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PARTE II ARTE CHE RIVELA ARTE

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PARTE II

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CAPITOLO V

LA SGRAZIATA MUSELINDA: VERSO UNA POETICA DEL GROTTESCO

Per ogni sensata, chiara affermazione, ci sono schiere di cacofonie insensate, guazzabugli verbali e illogicità

Jorge Louis Borges

I

Fare cose «tutt’altro che» naturali era un progetto manierista. L’eccesso quindi divenne predominante, e la mimesi della realtà fece spazio a creazioni mentali volontariamente anti-figurative. L’eccentricità sovente sostituì il grottesco al naturale.

Mentre rafforza l’elogio dell’eclettismo artistico da parte di Castiglione, la difesa della varietà condotta da Erasmo all’inizio del XVI secolo, si rifà e a Orazio la cui Ars Poetica riprende il tema del grottesco sin dalle prime pagine:

Humano capiti cervicem pictor equinam Iungere si velit, et varias inducere plumas undique collatis mebris, ut turpiter atrum desinat in piscem mulier formosa superne,

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spectatum admissi risum teneatis, amici? credite Pisones, isti tabulae fore librum persimilem, cuius uelut aegri somnia

(Se abbozzando una testa il pittore volesse unirla a un collo di cavallo e a membra d'ogni natura con pinne variopinte, facendo terminare per orrore le stupende fattezze della donna con la coda nera di un pesce, e vi mostrasse il tutto, sapreste, amici miei, trattenere le risa? Eppure, credetemi Pisoni, identico al quadro è un libro, in cui le immagini senza costrutto sembrano nascere dai sogni di un febbricitante.)

Un lessico fatto di capriccio, assemblaggio, fantasia e armonia anticonvenzionale si allontana dalla mimesi. Il fastidioso interlocutore di Orazio rivendica il diritto di esprimersi liberamente (riga 9-10), per poi additare un artigiano che, a differenza dei veri artisti, non è in grado di conferire unità («ponere totum») alle parti (righe 38-40)1.

Dall’Eneide di Virgilio (iii), e il De Rerum Natura di Lucrezio (iv) all’Institutio Oratoria di Quintiliano (viii), l’antichità aveva giocato con la mimesi tramite descrizioni d’ibridi centauri e mostruose accozzaglie. Anche Socrate popolò l’universo fantastico di centauri e Gorgoni nel Fedro (299 c-d). Per Vitruvio, il grottesco violava il principio di varietà, ricercava la libertà sregolata e «produceva mostri più che rappresentazioni definite fatte da cose definite […] Tali cose non esistono, né possono esistere, né sono esistite […]. Tuttavia quando le persone vedono certe falsità, le approvano invece di condannarle» (De Architectura, vii, 5)2.

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Leonardo Da Vinci, Scaramuccia, 503-04 Oxford, Christ Church Library

È oramai un dato di fatto che il «fantastico» Medioevo si crogiolava nel grottesco. San Bernardo non poteva negare, con suo sgomento, che l’arte romanica tendesse a dare valore alle invenzioni «innaturali». Senza volerlo, fu proprio lui a coniare la frase deformis formositas ac formosa deformitas (deforme bellezza e bella deformità) che fornì una definizione sintetica al principio che avrebbe governato molta pittura, scultura e decorazione manierista, dal Palazzo Tè di Mantova alla galleria di Fontainebleau. Tra le personalità più notevoli in quanto anelli di collegamento nel percorso evolutivo del grottesco dal Medioevo in poi, vi erano Cennini, Doni, Leonardo Da Vinci, Bosch, Dürer e Vasari, il quale provò un grandissimo interesse per la leonardesca Testa di Scaramuccia (1503). Durante il XVI

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secolo alcuni accusarono il grottesco di mancanza sia di decorum che di simbolismo, mentre altri lo difesero sostenendo come esso fosse capace di produrre «strane invenzioni» che «la natura non poteva creare da sé», pochi altri tolleravano una libertà simile solo se applicata a opere d’arte collocate in contesti secolari3. L’eccentrico generava attributi bizzarri. Privo di un nome che lo descrivesse chiaramente, questo stile fu battezzato dagli umanisti4, le critiche dei quali servirono solo a mettere in evidenza la sua effettiva popolarità.

Per quanto negativo fosse il suo approccio nei confronti del grottesco Orazio rese chiara una prassi che gettava luce sulla portata della tecnica. Nell’ambito del grottesco l’eccessiva varietà incoraggiò la creazione di sgraziati ghiribizzi che si sarebbero evoluti in accenni al manierismo. Allo stesso modo, quello che era il timido interlocutore dell’Ars Poetica divenne uno sfacciato nelle Vite del Vasari, dove l’enfasi sull’interazione tra regola e licenzia faceva spazio a forme meravigliose di ogni genere. Essendo una misura dell’eccesso, la varietà andava a violare il principio d’unità nella morfologia dell’eccentrico manierista.

L’azione aristotelica e la narratività albertiana resero la selezione di fondamentale importanza in materia di unità artistica, la quale forza centripeta andò a riversarsi nel mondo del grottesco. Nessuna legge naturale o ambientale poteva perfezionare la forma. La quantità divenne un segno di qualità, che spesso non riusciva a trovare espressione nel singolo; la funzione era risolta nell’accumulazione. I piani architettonici e gli spazi pittorici erano affollati in un modo che molto ricordava quella maniera tedesca tanto detestata da Alberti e Vasari.

Era una coincidenza significativa che l’etimologia del termine «grottesco» si riferisse anche alla dislocazione topografica della Domus

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Aurea, affatto destinata al sottosuolo. Per quanto errata, la parola si adattava molto bene a uno stile così diffidente dal soleggiato universo dell’architettura classica e umanista. Le celestiali cupole del Pantheon a Roma e di Santa Croce a Firenze, trovavano il loro opposto nella Domus Aurea e nelle Grotte del Giardino di Boboli. Etimologicamente, il termine grotta fa riferimento a crupta, significante cava o cella sotterranea. Anche l’aggettivo «criptico» si riferisce a qualcosa di nascosto o ambiguo, e la criptologia si volge allo studio dei linguaggi enigmatici. Un tale insieme di significati descriveva bene gli attributi fondamentali del grottesco. L’errore etimologico quindi, aveva un valore estremamente connotativo in una cultura così bisognosa di una terminologia non-apollinea come il gruppo di Laocoonte, scoperto a Roma alla fine del XVI secolo.

II

Per focalizzare la mia analisi del grottesco manierista, dovremmo partire dal naturale et artificioso di Comanini. Mentre il naturale è icastico, l’artificiale mira a creare forme che esistono «solo nella mente e non al di fuori di essa» (Trattati, 3:254-55). Il costrutto intellettuale si trova oltre la natura, la quale è demolita e ricostruita alla luce di criteri artificiali. Il naturale è un mezzo e l’innaturale è il fine dell’arte grottesca, che deriva dall’eccentricità epistemologica.

Tenendo conto delle dimensioni, l’eccesso aveva preso forma iperbolica sin dalla Batrachomyomachia, in cui gli standard epici costituivano la misura delle eroicomiche gesta di piccoli animali. Nella tradizione degli

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accostamenti di enormità e minutezza tipici del medioevo, anche Isidoro di Siviglia pensava ai mostri (makrobioi) come una «razza umana alta 3 metri (in India)» o «una razza alta un cubito, che i Greci chiamano Pigmea» (Etymologiae, xi.3,26-27).

Quando Francesco I intraprese i lavori d’ampliamento di Fontainebleau, dedicò la stessa attenzione alla piccola gioielleria e alla grande architettura. La Fontana di Nettuno a Bologna eseguita dal Giambologna, era definita «soprammobile da piazza», e la saliera di Cellini per Francesco I un «monumento da tavola». Ben due capitoli del Trattato della scultura dello stesso Cellini, vertono su i colossi. Allo stesso tempo, nell’altro Trattato dell’oreficeria egli fornisce le norme per «lavorare di minuteria». In questo scritto egli loda anche Lorenzo Ghiberti per le sue «opere piccole».

Le tartarughe gigantesche di Bomarzo trasportano piccole figure nel Giardino di Boboli. Sulla scia dell’enorme Morgante del Pulci, Valerio Cioni creò la scultura-fontana di Pietro Barbino: il Morgante Nano (1600-1608) una miniaturizzazione parodica del gigante letterario. Come nano, tuttavia la figura appare di dimensioni piuttosto grandi: la parodia quindi si prende gioco di se stessa. Il Bronzino dipinse lo stesso soggetto utilizzando un gufo da caccia e il Giambologna lo mise a cavallo di un drago. È certo un fatto significativo che la finta epica del Pulci contrapponesse deliberatamente la misura all’eccesso e al miscuglio.

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E bisogno è qui andar pel segno ritto (no so se troppa mazza altrove misse) (Morgante, XXVIII, 63)

A causa di un agire incontrollato, la proporzione aveva ceduto a mostruosi mutamenti di dimensione, linguaggio e invenzione5. In architettura, un atteggiamento simile portò all’apertura di piccole camere per nani, nel maestoso Palazzo Ducale di Mantova, là Pietro Barbino si sarebbe sentito a suo agio. Michelangelo, nella Biblioteca Laurenziana, riduceva le dimensioni da una scala per esterni a una per interni, mentre nel Palazzo della Signoria, lo studiolo cozzava con la monumentalità delle stanze adiacenti. Unendo l’architettura alla geografia, gli orti botanici di Pisa e Firenze ospitavano una flora in miniatura, proveniente dai confini del mondo conosciuto, in perpetua espansione. L’orto era solo l’effige in miniatura di un’esperienza su scala mondiale. In pittura i soggetti adatti a mettere in atto un contrasto di dimensioni erano molto popolari, dall’Ercole e i pigmei di Battista Dossi e L’accecamento di Polifemo (1552) di Pellegrino Tibaldi, fino ai giganti di Giulio Romano e al colosso di Rodi di Martin Van Heemskerck. Come la perfezione, anche la proporzione doveva superare se stessa o per eccesso o per difetto.

Senza aggiungersi al mondo della conoscenza, anche il linguaggio ampliava il proprio raggio d’azione. La stessa etimologia di monstrum, fa riferimento a una nascita anomala, a un difetto di natura, qualcosa che esula dal naturale ordine delle cose. In natura, l’incrocio tra un cavallo e un asino genera il mulo, che è sterile. Allo stesso modo, nella letteratura ovidiana gli ermafroditi e i mostri sovvertono l’ordine della natura.

Nel mondo delle finzioni letterarie, le inversioni dimensionali violavano la sequenza retorica del discorso, dando vita, nella narrativa rabelaisiana, a

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Tartaruga gigante, Bomarzo, Bosco sacro

racconti assurdi e iperboli linguistiche. In Gargantua e Pantagruel (III,38) Pantagruel e Panurgo arrivano infatti a omaggiare le virtù dello sciocco Triboulet in una lista di attributi lunga ben tre pagine a doppia colonna. Le forme grottesche «dovevano» violare il realistico figurativo, di conseguenza l’irrealistico doveva essere per forza o più piccolo o più grande del normale.

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Dobbiamo concordare con Susan Stewart che la miniatura offre versioni «minuscole» dell’esperienza, dalla natura essenzialmente spaziale6

. Lo stesso vale anche per il suo opposto: il gigantismo.

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Come espressione dell’anormalità visiva, il grottesco alimentava una cultura eterogenea, comune alla follia di Erasmo, alla Nave dei Folli di Brant e a forme artistiche che avvicinavano la religione al mondo mostruoso di Bosch e Bruegel. La sua Torre di Babele (1563) era un’icona di eccesso visivo e disorientamento linguistico. Mentre nell’arte nordeuropea il grottesco rimaneva legato alla politica e alla morale, lungo le coste del Mediterraneo esso tendeva ad avere un carattere più leggero. I bambini e gli infantili adulti nell’opera di Bruegel, Giochi di Bambini (1560) avrebbero gironzolato tranquillamente nelle ville italiane di Bomarzo, Bagnaia e Pratolino. Da entrambi i lati delle Alpi il grottesco trasgrediva le logiche insite nei concetti di categoria e mimesi, più o meno nello stesso modo in cui la tautologia andava a toccare il campo dell’economia linguistica.

Ai margini del docere un’autonoma zona ludica corteggiava il grottesco, il carattere transitorio del quale Geoffrey Harpham ha legato ai dipinti di Arcimboldo. In una tela come L’acqua osserviamo un insieme di pesci da vicino e un volto umano da una certa distanza. In mezzo si ha la confusione: l’identità è divisa in due e la referenzialità genera scelte incerte. L’arte si colloca tra due mondi, in cui la visione e l’ontologia divengono grotteschi poiché giustificano «interpretazioni multiple e reciprocamente esclusive» che si prendono gioco della normalità e dell’anormalità7

.

Il grottesco prospera, se da qualche parte, ai limiti estremi del raggio d’azione della transitorietà; non tra l’arte e la vita ma tra l’arte e l’artificialità. Vorrei aggiungere che l’empirico sta al transitorio come il figurativo al grottesco, il che è un’anomalia in un sistema proiettato oltre la mimesi. Il grottesco non è una tappa durante il quale l’informe attende di

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essere «plasmato», ma un meccanismo ambivalente che punta a mischiare il soggetto della natura con quello della cultura.

Pellegrino Tibaldi, L’accecamento di Polifemo (particolare), Bologna, Palazzo Poggi.

Specie nella sua veste manierista, l’eccentricità si ribella contro se stessa. Poiché di natura ex-centrica essa si muove lontano, attorno e nei pressi del centro. In modo divertente, il grottesco alimenta l’antiaccademismo e respinge la provocatoria libertà conferita dai neo, anti, o -contro. Ricercando la marginalità, come in effetti sembra fare, il grottesco non gioca né con gerarchie di merito né con ideologie prevalenti. Piuttosto si situa tra la norma e l’anti-norma, tra il solito e il diverso. All’estrema

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periferia del Manierismo, la proporzione e la sprezzatura divennero artificiose per Comanini, e fu là che la perfezione divenne per Vasari somma, meravigliosa e molto più assoluta.

III

Dato che sul Parnasso non sarebbe la benvenuta, dove e a quali condizioni si troverebbe a proprio agio la sgraziata musa del grottesco? G.P. Lomazzo ci dava un indizio nelle sue poesie in stile grottesco, che legava all’unione tra naturale e bizzarro. Appunto,

Il grottesco non meno anche vale

Quando in far una cosa un’altra prende. Quindi i concetti son si oscuri e chiari Ch’usciti paion fuori dal gran caosse.

(Rime ad imitazione di grotteschi, Milano 1587)

La dissimulazione manierista trova le sue radici nel caos, la cui natura eterogenea accoglie il paradosso, l’antitesi e l’irrealtà.

Mentre il cosmo dipende dall’ordine proporzionale della bellezza, il caos prospera nelle dissonanze tra bellezza e bruttezza, e apre così la strada a una molteplicità di modelli.

Prima di giungere al disordine sregolato, il caos ostacolava comunque la proporzione, che Vincenzo Danti univa all’artificio sotto l’egida della proporzione artificiosa: «la proporzione delle cose ineguali sarà per sempre

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artifiziosa e causerà maggior bellezza che non quella proveniente dalle cose eguali» (Trattati, 1:234). Come Arcimboldo, Lomazzo amava le alterazioni delle forme naturali: «Nasce il bizar grottesco…dal naturale8». Il mimetico doveva far posto all’artificiale. Le grottesche letterarie e pittoriche quindi, avevano in comune attributi non spaziali ed enigmatici. Si arrivava a rifiutare lo sviluppo, e la decorazione acquisiva un carattere strutturale. Poiché inconciliabile con qualsiasi nozione di processo, il grottesco può solo essere un costrutto, la forma diviene quindi intransitiva9.

A causa del grottesco, il linguaggio perdeva il contatto con la narrazione nella discontinuità di un mondo artificiale, nella stragrande maggioranza, visivo. Un esempio calzante: la poesia di Comanini sul Vertumno può aggiungere un commento al grottesco solo rifiutando il significato come conoscenza. La ripetizione di parole e le domande retoriche si prendono gioco della possibilità di fare reali affermazioni. Allo stesso modo in cui danneggiava il realismo figurativo, l’immagine andava anche a offuscare la sintassi di un discorso letterario che poteva duplicarsi nella scacchiera dell’arte.

Si stava venendo a creare un profondo solco tra la filosofia delle cose (res) e la retorica delle parole (verba), che creava un regno autonomo in cui l’inventiva manierista si liberava. Poiché doveva suscitare emozioni, l’arte mischiava l’icastico con il prodigioso, e l’esito era spesso grottesco10

.

Nello stile grottesco, l’arte né affronta né rifiuta le questioni epistemologiche. Michel Focault ha ritrovato nelle «dichiarazioni non affermative» di Magritte un concetto intransitivo di arte, simile a quello dell’esperienza manierista11

. Al di là dei vincoli che l’autonomia pone a ogni forma espressiva, l’imitazione fantastica trovava nel grottesco una chiave per accedere a un eccentrico mondo di meraviglie.

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IV

A questo punto per delineare la poetica del grottesco metterò insieme il suo carattere il suo linguaggio e la sua forma. Machiavelli non esitò a rivolgersi all’antico centauro come maestro degli eroi nel suo Principe poiché il mitico ibrido parlava una lingua umana. Entro i limiti dell’esperienza manierista, i centauri e le arpie emettevano suoni animaleschi e quasi umani, che nella Gerusalemme Liberata del Tasso, (iv, 5) andavano dal latrare e fischiare al sibilare e al vomitare. Per quanto ripugnanti, simili esternazioni grottesche ebbero la meglio nel transitivo discorso dell’esperienza umana.

Tuttavia, il mondo dei Ciclopi omerici non aveva leggi, essi non coltivavano la terra, e il loro rifiuto degli stili di vita tradizionali andò a ripercuotersi sul civilizzato linguaggio di Ulisse, il quale, fra loro, si fece passare per Nessuno (Odissea, ix). Quando nel VII Secolo, Isidoro di Siviglia scriveva le sue Etymologiae, i mostri e i ciclopi erano descritti «senza lingua, in grado di comunicare fra loro tramite gesti e cenni del capo» (xi.3.18). La logica ci dice che le razze ibride dovrebbero parlare linguaggi ibridi. Ogni cosa deve essere anomala nel regno dell’esagerazione innaturale: più o meno che linguistica, e più o meno che a grandezza naturale al di là di ogni standard di normalità.

Le tradizioni geografiche collocavano l’«altro capo» alla periferia del mondo mediterraneo, dove l’armonia era sopraffatta dalla dissonanza e la proporzione lasciava spazio alla sproporzione. Poiché ricostruiva il perduto splendore e la sovrumana beatitudine dell’antichità, l’iperbole era fatta per riconciliare il microcosmo con il macrocosmo, il mito con la storia e

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l’umanità con la divinità. Tuttavia l’Aristotelismo vedeva nell’«eccesso e nella difetto» segni di vizio, e nel rispetto del giusto mezzo un «segno di virtù» (Etica Nicomachea, 2.6.5.9-14).

Il perfetto giusto mezzo, misura della vera virtù, era collocato al centro geografico del mondo greco-romano. Concepito in questi termini, il «grottesco» inizio dell’Ars Poetica oraziana, fa risaltare un’esplicita difesa del «mezzo» contro ogni tipo di sproporzionate mostruosità. Il centro della proporzione rimaneva saldo, sebbene si avvertissero spinte ex-centriche, il decoro si trovava faccia a faccia con l’iperbole, vale a dire, con la mancanza di forma.

Ai margini della cultura, la virtù si trasformava in vizio, la proporzione in stravaganza, e la parsimonia dello stile Attico nella ridondanza di quello orientale. Lontano dal centro s’incontravano barbari, selvaggi, uomini violenti e razze mostruose. John Freedman ci rammenta che

gli estremi di forma e luogo, erano strettamente legati fra loro nell’antichità e nel Medioevo […] Si supponeva che il limite più estremo fosse quello al di là della conoscenza, e suscitava un enorme fascino nell’osservatore posto in una posizione centrale12.

Sin dall’antichità gli ibridi sono stati strumenti di diffusione del grottesco. Dal mondo mitologico alla Minerva che caccia i Vizi dal giardino della Virtù di Mantegna (1496-97), i satiri hanno rappresentato gli eccessi sessuali del satirismo e della ninfomania. Lo smodato orgoglio di Marsia fu brutalmente punito da Apollo, e il vecchio Sileno riusciva a parlare con saggezza solo quando il vino gli scioglieva la lingua. La tradizione italiana andava così ad aggiornare l’eredità classica.

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Accanto a Venere e Bacco i satiri con i loro volti scimmieschi trasformavano l’amore e la fertilità in vizio e lussuria. Essi conducevano una vita al di fuori dei vincoli sociali e i loro strumenti a bocca (flauto e siringa) suscitavano passioni tralasciando il fascino razionale della parola che sarebbe dovuta essere accompagnata da strumenti a corda.

Poiché questo capitolo s’incentra sulla poetica, dovremmo tenere conto del riferimento che William Hazlitt fa a Pan, nell’ambito del suo discorso sugli eccessi romantici: «La nostra letteratura, in sintesi, è gotica e grottesca, disuguale e irregolare […] Essa mira a un eccesso di bellezza o di potere, […] Forse, il genio della nostra poesia è più simile a Pan che ad Apollo». Etimologicamente Pan significa «tutto», il dio quindi è un ibrido omnicomprensivo. Il «tutto» poteva facilmente rasentare il «troppo», e poteva accadere che la valutazione della divinità da parte dei manieristi e dei romantici tendesse a sottolineare il carattere irregolare di ciò che Nietzsche considerava il «titanico» orgoglio dell’eccesso dionisiaco13.

Ammesso che il buonsenso è irrilevante o paradossale nelle questioni concernenti il grottesco, i tentativi di trovare un linguaggio adatto alla sua natura intransitiva devono mirare a bandire la libertà anarchica dai codici stabiliti. Senz’altro, il grottesco non è né ingenuo né ribelle, e il suo linguaggio risponde solo all’eccentricità. Diversamente da Isidoro di Siviglia che si occupava ancora del rapporto tra parole e cose, Abelardo univa l’etimologia alle parole stesse. Per lui, l’universo non corrispondeva né a una cosa né a un’idea, ma a un mondo di parole che sperimentava con l’anti-linguaggio (Guillaume de Vivier, Villon, Rutebeuf) e la poesia ribelle (Marot, Baudouin de Conde).

Le loro fatras «possibili» e «impossibili» potevano essere monolingue, come nel caso di Dodododo Dodododo dodododo Dodelle di Guglielmo di

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Aquitania, e bilingue come nel caso di Ave, douz non de Maria/Maria en cui Dieux Maria di Watriguet de Couvin.

Dovremo adesso soffermarci sulla profonda correlazione tra eccesso, anormalità e grottesco. In una prospettiva storica della stravaganza, Isidoro di Siviglia collegava i Cinodonti, una razza umana caratterizzata da due file di denti, a un dibattito sulla superfluità (Etymologiae 3.7). Troppi denti e troppe lingue, senza menzionare le creature aristoteliche dotate di più teste e piedi, eccezioni alle «tipologie generiche» (La generazione degli animali) equivalevano a un’anatomia che ben si adattava al carattere superfluo delle iperboli e delle tautologie, e all’anormalità del grottesco.

Nell’esperienza umanista, un tale collegamento riaffiorava anche in un soggetto apparentemente non correlato, come il trattato di Poggio Bracciolini Sull’Avarizia (1428-29). Anche per ciò che riguardava la ricchezza e la sua distribuzione, la sufficienza e la moderazione dovevano essere la norma. All’estremo opposto si trovavano i deplorevoli eccessi di cupidigia e smodato desiderio di piacere, l’ultimo considerato, un malefico portatore di dissipazione e superfluità. I riferimenti a Virgilio s’incentrano su creature mostruose come le Furie e le Arpie, mentre una citazione di San Giovanni Crisostomo, ci porta ad «architetti mostruosi», ovvero bramosi uomini che infestano la città14. In quanto prolungata forma d’infrazione classica, una tale mostruosa mancanza di misura dava vita a immagini di deformazioni grottesche.

Se cercassimo d’indovinare quale lingua parlano i moderni giganti del XVI secolo, dovremmo rivolgerci alla rabelaisiana galerie de tableaux grotesques, contenuta in Gargantua e Pantagruel (1532-53). Dopo essere stato esposto al «language diabolique» e alla «rédundance litinicome» di un limosino dal francese storpiato (II, 6), Pantagruel s’imbatteva negli strani

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composti di Panurgo, fatti di grottesco e fantastico, come «jocststzampenard» e «delmeupplist rincq» una bizzarra espressione anglo-francese, che significava «donne-moi please-to-drink». Nel corso del libro si possono trovare «parole ibride, riccamente incrociate, degli ippocampoleefantocammelli linguistici15». Tuttavia a parlare un gergo grottesco è Panurgo, un tipo alto, bello e fisicamente dotato (II, 9) non i giganti. Il grottesco può apparire primitivo ma non lo è.

In passaggi successivi del libro, Rabelais descrive un mondo senza debitori e mutuatari, ma in cui, tuttavia, la mancanza di tensioni è andata a smorzare le attività umane.

A quel punto, la terra produrrebbe solo mostri, Titani, aloidi e giganti. Le piogge smetteranno di cadere, la luce smetterà di splendere […] Lucifero fuggirà […] gli uomini somiglieranno a lupi dalle sembianze umane, lupi mannari e goblins (III, 3).

Tuttavia l’assillante domanda non smette di riproporsi: Quale lingua parlerebbero in quello statica situazione? Sappiamo per certo che il gigantisme verbal di Rabelais non poteva fare a meno dell’attiva realtà di Gargantua e Pantagruel.

Un caso ancora più interessante è costituito dalla grottesca anatomia di Quaresimante (IV, 31-32), un arcimboldesco mostro i quali organi esterni e interni sono descritti da Rabelais, attraverso un’ipnotizzante profusione di similitudini:

La barba come una lanterna Il mento come una zucca

Le orecchie come due manopole […] Se sputa, sputa panieri di carciofi;

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Questo composto anatomico non è funzionale: «lavora nulla facendo, nulla fa lavorando […] nulla mangia digiunando, digiuna nulla mangiando.» In un modo ormai a noi molto noto, il linguaggio significa inutilità; tuttavia esso mantiene una condizione di ozio in cui il testo pone l’accento sulla descrizione invece che sulla narrazione. Il soggetto diviene oggetto; i verbi di attività come «lavorare» e «fare» bloccano il movimento e si negano a vicenda. L’enumerazione si nutre di se stessa, e la sintassi è frammentata in parole che divengono oggetti fissi, prima di ricomparire in foggia di voci visivamente congelate e scongelate (IV, 55).

Negando la parola al gigante, Rabelais gli toglie la possibilità di prendere parte al discorso della vita. Poiché quest’assenza di linguaggio nasce da un mondo capovolto, ci si potrebbe aspettare che Quaresimante si asciughi in «laghi e fiumi» e peschi in «aria». Non possiamo sorprenderci che la sua gola sia fatta di «un gomitolo di stoppa» all’interno e di un «filtro d’ippocrasso» all’esterno. Quando parla è «grossa stoffa d’Alvernia e non già la morbida seta della quale Parisatide voleva fossero tessute le parole di quelli che parlavano a suo figlio Ciro, Re dei Persiani». Il linguaggio normale o le sue distorsioni, si rivelano inadeguati a riportare una parlata grottesca, che non è mai spiegata con chiarezza. Visto che tossisce «barattoli di marmellata» e starnutisce «barili di mostarda» Sarebbe capace di proferire qualcosa di diverso da grumi grotteschi? A quel punto, l’irregolarità e l’eccentricità possono trasformarsi in una morfologia fisica. Nel regno deforme di Antifisis, Quaresimante poteva nutrirsi solo del linguaggio ibrido dei vocables fantaisiste e delle mots-centaures, cioè di pastiche verbali.

Nello stile eccentrico, dovremo aspettarci un linguaggio bizzarro, proveniente da gole simili a «panieri da vendemmia». Tra gli animali nella

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lontana terra di Raso, Panurgo trova le «cucrocute» che «parlano con voce umana, ma le loro parole non risuonano». Dall’altro lato le «manticore» hanno «tre file di denti e una voce molto melodiosa».

Sentito Dire era un vecchietto gobbo, contraffatto e mostruoso […] Aveva il taglio della bocca allungato fino alle orecchie, e in bocca sette lingue e ogni lingua fessa in due parti. Egli parlava con tutte sette insieme su diversi argomenti e in lingue diverse (V, 30-31).

Forse Cristoforo Colombo si aspettava di udire un linguaggio simile, presso quelle razze mostruose che gli antichi avevano collocato in India, e che il navigatore genovese non trovò mai sulle nuove coste «indiane».

Nel suo insuperato saggio su Marco Polo e le meraviglie dell’oriente, Rudolph Wittkower ci ricorda come Aldo Manuzio abbia pubblicato testi classici e trattati profetici basati sull’apparizione di mostri in suolo europeo. Fu nel XVI secolo, che lo studio sistematico delle mostruosità portò alla fondazione della teratologia16.

Nella sua analisi degli esperimenti linguistici al volgere del XVI secolo, Mario Praz trovava un antenato del manierismo in Francesco Colonna, un Joyce quattrocentesco, la quale Hypnerotomachia Poliphili era affollata di ibridi di italiano, latino, greco e lingua maccheronica, mai ascoltati prima. Il suo testo si lasciava andare a una grammatica di puro ornamento, che mischiava iscrizioni antiche e vernacolari. Si potrebbe ritenere che una tale lingua sia quella scritta nei tomi che formano il Bibliotecario di Arcimboldo. È anche possibile che quei libri contengano guazzabugli verbali in cui la definizione abbia lasciato spazio a parafrasi dal significato ambiguo17. Nel contesto del grottesco il linguaggio diveniva un territorio di anamorfosi lessicale.

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Fino a un certo punto, il significato esauriva il suo potenziale e Anton Francesco Doni così definì il mutamento dalla verità del discorso ai piaceri della dissimulazione: «Ciò che accade oggi, è già accaduto prima; ciò che viene detto oggi è già stato detto e sarà detto ancora; ciò che accadrà è già accaduto». Se dovessimo trovare un posto di lavoro in stile manierista al Bibliotecario, il Doni lo accoglierebbe nella colossale Babele della sua Libraria (1550), dove le voci di non sense in libri mai terminati, non offenderebbero l’illetterato pubblico. Un po’ come il grottesco pittorico, quello letterario espone chiaramente le permutazioni di lettere alfabetiche in pagine i cui titoli sono «la zuffa della grammatica» e «il bottino di vocaboli». Ci si renderebbe conto che in questi libri è contenuto un «diluvio di parole» atto a produrre combinazioni sempre nuove, senza esulare dall’alfabeto («pur non s’esce dall’alfabeto»).

Come le forme linguistiche in esse contenute, le biblioteche erano «laberinto d’errori», in cui le parole si affollavano l’una sull’altra, in una pletora di «autori stampati». Era il trionfo della riscrittura e della falsificazione. Persino la stessa realtà cominciava a essere vista come un mondo alfabetico in grado di disattendere del tutto la verità18. Se qualcuno volesse aprire uno degli antichi volumi del Bibliotecario di Arcimboldo sotto l’egida del contesto manierista, potrebbe trovare enigmi linguistici fatti per confondere l’occhio più acuto. Questo è ciò che accadeva nei poème-rebus di Marot, nelle divertenti istruzioni per l’insegnamento della grammatica e della logica contenute nella grammatuca figurata di Mathias Ringmann, nella Rhytomachia di Lefèvre d’Etaples e nel Chartiludium logicae di Thomas Murner.

I neologismi abbondavano e Rabelais creava parole lunghissime, che aprivano la strada al «thunderclap» di cento lettere posto in apertura del

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Finnegans Wake di Joyce. Poiché il langage non può essere pronunciato, l’écriture incide sul carattere visuale delle consonanti, fatte per ostacolare il significato e la lettura. Si può essere capaci di pronunciare una parola come «hymptyhillhead» ma non di scandire un thunderclap di cento lettere19. Ci troviamo così di fronte a un vocabolario-macedonia fatto di eccessi, che sfrutta il linguaggio come esecuzione piuttosto che come comunicazione. Nel regno del grottesco, l’etimologia non è una questione di radici ma di trapianti, di sterpaglie parodiche e accumulazioni parassitiche.

Viceversa linguistici del genere sarebbero divenuti familiari al Watt di Samuel Beckett, che «li trasferì nella sua mente per invertire, non più l’ordine delle parole all’interno della frase, non più quello delle lettere all’interno delle parole, non più quello delle frasi all’interno del periodo ma per invertire tutto questo allo stesso tempo20». È pertinente dire che, di fatto, molti personaggi di Beckett possiedono tratti mostruosi, da Miss Dew con la sua malattia dell’anatra, alla figura antropoide di Miss Counihan. Tuttavia i moderni legami tra la patologia e il grottesco sono estremi in confronto ai festosi esperimenti di Edward Lear in The Yonghy-Bonghy-bo, il linguaggio nonsense del Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol, e la patafisica di Alfred Jarry. Per la gioia dell’eccentricità, tutti questi linguaggi non hanno coerenti corrispondenze di parola-significato, ma giocosamente mettono in parole la scienza del nonsense21.

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V

Se dovessimo immaginare la musa del grottesco, sarebbe una figura bifronte, la quale vista anamorfica sarebbe capace di volgere sguardi obliqui sia verso l’imitazione che l’invenzione. Oltre i confini del mondo mitologico, essa ha vegliato sulla lotta dell’uomo per superare la natura e liberarsi dal ritmo della vita. Come Circe, essa attira l’uomo in un mondo edonistico, in cui non esiste la morte poiché non esiste vita dalla quale cominciare. Invece di trasformare gli uomini in porci, chiederebbe all’arte di portare la metamorfosi a una battuta d’arresto, così da permettere all’artificio di conquistare tutti i mondi possibili. Inoltre, se si dovessero definire i tratti di questa incantatrice, il suo modello potrebbe essere benissimo uno dei ritratti di Arcimboldo.

Per essere se stessa, la musa parassitica deve necessariamente deturpare un altro linguaggio, e per farlo, la maniera arcimboldesca, le tradizioni petrarchesche, bernesche e bembesche erano a portata di mano. Essi offrivano la grammatica e il vocabolario dei tropi della ripetizione. Un’intera gamma di commenti, esposizioni, lezioni e imitazioni, permettevano alla mente d’ indulgere in «-isti», «-ismi» ed «-eschi», che nascondevano la materia nella maniera22. Conoscere bene l’automatica, «colta consapevolezza dei valori puramente formali ed estetici nella propria poetica e in quella altrui23» era qualcosa di tipicamente manierista. Basta solo guardare al bizar grotesco di Lomazzo e alle opere anti letterarie del Doni, La Zucca e La Pittura (1565), per valutare le tendenze manieriste divenute intraducibili nella seguente stanza:

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Viluppi, fanfalucole, proverbi,

Leggende, ciance, pappolate, e verbi24.

In questo caso siamo di fronte a una sintassi senza senso. La scrittura in stile grottesco trionfava ovunque la conoscenza lasciasse spazio alla spinta centrifuga dell’incongruenza25

.

A questo punto è necessario porsi una domanda: Quale linguaggio parla o parlerebbe la musa del grottesco? La risposta immediata è un linguaggio in grado di dissimulare allo stesso modo retorica e spontaneità.

Inizialmente, essa dovrebbe spostare il linguaggio in una mista «alterità» dall’uso non funzionale.

Nell’estetismo giocoso caratteristico del Castiglione, il soggetto del riso conduce a un dibattito fatto di giochi verbali, basati sulla deformità, l’incongruenza, l’ambiguità, la meraviglia e l’inatteso: di fatto l’eccentrica struttura del grottesco.

Uno di questi giochi verbali recita:

Quando l’altro giorno discutevamo sul fatto di costruire un bel mattonato nella camera della Duchessa, e dopo molto parlare, tu Giancristoforo, hai detto: «se riuscissimo ad prendere il vescovo di Potenza e riuscissimo ad appiattirlo, sarebbe perfetto per il nostro scopo, perché egli è il più bel matto nato». Tutti risero di gusto poiché separando la parola mattonato, facesti un gioco di parole (157-158).

La separazione e la congiunzione mutano il significato delle parole, la cosa diviene una persona e vice versa.

In questo contesto, Lionardo Salviati distorceva il linguaggio del Tasso: Checcanuto, ordegni, tendindi, mantremante, impasta cani […] crinchincima. Due o più parole sono irretite in composti senza senso. Ciò che era funzionalmente contiguo (che canuto) diviene grottescamente

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continuo (checcanuto). Lo stesso vale per man tremante e crin ch’in cima, che divengono mantremante e crinchincima. Ibridi verbali simili trasformano l’eufonia in cacofonia, e la chiarezza in disordine visivo. Tuttavia, se ci soffermiamo ad analizzarli e dissezionarli singolarmente, è possibile ritrovare un senso, poiché si separano visivamente le parole originali, o i loro morfemi, attraverso un procedimento comune anche ai lettori dell’Ulysses e di Finnegans Wake26

.

Da Rabelais e Salviati a Joyce e Leiris, lo scrittore moderno sembra aver preso seriamente l’affermazione di Aristotele riguardo alle parole composte: «Un neologismo è una parola usata dal poeta e da nessun altro» (Poetica, 21) .

In realtà, il grottesco avrebbe imposto ciò che Aristotele aveva sconsigliato. Inizialmente ricercare «parole insolite» è piacevole poiché esse «conferiscono dignità al linguaggio ed evitano il colloquialismo […] l’uomo prova ammirazione per ciò che è remoto, e ciò che desta ammirazione è piacevole» (Retorica1404b). In ogni caso il «linguaggio comune» non dovrebbe essere caratterizzato da metafore, forme prolisse e qualsiasi cosa che vada contro l’uso corrente, perché il risultato sarebbe «un enigma o un brano di barbarismo; un enigma se fatto di metafore, un barbarismo se fatto di parole straniere» (Poetica, 22).

Quintiliano, anche meglio di Aristotele, previde la possibilità che la retorica stimolasse la creazione di un autonomo universo di forme linguistiche:

Ma per lo più avviene che questa cura per le prole arrivi persino a peggiorare lo stile. Prima di tutto perché le parole migliori sono quelle meno ricercate, che assomigliano a quelle semplici e che si originano dalla verità stessa. Infatti quelle che rivelano cura e vogliono anche apparire foggiate e composte

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ad arte, non riescono a conseguire la grazia e perdono la credibilità, inoltre mettono in ombra e soffocano, per così dire, le messi con la loro erba rigogliosa. In effetti per l’amore per le parole quello che può essere espresso in modo diretto, ripetiamo quello che è già stato detto a sufficienza e sovraccarichiamo con più parole quello che è chiaro con una sola parola, e per lo più riteniamo che l’allusione sia migliore dell’espressione esplicita.

(Quintiliano, Istitutio Oratoria, 23-24)

Tale punto fu toccato quando l’arte passò dal linguaggio del commercio a quello della sola arte. Quintiliano ci invitava a «tenere a mente che non si dovrebbe far niente per il solo gusto delle parole, poiché esse sono state inventate per dare espressione alle cose» (viii, 32). Arrivò poi il momento in cui le parole esprimevano altre.

Tra i «moderni» peccatori nei confronti del linguaggio, i manieristi confessavano abusi tautologici. La logologia, che manteneva la chiarezza metafisica della conoscenza, lontana da carenze linguistiche, degenerava così nella logomachia, definita dai dizionari come una disputa sulle parole, una guerra di parole, che aveva poco, o nessun contatto con la realtà. Per Kenneth Burke, la logomachia gioca con l’unità e la separazione poiché si affida a «sotterfugi stilistici al fine di presentare le vere suddivisioni in termini che negano il concetto stesso di divisione». Per condividere un’esperienza così «peccaminosa» dell’arte, i lettori devono trovare una posizione critica, in cui la logomachia riveli sia la distorsione che la correzione. Al limite del manierismo l’anamorfosi e la tautologia producevano un metalinguaggio grottesco che avrebbe ricordato a Burke il suo «discorso dei discorsi» sopra i «singoli discorsi».

(29)

E al di sopra di esso

Un discorso del discorso dei discorsi

(La preghiera del dialettico)

In quel frangente, l’incongruenza andava a toccare il grottesco, che Burke definiva una «percezione di discordanze» in base alle quali o sotto l’effetto delle quali, Joyce prima faceva esplodere gli atomi verbali di significato, e poi ne utilizzava i resti per creare gargolle linguistiche27.

VI

Vorrei pensare che la musa del grottesco sia nata nel giorno di Martedì Grasso, dopo Babele e da qualche parte nei pressi dell’isola di Creta28

. Nell’isola ha preso il suffisso linda che in greco rimanda ai giochi di bambini. Per essere coerente con i giocosi inganni del suo criptico aspetto, è rimasta, beffarda, a vista dei suoi coorti parnassiani.

Pur non scartando la possibile diversa opinione, Muselinda si troverebbe d’accordo con Jorge Louis Borges, nel sostenere che nel labirinto29 avrebbe senso parlare «un dialetto lituano samoiedo del Guaranì, con inflessioni di arabo classico» (La biblioteca di Babele). Tra i testi scritti Muselinda eleggerebbe Il mostruosissimo mostro (1588) di Giovanni di Rinaldi, in cui si metteva sullo stesso piano il libro e la deforme creatura di un mostro ancora più mostruoso (questo mio abortivo parto, se ben

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mostruoso). Su consiglio della musa, sarebbe conveniente trovare sollievo e piacere in letture del genere. Inoltre, essa concorderebbe fermamente con il critico moderno che «l’effetto della ricerca etimologica non è quello di conferire solide basi alla parola, ma di renderla instabile, ambigua, vacillante». Tali regressioni rendevano bene l’idea della Fonte ex-centrica. Di fatto «tutta l’etimologia è falsa etimologia30

». Mentre la musa poteva aprire gli occhi solo andando oltre il dejà vu, la sua voce confusionaria proferisce in modo scombussolato il déjà dit.

Come figura grottesca, Muselinda è una divinità fuori posto, che si sentirebbe proprio a casa sull’artificiale Monte Parnasso della Villa Demidoff di Pratolino, come anche nei corridoi di Fontainbleau31. Là offrirebbe «vacanze pragmatiche» per liberare dall’incanto la scienza della metaforologia32. Nelle sembianze di un volto arcimboldesco che si compiace del proprio rabelaisiano trionfo di verbosità33, l’orribile divinità non riuscirebbe a essere completamente se stessa, ma come un id femminile che delinea fioriture retoriche nell’artificiale tabellone d’impenetrabili meraviglie.

(31)

Note

1. C. O. BRINK, Horace on Poetry, vol.2 Cambridge 1971, p. 81.

2. Vedi le menzioni di E. H. GOMBRICH in Norm and Form: Studies in the Art of the Renaissance, Londra 1971, pp. 84-85, in cui stabilisce l’opposizione tra il classico e il non classico. Mikhail Bakhtin invece ne stabilisce una tra il classico e il grottesco in Rabelais and his World, Cambridge, Mass. 1968, tr. di Helen Iswolsky, p. 30.

3. Vedi G. A. GILIO, Trattati d’arte del Cinquecento, Bari 1962, pp. 2:17 -19; Cardinal Paleotti in Trattati, 2:445; Vedi anche M. LEVEY, Early Renaissance, Harmondsworth, Middlesex 1967, p. 18; N. DACOS, La découverte de la Domus Aurea et la formation des grotesques à la Renaissance, Londra 1969, pp. 122-128; E. H. GOMBRICH, The Heritage of Apelles, Ithaca, New York 1976, p. 57.

4. G. HARPHAM, On the Grotesque: Strategies of Contradiction in Art and Literature, Princeton 1982, p. 27.

5. Su Cellini vedi G.C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, vol. 3, Firenze 1972, pp. 139-40. Su Pulci vedi A. BARTLETT GIAMATTI, Exile and Change in Renaissance Literature, New Haven 1984, pp. 44-48. Per la dialettica delle forme grandi originate da forme più piccole vedi J. BALTRUSAITIS, Le

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Mayen âge fantastique, Parigi 1968, p. 57. Vedi anche G. BACHELARD, The Poetics of Space, New York 1964, pp. 108-109.

6. S. STEWART, On Longing: Narratives of the Miniature, the Gigantic, the Souvenir, the Collection, Baltimora 1984, pp. 66-69, 96.

7. G. HARPHAM, On the Grotesque: Strategies of Contradiction in Art and Literature, Princeton 1982, pp. 13-14.

8. Vedi E. TADDEO, I grilli poetici di un pittore: Le rime di Gian Paolo Lomazzo, in Ideologia e scrittura nel Cinquecento, Urbino 1977, pp. 147-48. 9. La nota di Ezio Raimondi su Tasso in Poesia come retorica, Firenze 1980, p.

61.

10. A questo proposito Geoffrey Harpham nota che il grottesco «accoglie ciò che rimane quando le categorie del linguaggio sono state esaurite» in On the Grotesque: Strategies of Contradiction in Art and Literature, Princeton 1982, p. 3. Vedi anche R. BARILLI, Poetica e retorica, Milano 1969, pp. 126-36.; G. MAZZACURATI, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli 1967, p. 224.

11. M. FOCAULT, This is not a Pipe, Berkley 1982, p. 54.

12. J. B FRIEDMAN, The Monstrous Races in Medieval Art and Thought, Cambridge 1981, p. 35.

13. W. HAZLITT, Lectures on the Age of Elizabeth (1820) in Works vol. 6, Londra 1930 p. 192: NIETZSCHE, parte quarta della prefazione a La nascita della tragedia; vedi anche P. MERIVALE, Pan the Goat-God : his Myth in Modern Times, Cambridge, Mass, 1969. Nelle miniature di manoscritti veneziani tardo quattrocenteschi, I satiri suonavano musica o decoravano iniziali e motivi grotteschi. Vedi L. F. KAUFMANN, The Noble Savage: Satyrs and Satyr families in Renaissance Art, Ann Arbor 1984 pp. 45, 83-85. 14. In The Early Republic: Italian Humanists on Government and Society, ed. B.

G. Kohl - R. G. Witt, Philadelphia 1978, pp. 246-47, 281. Vedi anche P. ZUMTHOR, Langue. Texte. Enigme, Parigi 1975, pp. 55, 84, 38-41.

15. Vedi F. RIGOLOT, Les languages de Rabelais, Ginevra 1972, p. 34 ; E. PONS, Le jargons de Panurge dans Rabelais in «Revue de littérature comparée 2» (1931) : pp. 193-94. Jean Paris fa riferimento a «mots-monstres» in Rabelais au Futur, Parigi 1970, pp. 59-61.

16. R. WITTKOWER, Allegory and the Migration of Symbols, Londra 1977, capitoli 3-4.

17. M. PRAZ, Il giardino dei sensi, Vicenza 1975, pp. 25-32.

18. Proemio al secondo Trattato in Scritti scelti di Pietro Aretino e Anton Francesco Doni, ed. Giuseppe Guido Ferrero, Torino 1962, p. 427.

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Traduzione mia. Per un’edizione completa vedi La libraria, ed. Gilito Venezia 1550 e 1551. A. QUONDAM – G. FERRONI, La locuzione artificiosa: Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma 1973 pp. 427-30. Anche Amedeo. Quondam, La letteratura in tipografia in Letteratura italiana vol. 2 fa riferimento a «spazi d’artificio, paradosso e sotterfugio. C. KOELB, The incredulous Reader: Literature and the function of disbelief, Ithaca 1984 p. 55; F. RIGOLOT, Le texte de la Renaissance: Des Rhéthoriqueurs à Montaigne, Droz 1982 p. 54. J.C. MARGULIN, Mathias Ringmann’s Gramatica Figurata, or, Grammar as a Card Game, «Yale French Studies» 47 (1972), pp. 33-46.

19. Vedi M. LEIRIS, Mimologiques, Parigi 1967, pp. 90-91; 108-109; M PRAZ, Il giardino dei sensi, p. 30; R. HARDISON, Eccentric Spaces, New York 1977, pp. 74-79; M. CALLE – GRUBER, Anamorphoses Textuelles: Les écarts de la lettre dans le glossaire de Michel Leiris, «Poétique» 42 (1980), pp. 234-35 ; I. A. RICHARDS, How to Read a Page, New York 1942, p. 66. 20. S. BECKETT, Watt, New York 1970, pp. 165-168.

21. Vedi S. STUART, Nonsense: Aspects of Intertextuality in Folklore and Literature, Baltimora 1979, p. 62. I capitoli di Wendy Steiner Nonsense and the Plain Style and The Nonsense Contradiction nel suo The Colors of Rhetoric, Chicago 1982; S. BECKETT, The Art of Rethoric, ed. E. Morot – H. Harper – D. Mc Millan, Chapel Hill 1976, pp. 189-200; W. J. SAMARIN, Tongues of Men and Angels, New York 1972.

22. Vedi QUONDAM- FERRONI, La locuzione artificiosa, p. 17.

23. A. SCAGLIONE, Cinquecento Mannerism and the Uses of Petrarch, «Medieval and Renaissance Studies» 5 (1969), p. 134.

24. Testo e commenti in C. OSSOLA, L’autunno del Rinascimento, Firenze 1971, pp. 200-203.

25. Come sperimentale forma d’opposizione al previsto, la fattura artistica aveva successo. Nelle arti, lo stile di Michelangelo e Raffaello ispiravano idealizzazione. Tuttavia esistevano le parodie del David scultoreo da parte di Baccio Bandinelli (Ercole) e di Ammannato Ammannati (Nettuno). Rasentando l’assurdo, l’artificialità della Grotta del Buontalenti nel Giardino di Boboli acquista il suo carattere innaturale al momento in cui gli Schiavi di Michelangelo erano collocati vicino. Mentre le facetie di Leonardo (un genere che attirava gli studiosi come Bracciolini e il Poliziano) scimmiottavano la serietà degli umanisti, Tiziano fece lo stesso con il Laocoonte in una xilografia che mirava a sbeffeggiare anche gli imitatori del suo stile. Vedi P. BAROSWSKY, Infinite Jest: Wit and Humor in Italian Renaissance Art, Columbia, Mo. 1978. In particolare il capitolo Mannerist Bizzarrie pp. 101-03. M. KEMP, Leonardo da Vinci: The Marvelous World of Man and Nature, Cambridge, Mass 1981 p. 156.

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26. Vedi C. G. DUBOIS, Le Maniérisme, Parigi 1979 p. 108. Riguardo all’irregolarità di una tale creazione linguistica, Gustave René Hocke stabilisce una distinzione fondamentale tra il diciassettesimo e il ventesimo secolo. Nell’epoca precedente la licenzia operava ancora all’interno di un sistema estetico, che si disintegrò in uno zero assoluto (Nullpunkt) con l’avvento dei dadaisti e dei loro imitatori, in Manierismus in der Literatur, Amburgo 1959, p. 40.

27. A Rhetoric of Motives, New York 1950, p. 45; Permanence and Change, Los Altos, Calif. 1964, pp. 112-114.

28. Etienne Wilson scrive che «Il linguaggio è di fatto una torre di Babele, la confusione della lingua e la lingua stessa: il lavoro del lessicografo è uno tentativo di uscire da questa confusione invece di aumentarla». In Linguistique et Philosophie, Parigi 1969, pp. 298-299.

29. Vedi P. SANTARCANGELI, Il libro dei labirinti, Firenze 1967, p. 64. 30. J. HILLS MILLER, Ariadne’s Thread: Repetition and the Narrative Line,

«Critical Inquiry» 3/1 (1976): 70

31 Nel linguaggio prezioso, la dea non si pettinerebbe i capelli ma se li «delabirintirizzerebbe». Il mosaico anatomico trasuda respiri profumati come calamite che attraggono le parole in un linguaggio al limite dei campi magnetici surrealisti. Nel territorio del Manierismo invece il magnete grottesco attrarrebbe gli smembrati mondi del linguaggio e della mimesi. Vedi C. G. DUBOIS, Le maniérisme, Parigi 1979, p. 63; G. R. HOCKE, Die Welt als Labyrinth, Amburgo 1975, p. 103; M. PRAZ, Il giardino dei sensi, p. 50. Jean Adhemar trae la seguente conclusione riguardo alla poesia di Ronsard: «Le poesie di Ronsard sono penetrare dallo spirito del Primaticcio. Per lui le donne non sono creature viventi, fatte di carne, ma statue e dipinti simili a quelli dai quali è circondato». In Ronsard et l’école de Fontainebleau, «Gazette des Beaux-Arts» 34, (1958) p. 23. In un commento a una poesia simile di Guy de Tours, Gisele Mathieu-Castellani scrive: «Come in Arcimboldo, in cui i frutti e fiori vanno a comporre un volto ‘naturalista’, l’oggetto è composto di altri oggetti». In D’un sein Maniériste, «Revue de litterature comparée» 56 (1982), p. 371-72. Su Villa Demidoff come il locus manierista vedi C. CONFORTI, Pratolino: il giardino come mito della conoscenza e alfabeto figurato dell’immaginario, in La città effimera e l’universo artificiale del giardino, ed. Marcello Fagiolo, Roma 1980., pp. 183-92.

32 U. ECO, Semiotics and the Philosophy of Language, Bloomington 1984, p. 88, 217.

33 Vedi S. KINSER, Rabelais’s Carnival: Text, Context, Metatext, Berkeley e Los Angeles, 1990, x.

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