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Gli infortuni sul lavoro ed i relativi costi

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Academic year: 2021

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CAPITOLO TERZO

Gli infortuni sul lavoro ed i

relativi costi

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3.1 La situazione degli infortuni in Italia

Come si può constatare nella tabella riportata di seguito, nel 2013 gli infortuni sul lavoro sono sostanzialmente diminuiti rispetto all’anno precedente.

Nonostante il trend positivo complessivo induca all’ottimismo, una più attenta analisi andrebbe comunque fornita depurando i dati dalla riduzione della percentuale di occupati e imprese dovuta alla crisi economica e alla contrazione occupazionale registrata negli ultimi anni.

Gli ultimi dati INAIL, diffusi con la presentazione della Relazione Annuale 2013 alla Camera dei Deputati, hanno segnalato un quadro in miglioramento per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, sebbene per le malattie professionali i valori risultino invece in controtendenza.

Sono incrementate le prestazioni sanitarie erogate dall’INAIL relative a cura, recupero e reinserimento professionale. È stato dato dapprima l’accento sulla prevenzione, con interventi a favore delle imprese virtuose in termini di riduzione dei premi assicurativi e di finanziamenti erogati, e successivamente su una maggiore trasparenza, con la pubblicazione di veri e propri “open data1”, per singolo caso, sugli infortuni sul lavoro.

Tale progetto permetterà di consultare pubblicamente dati elementari su infortuni e malattie professionali e sulla loro stessa valutazione economica.

Verranno pubblicati dati sugli infortuni degli ultimi 5 anni periodicamente nei mesi di luglio e novembre e con aggiornamenti mensili di confronto dei dati rispetto all’anno precedente. Tale cadenza mensile e semestrale di pubblicazione serve in concreto a tutelare la data quality.

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Fonte: INAIL

Il valore registrato nel 2013 conferma la tendenza decrescente degli infortuni sul lavoro, esattamente in linea con la serie storica considerata.

Le denunce per infortunio sul lavoro sono calate del 7% rispetto al 2012 con una contrazione di circa 50mila denunce, che arriva a -21% se confrontato con il dato del 2009. È questo il mondo del lavoro che emerge dalla “Relazione INAIL 2013”, presentata alla Camera dei deputati. L’Istituto ha attuato un piano di ridefinizione delle proprie strategie in campo assicurativo e prevenzionale sulla base dei vincoli imposti dalla legge di stabilità o dalla stessa UE in materia di salute e sicurezza sul lavoro e del processo di riorganizzazione interna dove la ricerca è diventata fulcro nevralgico.

I primi risultati sul fronte infortunistico in tale direzione risultano incoraggianti. Se nell’arco di quattro anni le denunce all’INAIL sono diminuite di oltre un quinto, anche le morti accertate nel 2013 hanno registrato una riduzione importante segnando il minimo storico dal 1954, anno in cui è cominciata la rilevazione dei dati infortunistici. Sempre nel 2013 gli incidenti mortali sono diminuiti del 13%, passando da 1331 nel 2012 a 1175, molti dei quali avvenuti “in itinere”, fuori dall’azienda (314 casi), ovvero durante un tragitto per lavoro o

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nello svolgimento di un’attività che richiedeva un mezzo di trasporto o ancora lungo il percorso casa-lavoro o lavoro-luogo di ristoro.

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Fonte: INAIL

Dando un’occhiata al genere (sesso maschile e femminile), ci si rende facilmente conto come siano in prevalenza i maschi i soggetti colpiti (594), di età compresa tra i 40 e i 54 anni, con un picco nella fascia di età 45-49 anni con 98 casi.

La diversità che ancora oggi caratterizza il lavoro di uomini e donne rende quindi interessante lo studio del fenomeno infortunistico sulla base della discriminante del sesso del lavoratore. Dall’analisi dei valori contenuti nella tabella sopra è immediato riscontrare le assai rilevanti disuguaglianze di rischio infortuni sul lavoro tra lavoratori e lavoratrici, a tutto vantaggio di queste ultime.

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Concentriamoci adesso sui settori produttivi: è di facile intuizione come quelli maggiormente colpiti siano in ordine l’industria, il terziario, l’artigianato e l’agricoltura. All’interno del settore manifatturiero il fenomeno assume particolare rilevanza e urgenza nelle industrie metallurgiche e del legno.

La chimica è, insieme al petrolifero, il settore industriale più sicuro in cui lavorare in base ai dati Inail: la frequenza degli infortuni è pari a 10,6 per milione di ora lavorata e l’incidenza delle malattie professionali sulle ore lavorate è pari a 0,22. Sempre dalla stessa tavola illustrativa si può osservare come il Valore Mediano (valore assunto dalle unità statistiche che si trovano nel mezzo della distribuzione) dell’Indice di Frequenza Infortuni per i settori industriali registra un valore ben più elevato (19,1 per gli infortuni sul lavoro e 0,89 per le malattie professionali).

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Fonte: FEDERCHIMICA – Responsible Care

Questi risultati derivano, da un lato, da normative rigorose, dall’altro, dall’impegno delle aziende chimiche nel perseguire il progresso tecnologico e il miglioramento dei processi, unitamente a ingenti investimenti in formazione e organizzazione del personale.

È opinione diffusa ritenere che, sebbene quelli raggiunti siano dei risultati eccellenti in termini di sicurezza e prevenzione, essi non debbano in alcun modo creare immobilismo e rappresentare un “punto di arrivo”; anzi, essi devono essere un ulteriore incoraggiamento alla diffusione della cultura della sicurezza, essenzialmente in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, che evidenziano appunto dinamiche preoccupanti come la tendenza di molte persone ad accettare qualunque tipo di lavoro, anche se in nero ed esposto a rischi.

Vigilanza e prevenzione rappresentano i concetti chiave su cui indirizzare gli sforzi per garantire una migliore qualità del lavoro in termini di sicurezza.

Per attivare una efficace e adeguata azione di vigilanza è necessaria tuttavia una maggiore trasparenza, intesa come conoscenza dei fenomeni. In questo senso, il nuovo progetto degli open data lanciato dall’INAIL nel 2012 ha occupato una parte apprezzabile nella relazione annuale 2013.

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Infine, un’ultima menzione vorrei porla sulle modalità di trasporto dei prodotti chimici. Per garantire la massima sicurezza possibile nell’attività di logistica e di trasporto, l’industria chimica concentra i suoi sforzi anche nell’identificazione delle modalità più appropriate in termini di sostenibilità. Ciò avviene attraverso la selezione di opportune prassi di imballaggio e la razionalizzazione della rete distributiva.

In Italia la movimentazione più diffusa è il trasporto stradale che occupa circa il 56% del totale delle merci trasportate.

Il settore della chimica gestisce in maniera più equilibrata le diverse tipologie e utilizza in misura minore il trasporto stradale (54,1%). In questa ottica si hanno ripercussioni in termini di minor rischio in quanto la strada, per numero di incidenti, risulta essere la tipologia più pericolosa oltre che maggiormente inquinante.

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Non avendo avuto la possibilità di reperire dati più aggiornati, le statistiche di analisi degli infortuni mortali, dovuti ad agenti chimici presenti sul luogo di lavoro o derivanti da attività lavorative, che verranno in seguito prospettati, si riferiscono all’arco temporale 2002-2012.

È opportuno fare tuttavia una precisazione di partenza: in particolare i casi oggetti di studio (106 eventi infortunistici che hanno comportato 132 decessi) mostrano contesti di esposizione sia ad agenti chimici con proprietà chimico-fisiche che hanno comportato rischi per la sicurezza, sia ad agenti con proprietà tossicologiche che hanno comportato rischi per la salute con effetti acuti.

Ci sono parecchie differenze nella distribuzione per settore degli infortuni mortali verificatisi per esposizione a rischio chimico e la distribuzione del totale dei decessi.

Da una prima analisi i più alti valori percentuali di infortuni si hanno nei settori della metalmeccanica (produzione e lavorazione prodotti in metallo, fabbricazione di macchine, apparecchi meccanici, macchine elettriche , mezzi di trasporto) e della chimica (fabbricazione di prodotti chimici e fibre sintetiche, articoli in gomma e materie plastiche). Degno di nota, anche se in misura minore rispetto al dato complessivo, il peso del settore dell’edilizia che si afferma al

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secondo posto (17,9%). Tutti e 3 i settori citati concentrano insieme oltre il 50% degli infortuni sul lavoro per esposizione a rischio chimico.

Oltre il 60% degli infortuni si è verificato nel luogo di produzione, nelle aree destinate alle operazioni di manutenzione e in luoghi dedicati al magazzinaggio mentre il 29% degli infortuni mortali è avvenuto in ambienti confinati2.

Per quanto concerne la dimensione aziendale (Figura 2) si può vedere come il 66% degli infortuni siano avvenuti in medio-piccole aziende (fino a 15 addetti) contro soltanto il 2% delle imprese con oltre 250 addetti. Evidentemente maggiori dimensioni corrispondono a maggiori risorse investite nella prevenzione e sicurezza.

Parlando invece di lesioni negli incidenti le più frequenti sono le ustioni (49,3%), in prevalenza ustioni termiche e chimiche, e l’asfissia che caratterizza il 32% degli infortuni. Le altre sono perlomeno riconducibili a fratture o schiacciamenti, in conseguenza di una o più esplosioni senza sviluppo di fiamme.

Un dato peculiare degli infortuni mortali per esposizione a rischio chimico è la presenza di infortuni collettivi. Infatti, circa 1/3 degli eventi (29,2%) ha visto il coinvolgimento con lesioni di più lavoratori (43% degli infortunati deceduti, figura 3).

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Infine, dando un’occhiata ai tipi di agenti chimici pericolosi da cui derivano appunto le principali dinamiche infortunistiche da rischio chimico, ci si accorge come 2/3 dei casi hanno ad oggetto agenti chimici che fanno parte del campo di applicazione delle norme sulla classificazione, etichettatura e imballaggio; il restante 33% è relativo ad agenti chimici non rientranti nell’ambito delle suddette norme (ad esempio polveri di farina, di legno, di materie plastiche o acqua di pozzo contenente metano).

Vediamo adesso quali sono le principali modalità di incidente da rischio chimico: il 44,7% degli infortuni mortali ha origine da incendi o esplosioni con sviluppo di fiamme, a cui si aggiungono il 14,4% di infortuni verificatisi per proiezione di solidi a causa di esplosioni senza sviluppo di fiamme, indicati in seguito come “Incendi e esplosioni”. Nel restante 40,9% dei casi esaminati si registrano infortuni dovuti a esposizioni inalatorie o cutanee ad agenti chimici presenti nell’ambiente di lavoro (24,2%) o che vengono fuori dai sistemi di contenimento (12,2%) o con i quali il contatto avviene a seguito di cadute (4,5%), complessivamente indicati per brevità “Contatto con agenti chimici”.

La media dei fattori di rischio da agenti chimici intervenuti negli infortuni è pari a 2,3 mentre il dato nazionale sul totale degli infortuni risulta essere pari a 1,9. Ciò significa che i decessi derivanti da agenti chimici sono, nella maggior parte dei casi, attribuibili alla contemporanea presenza di più fattori di rischio.

Tra i fattori che, invece, combinandosi con errate procedure di lavoro o tra essi stessi, danno luogo a infortuni mortali per incendio ed esplosione sui luoghi di lavoro (con e senza sviluppo di fiamme) rientrano: attrezzature di lavoro non adeguate, dispositivi di protezione individuali (DPI) assenti o non utilizzati,

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ambienti privi dei necessari requisiti di sicurezza, caratteristiche di pericolosità degli agenti chimici per loro natura, trasformazione o stoccaggio.

Al cospetto, l’indagine sugli infortuni mortali dovuti a esposizioni inalatorie o cutanee ad agenti chimici ci presenta gli stessi molteplici fattori di rischio, disposti stavolta in maniera diversa, con, al primo posto, errate procedure sul lavoro (per carenza di informazione, formazione, addestramento e vigilanza) e poi mano a mano scendendo fino a trovare la mancanza di DPI e le caratteristiche di pericolosità degli stessi materiali, gli ambienti privi dei necessari requisiti di sicurezza e attrezzature inadeguate.

Per gli eventi avvenuti per contatto con agenti chimici il 52% dei decessi sono avvenuti in infortuni collettivi e il 72% in ambienti confinati.

3.3 Costi relativi alla sicurezza

Nonostante le puntuali norme che regolano la materia della sicurezza, il fenomeno infortunistico presenta tutt’oggi valori, anche se in diminuzione, significativi. A fronte del verificarsi dell’infortunio o della malattia professionale, per l’azienda si presentano diverse prospettive di costo.

La sensibilità ai problemi della sicurezza investe, quindi, anche il tema dei costi, consentendo di introdurre la distinzione tra i costi della sicurezza e quelli della “non sicurezza”.

Per quanto concerne i primi sono rappresentati da quelli che il datore di lavoro deve affrontare per rendere il lavoro meno rischioso nella sua organizzazione; ad esempio si possono ricordare:

costi di conformità, cioè tutti i costi relativi all’aggiornamento di impianti, macchine e attrezzature in base alle più recenti acquisizioni della tecnica;

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costi per l’informazione, la formazione, l’addestramento e l’aggiornamento del personale.

I costi per la “non sicurezza” riguardano, invece, l’impatto negativo prodotto dagli eventi infortunistici sulla gestione dell’azienda.

Importante è la consapevolezza da parte dell’azienda degli aggravi di costi che l’infortunio determina, pervenendo così alla scelta di attuare un’adeguata prevenzione che si presenta come la soluzione per cercare di contenere gli stessi costi.

Per meglio comprendere l’onerosità di un infortunio in termini economico aziendali, si possono valutare i relativi costi suddivisibili in:

- costi diretti: si traducono in un aumento delle spese connesse alla voce “assicurazione infortuni”, a causa dell’aggravamento del premio da parte dell’INAIL il quale richiede all’azienda, a fronte dei risarcimenti dei danni dovuti agli infortuni, un premio talvolta molto superiore a quello di tariffa; - costi indiretti: rientrano in questa categoria tutti quei costi non specifici

che si concretano in condizioni di minore rendimento, talvolta con riflessi che investono l’intera combinazione produttiva o, ancora, in aumenti di costi non direttamente accertati.

Tali costi possono riguardare:

- i costi derivanti dal tempo perduto dall’infortunato. Fanno parte di tale categoria gli oneri salariali, maggiorati dei contributi assicurativi e previdenziali, conteggiati dal momento dell’infortunio alla fine dell’orario giornaliero, nonché per i tre giorni di calendario successivi a quello dell’infortunio (la cosiddetta “carenza”), sempre restando compresi tutti gli elementi accessori continuativi della retribuzione. Poiché l’INAIL corrisponde un’indennità giornaliera pari al 60% della normale retribuzione nel caso in cui la durata dell’inabilità temporanea (compresi i tre giorni di “carenza”) non superi i 90 giorni e il 75% a decorrere dal novantunesimo giorno, fino alla guarigione (la ripresa del lavoro dell’infortunato potrà avvenire solamente dopo l’esito positivo della visita che dovrà essere effettuata dal medico competente), l’azienda, come

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generalmente dispongono i vari Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, deve integrare la retribuzione nei suddetti periodi, in modo da garantire al lavoratore il 100% della retribuzione stessa. Nei periodi considerati, quindi, l’azienda dovrà corrispondere al lavoratore, oltre agli oneri diretti e a quelli indiretti del salario (ferie, le festività, le mensilità aggiuntive, il trattamento di fine rapporto ecc.) le suddette integrazioni; su tali emolumenti dovrà pagare i contributi assicurativi e previdenziali;

- i costi per la prestazione delle prime cure: rientrano tra questi tutti gli oneri sostenuti per i primi soccorsi all’infortunato, compresi quelli extracontrattuali o assistenziali integrativi concessi dall’azienda all’infortunato e alla sua famiglia;

- i costi collegati agli effetti dell’evento infortunistico costituiti dai seguenti elementi:

il minor rendimento del lavoratore infortunato alla ripresa del lavoro: esso può dipendere o dallo stato di choc provocato dall’infortunio o dalla lentezza dei movimenti legata alla non ancora completa ripresa della mobilità degli arti, se questi sono stati interessati, o da quant’altro possa ritardare, il fatto di riuscire a raggiungere di nuovo i livelli di rendimento mostrati prima dell’infortunio;

gli oneri sostenuti dall’azienda per la sostituzione del lavoratore infortunato con altra persona, la quale, di certo, presenterà dei minori rendimenti per essere passata ad un lavoro “nuovo”, con un cambio di mansioni o, addirittura di categoria;

gli oneri sopportati dall’azienda per far fronte agli eventuali danni che si sono avuti come conseguenza dello stesso infortunio, come quelli legati alla coattiva sospensione dell’attività lavorativa da parte dell’Autorità Giudiziaria, al riordino del posto di lavoro, oppure al tempo perduto dai compagni di lavoro dell’infortunato, sia per prestare i primi soccorsi a quest’ultimo, e sia per fornire chiarimenti

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maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, qualora si renda necessario recuperare la produzione non realizzata a causa della sospensione del lavoro dovuta al verificarsi dell’ infortunio, nonché dai danni provocati ai macchinari (nel caso di dover sostituire una macchina ormai inservibile si può parlare anche di “costi transazionali”, cioè legati all’individuazione, alla scelta, al collaudo della nuova macchina), ai materiali in lavorazione, ai semilavorati, ai prodotti finiti, dalle penalità da pagare per ritardate consegne (con negativi effetti nei rapporti con i clienti, con i fornitori) o dagli onorari legali per il procedimento giudiziario che risulta, in casi di infortuni di una certa gravità, molto probabile o, ancora, dalle sanzioni a carico dell’azienda.

Per quanto non sempre di facile determinazione, il complesso dei costi citati può essere determinato con sufficiente approssimazione; ben maggiori, invece, sono i problemi connessi con quei costi cosiddetti “immateriali” che pure traggono origine dall’evento dannoso e che possono avere una notevole incidenza.

Si pensi, ad esempio, al caso di un incendio quando, oltre alla perdita di vite umane, con tutte le correlate conseguenze di natura economica e giuridica sopra analizzate, si ipotizzi la distruzione dell’intera fabbrica o di alcuni suoi reparti: in tale ipotesi l’azienda si trova esposta a perdite di produzione e di clientela, che l’attuale dinamismo della domanda di mercato può aggravare, con ripercussioni molto negative sulla competitività e sull’immagine aziendale. Questa eventualità negativa, che investe il periodo che intercorre tra il verificarsi dell’evento e la ripresa della produzione, potrà manifestarsi in modalità tanto maggiori quanto più l’azienda realizza un prodotto d’eccellenza.

Pur a fronte di una scrupolosa osservanza delle normative sul tema in argomento, di fatto esiste una soglia di ineluttabilità riguardo alla possibilità del verificarsi di infortuni più o meno gravi; si tratta di situazioni che risulta umanamente e tecnicamente impossibile prevedere a priori e, quindi, provvedere ad un loro fronteggiamento.

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Quando l’evento rischioso si concretizza, in particolare in caso di infortunio grave o gravissimo che interessi uno o più lavoratori (infortunio “Catastrofale”), il datore di lavoro, chiamato in giudizio, può essere condannato, oltre ad eventuali limitazioni della propria libertà personale, al pagamento di specifiche e ingenti somme in denaro da versare in ordine alla violazione delle norme sulla sicurezza, con tutti gli aggravanti del caso, quando vi sia un nesso eziologico tra l’infortunio e la mancanza o la carenza di una corretta applicazione delle norme vigenti. Lo stesso datore di lavoro può far fronte a tale situazione stipulando con compagnie di assicurazioni che gestiscono queste ipotesi di rischio, una polizza assicurativa in grado di “coprire” i talora ingenti esborsi finanziari, in tutto o in parte, in base al premio che il datore di lavoro intende versare. Si parla, in questo caso, di una polizza particolare denominata RCO (Responsabilità Civile Operai), per singolo operaio o “catastrofale” quando interessi più operai, in base alla quale, ove il datore di lavoro venga condannato, la compagnia assicuratrice erogherà una somma corrispondente ai citati premi versati.

In definitiva, il problema dell’igiene del lavoro, della sicurezza degli impianti, delle macchine e delle attrezzature, può essere per l’azienda foriero di maggiori implicazioni negative al di là dello stesso costo dell’infortunio, sia esso singolo o plurimo, o delle malattie professionali; infatti, ogni volta che gli ambienti di lavoro, impianti e macchinari non rispondono ai requisiti di legge previsti si può affermare di essere in presenza di una forma di “obsolescenza giuridica”, non legata cioè né a fattori tecnici né economici, che può investire tutta la combinazione produttiva.

A fronte di tutti i costi indicati è evidente che, rispettando ciecamente tutte le norme che, in generale, si attagliano all’attività principale dell’azienda di cui trattasi, sarà possibile ottenere una sensibile riduzione degli stessi, non potendo, comunque, escludere una combinazione di fattoti occasionali o eccezionali che possono generare un evento infortunistico vanificando le misure di prevenzione adottate.

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finanziari tali da poter alterare, anche in questo caso, in negativo la situazione economico-finanziaria delle stessa azienda.

In casi di gravissimi inadempimenti in materia di sicurezza sul lavoro l’Autorità Giudiziaria può disporre la chiusura dell’attività svolta, per tutto il tempo necessario per far fronte al rispetto delle norme di legge infrante, sulla base di precisi controlli da parte degli organi competenti.

Ma come si possono valutare più correttamente i costi (costi della sicurezza) che il datore di lavoro sostiene per adempiere agli obblighi che la legge prevede in tema di sicurezza?

In effetti, occorre considerare che la circostanza di rispettare scrupolosamente le norme sulla sicurezza e sull’igiene sul lavoro rappresenta un presupposto fondamentale per l’inizio e lo svolgimento della propria attività lavorativa.

Di certo, il datore di lavoro potrà essere chiamato, comunque, a realizzare specifici investimenti nella misura in cui, ad esempio, l’evoluzione delle tecnologie mette a disposizione nuove soluzioni tecniche in grado di migliorare le condizioni di sicurezza, generando così nuovi costi per l’azienda.

II problema è che, nella realtà, ci sono ancora diversi imprenditori, soprattutto nelle aziende di contenute dimensioni, che non ottemperano in modo sistematico alle norme sulla sicurezza, generando, nei confronti di chi invece queste norme le rispetta, condizioni di sleale concorrenza, con tutte le relative conseguenze. Se è vero che tali casi di inadempienze sono, in sede di controllo, diffidati e contravvenuti da parte degli organi di vigilanza, in particolare per la presenza territoriale dei funzionari ispettivi delle ASL, legittimati a tale specifica funzione, è oggettivamente impossibile che tali organismi possano analiticamente verificare tutta la miriade di aziende, in modo particolare di limitate dimensioni, che, in tal modo, possono sfuggire allo stesso controllo.

A queste considerazioni se ne può aggiungere un’altra legata ad un fenomeno di recente, assai sviluppato, cioè la scelta aziendale di delocalizzare le proprie attività all’estero (per svariati motivi comprese le differenze in termini di costi, come quello del lavoro) sfuggendo ancora ad ogni controllo in tema di sicurezza.

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Si può, allora, affermare che l’impianto sanzionatorio, riguarda tutti coloro, datore di lavoro in particolare, che non “facendo sicurezza”, nel senso più volte richiamato del termine, vengono colpiti dallo stesso. Di contro, con riferimento ai costi della sicurezza, va sottolineato che la stessa sicurezza è connaturata all’esistenza stessa di impianti, macchine, attrezzature già in sede di approntamento dell’attività lavorativa, alla progettazione degli stessi ambienti di lavoro, con l’obiettivo di creare una “fabbrica in sicurezza”.

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