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bipolare,
 infatti,
 testimoniava
 la
 rinascita
 del
 regionalismo
 sulla
 scena
 internazionale,


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 infatti,
 testimoniava
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 rinascita
 del
 regionalismo
 sulla
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(1)

INTRODUZIONE


L’oggetto
 principale
 della
 ricerca
 sviluppata
 nella
 tesi
 è
 la
 ricostruzione
 e
 l’analisi
 delle
 politiche
 elaborate
 dall’Unione
 Europa
 nei
 confronti
 della
 propria
 turbolenta
 periferia,
 comunemente
 conosciuta
 sotto
 la
 denominazione
 di
 Balcani
 Occidentali.
 
 In
 seguito
 all’implosione
dell’ex
Jugoslavia
agli
inizi
degli
anni
’90,
e
congiuntamente
alle
transizioni
 dal
 sistema
 socialista
 a
 quello
 capitalista
 in
 atto
 nei
 Paesi
 limitrofi,
 l’Unione
 è
 stata
 chiamata
 a
 svolgere
 il
 ruolo
 di
 protagonista
 e
 di
 nuovo
 regolatore
 nelle
 dinamiche
 geopolitiche
nell’area.

La
situazione
che
è
venuta
a
cristallizzarsi
negli
anni
successivi
ha
 suggerito
 alla
 comunità
 internazionale
 come
 i
 problemi
 che
 affliggevano
 la
 regione
 non
 potevano
 essere
 risolti
 su
 basi
 esclusivamente
 nazionali
 o
 tramite
 azioni
 bilaterali,
 ma
 esigevano
 misure
 in
 grado
 di
 inglobare
 tutte
 le
 parti
 interessate.
 In
 altre
 parole,
 le
 caratteristiche
regionali
andavano
risolte
all’interno
di
un
quadro
regionale,
costituito
sia
 dagli
attori
interni
dalla
regione,
in
primis
gli
Stati
nazionali,
sia
da
quelli
esterni,
Unione
 Europea
in
testa.




Questa
convinzione
traeva
le
proprie
ragioni
da
un
altro
processo
in
atto
in
quegli
anni,
 che
in

qualche
modo
stava
agli
antipodi
della
crisi
dilagante
nei
Balcani.

Lo
scenario
post‐

bipolare,
 infatti,
 testimoniava
 la
 rinascita
 del
 regionalismo
 sulla
 scena
 internazionale,


caratterizzato
da
una
crescente
attività
interstatale
a
livelli
regionali.
Questa
tendenza
era


particolarmente
 sentita
 nel
 continente
 europeo,
 dove
 questo
 tipo
 di
 neoregionalismo
 ha


assunto
principalmente
due
forme.
Da
una
parte,
le
organizzazioni

regionali
preesistenti,


quali
 la
 stessa
 Comunità/Unione
 Europa,
 il
 Consiglio
 d’Europa,
 l’OSCE
 e
 la
 NATO,
 sono


mutate
 in
 maniera
 sostanziale
 sia
 nella
 forma
 che
 nei
 ruoli,
 consolidando
 le
 proprie


mansioni
 e
 aggiudicandosene
 altre,
 arrivando
 addirittura
 in
 alcuni
 casi,
 come
 nel
 caso


dell’Unione,
 a
 delle
 forme
 sovranazionali.
 Dall’altra
 parte
 invece,
 in
 varie
 parti
 d’Europa


sorgevano
 forme
 sub‐regionali
 originali,
 di
 incarichi
 multidimensionali.
 Lo
 scopo
 era


quello
di
tessere
una
rete
di
reciproca
interdipendenza,
coniugando
le
azioni
bilaterali
e


multilaterali
provenienti
dai
governi,
dalle
autorità
locali,
dalla
società
civile
e
dal
mondo


dell’industria.
 Tale
 processo
 riguardava
 essenzialmente
 il
 modo
 di
 trovare
 un


denominatore
comune
per
le
politiche
in
materia
economica,
di
sicurezza,
di
cooperazione


culturale,
fino
ad
includere
le
collaborazioni
transfrontaliere.

L’Accordo
Centroeuropeo
di


Libero
 Scambio
 (CEFTA),
 l’Iniziativa
 Centro
 Europea
 (INCE)
 e
 l’Organizzazione
 della


Cooperazione
Economica
del
Mar
Nero
(BSEC)
ne
costituiscono
alcuni
esempi.


(2)

Erano
quindi
le
due
dinamiche
della
dissoluzione
della
Jugoslavia
insieme
al
fenomeno
del
 sub
regionalismo,
che
peraltro
si
svolgevano
in
contemporanea,
a
condizionare
le
politiche
 dell’Unione
 Europea
 nei
 confronti
 dei
 Balcani.
 Tuttavia
 il
 buon
 esito
 di
 queste
 azioni
 dipendeva
da
un
insieme
di
fattori
rintracciabili
sia
all’interno
dell’Unione,
sia
all’interno
 dell’ambiente
balcanico,
i
quali
molto
spesso
erano
in
netta
contrapposizione.
Per
questi
 motivi,
 le
 strategie
 attivate
 nel
 corso
 degli
 anni
 hanno
 avuto
 degli
 esiti
 diversi:
 alcune
 hanno
 avuto
 un
 successo
 limitato,
 se
 non
 un
 clamoroso
 insuccesso,
 mentre
 altre
 sono
 riuscite
a
produrre
degli
esiti
eccellenti,
che
a
tutt’oggi
rappresentano
il
perno
dell’azione
 geopolitica
europea.



I
piani
e
le
politiche
implementate
nel
corso
di
un
decennio,
il
ruolo
degli
attori
interni
e
 soprattutto
di
quegli
esterni
ai
Balcani
Occidentali,
gli
esiti
negativi
e
le
soluzioni
positive
 ai
problemi,
nonché

gli
argomenti
geopolitici,
geostrategici
e
geoeconomici
caratterizzanti
 la
regione,
costituiranno
quindi
i
capitoli
di
questa
tesi.



Nel
 primo
 capitolo
 si
 passeranno
 in
 rassegna
 i
 principali
 discorsi
 e
 le
 narrative


geopolitiche
che
hanno
portato
alla
creazione
della
sub‐regione
balcanica.
Quest’ultima
è


stata
 infatti
 oggetto
 di
 numerose
 classificazioni,
 conolidatesi
 sulla
 base
 di
 percezioni


provenienti
 dall’esterno.
 Sin
 dall’ottocento,
 la
 Penisola
 Balcanica
 è
 stata
 percepita
 come


uno
dei
generatori
principali
delle
crisi
che
inondavano
il
continente
europeo.
Le
guerre


che
 si
 sono
 susseguite
 durante
 il
 XIX
 e
 XX
 secolo
 non
 hanno
 fatto
 altro
 che
 rafforzare


ulteriormente
la
visione
che
la
comunità
internazionale
si
è
fatta
della
regione:
una
zona


grigia
 dell’Europa,
 articolata
 in
 Stati
 piccoli,
 in
 una
 perenne
 condizione
 di
 antagonismo,


con
forti
tendenze
interne
all’intolleranza.
Con
il
crollo
del
Muro
di
Berlino,
seguito
dalla


prepotente
 rinascita
 dei
 nazionalismi
 all’interno
 della
 Jugoslavia,
 la
 percezione
 negativa


sui
Balcani
si
è
acuita
a
dismisura,
portando
ancora
una
volta
alla
ribalta
il
problema
che
la


regione
 presentava
 per
 la
 stabilità
 dell’unità
 dell’Europa.
 
 L’ancoraggio
 a
 vecchie


definizioni
 che
 illustravano
 i
 Balcani
 come
 la
 polveriera
 dell’Europa,
 una
 periferia
 e
 un


coacervo
 di
 pratiche
 politiche
 incivili
 il
 cui
 comune
 denominatore
 era
 la
 cosiddetta


balcanizzazione
 della
 politica,
 ha
 fatto
 in
 modo
 che
 lo
 scoppio
 delle
 ostilità
 fosse


trascurato
e,
per
molto
tempo,
gestito
in
modo
del
tutto
superficiale.
Pur
costituendo
una


delle
 parti
 più
 danneggiate
 dal
 conflitto
 in
 atto
 ‐
 giacché
 doveva
 accogliere
 un
 gran


numero
 dei
 profughi
 e
 fornire
 ingenti
 aiuti
 umanitari
 ‐
 l’Unione
 Europea
 non
 si
 è


discostata
 dalla
 sua
 tradizionale
 politica
 fatta
 di
 raccomandazioni
 e
 pareri
 intorno
 a



decisioni
ormai
prese
altrove.
E’
stato
necessario
quindi
attendere
la
fine
della
guerra
in


Bosnia
 ed
 Erzegovina,
 anzitutto
 grazie
 alla
 politica
 proattiva
 degli
 Stati
 Uniti
 d’America,


(3)

affinché
 l’Unione
 abbandonasse
 i
 vecchi
 paradigmi
 sui
 Balcani
 e
 si
 adoperasse
 per
 una
 politica
 più
 pragmatica.
 Nelle
 capitali
 europee
 si
 venne
 a
 sviluppare
 un
 interessante
 dibattito
 circa
 la
 convenienza
 nel
 considerare
 i
 Balcani
 non
 più
 come
 la
 polveriera
 dell’Europa,
 ma
 come
 il
 destinatario
 privilegiato
 di
 una
 politica
 nuova,
 fondata
 su
 democratizzazione,
 ricostruzione,
 sviluppo
 e
 transizione
 verso
 l’economia
 di
 mercato.


L’articolazione
 di
 queste
 nuove
 idee
 partiva
 dal
 presupposto
 di
 quanto
 fosse
 indispensabile
 creare
 quei
 valori
 di
 coesistenza
 e
 di
 benessere
 per
 i
 popoli
 balcanici,
 in
 modo
 che
 essi
 cessassero
 definitivamente
 con
 le
 politiche
 di
 nation‐building,
 legate
 all’omogeneizzazione
ed
esclusione
delle
minoranze
etniche,
cause
principali
della
guerra.


La
 transizione
 da
 un’identità
 negativa
 dei
 Balcani
 verso
 una
 sua
 accezione
 positiva
 è
 passata
 attraverso
 la
 cooperazione
 regionale
 e
 la
 ridefinizione
 dell’intera
 area.
 
 Si
 è
 trattato,
 in
 sostanza,
 di
 un
 qualcosa
 di
 antitetico
 rispetto
 alla
 consolidata
 immagine
 negativa
 dell’identità
 dei
 Balcani,
 di
 qualcosa
 che
 potesse
 superare
 le
 divisioni
 relative
 all’appartenenza
etnica.
La
formula
comprovata
dall’evoluzione
dell’Unione
Europea,
dove
 la
 cooperazione
 funzionale
 in
 campi
 specifici
 ha
 portato
 ad
 una
 maggiore
 integrazione
 politica,
era
il
modello
da
emulare.
Fu
questo
il
contesto
in
cui
l’Unione
Europea
decise
di
 creare
una
sub‐regione
nuova,
all’interno
della
quale
avrebbe
assunto
il
ruolo
egemone:
il
 Sud
 Est
 Europeo,
 comprendente
 gli
 Stati
 nati
 dalle
 ceneri
 della
 Jugoslavia,
 eccetto
 la
 Slovenia,
 ma
 con
 l’inclusione
 dell’Albania.
 
 Le
 tendenze
 verso
 il
 multilateralismo
 sfociarono
 nella
 prima
 strategia
 comunitaria
 verso
 il
 Balcani
 denominata
 Approccio
 Regionale.



L’Approccio
 Regionale
 ha
 in
 modo
 definitivo
 delimitato,
 geograficamente
 e
 strategicamente,
i
confini
di
una
regione
che
da
allora
in
poi
sarebbe
stata
la
destinataria
 unica
di
numerose
politiche
messe
in
atto
da
parte
di
Bruxelles.
Tuttavia,
quell’esercizio
ha
 mostrato
alcuni
punti
deboli
che
ne
avrebbero
limitato
la
portata
e
gli
effetti.


In
primo
 luogo,
 il
 numero
 elevato
 di
 condizionalità
 e
 le
 relative
 problematiche
 sono
 state
 ancora
 una
volta
affrontate
in
un’ottica
eccessivamente
bilaterale,
lasciando
da
parte
–
a
dispetto
 della
sua
denominazione
–
quella
regionale.



Per
questi
motivi,
ed
in
seguito
all’ultima
crisi
consumatasi
sul
suolo
della
ex‐Jugoslavia,


quella
 del
 Kosovo,
 Bruxelles
 decise
 di
 avviare
 due
 iniziative
 che
 avrebbero
 ancora
 una


volta
mutato
il
volto
geopolitico
dei
Balcani
Occidentali.
Il
secondo
capitolo
passeranno
in


rassegna
questi
due
strumenti:
da
una
parte,
si
analizzerà
il
Patto
di
Stabilità
per
l’Europa


Sud‐Orientale,
 mentre,
 dall’altra,
 si
 cercherà
 di
 delineare
 i
 tratti
 salienti
 del
 Processo
 di


Stabilizzazione
 ed
 Associazione.
 
 Il
 Patto
 di
 Stabilità
 venne
 formulato
 durante
 la


(4)

presidenza
tedesca
del
Consiglio
Europeo
e
rispecchia
un
chiaro
intento
di
posizionare
i
 Balcani
Occidentali
al
vertice
della
propria
agenda
politica.

Con
la
crisi
Kosovara
in
atto,
 che
 ancora
 una
 volta
 non
 poteva
 essere
 risolta
 da
 parte
 della
 sola
 Unione
 a
 causa
 del
 proprio
 deficit
 operativo,
 Berlino,
 appoggiata
 dagli
 Stati
 Uniti
 e
 dalle
 principali
 organizzazioni
 internazionali,
 elaborò
 un
 piano,
 da
 implementarsi
 immediatamente,
 che
 avrebbe
non
solo
reso
l’azione
internazionale
più
decisa
ma,
avrebbe
soprattutto
dato
ai
 Paesi
 della
 regione
 una
 chiara
 prospettiva
 per
 l’integrazione
 nell’Unione.
 
 Istituito
 contestualmente
 con
 la
 fine
 dell’intervento
 della
 NATO
 nella
 provincia
 serba
 di
 Kosovo
 nell’estate
1999,
il
Patto
sin
dall’inizio
pareva
un
progetto
ambizioso:
favorì
la
raccolta
di
 ingenti
 mezzi
 finanziari
 per
 la
 ricostruzione
 delle
 economie
 regionali
 e
 creò
 un
 forum
 politico
 con
 l’auspicio
 di
 rafforzare
 la
 collaborazione
 interregionale.
 
 Lo
 sviluppo
 economico
e
i
rapporti
di
buon
vicinato
erano,
a
parere
di
quanti
elaborarono
il
piano,
i
 due
 assi
 principali
 sui
 quali
 costruire
 un
 quadro
 regionale
 prospero
 e
 sicuro,
 dove
 l’impegno
 di
 mezzi
 militari,
 allo
 scopo
 di
 rimediare
 alle
 dispute
 tra
 i
 Paesi,
 sarebbe
 diventato
non
solo
inutile,
ma
impensabile.
Nonostante
il
Patto
avesse
indubbi
meriti
nella
 costruzione
 di
 un
 nuovo
 quadro
 regionale,
 non
 tenne
 sufficientemente
 conto
 delle
 circostanze
endogene
ad
ogni
singolo
Stato.
Secondo
le
capitali
della
regione,
un
approccio
 eccessivamente
 multilaterale
 precludeva
 loro
 la
 possibilità
 di
 tracciare
 una
 precisa
 traiettoria
 verso
 le
 strutture
 europee,
 considerando
 pertanto
 il
 Patto
 sì
 uno
 strumento
 utile,
ma
decisamente
inadeguato
a
stringere
rapporti
contrattuali
con
Bruxelles.



L’Unione
 Europea,
 da
 parte
 sua,
 non
 nascose
 una
 certa
 dose
 di
 scetticismo
 circa
 la
 proposta
 tedesca
 di
 estendere
 ai
 Balcani
 Occidentali
 la
 prospettiva
 di
 un’adesione
 all’Unione.

La
debolezza
strutturale
della
regione,
la
presenza
in
alcuni
dei
Paesi
di
regimi
 autoritari
 e
 di
 economie
 devastate
 dalle
 operazioni
 belliche,
 erano
 solo
 alcune
 delle
 circostanze
 che
 non
 permettevano
 l’attuazione
 di
 un’ipotetica
 strategia
 volta
 all’


integrazione.
 Per
 queste
 ragioni,
 l’Unione
 si
 adoperò
 alla
 stesura
 di
 un
 nuovo
 piano


politico,
 di
 suo
 esclusivo
 patronato,
 più
 attento
 alle
 dinamiche
 regionali
 e
 prudente
 nel


considerare
 le
 congiunture
 interne
 ai
 Singoli
 Stati.
 
 Pertanto,
 nella
 tarda
 primavera
 del


1999,
 l’Unione
 Europea
 elaborò
 il
 Processo
 di
 Stabilizzazione
 ed
 Associazione,
 una


complessa
 struttura
 di
 natura
 anzitutto
 normativa,
 che
 tutt’oggi
 rappresenta
 il
 cardine


della
 politica
 comunitaria
 nei
 Balcani
 Occidentali.
 L’innovazione
 di
 maggior
 rilievo


riguardava
 la
 decisione
 di
 Bruxelles
 di
 includere
 i
 Balcani
 Occidentali
 in
 un
 unico


meccanismo
 che
 aveva
 come
 scopo
 quello
 di
 permettere
 a
 quest’ultimi
 l’adesione


all’Unione.
Un’adesione
subordinata
all’ottemperanza
di
precise
condizioni,
generate
dagli


(5)

Accordi
 di
 Stabilizzazione
 ed
 Associazione,
 che
 a
 loro
 volta
 delineavano
 il
 primo
 passo
 contrattuale
 tra
 le
 parti.
 
 La
 politica
 di
 condizionalità,
 i
 progressi
 compiuti
 negli
 anni
 successivi
 da
 parte
 dei
 Paesi
 interessati,
 che
 tra
 l’altro
 videro
 la
 nascita
 di
 scetticismo
 intorno
ai
futuri
processi
di
allargamento
in
seguito
alla
bocciatura
francese
ed
olandese
 del
trattato
costituzionale,
saranno
i
punti
centrali
del
secondo
capitolo.



Il
 terzo
 capitolo
 analizzerà
 gli
 aspetti
 prettamente
 geostrategici
 emersi
 dalla
 crisi
 nei
 Balcani.
 La
 dissoluzione
 dell’ex
 Jugoslavia,
 infatti,
 
 ha
 inesorabilmente
 riproposto
 la
 questione
critica
circa
le
capacità
militari
di
Bruxelles
nella
gestione
delle
crisi
ed
il
suo
 ipotetico
ruolo
di
protagonista
sulla
scena
internazionale,
che
a
partire
dal
1990
ha
perso
 la
caratteristica
di
bipolarità.
Ci
si
domandava,
in
quegli
anni,
quale
fosse
l’idea
dell’Europa
 nel
 mondo,
 partendo
 dall’altezza
 delle
 capacità
 interne,
 dal
 peso
 oggettivo
 e
 dalle
 aspettative
 esterne.
 Pareva
 chiaro
 che
 l’Unione
 Europea
 dovesse
 dapprima
 dotarsi
 di
 quegli
 strumenti
 istituzionali
 idonei
 a
 rispondere
 alla
 crescente
 “domanda
 d’Europa”


proveniente
 dal
 Mondo
 in
 generale,
 e
 dai
 Balcani
 in
 particolare,
 orfani
 della
 “certezza
 geopolitica”
 bipolare,
 fino
 a
 essere
 in
 grado
 di
 evolvere
 da
 spazio
 economico
 in
 gigante
 politico
 e
 militare.
 Lo
 sviluppo
 e
 la
 genesi
 degli
 strumenti
 quali
 PESC
 e
 PESD
 sono
 due
 concetti
 chiave
 del
 capitolo.
 Il
 sorgere,
 inoltre,
 di
 problemi
 relativi
 alla
 sicurezza
 sarà
 preso
 in
 esame
 in
 questa
 fase
 d’analisi.
 In
 particolare,
 verranno
 esaminate
 le
 minacce,
 potenzialmente
in
grado
di
rendere
la
zona
dei
Balcani
Occidentali
instabile
e
insicura.
Da
 una
parte,
si
analizzeranno
le
questioni
legate
alla
sicurezza
“hard”,
e
quegli
elementi
di
 instabilità
 che,
 usando
 i
 metodi
 propri
 del
 potere
 militare,
 possono
 travalicare
 i
 confini
 della
regione
per
interessare
le
aree
limitrofe.
Il
terrorismo
internazionale,
la
presenza
di
 Stati
deboli,
così
come
l’uso
del
territorio
a
scopi
illeciti
saranno
solo
alcuni
degli
esempi.


Dall’altra
 parte,
 verranno
 presi
 in
 considerazione
 i
 problemi
 di
 sicurezza
 “soft”,
 ossia
 quelle
 attività
 illecite
 in
 grado
 di
 procurare
 disfunzioni
 ai
 meccanismi
 istituzionali,
 mettendone
 in
 pericolo
 il
 funzionamento
 nel
 lungo
 termine,
 con
 conseguenze
 sulla
 stabilità
 dell’intero
 apparato
 statale.
 La
 criminalità
 organizzata,
 il
 traffico
 degli
 stupefacenti
oppure
la
corruzione
dilagante
ne
sono
degli
esempio
più
eclatanti.



Un
 altro
 aspetto
 fondamentale
 nell’indagine
 delle
 politiche
 complessivamente
 messe
 in


atto
 nei
 Balcani
 Occidentali
 è
 senza
 dubbio
 quello
 economico.
 La
 costruzione
 di
 una


regione
economicamente
omogenea,
attraverso
la
stipula
di
un
accordo
multilaterale
che


permetta
la
formazione
di
un
mercato
unico
sarà
l’oggetto
del
quarto
capitolo
del
presente


elaborato.
Forte
dell’esperienza
del
secondo
dopoguerra,
quando
il
fattore
economico
fu
il


vettore
 principale
 dell’integrazione,
 e
 testimone
 del
 positivo
 contributo
 al
 mercato


(6)

regionale
 creato
 da
 parte
 dei
 Paesi
 dell’ex
 blocco
 sovietico,
 del
 CEFTA,
 Bruxelles
 si
 fece
 promotore
 di
 un
 analogo
 approccio
 nei
 Balcani.
 Oltre
 a
 ciò,
 la
 crescente
 complessità
 in
 materia
energetica
spinse
le
parti
affinché
si
creasse
una
comunità
energetica
regionale,
 da
 integrare
 nel
 sistema
 europeo.
 A
 completamento
 del
 quadro
 economico,
 verranno
 analizzate
 le
 iniziative
 che
 vedono
 i
 Balcani
 Occidentali
 pienamente
 inseriti
 nella
 costruzione
e
realizzazione
dei
cosiddetti
corridoi
paneuropei.



Il
quinto
capitolo,
infine,
si
articolerà
intorno
agli
scenari
di
natura
geopolitica
relativi
ai
 singoli
 Paesi.
 Verrà
 offerta
 una
 valutazione
 del
 percorso
 futuro
 della
 Croazia,
 Bosnia
 ed
 Erzegovina,
Serbia,
Montenegro,
FYROM
e
Albania
verso
l’integrazione
europee.

Ciascuno
 di
 questi
 Paesi,
 nonostante
 faccia
 parte
 della
 medesima
 strategia
 dell’Unione
 Europea,
 possiede
peculiarità
che
risulteranno
decisive
in
vista
dell’adesione
nelle
strutture
euro‐

atlantiche.
 
 A
 dieci
 anni
 dalla
 svolta
 geopolitica
 di
 Bruxelles
 nei
 confronti
 dei
 Balcani
 Occidentali,
non
vi
è
ancora
un
Paese
che
sia
entrato
a
pieno
titolo
nell’Unione.

I
progressi
 compiuti
 dai
 singoli
 Paesi,
 segnatamente
 dalla
 Croazia,
 non
 risultano
 tuttora
 sufficienti
 perché
 il
 processo
 di
 integrazione
 possa
 considerarsi
 concluso.
 
 Le
 numerose
 strategie
 dell’Unione
Europea
sembrano
aver
prodotto
risultati
parziali,
ma
il
loro
aspetto
positivo
 rimane
indubbiamente
quello
predominante.




(7)

CAPITOLO
I


COSTRUZIONE
DELLA
SUB­REGIONE
BALCANICA:
APPROCCIO
REGIONALE


1.1.
L’ABBANDONO
DEI
VECCHI
PARADIGMI
 


1.1.1.
Interpretando
i
Balcani


Per
 secoli
 la
 penisola
 balcanica
 è
 stata
 percepita
 come
 una
 regione
 estranea
 al
 resto
 dell’Europa
 e
 ciò
 grazie
 alla
 coesistenza
 di
 una
 moltitudine
 di
 fattori
 tra
 i
 quali
 quelli

 geografici,
 geopolitici,
 storici,
 culturali
 ed
 economici
 risultano
 essere
 di
 primaria
 importanza.

La
diversità
diffusa
è
parte
integrante
della
geografia
politica
della
regione.


Sebbene
 le
 caratteristiche
 prettamente
 geografiche
 frequentemente
 inducano
 alla
 conclusione
 che
 si
 tratti
 di
 una
 regione
 relativamente
 omogenea,
 i
 fatti
 storico‐politici
 dimostrano
come
i
Balcani
non
siano
mai
un
dato
definitivo,
ma
traggano
le
proprie
origini
 da
 dinamiche
 sia
 esterne
 che
 interne,
 dalle
 quali
 poi
 si
 deducono
 
 le
 interpretazioni
 più
 variegate.

Una
seppur
breve
analisi
di
queste
ultime
è
necessaria
allo
studio
delle
recenti
 politiche
 dell’Unione
 Europea
 nei
 confronti
 del
 suo
 sud
 est,
 poiché
 aiuta
 a
 capire
 la
 discordanza,
nonché
l’ambiguità
delle
politiche
messe
in
atto
negli
ultimi
vent’anni.



I
principali
filoni
di
studio
relativi
all’identità
dei
Balcani
oscillano
tra

due
estremi:
vi
sono
 teorie
 secondo
 le
 quali
 i
 Balcani
 rappresentano
 una
 comunità‐regione
 naturale,
 quasi
 ancestrale,
ancorata
a
valori
derivanti
da
una
storia
condivisa,
e
quelle
secondo
le
quali
i
 Balcani
 appaiono
 come
 un
 laboratorio
 nel
 quale
 vengono
 costituite
 le
 comunità
 immaginarie.



Pertanto,
 le
 cosiddette
 teorie
 primordiali
 individuano
 una
 serie
 di
 elementi
 costitutivi


necessari
 per
 la
 definizione
 di
 una
 regione,
 vista
 come
 un’entità
 stabile
 di
 carattere


culturale.
Lo
stile
di
vita,
l’uso
di
una
lingua
comune,
le
tradizioni
e
le
usanze
travalicano
i


singoli
 confini
 nazionali
 e
 si
 fondono
 in
 una
 struttura
 regionale
 che
 proietta
 un’identità


specifica.
 In
 questo
 modo,
 l’aspetto
 identitario
 nei
 Balcani,
 basato
 su
 tratti
 culturali
 che


vanno
oltre
i
confini
nazionali,
immodificabili
nel
tempo
e
nello
spazio
indipendentemente


dal
contesto
sociale,
si
inquadra
nel
più
ampio
approccio
teorico
sui
conflitti
internazionali


dell’epoca
 contemporanea
 ideata
 da
 Samuel
 Huntington.
 Egli,
 infatti,
 individua


nell’omogeneità
culturale
e
religiosa,
vale
a
dire
nelle
concentrazioni
di
civiltà,
piuttosto


(8)

che
nell’integrazione
economico‐politica,
il
successo
di
un
progetto
regionale.

Adottando
 questo
modello
di
costruzione
regionale,
Huntington
ha
cercato
di
illustrare
il
risveglio
di
 antichi
 odi
 che
 si
 sono
 plasmati
 nell’ex
 Jugoslavia,
 inglobandoli
 negli
 impermeabili
 contenitori
 culturali
 dell’Islam
 e
 del
 Cristianesimo
 cattolico
 e
 ortodosso

1

.
 
 Seppur
 nella
 presenza
 di
 identità
 frammentate,
 i
 popoli
 del
 sud
 est
 europeo,
 ed
 è
 questo
 il
 punto
 principale
 della
 tesi
 esistenzialista,
 condividono
 una
 serie
 di
 tratti
 comuni
 che
 trascendono
i
singoli
confini
nazionali.



Una
lettura
differente,
che
tuttavia
attinge
agli
identici
assiomi
primordiali
sull’esclusività
 dei
Balcani
all’interno
del
continente
europeo,
è
di
stampo
storico.

Questa
tesi
indica
una
 serie
di
forze
profonde
che
sottostanno
alle
successioni
spazio‐temporali
della
regione
che
 ne
 hanno
 poi
 influenzato
 la
 posizione
 internazionale.
 
 La
 secolare
 appartenenza
 agli
 imperi
esterni
che
si
sono
succeduti
sul
suolo
balcanico,
assieme
al
lascito
che
si
è
radicato
 nella
 vita
 politico‐economica
 della
 regione,
 appare
 essere
 l’argomento
 principale
 di
 tale
 pensiero.
 
 L’analisi
 parte
 dal
 fatto
 che
 fino
 alla
 seconda
 metà
 dell’800
 i
 Balcani
 erano
 chiamati
 “la
 parte
 europea
 della
 Turchia”,
 investendo
 l’intera
 regione
 di
 connotati
 negativi

2

.
 L’appartenenza
 all’Impero
 Ottomano
 quindi
 rappresenterebbe
 il
 vettore
 principale
 della
 riproduzione
 identitaria
 dei
 Balcani
 ed
 i
 rapporti
 con
 i
 loro
 vicini,
 nello
 specifico
 con
 l’Impero
 Austro‐Ungarico,
 non
 avrebbero
 fatto
 che
 acuire
 tale
 sentimento.


Secondo
 gli
 esponenti
 di
 questa
 teoria,
 i
 rispettivi
 movimenti
 di
 indipendenza
 sorti
 agli
 inizi
del
‘900
divennero
parte
dello
stesso
problema,
della
cosiddetta
Questione
Orientale,
 e
 il
 loro
 destino
 si
 sarebbe
 definitivamente
 compiuto
 all’inizio
 del
 XX
 secolo,
 durante
 le
 Guerre
Balcaniche
per
la
ridistribuzione
del
territorio
ottomano

3

.
Di
conseguenza,
l’unicità
 della
 regione
 balcanica
 è
 descritta
 nel
 suo
 rapporto
 con
 l’esterno,
 un
 compito
 arduo
 in
 quanto
 la
 ricerca
 di
 una
 vacillante
 comunanza
 di
 valori
 esclude
 l’handicap
 dell’eterogeneità
 endogena.
 
 Anziché
 la
 preponderanza
 del
 fattore
 culturale
 sono
 le
 caratteristiche
 storicamente
 condivise
 che
 forgiano
 un’identità
 regionale,
 come
 ad










1
Huntington
S.,
Lo
scontro
delle
civiltà
e
il
nuovo
ordine
mondiale,
Garzanti,
Milano,
2001.


2
 Il
 termine
 “Penisola
 Balcanica”
 venne
 introdotto
 nel
 linguaggio
 comune
 
 da
 parte
 di
 geografo
 tedesco
August
Zeune,
per
sostituire
la
definizione
non
politicamente
corretta
di
“La
parte
europea
 della
Turchia”,
Simic
P.,
“Do
the
Balkans
Exist?”
in
Triantaphyllou
D.,
Gnesotto
N.
(a
cura
di),
The
 Southern
Balkans:
Perspectives
form
the
Region,
Chaillot
Paper,
no.
46,
EUISS,
Parigi,
2001,
pag.
20.



3
Tzifakis
N.,
“EU’s
region‐building
and
boundary‐drawing
policies:
the
European
approach
to
the
 South
 Mediterranean
 and
 the
 Western
 Balkans”,
 Journal
 of
 Southern
 Europe
 and
 the
 Balkans,
9:1,
 Routledge,
London,
Aprile
2007,
pag.
56.



(9)

esempio
l’eredità
imperiale
ed
il
conseguente
ritardo
nello
sviluppo
economico,
nonché
la
 posizione
periferica
rispetto
al
resto
dell’Europa.



Agli
 antipodi
 di
 questi
 due
 approcci
 si
 sviluppa
 una
 corrente
 di
 pensiero
 costruttivista
 secondo
la
quale
le
regioni
sono
invenzioni
politiche
contenute
nell’ambito
di

programmi
 politici,
 stilati
 dai
 politici
 stessi,
 volti
 al
 perseguimento
 di
 scopi
 precisi

4

.
 L’impeto
 alla
 teorizzazione
delle
regioni
risale
alle
origini
della
Guerra
Fredda
quando
esse
emergono
 come
 delle
 entità
 relativamente
 malleabili,
 attente
 alle
 varie
 pratiche
 sociali
 che
 conducono
 alla
 generazione
 ed
 all'accumulazione
 di
 conoscenza,
 di
 significati
 e
 di
 valori
 comuni

5

.
Incalzava
inoltre
la
necessità
di
costruire,
ma
soprattutto
di
mantenere,
il
senso
 di
 coesione
 e
 di
 solidarietà
 all’interno
 delle
 regioni
 e
 pertanto,
 analogamente
 a
 quanto
 fosse
 già
 sperimentato
 nella
 formazione
 dello
 stato‐nazione,
 si
 applicarono
 quegli
 strumenti
di
pratica
sociale
diretti
alla
costruzione
di
un’identità
esclusiva,
contrapposta
 all’identità
altrui.
Il
caso
dei
Balcani
è
l’esempio
per
eccellenza
di
come
le
entità
regionali
 si
 costruiscano,
 di
 come
 vengano
 strumentalizzate
 e
 contestualizzate
 a
 seconda
 delle

 epoche
 e
 delle
 circostanze
 storiche,
 e
 di
 come
 la
 costruzione
 di
 un’identità
 puramente
 europea,
occidentalizzata,

si
collochi
in
una
relazione
strutturale
con
quella
dei
Balcani.



È
 perciò
 necessario
 esaminare
 le
 rappresentazioni
 simboliche,
 tanto
 esterne
 quanto
 interne,
 dei
 Balcani
 e
 il
 potere
 del
 mezzo
 discorsivo
 tramite
 il
 quale
 si
 sono
 cementate
 nell’immaginario
 collettivo
 europeo.
 Il
 percorso
 che
 i
 rappresentanti
 di
 questo
 pensiero
 tendono
a
seguire
è
quello
di
collocare
i
Balcani
all’interno
della
discussione
intellettuale
 sull’orientalismo
attraverso
strumenti
filologici

6

.
Sono
la
storia,
la
filosofia
e
la
letteratura
i
 mezzi
che
consentono
di
comprendere
come
a
lungo
l’occidente
abbia
considerato
il
Sud‐

Est
 europeo
 un’entità
 a
 sé,
 come
 se
 si
 trovasse
 collocata
 altrove,
 al
 di
 fuori
 dell’Europa
 stessa.
 Il
 punto
 di
 partenza
 è
 l'orientalismo
 di
 Said,
 quell'insieme
 di
 discipline
 accademiche
 occidentali
 che
 per
 decenni
 hanno
 studiato
 l'Oriente
 da
 lontano
 e
 dall'alto,
 definendo
 così
 tutto
 ciò
 che
 è
 altro
 rispetto
 all'Occidente
 in
 modo
 semplicistico,










4
Neumann
I.,
“Regionalism
and
Democratisation”
in
Zielonka
J.,
Pravda
A.
(a
cura
di.),
Democratic
 Consolidation
in
Eastern
Europe,
Vol.
2,
International
Dimensions,
Oxford
and
New
York:
Oxford
UP,
 2001,
pag.
58.


5
 Bechev
 D.,
 “Constructing
 South
 East
 Europe:
 The
 Politics
 of
 Regional
 Identities
 in
 the
 Balkans”,
 Ramses
Working
Paper
01/06,
European
Studies
Centre,
University
of
Oxford,
Marzo
2006,
pag.
5.



6
Per
un’analisi
approfondita
e
più
conosciuta
di
tale
approccio
si
veda
Todorova
M.,
Immaginando
i
 Balcani,
Argo,
Roma,
2002.



(10)

esprimendo
 giudizi
 nei
 suoi
 confronti,
 descrivendolo,
 insegnandolo,
 fissandolo,
 governandolo

7

.
 
 Tuttavia,
 non
 è
 possibile
 fare
 un
 paragone
 tra
 l’Oriente
 e
 i
 Balcani,
 in
 quanto
 questi
 ultimi
 mancano
 di
 un’eredità
 coloniale
 e
 si
 collocano
 in
 una
 posizione
 geopolitica
differente
dall’Oriente,
in
perenne
contrasto
con
l’Occidente.
I
Balcani
invece,
 secondo
 Todorova,
 sono
 l’Europa,
 costituendone
 le
 esternalità
 di
 un
 passato
 da
 dimenticare:
 il
 genocidio,
 la
 pulizia
 etnica,
 l’Olocausto
 e
 l’intolleranza
 concentrati
 nell’immagine
 cupa
 dei
 Balcani

8

.
 
 Le
 radici
 di
 questa
 problematica
 sono
 da
 ricercare
 nel
 XVIII
 secolo,
 il
 secolo
 dell’Illuminismo,
 con
 la
 conseguente
 svolta
 intellettuale
 che
 nasce
 intorno
 al
 concetto
 di
 civilizzazione,
 al
 quale
 è
 legata
 una
 lunga
 tradizione
 storiografica
 connessa
 all’immagine
 del
 turco
 dispotico,
 il
 turco
 che
 dimorava
 anche
 nelle
 terre
 balcaniche.
 Ciò
 che
 dei
 Balcani
 si
 conosceva,
 era
 la
 loro
 composizione
 non
 uniforme
 soggiogata
 dall’elemento
 turco.
 
 Queste
 popolazioni,
 considerate
 primitive,
 servirono
 all’Europa
occidentale
da
ago
della
bilancia
per
legittimare
l’alto
grado
di
civilizzazione
da
 essa
 raggiunto:
 la
 nostra
 civilizzazione
 diventa
 la
 civilizzazione,
 non
 essere
 noi
 significa
 quindi
essere
l’altro.



Il
 punto
 di
 svolta
 per
 la
 costruzione,
 in
 termini
 senz’altro
 peggiorativi,
 dei
 Balcani,
 è
 rappresentato
 da
 due
 momenti
 sequenziali.
 Da
 una
 parte,
 lo
 scoppio
 di
 due
 guerre
 balcaniche
 nel
 biennio
 1912‐1913
 e,
 dall’altra,
 l’assassinio
 dell’Arciduca
 Ferdinando
 a
 Sarajevo.

I
due
episodi
consentirono
ai
politici
e
agli
intellettuali
europei
di
considerare
 definitivamente
 questa
 regione
 come
 un
 luogo
 selvaggio,
 dimora
 di
 popolazioni
 barbare
 ed
anarchiche.



Ed
 ecco
 che,
 in
 questa
 visione
 dell’altro,
 nasce
 il
 feticcio
 epistemologico
 del
 balcanismo,
 ossia
 un’immagine
 stereotipata
 dei
 Balcani
 da
 parte
 della
 cultura
 occidentale,
 che,
 da
 almeno
 un
 secolo,
 ne
 fa
 il
 nido
 di
 tutte
 le
 nefandezze
 e
 violenze
 di
 cui
 il
 genere
 umano
 risulta
essere
capace;
è
il
luogo
per
eccellenza
dell’instabilità
politica
e
della
conseguente
 frammentazione
 statuale
 in
 virtù
 di
 significati
 fin
 troppo
 carichi
 di
 semplificazione

9

.
 
 La
 







7
Said
E.,
Orientalism
,
Vintage
Books,
New
York,
1979,
pag.
3.


8
 Todorova
 M.,
 “The
 Balkans:
 from
 discovery
 to
 invention”,
 Slavic
 Review,
 53(2),
 American
 Association
for
the
Advancement
of
Slavic
Studies,
Harvard,
1994,
pag.
455.



9
 Al
 balcanismo
 alcuni
 studiosi
 hanno
 perfino
 attribuito
 la
 nascita
 del
 nazismo.
 In
 questo
 modo
 Robert
 Kaplan
 affermava
 che
 il
 nazismo
 può
 rivendicare
 origini
 balcaniche.
 Fu
 tra
 le
 infime
 pensioni
di
Vienna,
una
terra
fertile
per
i
risentimenti
etnici
vicina
al
mondo
slavo
meridionale,
che
 Hitler
 imparò
 ad
 odiare
 in
 modo
 così
 contagioso.
 Kaplan
 R.,
 Gli
 Spettri
 dei
 Balcani.
 Un
 viaggio
 attraverso
la
storia,
Rizzoli,
Milano,
2000.



(11)

condivisione
di
questo
postulato
da
parte
dei
politici
europei
si
protrasse
per
decenni,
fino
 a
 giungere
 al
 culmine
 agli
 inizi
 degli
 anni’90:
 il
 discorso
 balcanico
 raccomandava
 il
 non
 intervento
 e
 pertanto,
 in
 seguito
 alla
 dissoluzione
 della
 Jugoslavia,
 il
 conflitto
 poteva
 dilatarsi
 indisturbato.
 
 In
 questo
 senso
 si
 comprende
 come
 l’identità
 balcanica
 studiata
 non
inerisca
alla
sua
essenza,
ma
in
gran
parte
dipenda
da
decisioni
classificatorie
esterne.



1.1.2.
La
costruzione
del
Sud
Est
Europeo


Il
principio
regionale,
derivante
dalle
dinamiche
dell’immediato
secondo
dopoguerra,
può
 assumere
significati
diversi,
persino
ambigui.

Regione
e
regionalismo
sono
due
concetti
 cardine
di
questo
principio,
il
cui
significato
varia
secondo
la
scala
geografica
analizzata:
a
 concetti
di
regione
si
possono
ricondurre
anche
strutture
spaziali
statali
fino
ad
inglobare
 l’intero
sistema
continentale.




Il
regionalismo
spesso
denota
il
processo
di
devoluzione
del
potere
politico
ed
economico
 che
 dal
 centro
 si
 sposta
 verso
 il
 locale
 ed
 è
 associato
 alla
 rinascita
 di
 sentimenti
 di
 appartenenza,
 anch’essi
 regionali.
 
 Potrebbe
 accadere
 che
 questi
 sentimenti
 di
 appartenenza
al
regionale
trascendano
dai
confini
di
uno
Stato
e
quindi
interessino
aree
 adiacenti
 a
 più
 Stati
 e
 le
 rispettive
 popolazioni,
 secondo
 il
 modello
 di
 formazione
 delle
 Euroregioni.

L’altra
accezione
circa
il
regionalismo
riguarda
i
movimenti
verso
l’alto,
dove
 il
 potere
 statale
 non
 è
 decentrato
 ma
 piuttosto
 delegato
 a
 favore
 di
 organismi
 sopranazionali.
 In
 quanto
 alle
 finalità,
 questo
 tipo
 di
 regionalismo
 fa
 la
 sua
 comparsa
 soprattutto
con
riferimento
alla
soluzione
di
bisogni
economici,
ma
tende
esplicitamente,
 fin
 dall’avvio
 della
 sua
 sperimentazione,
 ad
 abbracciare
 lo
 spazio
 della
 politica
 e
 della
 sicurezza.
Si
tratta
quindi
di
fenomeni

aventi
una
tendenza
spontanea
a
fornire
risposte
al
 complesso
 dei
 problemi
 posti
 dalle
 relazioni
 internazionali,
 primo
 fra
 tutti
 le
 modalità
 attraverso
le
quali

ricercare
l’equilibrio
e
la
sopravvivenza.
Alcuni
processi
di
questo
tipo
 di
regionalismo
tendono
al
fenomeno
dell’integrazione
e
sono
addirittura
equiparabili
ad
 esso.
 La
 costruzione
 della
 CECA
 prima
 e
 dell’Unione
 Europea
 dopo
 sono
 senza
 dubbio
 l’esempio
chiave
di
quest’evoluzione
del
principio
regionalista

10

.











10
Hughes
J.,
Sasse
G.,
Gordon
C.,
“Enlargement
and
Regionalization:
the
Europeanization
of
Local
 and
 Regional
 Governance
 in
 CEE
 States”,
 in
 Wallace
 H.
 (a
 cura
 di),
 One
 Europe
 or
 Several?


Interlocking
Dimensions
of
European
Integration,
Basingstoke,
Palgrave,
London,
2001,
pagg.
145‐

178.



(12)

A
parte
i
due
tipi
di
regionalismo
menzionati,
è
necessario
analizzare
una
terza
tipologia
 regionale,
 distinta
 sia
 dal
 regionalismo
 sub‐statale,
 che
 da
 quello
 sopranazionale
 e
 strettamente
 legata
 alla
 caduta
 del
 comunismo
 nell’Est
 Europeo.
 Difatti,
 contrariamente
 alla
 solidità
 dell’Europa
 occidentale,
 nel
 1990
 il
 blocco
 comunista
 si
 è
 disgregato
 in
 tre
 differenti
 gruppi

11

.
 
 Il
 primo
 gruppo
 è
 composto
 dagli
 Stati
 nati
 dalla
 dissoluzione
 dell’Unione
 Sovietica
 che
 hanno
 convenuto
 di
 istituire
 la
 Comunità
 degli
 Stati
 Indipendenti,
con
scopi
e
finalità
non
meglio
precisati,
ma
tuttavia
saldamente
legata
alla
 Federazione
 Russa.
 La
 seconda
 compagine
 raggruppa
 i
 Paesi
 dell’Europa
 Centrale
 ed
 Orientale
(PECO)
i
quali
hanno
con
successo
intrapreso
la
via
della
transizione,
soprattutto
 grazie
 al
 pronto
 appoggio
 da
 parte
 dell’Occidente.
 Con
 lo
 scopo
 inoltre
 di
 rafforzare
 la
 cooperazione
nei
campi
della
politica,
della
sicurezza
e
dell’economia,
questi
Paesi
hanno
 dato
vita
ad
una
serie
di
organizzazione
regionali.
Gli
acronimi
quali
CEFTA,
INCE
oppure
 BSEC
col
tempo
sono
diventati
forum
per
diplomatici
ed
esperti
e
la
loro
proliferazione
ha
 permesso
di
teorizzare
il
termine
sub‐regionalismo,
per
distinguere
le
dinamiche
in
atto
 dai
 progetti
 di
 integrazione
 e
 regionalismo
 più
 ampi
 ed
 impegnativi,
 quali
 ad
 esempio
 l’evoluzione
dell’Unione
Europea

12

.


Ipotizzare
un
simile
sviluppo
di
organizzazioni
regionali
diventa
quasi
impossibile
qualora
 l’interesse
delle
analisi
si
rivolga
verso
il
terzo
gruppo,
ossia
i
Balcani
dei
primi
anni
’90
 del
 secolo
 scorso,
 laddove
 i
 sintomi
 di
 nazionalismi
 e
 di
 rinate
 sovranità
 hanno
 reso
 inattuabili
le
cooperazioni
interstatali.
Gli
antagonismi
su
base
nazionale,
generatori
della
 frammentazione
territoriale
della
Jugoslavia,
hanno
sancito
l’emarginazione
della
regione,
 il
 suo
 declino
 economico,
 la
 proliferazione
 di
 Stati
 deboli
 e
 la
 conseguente
 crescita
 del
 crimine
organizzato.

Il
caos
divampante
alla
periferia
Sud‐Est
dell’Europa
veniva
spesso
 letto
 attraverso
 il
 prisma
 della
 balcanizzazione,
 mentre
 lo
 scoppio
 della
 cruenta
 guerra
 nella
 Bosnia
 ed
 Erzegovina
 ha
 indotto
 gli
 amministratori
 di
 Bruxelles
 a
 considerare
 la
 possibilità
di
un
conflitto
più
ampio.
Ignorando
le
origini
puramente
interne,
vale
a
dire
 jugoslave,
 della
 crisi,
 si
 temeva
 che
 la
 polveriera
 balcanica
 potesse
 generare
 conflitti
 su
 scala
regionale,
se
non
addirittura
globale.

La
cosiddetta
Terza
guerra
balcanica
si
sarebbe
 in
 questo
 modo
 estesa
 dai
 focolari
 originari,
 come
 ad
 esempio
 il
 Kosovo,
 verso
 le
 Repubbliche
 limitrofe,
 dapprima
 in
 Macedonia
 per
 assorbire
 in
 seguito
 l’Albania
 e,
 da
 







11
Simic
P.,
in
Triantaphyllou
D.,
Gnesotto
N.
(a
cura
di),
op.
cit.,
pag.
18.



12
Cottey
A.,
Subregional
cooperation
in
the
new
Europe
:
building
security,
prosperity
and
solidarity
 from
the
Barents
to
the
Blak
Sea,
Basingstoke,
Macmillan,
London,
1999.



(13)

ultimo,
anche
la
Turchia
e
la
Grecia.

Agli
occhi
dell’Occidente
terrorizzato
nei
Balcani
si
 consumava
la
visione
locale
del
bellum
omnium
contra
omnes.

13






Per
queste
ragioni,
gli
Stati
europei
e
le
organizzazioni
internazionali,
prive
di
una
visione
 analoga
a
quella
riservata
ai
PECO,
applicarono
all’area
di
crisi
una
serie
di
interventi
dalle
 modalità
 diverse
 
 ‐
 come
 ad
 esempio
 il
 monitoraggio,
 la
 diplomazia,
 la
 ricognizione,
 la
 salvaguardia
 piuttosto
 generica
 dei
 diritti
 umani
 –
 a
 seconda
 delle
 congiunture
 del
 momento

14

.
 Il
 principio
 di
 questi
 provvedimenti
 ad
 hoc
 era
 sia
 contenere
 la
 crisi
 e
 garantire
lo
status
quo
sia
precludere
la
possibilità
che
la
crisi
investisse
le
aree
confinanti.




L’iniziale
 percezione
 che
 i
 Paesi
 dell’ex
 Jugoslavia
 hanno
 avuto
 dell’Unione
 Europea
 era
 senz’altro
 positiva:
 essa
 raffigurava
 l’organizzazione
 principale
 in
 grado
 di
 guidare
 la
 transizione
 nonché
 di
 porre
 in
 essere
 azioni
 volte
 ad
 attenuare
 le
 conseguenze
 del
 turbolente
processo
di
transizione.
Eppure,
queste
aspettative
si
mostrarono
illusorie
dal
 momento
che
Bruxelles
non
era
riuscita,
almeno
inizialmente,
a
pervenire
lo
scoppio
delle
 ostilità
 e
 a
 contenere
 l’escalation
 della
 crisi
 in
 seguito.
 
 In
 particolare,
 il
 prolungarsi
 del
 conflitto
 nella
 Bosnia
 ed
 Erzegovina
 mostrò
 il
 deficit
 dell’Unione
 in
 termini
 di
 coesione,
 determinazione
e
strumenti
in
grado
di
concepire
una
politica
estera
comune
indirizzata
a
 riportare
 la
 situazione
 sotto
 controllo

15

.
 Secondo
 questa
 visione
 interna
 dei
 Balcani,
 mancò,
 in
 ultima
 istanza,
 una
 comprensione
 profonda
 delle
 ragioni
 della
 crisi,
 che
 fu
 analizzata
 superficialmente
 ed
 affrontata
 secondo
 i
 tradizionali
 paradigmi
 delle
 diplomazie
europee.



La
 reciproca
 diffidenza
 tra
 le
 capitali
 balcaniche
 e
 Bruxelles
 cominciò
 a
 venir
 meno
 quando
 l’Unione
 Europea
 decise
 di
 applicare
 un
 rimedio
 contro
 i
 mali
 provenienti
 dai
 Balcani,
 adottando
 un
 approccio
 meno
 prevenuto
 e,
 per
 forza
 di
 cose,
 più
 pragmatico.



Nelle
 capitali
 europee
 si
 è
 sviluppato
 un
 interessante
 dibattito
 circa
 la
 convenienza
 di
 considerare
 i
 Balcani
 non
 più
 come
 la
 polveriera
 d’Europa,
 ma
 come
 il
 destinatario
 







13
Bechev
D.,
“Contested
Borders,
Contested
Identity:
The
case
of
regionalism
in
South
East
Europe”,
 Journal
of
Southern
European
and
Black
Sea
Studies,
Vol.
4,
no.1,
2004,
pag.
11.



14
 Siani
 Davies
 P.,
 “Introduction:
 international
 interventions
 (and
 non‐interventions)
 in
 the
 Balkans”,
 in
 Siani
 Davies
 P.
 (a
 cura
 di),
 International
 Interventions
 in
 the
 Balkans
 since
 1995,
 Routledge,
London
and
New
York,
2003,
pag.
17.



15
Lehne
S.,
“Has
the
“Hour
of
Europe”
come
at
last?
The
EU
strategy
for
the
Balkans”,
in
Batt
J.
(a
 cura
di),
The
Western
Balkans:
Moving
On,
Chaillot
Paper
No.
70,
EUISS,
Parigi,
2004,
pag.
11.


(14)

privilegiato
 di
 una
 politica
 nuova,
 fondata
 sulla
 democratizzazione,
 la
 ricostruzione,
 lo
 sviluppo
 e
 la
 transizione
 verso
 l’economia
 di
 mercato.
 L’articolazione
 delle
 nuove
 idee
 partiva
dal
presupposto
di
quanto
fosse
indispensabile
creare
i
valori
della
coesistenza
e
 del
benessere
per
i
popoli
balcanici,
in
modo
che
essi
abbandonassero
definitivamente
le
 politiche
 di
 nation‐building,
 legate
 all’omogeneizzazione
 ed
 esclusione
 delle
 minoranze
 etniche,
 cause
 principali
 della
 guerra.
 
 Infine,
 i
 fallimenti
 delle
 politiche
 fino
 a
 quel
 momento
 attuate
 restituì
 alle
 cancellerie
 europee
 la
 consapevolezza
 storica
 secondo
 la
 quale
 una
 crisi
 nei
 Balcani
 anticipava
 spesso
 una
 crisi
 in
 Europa,
 rafforzando
 quindi
 l’esigenza
 di
 creare
 i
 mezzi
 di
 intervento
 comuni
 più
 lineari.
 E
 ciò
 in
 funzione
 di
 consolidare
 la
 maturità
 politica
 dell’Unione,
 una
 sfida
 a
 cui
 essa
 non
 poteva
 sottrarsi
 se
 mirava
a
svolgere
un
ruolo
di
primo
piano
nello
scacchiere
internazionale

16

.



La
 transizione
 da
 un’identità
 negativa
 dei
 Balcani
 verso
 una
 accezione
 positiva
 passava
 per
mezzo
della
cooperazione
regionale
e
della
ridefinizione
dell’intera
area.

Si
trattava,
in
 sostanza,
 di
 qualcosa
 che
 era
 antitetico
 alla
 consolidata
 immagine
 negativa
 dell’identità
 dei
Balcani,
di
qualcosa
che
poteva
superare
le
divisioni
relative
all’appartenenza
etnica.
Il
 modello
da
emulare
era
la
formula
comprovata
dall’evoluzione
dell’Unione
Europea,
dove
 la
cooperazione
funzionale
nei
campi
specifici
aveva
portato
ad
una
maggior
integrazione
 politica.


Evidentemente
 si
 trattava
 di
 un
 approccio
 razionalista
 sul
 regionalismo

17

,
 in
 grado
 di
 coniugare
 singoli
 interessi
 statali
 all’interno
 di
 configurazioni
 territoriali
 più
 grandi.
 Lo
 scopo
 principale
 era
 quello
 di
 aumentare
 l’interdipendenza
 tra
 gli
 Stati
 dell’area,
 rimuovendo
 in
 tal
 modo
 ogni
 potenziale
 pericolo
 capace
 di
 generare
 nuove
 crisi.
 Era
 necessario
imporre
la
prossimità
geografica
sull’identità
regionale.



In
 questo
 contesto
 l’Unione
 Europea
 decise
 di
 creare
 una
 sub‐regione
 nuova,
 all’interno
 della
quale
avrebbe
assunto
un
ruolo
egemone:
il
Sud
Est
Europeo
comprendente
gli
Stati
 nati
dalle
ceneri
della
Jugoslavia,
eccetto
la
Slovenia,
ma
con
l’inclusione
dell’Albania.
La
 Croazia,
la
Bosnia
ed
Erzegovina,
la
Repubblica
Federativa
Jugoslava
e
la
FYROM
(former
 Yugoslav
Republic
of
Macedonia)
si
dovevano
riportare
sotto
un
comune
denominatore.

A










16
Gori
L.,
L’Unione
Europea
e
i
Balcani
Occidentali.
La
prospettiva
europea
della
regione
(1996­2007),
 Rubbettino,
Catanzaro,
2007,
pag.
25.



17
 Hurrell
 A.,
 “Regionalism
 in
 Theoretical
 Perspective”,
 in
 Hurrell
 A.,
 Fawcett
 L.
 (a
 cura
 di),
 Regionalism
in
World
Politics,
Oxford
University
Press,
1995,
pagg.
37‐74.


(15)

differenza
dei
Balcani,
l’epiteto
Sud
Est
Europeo
avrebbe
dovuto
essere
geograficamente
 più
neutrale
e
sostanzialmente
privo
di
simbolismo
negativo,
dovendo
rappresentare
un
 nuovo
 percorso
 che
 l’Unione
 Europea
 si
 accingeva
 ad
 intraprendere.
 Inoltre,
 la
 denominazione
 sembrava
 accettabile
 per
 gli
 Stati
 della
 regione
 che
 così
 finalmente
 evitarono
 di
 essere
 definiti
 “Balcani”.
 In
 ultima,
 il
 neologismo
 avrebbe
 annunciato
 l’abbandono
di
quelle
pratiche
di
separazione
discorsiva
tra
Europea
e
Balcani
e
l’inizio
di
 una
nuova
fase
di
rinegoziazione
delle
relazioni
tra
gli
Stati
e
tra
questi
e
le
istituzioni
e
 potenze
mondiali.
Una
siffatta
descrizione
geografica
quindi
sarebbe
l’inizio
di
un
nuovo
 discorso
 geopolitico
 sui
 Balcani,
 di
 un
 modo
 nuovo
 di
 pensare,
 agire
 ed
 essere
 nei
 Balcani

18

.


1.1.3.
Le
prime
tendenze
multilaterali
 a)
Il
processo
di
Royaumont


Con
 la
 conclusione
 degli
 Accordi
 di
 Dayton,
 il
 21
 novembre
 1995,
 si
 gettarono
 anche
 le
 basi
materiali
per
l’inizio
di
una
nuova
fase.
La
politica
d’inerzia
volta
al
solo
contenimento
 della
crisi
che
per
cinque
lunghi
anni
aveva
portato
alla
paralisi,
alla
polarizzazione
della
 situazione,
al
caos
generale,
veniva
finalmente
abbandonata

19

.



Già
 nell’ottobre
 dello
 stesso
 anno,
 l’Unione
 Europea
 convenne
 sull’opportunità
 di
 elaborare
un
piano
regionale
a
lungo
termine,
con
l’obiettivo
di
contribuire
alla
creazione
 di
 un
 clima
 di
 stabilità
 e
 prosperità,
 attraverso
 un
 maggior
 coinvolgimento
 dei
 Paesi
 dell’area.
 
 Il
 13
 dicembre
 1995
 i
 ministri
 degli
 esteri
 dei
 15
 membri
 dell’Unione,
 i
 rappresentanti
 dei
 5
 Paesi
 successori
 dell’ex
 Jugoslavia,
 i
 Paesi
 limitrofi
 non
 ancora
 membri
 dell’UE,
 come
 pure
 gli
 Stati
 Uniti,
 l’OSCE
 e
 Consiglio
 d’Europa,
 si
 riunirono
 a
 Royaumont,
vicino
a
Parigi,
per
elaborare
uno
nuovo
schema
di
collaborazione
nei
Balcani
 che
avrebbe
preso
il
nome
di
Processo
di
Royaumont.











18
 O
 Tuathail
 G.,
 “The
 Bosnian
 War
 and
 the
 American
 Securing
 of
 “Europe””,
 in
 Antonsich
 M.,
 Kolossov
 V.,
 Pagnini
 M.P.
 (a
 cura
 di),
 Europe
 Between
 Political
 Geography
 and
 Geopolitics,
 Vol.
 2,
 Società
Geografica
Italiana,
Roma,
2001,
pag.
798.



19
Bokova
I.,
“Integrating
Southeastern
Europe
into
the
European
mainstream”,
in

Sotiropoulos
D.,
 Veremis
 T.,
 (a
 cura
 di),
 Is
 Southeastern
 Europe
 Doomed
 to
 Instability?,
 Frank
 Cass,
 London,
 2002,
 pag.
24.


(16)

Quest’iniziativa
 si
 inquadrava
 nel
 più
 ampio
 contesto
 della
 conferenza
 di
 pace
 di
 Parigi,
 durante
 la
 quale
 vennero
 formalmente
 poste
 le
 firme
 agli
 Accordi
 di
 Dayton;
 mirava
 a
 sostenerne
 l‘attuazione
 ed
 ad
 incoraggiare
 la
 democratizzazione
 dei
 Balcani
 attraverso
 progetti
 sui
 diritti
 umani,
 la
 cultura
 e
 la
 società
 civile.
 Stando
 alle
 conclusioni
 della
 Dichiarazione,
l’obiettivo
finale
era
la
creazione
di
condizioni
di
stabilità,
di
buon
vicinato
 tra
 i
 Paesi
 dell’Europa
 sud
 orientale
 e
 conseguentemente
 la
 realizzazione
 di
 un’Europa
 nuova,
 l’Europa
 della
 democrazia,
 della
 pace,
 dell’unità
 e
 della
 stabilità

20

.
 
 Tuttavia,
 l’iniziativa
presentava
fin
dal
principio
un
serio
deficit
poiché
non
prevedeva
un’assistenza
 economica
 per
 la
 ricostruzione,
 né
 tantomeno
 promuoveva
 progetti
 infrastrutturali,
 essenziali
 questi
 ultimi
 per
 la
 buona
 riuscita
 del
 modello.
 Era
 piuttosto
 un
 processo
 politico
 complementare
 ad
 altre
 iniziative
 regionali
 volte
 alla
 normalizzazione
 e
 alla
 stabilizzazione
 dei
 rapporti
 nella
 regione.
 
 Per
 di
 più,
 lo
 sforzo
 di
 istituzionalizzare
 il
 processo
sotto
l’egida
dell’OSCE
venne
meno
perché
la
partecipazione
di
uno
dei
Paesi
in
 seno
a
quest’ultima,
la
FYROM
fu
sospesa
dal
1992
a
causa
di
una
disputa
con
la
Grecia

21

.



Mentre
l’implementazione
dei
precetti
civili
degli
Accordi
di
Dayton
procedevano
a
stento,
 nemmeno
il
Processo
di
Royaumont,
che
si
sviluppava
parallelamente,
riusciva
a
decollare.


Nei
 mesi
 successivi
 vi
 furono
 alcune
 iniziative
 promosse
 dalle
 parti
 interessate,
 ma
 non
 furono
 mai
 sufficienti
 perché
 il
 Processo
 potesse
 rappresentare
 un
 mezzo
 credibile
 di
 intervento.
 
 Di
 fatto,
 non
 mancarono
 dichiarazioni
 sulla
 natura
 puramente
 collaborativa
 degli
 interventi,
 anticipando
 l’indisponibilità
 a
 discutere
 sugli
 argomenti
 più
 vincolanti,
 come
ad
esempio
la
sicurezza
e
la
ricostruzione
e
pregiudicando
in
tal
modo
la
nascita
di
 sinergie
fondamentali
per
qualsiasi
azione
futura.

Pertanto,
la
buona
volontà
dell’Europa
 non
 trovò
 un
 sentimento
 corrispondente
 presso
 le
 capitali
 balcaniche,
 ancora
 testimoni










20
 Declaration
 on
 the
 Process
 of
 Stability
 and
 Good
 Neighbourliness,
 Royaumont,
 13
 December
 1995.


21
La
"Repubblica
di
Macedonia",
fin
dal
giorno
della
sua
indipendenza
(1991),
è
impegnata
in
una
 disputa
con
la
Grecia
a
proposito
del
nome
ufficiale
del
paese,
i
simboli
nazionali
e
la
costituzione.


Al
momento
della
proclamazione
dell'indipendenza
del
nuovo
Stato,
il
governo
greco
pose
alcune
 obiezioni
 che
 ne
 impedirono
 il
 riconoscimento.
 La
 più
 importante
 e
 quella,
 tutt'ora
 formalmente
 irrisolta,
sull'utilizzo
del
nome
"Macedonia",
in
virtù
del
fatto
che
il
termine,
di
origine
greca,
era
già
 in
 uso
 per
 indicare
 la
 regione
 greca
 Macedonia.
 Come
 compromesso,
 le
 Nazioni
 Unite
 hanno
 riconosciuto
 la
 Repubblica
 con
 il
 nome
 di
 “Former
 Yugoslav
 Republic
 of
 Macedonia”
 ed
 altre
 organizzazione
internazionali
adottarono
la
stessa
convenzione,
Unione
Europea
compresa.



(17)

dell’eredità
 della
 guerra
 e
 poco
 inclini
 verso
 una
 maggiore
 collaborazione
 transfrontaliera

22

.




b)
Iniziativa
per
la
Cooperazione
nell’Europa
Sud­Orientale
(SECI)


Nel
 periodo
 di
 maggiori
 scontri
 sul
 suolo
 balcanico
 il
 ruolo
 principale,
 in
 termini
 di
 potenza
 e
 mezzi
 coercitivi,
 non
 spettò
 all’Unione
 Europea,
 ma
 agli
 Stati
 Uniti
 d’America.


Washington
 decise
 di
 condurre
 una
 politica
 più
 ferma
 e
 impegnata
 verso
 la
 polveriera
 balcanica,
 di
 quanto
 non
 facessero
 le
 diplomazie
 europee,
 troppo
 vincolate
 a
 perseguire
 una
politica
di
equilibrio
e
di
equidistanza.
Anche
gli
Accordi
di
Dayton
furono
un
risultato
 tutto
 americano
 e,
 in
 virtù
 di
 ciò,
 gli
 USA
 non
 erano
 ancora
 inclini
 a
 lasciare
 alla
 sola
 Unione
 il
 primato
 nella
 regione.
 Per
 questi
 motivi
 Washington
 concepì
 l’Iniziativa
 per
 la
 Cooperazione
 nell’Europa
 Sud‐Orientale
 il
 Southeast
 European
 Cooperative
 Initiative
 (SECI),
diretta
verso
undici
Stati
della
regione:
i
cinque
Paesi
successori
dell’ex
Jugoslavia,
 i
 loro
 vicini
 non
 ancora
 membri
 dell’UE,
 alla
 Moldavia,
 la
 Turchia
 e
 la
 Grecia.



Ciononostante,
la
Croazia
rifiutò
l’invito
a
firmare
la
lettera
d’intenti,
considerandosi
parte
 dell’Europa
centrale.

Contrariamente
al
Processo
di
Royaumont,
il
SECI
già
dal
principio
 aveva
una
struttura
chiara
che
prevedeva
un
coordinatore,
una
commissione,
un
gruppo
di
 esperti
per
ciascuno
degli
argomenti
trattati
e
un
consiglio
di
consultazione
commerciale
 responsabile
 per
 i
 contatti
 con
 il
 mondo
 dell’industria
 e
 del
 commercio.
 
 L’attenzione
 fu
 rivolta
 verso
 la
 risoluzione
 dei
 problemi
 di
 natura
 innanzitutto
 economica,
 in
 modo
 da
 poter
rafforzare
i
legami
tra
i
Paesi
della
regione
e
l’asse
euro‐atlantica.




Si
è
cercato
di
creare
una
simbiosi
delle
azioni
messe
in
atto
da
parte
di
Unione
Europea,
 NATO,
 CEFTA
 e
 Banca
 Mondiale,
 affinché
 si
 creassero
 i
 presupposti
 per
 una
 gestione
 autonoma
 delle
 risorse
 da
 parte
 dei
 Paesi
 balcanici.
 Il
 progetto
 mirava
 a
 sviluppare
 le
 strategie
 relative
 allo
 sviluppo
 delle
 zone
 di
 frontiera,
 dell’energia,
 dell’ambiente,
 dei
 mercati
 finanziari
 e
 dei
 trasporti.
 Poneva
 inoltre
 l’accento
 sulla
 cooperazione
 fra
 le
 autorità
 locali
 nella
 lotta
 contro
 il
 crimine
 organizzato

23

.
 
 Se
 paragonato
 al
 Processo
 di
 Royaumont
in
termini
di
operatività,
il
SECI
ha
senz’altro
riscontrato
più
successo
ed
ha










22
Ehrhart
H.
G.,
“Prevention
and
Regional
Security:
The
Royaumont
Process
and
the
Stabilization
of
 South‐Eastern
Europe”,
OSCE
Yearbook
1998,
pagg.
327–337.


23
Aksu
F.,
“Confidence,
Security
and
Conflict
Resolution
Initiatives
in
the
Balkans”,
Turkish
Review
 of
Balkan
Studies,
2003,
pag.
64.


(18)

realizzato
 alcuni
 obiettivi
 pratici,
 come
 il
 rafforzamento
 della
 lotta
 contro
 il
 crimine
 transfrontaliero

24

.



Sebbene
 l’intento
 fosse
 quello
 di
 non
 entrare
 in
 competizione
 con
 le
 iniziative
 nella
 regione,
 in
 particolare
 con
 il
 nascente
 Approccio
 Regionale
 dell’Unione
 Europea,
 il
 SECI
 aveva
contribuito
a
ridurre
il
loro
impatto
e
la
loro
portata.



E’
necessario
sottolineare
che
la
cooperazione
regionale
nel
Sud‐Est
europeo,
e
il
Processo
 di
 Royaumont
 e
 il
 SECI
 ne
 sono
 l’esempio,
 è
 stata
 organizzata,
 gestita
 e
 decisa
 dalle
 potenze
 extra‐balcaniche,
 una
 circostanza
 che
 per
 sempre
 avrà
 un
 peso
 decisivo
 nella
 valutazione
delle
dinamiche
future.



1.2.
 L’ADOZIONE
 DELLA
 PRIMA
 STRATEGIA
 PER
 I
 BALCANI:
 L’APPROCCIO
 REGIONALE


Come
accennato
in
precedenza ,
 la
tumultuosa
situazione
nell’ex
Jugoslavia
durante
i
primi
 anni
’90
non
consentiva
l’impegno
della
stessa
strategia
che
l’Unione
riservava
agli
Stati
 dell’Europa
 Centrale
 ed
 Orientale,
 e
 perciò
 il
 solo
 campo
 con
 un
 profilo
 visibile
 e
 autonomo
fu
quello
umanitario.

La
situazione
cominciò
a
trasformarsi
con
la
stipula
degli
 Accordi
di
Dayton

i
quali,
secondo
Washington
e
Bruxelles,
avrebbero
avuto
effetto
solo
 nel
caso
si
fosse
costruito
un
rapporto
più
stretto
tra
le
parti
che
lo
firmarono,
vale
a
dire
 tra
Zagabria,
Sarejevo
e
Belgrado.

Ancora
memore
del
proprio
fallimento
politico
all’inizio
 della
guerra,
l’Unione
Europea
si
fece
carico
della
responsabilità
storica
che
aveva
verso
la
 stabilizzazione
dei
Balcani
e
decise
di
adottare
la
prima
strategia
di
ampio
respiro
verso
i
 Balcani.



La
 decisione
 si
 tradusse
 nell’iniziativa
 denominata
 Approccio
 Regionale,
 suggerita
 dalla
 Commissione

25

,
 e
 approvata
 dai
 ministri
 degli
 esteri
 il
 26
 febbraio
 1996

26

,
 dopo
 che
 la
 conferenza
 di
 Roma
 del
 18
 febbraio
 aveva
 consolidato
 gli
 accordi
 di
 Dayton
 e
 quelli
 di
 







24
Anastakis
O.,
Bojicic‐Dzelilovic
V.,
Balkan
Regional
Cooperation
and
European
Integration,
London
 School
of
Economics,
Luglio
2000,
pag.
21.


25
Documento
SEC
(96)
252,
Le
prospettive
di
sviluppo
della
cooperazione
regionale
per
i
Paesi
sorti
 dalla
 dissoluzione
 della
 ex
 Jugoslavia
 e
 i
 mezzi
 della
 Comunità
 per
 favorire
 tale
 cooperazione,
 14
 febbraio
1996.



26
Conclusioni
del
Consiglio
Affari
Generali
del
26
febbraio
1996.



(19)

Erdut

27

.
 L’Approccio
 Regionale
 è
 stato
 presentato
 nel
 contesto
 strategico
 dell’Unione
 Europea
nei
confronti
dei
Paesi
dell’Europa
sud‐orientale,
nello
specifico
nei
confronti
di
 quegli
 Stati
 della
 regione
 con
 i
 quali
 l’Unione
 non
 aveva
 ancora
 istituito
 le
 direttive
 per
 negoziare
 gli
 Accordi
 di
 Associazione,
 in
 particolare
 nei
 confronti
 di:
 Croazia,
 Bosnia
 e
 Erzegovina,
 Repubblica
 Federativa
 di
 Jugoslavia,
 Ex
 Repubblica
 jugoslava
 di
 Macedonia
 (FYROM)
 ed
 Albania.
 Attraverso
 l’Approccio
 l’Unione
 mirava
 alla
 creazione
 di
 rapporti
 bilaterali
con
gli
Stati
della
regione,
inseriti
a
loro
volta
in
una
struttura
che
prevedeva:
lo
 sviluppo
 della
 democrazia,
 il
 primato
 della
 legge,
 il
 miglioramento
 degli
 standard
 per
 quanto
riguarda
i
diritti
umani
e
quelli
delle
minoranze,
la
trasformazione
economica
ed,
 infine,
la
promozione
della
cooperazione
tra
gli
Stati
in
questione.

28

Gli
 obiettivi
 principali
 fissati
 dall’Approccio
 Regionale
 erano
 quindi
 la
 concretizzazione
 completa
degli
accordi
di
pace
e,
tramite
essi,
la
realizzazione
della
stabilità
politica
che
 avrebbe
condotto
allo
sviluppo
economico.
Si
individuavano
pertanto
due
principi
guida:


da
una
parte,
si
trattava
di
promuovere
e
sostenere
la
democrazia
e
il
primato
della
legge,
 per
 mezzo
 dell’institution
 building,
 della
 riforma
 dello
 Stato
 e
 della
 Pubblica
 Amministrazione
e
della
ristrutturazione
della
società
civile.
Vennero
enfatizzati
la
tutela
 ed
 il
 rispetto
 dei
 diritti
 umani
 e
 dei
 diritti
 delle
 minoranze
 –
 in
 particolare
 la
 non‐

discriminazione
 tra
 i
 gruppi
 etnici
 all’interno
 del
 Paese
 che
 avrebbe
 permesso
 il
 ritorno
 dei
rifugiati
e
degli
sfollati.
D’altra
parte
invece,
si
rese
necessario
il
rilancio
delle
attività
 economiche,
soprattutto
la
ricostruzione
delle
aree
danneggiate
dalle
operazioni
militari,
 accompagnata
dalla
riconversione
delle
attività
belliche
in
modo
tale
da
destinarle
ad
un
 uso
puramente
civile.

29

Pareva
 evidente
 che
 il
 complesso
 di
 azioni
 che
 prevedeva
 l’Approccio
 dovesse
 essere
 sostenuto
 da
 un’ingente
 assistenza
 di
 natura
 finanziaria.
 A
 tal
 scopo
 venivano
 indicati










27
Gli
accordi
di
Erdut,
una
località
vicino
a
Osijek
in
Croazia,
riguardavano
le
zone
ancora
occupate
 dalle
forze
serbe
nella
Slavonia
orientale.
L’Accordo
venne
stipulato
fra
i
Serbi,
Croati
e
le
Nazioni
 Unite
e
prevedeva
l’amministrazione
delle
zone
occupate
da
parte
delle
Nazioni
Unite
(UNTAES
–
 United
Nations
Transition
Action
Eastern
Slavonia)
e
la
loro
successiva
reintegrazione
pacifica
nella
 Croazia,
finalmente
realizzata
nel
gennaio
1998.


28
Conclusione
del
Consiglio
per
gli
Affari
Generali,
29‐30
aprile
1997.


29
Comunicazione
della
Commissione
COM(99)
236.


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