituì alle cancellerie europee la consapevolezza storica secondo la quale una crisi nei Balcani anticipava spesso una crisi in Europa, rafforzando quindi l’esigenza di creare i mezzi di intervento comuni più lineari. E ciò in funzione di consolidare la maturità politica dell’Unione, una sfida a cui essa non poteva sottrarsi se mirava a svolgere un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale
16.
La transizione da un’identità negativa dei Balcani verso una accezione positiva passava per mezzo della cooperazione regionale e della ridefinizione dell’intera area. Si trattava, in sostanza, di qualcosa che era antitetico alla consolidata immagine negativa dell’identità dei Balcani, di qualcosa che poteva superare le divisioni relative all’appartenenza etnica. Il modello da emulare era la formula comprovata dall’evoluzione dell’Unione Europea, dove la cooperazione funzionale nei campi specifici aveva portato ad una maggior integrazione politica.
Evidentemente si trattava di un approccio razionalista sul regionalismo
17, in grado di coniugare singoli interessi statali all’interno di configurazioni territoriali più grandi. Lo scopo principale era quello di aumentare l’interdipendenza tra gli Stati dell’area, rimuovendo in tal modo ogni potenziale pericolo capace di generare nuove crisi. Era necessario imporre la prossimità geografica sull’identità regionale.
In questo contesto l’Unione Europea decise di creare una sub‐regione nuova, all’interno della quale avrebbe assunto un ruolo egemone: il Sud Est Europeo comprendente gli Stati nati dalle ceneri della Jugoslavia, eccetto la Slovenia, ma con l’inclusione dell’Albania. La Croazia, la Bosnia ed Erzegovina, la Repubblica Federativa Jugoslava e la FYROM (former Yugoslav Republic of Macedonia) si dovevano riportare sotto un comune denominatore. A
16 Gori L., L’Unione Europea e i Balcani Occidentali. La prospettiva europea della regione (19962007), Rubbettino, Catanzaro, 2007, pag. 25.
17 Hurrell A., “Regionalism in Theoretical Perspective”, in Hurrell A., Fawcett L. (a cura di), Regionalism in World Politics, Oxford University Press, 1995, pagg. 37‐74.
differenza dei Balcani, l’epiteto Sud Est Europeo avrebbe dovuto essere geograficamente più neutrale e sostanzialmente privo di simbolismo negativo, dovendo rappresentare un nuovo percorso che l’Unione Europea si accingeva ad intraprendere. Inoltre, la denominazione sembrava accettabile per gli Stati della regione che così finalmente evitarono di essere definiti “Balcani”. In ultima, il neologismo avrebbe annunciato l’abbandono di quelle pratiche di separazione discorsiva tra Europea e Balcani e l’inizio di una nuova fase di rinegoziazione delle relazioni tra gli Stati e tra questi e le istituzioni e potenze mondiali. Una siffatta descrizione geografica quindi sarebbe l’inizio di un nuovo discorso geopolitico sui Balcani, di un modo nuovo di pensare, agire ed essere nei Balcani
18.
1.1.3. Le prime tendenze multilaterali a) Il processo di Royaumont
Con la conclusione degli Accordi di Dayton, il 21 novembre 1995, si gettarono anche le basi materiali per l’inizio di una nuova fase. La politica d’inerzia volta al solo contenimento della crisi che per cinque lunghi anni aveva portato alla paralisi, alla polarizzazione della situazione, al caos generale, veniva finalmente abbandonata
19.
Già nell’ottobre dello stesso anno, l’Unione Europea convenne sull’opportunità di elaborare un piano regionale a lungo termine, con l’obiettivo di contribuire alla creazione di un clima di stabilità e prosperità, attraverso un maggior coinvolgimento dei Paesi dell’area. Il 13 dicembre 1995 i ministri degli esteri dei 15 membri dell’Unione, i rappresentanti dei 5 Paesi successori dell’ex Jugoslavia, i Paesi limitrofi non ancora membri dell’UE, come pure gli Stati Uniti, l’OSCE e Consiglio d’Europa, si riunirono a Royaumont, vicino a Parigi, per elaborare uno nuovo schema di collaborazione nei Balcani che avrebbe preso il nome di Processo di Royaumont.
18 O Tuathail G., “The Bosnian War and the American Securing of “Europe””, in Antonsich M., Kolossov V., Pagnini M.P. (a cura di), Europe Between Political Geography and Geopolitics, Vol. 2, Società Geografica Italiana, Roma, 2001, pag. 798.
19 Bokova I., “Integrating Southeastern Europe into the European mainstream”, in Sotiropoulos D., Veremis T., (a cura di), Is Southeastern Europe Doomed to Instability?, Frank Cass, London, 2002, pag. 24.
Quest’iniziativa si inquadrava nel più ampio contesto della conferenza di pace di Parigi, durante la quale vennero formalmente poste le firme agli Accordi di Dayton; mirava a sostenerne l‘attuazione ed ad incoraggiare la democratizzazione dei Balcani attraverso progetti sui diritti umani, la cultura e la società civile. Stando alle conclusioni della Dichiarazione, l’obiettivo finale era la creazione di condizioni di stabilità, di buon vicinato tra i Paesi dell’Europa sud orientale e conseguentemente la realizzazione di un’Europa nuova, l’Europa della democrazia, della pace, dell’unità e della stabilità
20. Tuttavia, l’iniziativa presentava fin dal principio un serio deficit poiché non prevedeva un’assistenza economica per la ricostruzione, né tantomeno promuoveva progetti infrastrutturali, essenziali questi ultimi per la buona riuscita del modello. Era piuttosto un processo politico complementare ad altre iniziative regionali volte alla normalizzazione e alla stabilizzazione dei rapporti nella regione. Per di più, lo sforzo di istituzionalizzare il processo sotto l’egida dell’OSCE venne meno perché la partecipazione di uno dei Paesi in seno a quest’ultima, la FYROM fu sospesa dal 1992 a causa di una disputa con la Grecia
21.
Mentre l’implementazione dei precetti civili degli Accordi di Dayton procedevano a stento, nemmeno il Processo di Royaumont, che si sviluppava parallelamente, riusciva a decollare.
Nei mesi successivi vi furono alcune iniziative promosse dalle parti interessate, ma non furono mai sufficienti perché il Processo potesse rappresentare un mezzo credibile di intervento. Di fatto, non mancarono dichiarazioni sulla natura puramente collaborativa degli interventi, anticipando l’indisponibilità a discutere sugli argomenti più vincolanti, come ad esempio la sicurezza e la ricostruzione e pregiudicando in tal modo la nascita di sinergie fondamentali per qualsiasi azione futura. Pertanto, la buona volontà dell’Europa non trovò un sentimento corrispondente presso le capitali balcaniche, ancora testimoni
20 Declaration on the Process of Stability and Good Neighbourliness, Royaumont, 13 December 1995.
21 La "Repubblica di Macedonia", fin dal giorno della sua indipendenza (1991), è impegnata in una disputa con la Grecia a proposito del nome ufficiale del paese, i simboli nazionali e la costituzione.
Al momento della proclamazione dell'indipendenza del nuovo Stato, il governo greco pose alcune obiezioni che ne impedirono il riconoscimento. La più importante e quella, tutt'ora formalmente irrisolta, sull'utilizzo del nome "Macedonia", in virtù del fatto che il termine, di origine greca, era già in uso per indicare la regione greca Macedonia. Come compromesso, le Nazioni Unite hanno riconosciuto la Repubblica con il nome di “Former Yugoslav Republic of Macedonia” ed altre organizzazione internazionali adottarono la stessa convenzione, Unione Europea compresa.
dell’eredità della guerra e poco inclini verso una maggiore collaborazione transfrontaliera
22.
b) Iniziativa per la Cooperazione nell’Europa SudOrientale (SECI)
Nel periodo di maggiori scontri sul suolo balcanico il ruolo principale, in termini di potenza e mezzi coercitivi, non spettò all’Unione Europea, ma agli Stati Uniti d’America.
Washington decise di condurre una politica più ferma e impegnata verso la polveriera balcanica, di quanto non facessero le diplomazie europee, troppo vincolate a perseguire una politica di equilibrio e di equidistanza. Anche gli Accordi di Dayton furono un risultato tutto americano e, in virtù di ciò, gli USA non erano ancora inclini a lasciare alla sola Unione il primato nella regione. Per questi motivi Washington concepì l’Iniziativa per la Cooperazione nell’Europa Sud‐Orientale il Southeast European Cooperative Initiative (SECI), diretta verso undici Stati della regione: i cinque Paesi successori dell’ex Jugoslavia, i loro vicini non ancora membri dell’UE, alla Moldavia, la Turchia e la Grecia.
Ciononostante, la Croazia rifiutò l’invito a firmare la lettera d’intenti, considerandosi parte dell’Europa centrale. Contrariamente al Processo di Royaumont, il SECI già dal principio aveva una struttura chiara che prevedeva un coordinatore, una commissione, un gruppo di esperti per ciascuno degli argomenti trattati e un consiglio di consultazione commerciale responsabile per i contatti con il mondo dell’industria e del commercio. L’attenzione fu rivolta verso la risoluzione dei problemi di natura innanzitutto economica, in modo da poter rafforzare i legami tra i Paesi della regione e l’asse euro‐atlantica.
Si è cercato di creare una simbiosi delle azioni messe in atto da parte di Unione Europea, NATO, CEFTA e Banca Mondiale, affinché si creassero i presupposti per una gestione autonoma delle risorse da parte dei Paesi balcanici. Il progetto mirava a sviluppare le strategie relative allo sviluppo delle zone di frontiera, dell’energia, dell’ambiente, dei mercati finanziari e dei trasporti. Poneva inoltre l’accento sulla cooperazione fra le autorità locali nella lotta contro il crimine organizzato
23. Se paragonato al Processo di Royaumont in termini di operatività, il SECI ha senz’altro riscontrato più successo ed ha
22 Ehrhart H. G., “Prevention and Regional Security: The Royaumont Process and the Stabilization of South‐Eastern Europe”, OSCE Yearbook 1998, pagg. 327–337.
23 Aksu F., “Confidence, Security and Conflict Resolution Initiatives in the Balkans”, Turkish Review of Balkan Studies, 2003, pag. 64.
realizzato alcuni obiettivi pratici, come il rafforzamento della lotta contro il crimine transfrontaliero
24.
Sebbene l’intento fosse quello di non entrare in competizione con le iniziative nella regione, in particolare con il nascente Approccio Regionale dell’Unione Europea, il SECI aveva contribuito a ridurre il loro impatto e la loro portata.
E’ necessario sottolineare che la cooperazione regionale nel Sud‐Est europeo, e il Processo di Royaumont e il SECI ne sono l’esempio, è stata organizzata, gestita e decisa dalle potenze extra‐balcaniche, una circostanza che per sempre avrà un peso decisivo nella valutazione delle dinamiche future.
1.2. L’ADOZIONE DELLA PRIMA STRATEGIA PER I BALCANI: L’APPROCCIO REGIONALE
Come accennato in precedenza , la tumultuosa situazione nell’ex Jugoslavia durante i primi anni ’90 non consentiva l’impegno della stessa strategia che l’Unione riservava agli Stati dell’Europa Centrale ed Orientale, e perciò il solo campo con un profilo visibile e autonomo fu quello umanitario. La situazione cominciò a trasformarsi con la stipula degli Accordi di Dayton i quali, secondo Washington e Bruxelles, avrebbero avuto effetto solo nel caso si fosse costruito un rapporto più stretto tra le parti che lo firmarono, vale a dire tra Zagabria, Sarejevo e Belgrado. Ancora memore del proprio fallimento politico all’inizio della guerra, l’Unione Europea si fece carico della responsabilità storica che aveva verso la stabilizzazione dei Balcani e decise di adottare la prima strategia di ampio respiro verso i Balcani.
La decisione si tradusse nell’iniziativa denominata Approccio Regionale, suggerita dalla Commissione
25, e approvata dai ministri degli esteri il 26 febbraio 1996
26, dopo che la conferenza di Roma del 18 febbraio aveva consolidato gli accordi di Dayton e quelli di
24 Anastakis O., Bojicic‐Dzelilovic V., Balkan Regional Cooperation and European Integration, London School of Economics, Luglio 2000, pag. 21.
25 Documento SEC (96) 252, Le prospettive di sviluppo della cooperazione regionale per i Paesi sorti dalla dissoluzione della ex Jugoslavia e i mezzi della Comunità per favorire tale cooperazione, 14 febbraio 1996.
26 Conclusioni del Consiglio Affari Generali del 26 febbraio 1996.
Erdut
27. L’Approccio Regionale è stato presentato nel contesto strategico dell’Unione Europea nei confronti dei Paesi dell’Europa sud‐orientale, nello specifico nei confronti di quegli Stati della regione con i quali l’Unione non aveva ancora istituito le direttive per negoziare gli Accordi di Associazione, in particolare nei confronti di: Croazia, Bosnia e Erzegovina, Repubblica Federativa di Jugoslavia, Ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM) ed Albania. Attraverso l’Approccio l’Unione mirava alla creazione di rapporti bilaterali con gli Stati della regione, inseriti a loro volta in una struttura che prevedeva: lo sviluppo della democrazia, il primato della legge, il miglioramento degli standard per quanto riguarda i diritti umani e quelli delle minoranze, la trasformazione economica ed, infine, la promozione della cooperazione tra gli Stati in questione.
28Gli obiettivi principali fissati dall’Approccio Regionale erano quindi la concretizzazione completa degli accordi di pace e, tramite essi, la realizzazione della stabilità politica che avrebbe condotto allo sviluppo economico. Si individuavano pertanto due principi guida:
da una parte, si trattava di promuovere e sostenere la democrazia e il primato della legge, per mezzo dell’institution building, della riforma dello Stato e della Pubblica Amministrazione e della ristrutturazione della società civile. Vennero enfatizzati la tutela ed il rispetto dei diritti umani e dei diritti delle minoranze – in particolare la non‐
discriminazione tra i gruppi etnici all’interno del Paese che avrebbe permesso il ritorno dei rifugiati e degli sfollati. D’altra parte invece, si rese necessario il rilancio delle attività economiche, soprattutto la ricostruzione delle aree danneggiate dalle operazioni militari, accompagnata dalla riconversione delle attività belliche in modo tale da destinarle ad un uso puramente civile.
29Pareva evidente che il complesso di azioni che prevedeva l’Approccio dovesse essere sostenuto da un’ingente assistenza di natura finanziaria. A tal scopo venivano indicati
27 Gli accordi di Erdut, una località vicino a Osijek in Croazia, riguardavano le zone ancora occupate dalle forze serbe nella Slavonia orientale. L’Accordo venne stipulato fra i Serbi, Croati e le Nazioni Unite e prevedeva l’amministrazione delle zone occupate da parte delle Nazioni Unite (UNTAES – United Nations Transition Action Eastern Slavonia) e la loro successiva reintegrazione pacifica nella Croazia, finalmente realizzata nel gennaio 1998.
28 Conclusione del Consiglio per gli Affari Generali, 29‐30 aprile 1997.
29 Comunicazione della Commissione COM(99) 236.