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IL COLORE DELLO STRANIERO

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Academic year: 2022

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IL COLORE DELLO STRANIERO

DI CHE RAZZA SI SENTIVANO GLI ANTICHI?

Partiamo da una scena molto nota, e molto amata dei ragazzi di oggi: proviene da una delle più fortunate opere di trasposizione mediatica pop del mondo classico: il film “Trecento”. L’episodio è un riadattamento del racconto erodoteo, secondo il quale1 (al tempo di Dario, e non a quello di Serse come nel film) i messi persiani andati in giro a chiedere acqua e terra, a Sparta vennero uccisi, scaraventati nel baratro. Nel film (e prima di lui nella graphic novel di cui esso costituisce la pedissequa trasposizione cinematografica2) dopo un breve colloquio in cui si evidenzia la superiorità morale degli Spartani rispetto ai Persiani (e a tutti gli altri greci, a dir la verità), Leonida improvvisamente con un calcio spedisce nell’abisso l’ambasciatore gridando

“Questa è Sparta”.

1 Herod. VII.133.

2 Apparso fra il maggio e l’ottobre del 1998 in 5 albi separati, editi da Dark Horse Comics, “300” venne poi riunito in un unico volume nel 1999; anno stesso in cui ne è stata pubblicata anche la versione italiana. Testo e disegni sono di F.

Miller, che è stato anche il produttore esecutivo del film. La pellicola, girata con la speciale e suggestiva tecnica del chroma key , ha visto la luce nel 2007. Z. Snyder, il regista, ne ha curato (assieme a K. Johnstad e M. Gordonne) la sceneggiatura.

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In tutta questa scena, molto avvincente, quel che mi colpisce ogni volta che la rivedo è il fatto che il fumettista (Frank Miller), e poi il regista (Zack Snyder), col consenso della produzione (la Warner Bross), hanno scelto di immaginare nel ruolo del cattivo, o quantomeno dell’uomo che porta il pericolo, il simbolo del male che incombe sulla felice e libera Ellade, un messo persiano di pelle nera (e, aggiungo, dalla fisionomia fortemente afroamericana3).

Il più classico uomo nero. Il film è un film pieno di volute scorrettezze politiche. C’è un Serse, il cattivo per eccellenza, che sembra appenda uscito da un gay pride4.

Il traditore, Efialte, è un handicappato che nella sua meschinità rispecchia la deformità del suo aspetto. E il nero quindi non poteva mancare. Nel fumetto in realtà tutti i soldati persiani sono neri.

C’erano uomini di pelle nera alla corte dello Šāhe Šāhān, del “re dei re”? Ne potremmo parlare a lungo, tirando in ballo i reparti etiopi descritti da Erodoto5, o discettando sulla colorazione dei rilievi raffiguranti gli immortali sulle pareti dei palazzi di Susa e Persepoli.

3 L’attore che impersona il messo persiano è Peter Mensah, ganhese ashanti cresciuto in Gran Bretagna e poi emigrato in Canada.

4 L’inteprete di Serse è l’attore brasiliano Rodrigo Santoro.

5 Herod. VII.70.

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(Palazzo di Dario, Persepoli)

Ma non è questo il punto. Il punto è che sono neri perché l’associazione fra male, pericolo, ottusità da un lato e oscurità, negritudine dall’altro è radicata nel nostro immaginario: ed è normale, che consapevolmente o inconsapevolmente, ci si faccia ricorso. Il colore della pelle, in questo contesto, viene utilizzato per esaltare una polarità. Uomini liberi contro uomini servili, buoni contro cattivi, Bianchi contro Neri. Una polarità che in noi si è profondamente radicata, anche in chi riesce a dominarla e stemperarla. Le associazioni fra il concetto di “negro” e l’attributo “pericoloso, inferiore”, così come quello di “uomo bianco” e l’aggettivo

“libero, evoluto” si sono cristallizzate in forma di stereotipo profondo, facilmente evocabile proprio per via iconografica. Negli ultimi quattro - cinque secoli ci siamo abituati a colorare la pelle dell’umanità e a categorizzare le persone come bianche, nere, gialle, rosse (il verde per il momento l’abbiamo lasciato ai marziani). Sono colori che non riproducono fedelmente il cromatismo vario e sfumato della pelle umana (con tutta evidenza noi non siamo “Bianchi” e i neri, almeno di giorno, non sono “neri”), ma sono significanti, sono veicolatori di valore. È per questo che non resistiamo alla tentazione di etichettare le persone sotto il profilo “razziale”; e per questo più sono estranei e pericolosi, più ai nostri occhi diventano “neri”. Non che le differenze di colorito epidermico non esistano. È ovvio che esistano. Ma il fatto è che l’approccio moderno, razzistico, cioè basato sull’idea di razza, quello con cui dobbiamo confrontarci nel nostro immaginario, discende dall’aver sovrapposto indebitamente il piano anatomico, fisico, a quello culturale, per cui l’aspetto delle persone ne esprimerebbe automaticamente delle tendenze comportamentali, delle attitudini sociali, degli atteggiamenti psicologici. Per cui ai nostri occhi il colore della pelle è come un abito: parla di per sé, ci dice qualcosa di chi lo indossa.

Quanta attenzione facevano gli antichi al colore della pelle? E di che colori percepivano la pelle, propria e degli altri?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, occorre aprire per un momento una riflessione su un tema che a scuola può facilmente riscuotere l’attenzione dei ragazzi (e creare collegamenti con altre discipline, dalla fisica, alla storia dell’arte, alla psicologia, alla chimica): il tema del colore. I colori sono tantissimi. Lo sa chiunque abbia dovuto scegliere una vernice o il colore di una mattonella per arredare casa. La Optical Society of America classifica una quantità fra i 7,5 e i 10 milioni di colori6. Di tutti questi colori gli uomini a seconda dell’epoca e della cultura di appartenenza ne denominano, ne concettualizzano, in un certo senso ne vedono solo poche decine: spesso diverse fra loro – a seconda del contesto culturale. Perché in un certo senso l’uomo vede soltanto i colori che ha imparato a riconoscere attraverso la sua lingua. Fu una scoperta di Franz Boas, il fondatore dell’antropologia culturale in America Settentrionale, che da giovane dottorando di

6 M. R. Luo, A. A. Clarke, P. A. Rhodes, A. Schappo, S. A. R Scrivener, C. J. Tait, Quantifying colour appearance.

Part I. LUTCHI colour appearance data, Color Res. Appl.16, 1991, pp. 166-180. Stime più riduttive, ma sempre impressionanti, in K. Masaoka, R. S. Berns, M. D. Fairchild, F. Moghareh Abed, Number of discernible object colors is a conundrum, J. Opt. Soc. Am., 30, n. 2 (feb. 2013), pp.264-277.

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fisica interessato allo studio del colore dell’acqua si ritrovò a studiare sul campo le popolazioni inuit e la loro lingua7. Da allora, negli ultimi cento anni antropologi e linguisti hanno questionato interminabilmente sull’universalità o sulla relatività della percezione cromatica8. Non che l’argomento fosse nuovo: sul colore (inteso nel duplice senso sia di sostanza che colora, sia di attributo di una sostanza, come nel linguaggio quotidiano è tutt’ora considerato – anche se sappiamo tutti che si tratta della ricezione da parte della retina di un flusso di onde elettromagnetiche riflesse da un corpo), dicevo sul colore hanno speculato per millenni filosofi, artisti, alchimisti e scienziati (pagine di Platone, Aristotele, Teofrasto, Vitruvio, Plinio …).

Possiamo dire tranquillamente che fra percezione e linguaggio esiste una dialettica, un condizionamento reciproco. La capacità di identificare, di riconoscere i colori dipende dalla cultura. Nonostante la presenza di alcune costanti (come la centralità del bianco, del nero e del rosso) ogni sistema linguistico si focalizza attorno a colori diversi, e di volta in volta può privilegiare l’attenzione alla tinta, o alla saturazione o alla luminosità (i tre fattori che contraddistinguono i singoli colori). Così, ad esempio, ci siamo accorti, almeno dai tempi di Goethe9 (che aveva sottolineato come il lessico greco del colore esibisse una peculiare ‘mobilità’

e ‘oscillazione’, ad esempio in quello che traduciamo come giallo, ξανθός, usato per indicare la lucentezza della capigliatura ma anche la vampa del fuoco) e poi di Gladstone10 (che ne aveva evidenziato la “cecità cromatica” rispetto al verde e all’azzurro: il cielo omerico che non è mai blu), che la tassonomia cromatica greca arcaica risponde a criteri ed esigenze diverse dalla nostra – certamente con una maggiore sensibilità alla lucentezza e alla densità, alla saturazione, rispetto alla tinta. Un argomento su cui ha scritto interessante riflessioni di Umberto Eco, che più volte nella sua produzione scientifica11 è tornato sulle problematiche relative alla traduzione dei colori, sempre a partire da un passo di Aulo Gellio12 in cui Favorino e Frontone discorrono sulla ricchezza e l’appropriatezza del lessico cromatico letterario del greco e del latino, lessico che appunto presenta a noi (e sembrerebbe già agli antichi) qualche uso sconcertante13.

Accanto al nome, dicevamo, ogni cultura correda ciascun colore di una gamma di significati, di valori simbolici, di connotati emozionali e psicologici. Di conseguenza se ne ricava che i colori, la maniera di percepirli, il loro portato emotivo, in una parola la loro semiotica, hanno una storia (che spesso va di pari passo con la capacità di riprodurli nella pittura e nella tintura), storia di cui troviamo tracce nell’evoluzione del lessico14. Si pensi al vocabolario dei colori nostro (italiano15) e alla frattura che esso evidenzia con

7 Cfr. L. Müller-Wille (cur.), Franz Boas tra gli Inuit dell'isola di Baffin (1883-1884). Diari e lettere, Firenze 2014.

8 Il dibattito, in un prima fase egemonizzato dalla convinzione dell’assoluto relativismo linguistico in materia cromatica, teorizzato da Edwar Sapir (allievo di Boas), fu rinnovato dalla pubblicazione dello studio di Br. Berlin e P. Kay, Basic Color Terms: their Universality and Evolution, Berkeley 1969, i quali, studiando il vocabolario del colore su un campione di 78 idiomi, hanno cercato di dimostrare come i differenti sistemi linguistici, pur nella loro varietà, tenderebbero a manifestare tendenze comuni e regolari, privilegiando la codificazione in termini lessicali di alcuni specifici punti focali dello spazio cromatico, rivelando così l’esistenza di categorie percettive universali.

9 J. W. Goethe, Zur Farbenlehre, Tubingen 1810.

10 W. E. Gladstone, Studies on Homer and the Homeric Age, Oxford 1858.

11 Ad es. U. Eco, How Culture Conditions the Colours We See, in M. Blonski (cur.), On Signs, Baltimore 1985, pp.157- 175, oppure id. Lingue perfette e colori imperfetti, in Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003, pp.345-364.

12 Aul. Gel. II.26. Cfr. A. Garcea, Gellio, il bilinguismo greco-latino e i nomi dei colori, in R. Oniga (cur.), Il plurilinguismo nella tradizione letteraria latina, Roma 2003 pp. 173-198.

13 Sul lessico cromatico greco e latino: J. André, Etude sur les termes de couleur dans la langue latine, Paris 1949; E. Irwin, Colour Terms in Greek Poetry, Toronto 1974; S. Beta e M.M. Sassi (curr.), I colori nel mondo antico.

Esperienze linguistiche e quadri simbolici ("I quaderni del ramo d’oro" 5), Siena 2003; J. Lyons, Le vocabulaire de la couleur, avec application particulière aux termes de couleur fondamentaux en grec ancien et en latin classique

“Lalies”, 22, 2003 pp. 41-63; M. Bradley, Colour and Meaning in Ancient Rome, Cambridge 2009; R. B. Goldman, Color-Terms in Social and Cultural Context in Ancient Rome (Gorgias Studies in Classical and Late Antiquity, 3), Piscataway, NJ 2013.

14 Sulla “storia” dei colori cfr. M. Pastoreau Bleu. Histoire d'une couleur, Paris 2002 (tr. it. Blu. Storia di un colore, Milano 2008); Noir. Histoire d’une couleur, Paris 2008 (tr. it. Nero. Storia di un colore, Milano 2008); Vert. Histoire d'une couleur, Paris 2013 (tr. it. Verde. Storia di un colore, Milano 2013); Rouge. Histoire d'une couleur, Paris 2016 (tr.

it. Rosso. Storia di un colore, Milano 2016). Sulla simbologia: L. Luzzatto e R. Pompas, Il significato dei colori nelle

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l’antichità. Se si studia l’etimologia dei nostri colori si scoprirà che la gran parte non risale al latino: non il bianco, non il giallo, né il blu né l’azzurro, e neppure l’arancione o il marrone, per non parlare del beige, del fuxia e di modernità cromatiche simili, o di raffinatezze tipo turchese o lilla.

Tutta questa digressione sul colore serve a ricordare che i colori non sono neutri, ma a seconda del contesto culturale che li definisce assumono un significato sociale, un valore simbolico, una carica emotiva specifica.

Spesso il loro valore semantico è determinato da una relazione, generalmente binaria, con altri colori. Così il rosso per noi diventa il colore del pericolo se contrapposto al verde; del progressismo se contrapposto al nero, in politica; del caldo se contrapposto al blu; e nelle varianti annacquate, cioè rosa e celeste, del femminile rispetto al maschile. Questo è quanto è avvenuto nella nostra percezione dei colori della pelle, dove negli ultimi secoli si è strutturata una contrapposizione binaria fra bianco e nero, e fra bianco e rosso (anche se questa ci coinvolge di meno). La nostra idea di “negro”, così come quella di “pellerossa” si è struttura per contrapposizione con quella del bianco: è servita e serve a marcare una inferiorità e una superiorità intrinseca degli individui, a consentire un trattamento nei loro confronti che la morale non tollererebbe se si trattasse di uomini di pari grado. È in questa maniera che noi europei (europei, non mediterranei) siamo diventati bianchi; e il “negro”, “negro”. Un fenomeno relativamente recente16. La

“concettualizzazione” del negro è del resto legata a due momenti storici precisi: la riduzione in schiavitù delle popolazioni della costa guineiana e l’espansione colonialista in Africa. In qualche modo la percezione della colorazione della pelle riflette dunque la visione geopolitica dell’umanità tipica della modernità europea. Per rendersene definitivamente conto può bastare prendere in mano uno dei testi settecenteschi con le prime classificazioni scientifiche del mondo animale. Prendiamo il testo più famoso, scritto in quel latino scientifico settecentesco che a scuola non si studia mai, ma che potrebbe invece incuriosire alcuni studenti: il Systema Naturae di Linneo.

Linneo classificò le razze umane basandosi sul colorito della cute: nella sua decima edizione17 (quella che viene considerata di riferimento) la catalogazione è la seguente: Europeus albus; Afer niger; Asiaticus luridus; Americanus rufus. Al colore della pelle, quindi diciamo al fenotipo, corrispondono però anche qualità e tendenze psicologiche e sociali. Gli afri, i negri, ad esempio sono descritti come predisposti alla negligenza, alla lentezza e all’astuzia. Due parole sull’asiaticus luridus. Esistono alcune caratteristiche morfologiche specifiche di quella che spesso viene definita la razza “mongoloide”: gli occhi a mandorla, la scarsezza di peluria e altri elementi. Sono i fattori che spesso ci consentono di individuare a scuola un cinese immigrato di seconda generazione, di quelli che parlano romanesco e che a occhi chiusi non distingueremmo mai. In questo quadro referenziale negli ultimi due – tre secoli si è infiltrata anche la convinzione che l’uomo asiatico abbia la pelle gialla. Riflesso della visione geopolitica che gli Europei di Sette e Ottocento andavano sviluppando: il giallo, colorito della malattia, della mancanza di salute, si incastona come tinta mediana fra il bianco e il nero, stigmatizzando lo stato di decadenza dell’uomo asiatico18.

Greci e Romani conobbero popolazioni estremo-orientali? A parte i casi sporadici di avventurosi mercanti e delle ambascerie inviate dalla corte degli Han, come registrato dagli Annali cinesi, per quanto riguarda gli altri romani possiamo dire che di almeno una popolazione orientale fecero un’esperienza abbastanza

civiltà antiche, Milano 1988. Cfr. anche M. Brusatin, Storia dei colori, Torino 1999. Sulle sostanze coloranti: L.

Colombo, I colori degli antichi, Fiesole 1995.

15 Situazione simile si riscontra Vanche nel francese: A. Mollard-Desfour, Les mots de couleur : des passages entre langues et cultures in “Synergies Italie” 4, 2008 pp.23-32.

16 M. Frederickson, Racism: a Short History, Princeton 2002, tr. it. Breve storia del razzismo, Roma 2002.

17 La decima edizione, stampata a Stoccolma, risale al 1758. La prima edizione aveva visto la luce nel 1735 a Rotterdam. L’opera ebbe in seguito ancora altre tre edizioni rinnovate.

18 La storia di questa colorazione è stata ricostruita da W. Demel, Come i cinesi divennero gialli. Alle origini delle teorie razziali, Milano 1997.

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traumatica: parlo degli Unni. Anche se non si accetta l’identificazione degli Unni con gli Hsiung-nu19 - che negli ultimi secoli avanti Cristo costruirono un largo dominio a partire dalla Mongolia, e che conosciamo abbastanza bene dalle fonti cinesi - comunque la loro origine deve essere considerata turco-mongolica.

Insomma, secondo il nostro immaginario occhi a mandorla e pelle gialla. Noi abbiamo i resoconti di autori contemporanei, di IV e V secolo, che ci descrivono questa popolazione. Lo fanno, per lo più (non tutti: ma per lo più), col massimo disprezzo. Allora, come oggi, il nomade costituisce davvero il diverso per Ammiano Marcellino. Gli Unni sono delle bipedes bestiae20. Ma non sono gialli. Nella dettagliata descrizione dell’aspetto fisico di Attila che ci ha lasciato Jordane il flagello di Dio ha un colorito di pelle teter,

“disgustoso”21; diverso, quindi, ma non ancora giallo.

La maniera con cui coloriamo la pelle degli uomini quindi non è “oggettiva” ma discende da tre elementi:

oltre che da quello che in medicina viene chiamato “normotipo” preso a riferimento (rispetto al quale si è più o meno qualcosa ); dalla sensibilità cromatica, cioè dalla semiotica dei colori propria di ogni cultura; e dalla visione geopolitica dell’umanità sviluppata da ciascun gruppo.

E dunque, come si vedevano gli antichi? Usavano dei colori o delle espressioni particolari per categorizzare se stessi e gli altri?

Per prima cosa bisognerebbe evidenziare che nel lessico greco e latino manca un equivalente dell’espressione “razza bianca”. Già il termine razza è in realtà un concetto moderno. Dall’etimologia incerta, questa parola compare nelle lingue neolatine alla fine del medioevo inizialmente riferendosi al pedegree, all’allevamento – usato per gli uomini, serve subito a dividere, chi ha limpieza de sangre e chi no:

si arricchisce subito di connotati antisemiti; è un concetto denso di valenze, anche contradditorie. Attenzione quindi quando traduciamo con questo vocabolo i termini greci γένος, ҆έθνος, φύλος o quelli latini genus, gens, natio, stirps .Si può fare; ma con attenzione. Quanto al “bianco” non c’è motivo di supporre che gli antichi lo abbiano interiorizzato come il proprio colore, così come facciamo noi22. Sporadicamente capita di trovare nei testi l’indicazione di una pelle descritta con gli aggettivi che noi traduciamo come “bianco”, “chiaro”: λευκός in greco e in latino albus, o candidus (che insiste maggiormente sulla lucentezza): Svetonio dice ad esempio che la carnagione di Cesare era candida23. Ma a volte si usano aggettivi riferentisi ad altre tonalità (Odisseo a un certo punto è μελαγχροιής: “bruno di pelle”24). Manca insomma una categorizzazione esplicita.

L’espressione proverbiale, utilizzata ad esempio da Catullo in una delle sue invettive contro Cesare, scire utrum sis albus an ater homo, “sapere se sei un uomo bianco o nero” 25 non sembra proprio avere implicazioni razziali. Anzi il biancore della pelle spesso è percepito come pallore: se il nero nell’immaginario, nella simbologia, anche nella fisiognomica antica è già associato al lutto, alle tenebre, al male, il bianco lo è non solo alla purezza ma anche alla femminilità, alla debolezza. Come noto l’incarnato bianco è quello con cui la tradizione pittorica greca e in genere mediterranea segnalava l’elemento femminile. Vediamo ad esempio su quest’anfora a figure nere di VI sec. (oggi al British Museum di Londra) la figura di Pentesìlea, la donna guerriera caduta sotto Troia, pitturata in bianco.

19 Un punto sulla questione, anche se non recentissimo, è quello tracciato ad es. da P. Daffinà, Stato presente e prospettive sulla questione unnica, in S. Blason Scarel, Attila flagellum Dei?, Roma 1994, pp.5-17.

20 Amm.Marc. XXXI.3.

21 Jord., Get. 35: brevis, lato pectore, capite grandiore, minutis oculis, rarus barba, canis aspersus, semo nasu, teter colore, origenis suae signa restituens. “Basso di statura, largo di petto; la testa un po’ grossa, aveva occhi piccoli, barba rada, capelli brizzolati, naso camuso, carnagione squallida: mostrava i tratti tipici della sua stirpe”[tr. E.

Bartolini].

22 J.H. Dee, Black Odysseus, White Caesar: When Did “White People” Become “White”?, in “The Classical Journal”

99, 2003 pp.157-167.

23 Suet. Iul. 45 .

24 Odys. XVI.175.

25 Cat. Carm. 93.

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Λευκώλενος, “dalle bianche braccia” è uno degli aggettivi omerici più conosciuti. Il biancore quindi come sintomo di femminilità e dunque inferiorità: il maschio vero lavora e si esercita al sole. Questo ad esempio è quello che pensarono, secondo Senofonte, gli uomini di Agesilao dinanzi alla carnagione chiara dei prigionieri persiani fatti denudare da Agesilao stesso per essere venduti come schiavi26.

Dal punto di vista della pigmentazione della pelle il normotipo mediterraneo è oggi, e presumibilmente era allora, piuttosto elastico e presenta uno spettro cromatico amplissimo e variegato (tra l’altro spesso il colore evolve a seconda della stagione in virtù dell’esposizione ai raggi solari). Per quel che riusciamo a intuire dalla documentazione letteraria greci, romani, etruschi, non si distinguevano fra loro per altezza del corpo, colore di capelli o occhi, forme del cranio o simili. Un discorso a parte richiederebbero i Fenici – un etnonimo che originariamente all’inizio del I millennio a.C. doveva significare “uomini rossi”: non sappiamo come deve essere nata questa associazione col colore (non dalla porpora, che al contrario ne ha ereditato il nome)27; ma sicuramente in età storica non si riferiva alla pelle.

Greci e Romani erano invece colpiti da quelle popolazioni, quelle tribù, che manifestavano delle caratteristiche fisiche particolari, standardizzate e omologanti (i Germani, ad esempio, che nella descrizione di Tacito sono tutti alti, tutti occhi azzurri, tutti biondi28) – caratteristiche che tendevano a spiegare come effetti dell’isolamento e dell’ambiente. Nella loro visione geopolitica dell’ecumene all’estremo nord, poco assolato, e all’estremo sud, arroventato, i colori della pelle (e in più in generale l’anatomia delle persone) avrebbero in qualche maniera rispecchiato l’inabitabilità dei luoghi29.

26 Xen. Ages. I.28.

27 A. Ercolani, PHOINIKES: storia di un etnonimo, in G. Garbati, T. Pedrazzi (eds.), Transformations and Crisis in the Mediterranean. “ Identity” and Interculturality in the Levant and Phoenician West during the 12th-8th Centuries BCE.

Proceedings of the international conference held in Rome, CNR, May 8-9, 2013, Roma 2015, pp. 171-182

28 Tac. Germ. 4: Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida, “Di qui le fattezze dei corpi, uguali in tutti sebbene in popolazione tanto numerosa: occhi ceruli e torvi, chiome rossicce, corpi grandi e fatti soltanto per l’assalto”.

29 Vitr, De arch.VI.1: ex eo quoque, quae sub septentrionibus nutriuntur gentes, inmanibus corporibus, candidis coloribus, directo capillo et rufo, oculis caesis, sanguine multo ab umoris plenitate caelique refrigerationibus sunt conformati; Qui autem sunt proximi ad axem meridianum subiectique solis cursui, brevioribus corporibus, colore fusco, crispo capillo, oculis nigris, cruribus validis, sanguine exiguo solis impetu perficiuntur. itaque etiam propter sanguinis exiguitatem timidiores sunt ferro resistere, sed ardores ac febres sufferunt sine timore, quod nutrita sunt eorum membra cum fervore; itemque corpora, quae nascuntur sub septentrione, a febri sunt timidiora et inbecilla, sanguinis autem abundantia ferro resistunt sine timore, «Sotto il settentrione si trovano uomini di statura smisurata, di colore

bianchiccio, di capelli lisci e biondi, con occhi accesi; ciò perché temperati dall’abbondanza degli umori e dalla rigidità del clima. Quelli poi che abitano vicino all’Equatore, essendo i più soggetti al corso del sole, riescono, a causa della sua forza, di statura bassa, di colore bruno, di capelli ricciuti, di occhi neri, deboli di gambe e di poco sangue: la quale scarsezza di sangue li rende più timidi nel resistere alle armi, soffrendo però senza timori i cocenti ardori e le febbri:

perché le loro membra sono nutrite dal calore. Sicché i corpi che nascono nella zona del Settentrione sono più timidi e deboli a causa delle febbri, ma per l’abbondanza del sangue sono animosi per resistere all’armi». Cfr. Pl. NH VI.70.

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Le popolazioni nordiche, i Celti, i Germani, uomini di cui l’aspetto che colpiva maggiormente era l’altezza, vengono talvolta descritti dalle fonti letterarie con una certa altezzosità come candidi, “bianchicci”, una sorta di “visi pallidi”30. “La loro carne è bianca e molle” scrive ad esempio Diodoro Siculo31.

Ancora più impressionati erano dagli uomini dalla pelle scura, in particolare dagli africani subsahariani (quelli che dagli studi sul DNA di Cavalli Sforza risulterebbero effettivamente i più distanti dal punto di vista cromosomico32): individui che in italiano un tempo erano definiti “negri”, e che invece in relazione all’antichità chiamiamo “etiopi”, con un termine greco, mutuato poi dai Romani, che i grammatici più tardi spiegavano come “bruciati dal sole” (αίθω: brucio; ҆όψ: volto)33. Gli Etiopi compaiono nella letteratura sin da Omero; ma nella mitologia (come del resto anche più tardi, nella letteratura romanzesca) spesso mantengono un aspetto indefinito – epidermicamente parlando. I due eroi etiopici più noti, Mèmnone e Andromeda, generalmente vengono raffigurati con pelle bianca

30 Amm. Marc. XV 12.1; cfr. Isid. Etim. XIV 4.25

31 Diod. V.28.

32 A. Piazza, L. L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi, Storia e geografia dei geni umani, Milano 1997.

33 Sugli Etiopi, e in genere sui “negri” nell’antichità classica: G. Hadley Beardsley, The Negro in Greek and Roman Civilization. A Study of the Ethiopian Type, Baltimore London Oxford 1929; F. M. Snowden, Blacks in Antiquity:

Ethiopians in the Greco-Roman Experience, Cambridge, Massachusetts and London 1970; A. Bourgeois, La Grèce antique devant la Négritude, “Présenceafricaine”, Paris 1971. J. Desanges, L’antiquité gréco-romaine et l’homme noir,

«REL», 48, 1970, pp. 87 ss.;R. Lonis, Le trois approches de l’Ethiopien par l’opinion gréco-romain, Ktema 6.1981, pp.69-87; Lloyd A. Thompson, Roman and Blacks, University of Oklahoma 1989; P.M. Salmon, L'image du Noir dans l'Antiquité gréco-romaine, in M. Sordi (cur.), Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, Milano 1994, pp.285-302.

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- anche se non sempre:

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è interessante notare che il contorno di assistenti e sottoposti, soprattutto dalla tarda età ellenistica in poi viene invece rappresentato in termini anatomici negroidi:

L’etiope non è contraddistinto né solamente né principalmente dalla pelle nera: viceversa è il risultato di un complesso di elementi: capelli crespi, naso camuso, labbra turgide e pelle nera (la più precisa concettualizzazione di questo quadro è offerta da un passo del Satyricon in cui Encolpio e Gitone riflettono sulla impossibilità per loro di farsi passare per etiopi semplicemente scurendosi la pelle con l’inchiostro34).

La fisionomia dei “negri”, degli Etiopi, era riprodotta con attenzione al dettaglio sin dal VI secolo a.C.

Probabilmente i Greci attivi a Nàucrati, in Egitto, ne avevano diffuso la conoscenza. Ci sono lekythoi e aryballoi di splendida fattura che ne riproducono le fattezze.

34 Petr., Sat. 102: Inspicite, quod ego inveni. Eumolpus tanquam litterarum studiosus utique atramentum habet. Hoc ergo remedio mutemus colores a capillis usque ad ungues. Ita tanquam servi Aethiopes et praesto tibi erimus sine tormentorum iniuria hilares, et permutato colore imponemus inimicis.” “Quidni?” inquit Giton “etiam circumcide nos, ut Iudaei videamur, et pertunde aures, ut imitemur Arabes, et increta facies, ut suos Gallia cives putet: tanquam hic solus color figuram possit pervertere et non multa una oporteat consentiant et non ratione, ut mendacium constet. Puta infectam medicamine faciem diutius durare posse; finge nec aquae asperginem imposituram aliquam corpori maculam, nec vestem atramento adhaesuram, quod frequenter etiam non accersito ferrumine infigitur: age, numquid et labra possumus tumore taeterrimo implere. Numquid et crines calamistro convertere? Numquid et frontes cicatricibus scindere? Numquid et crura in orbem pandere? Numquid et talos ad terram deducere? Numquid et barbam peregrina ratione figurare? Color arte compositus inquinat corpus, non mutat. Audite, quid amenti succurrerit: praeligemus vestibus capita et nos in profundum mergamus.«State un po' a sentire la mia di idea. Eumolpo, da buon letterato qual è, ha sicuramente dell'inchiostro con sé. Possiamo servircene e tingerci la pelle dalla testa ai piedi. Prendendoci così per degli schiavi etiopi ai tuoi ordini, riusciremo a evitare allegramente ogni pericolo senza l'incubo di torture, e col diverso colore della pelle la faremo in barba ai nostri avversari». «Ma perché allora - interviene Gitone - non ci circoncidi pure, per farci sembrare dei Giudei, o non ci fai i buchi alle orecchie che ci scambino per Arabi, o non ci spalmi la faccia di gesso così che in Gallia ci prendano per concittadini? Come se solo un po’ di colore bastasse a cambiarci i connotati, e non ci fosse bisogno di tutta una serie di accorgimenti perché il giochetto funzioni. Mettiamo pure che la tintura sulla faccia possa resistere a lungo. E supponiamo anche che qualche spruzzo d'acqua non ci riempia la pelle di macchie, o che i vestiti non si attacchino all'inchiostro (cosa questa possibilissima, anche nei casi in cui non c’è la colla), ma con le labbra come la mettiamo? Non possiamo mica deformarle gonfiandole in quell’orrenda maniera. E i capelli? Li

arricciamo col ferro caldo? E la fronte? Ce la riempiamo di cicatrici apposta? E le gambe? Le facciamo diventare arcuate? Ci mettiamo a camminare coi piedi piatti? E la barba? Ce la facciamo crescere come quella gente straniera? La tintura artefatta ti sporca il corpo, ma non te lo cambia» [tr. G.A. Cibotto].

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Persino alcuni coni monetari: a Delfi ad esempio all’inizio del V secolo si batteva una moneta, un obolo argenteo35, con la raffigurazione di una testa dell’eroe eponimo Delfo: figlio, secondo una tradizione, della ninfa Maelania.

Si può quantificare la presenza di negri, di Etiopi nel mondo classico? un testo di Teofrasto, in cui il μικροφιλότιμος, l’uomo corroso da una “ambizione piccina”, è rappresentato come desideroso di sfoggiare un servitore negro: un ҆ακόλουθος α҆ιθίοψ, suggerisce che ancora in età ellenistica fuori dall’Egitto non dovesse essere facile incontrare africani subsahariani (mentre in Egitto da sempre costituivano una delle componenti etniche della popolazione)36. La maggior parte delle testimonianze, letterarie e figurative, relative a individu,i diciamo così, di “razza etiope” sembrerebbe inoltre riferirsi a schiavi, addetti per lo più a lavori domestici, lavori cui alludono sculture di ottima qualità.

Louvre, statua in marmo dalle terme di Afrodisia di Caria Paris, Bibliotheque Nationale, bronzetto

35B.V. Head, Catalogue of Greek Coins. Central Greece, London 1884, p.25 (plates IV 5-7).

36 Theophr., Char. XXI.4.

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Anche se è vero che spesso noi diamo questo fatto un po’ per scontato; pure nei casi in cui non sia specificato esplicitamente. Nel Moretum pseudovirgiliano, ad esempio, i versi vv.31-3537 che descrivono l’entrata in scena dell’africana Skybales [forse un nome parlante38, qualcuno ha suggerito di tradurlo una cosa come “Escremento” “Merdaccia”] pennellano un quadro di subalternità femminile che effettivamente, come ha sottolineato una studiosa femminista afroamericana39, potrebbe corrispondere ugualmente a una semplice relazione coniugale, magari fra colliberti… Ad ogni modo gli etiopi, i “negri”, dovevano costituire una percentuale infima della popolazione servile complessiva. Questo significa che nel mondo antico, diversamente da quanto accadde in età moderna nelle Americhe, non si poté creare quell’accavallamento, quell’assimilazione di immagini fra schiavitù e negritudine per cui il disprezzo per la condizione di inferiorità connessa allo stato servile si è travasata sulla percezione stessa del negro40. Una sovrapposizione di immagini che in Occidente, anche in Europa, ha generato una associazione mentale fra negritudine e schiavitù fortemente radicata, che vediamo riflessa in buona parte dell’iconografia popolare: dalla pittura, al cinema, alla pubblicità: In questo quadro di Boulanger, ad esempio, ecco l’immancabile schiava di colore.

37 Appendix Vergiliana, Moretum 31-37:

interdum clamat Scybalen (erat unica custos, Afra genus, tota patriam testante figura, torta comam labroque tumens et fusca colore, pectore lata, iacens mammis, compressior alvo, cruribus exilis, spatiosa prodiga planta) hanc vocat atque arsura focis imponere ligna imperat et flamma gelidos adolere liquores

«talvolta urla «Scibale!». Costei era la sua unica custode, africana di razza, e la sua figura lo attestava pienamente, con la chioma crespa, il labbro tumido e il colore fosco, larga di petto, le mammelle cascanti, il ventre piuttosto piatto, esile di gamba, larga e abbondante di piede.

La chiama e le comanda di porre legna da ardere

nel focolare e di scaldare alla fiamma l’acqua gelida» [tr. M.G. Iodice].

38Σκύβαλον: escremento.

39 S. Haley, Be Not Afraid of the Dark. Critical Race Theory and Classical Studies, in L. Nasrallah - E. Schüssler Fiorenza (curr.), Prejudice and Christian Beginnings: Investigating Race, Gender, and Ethnicity in Early Christian Studies, Minneapolis 2009, pp. 27-50 e in part. 41-48.

40 M. I. Finley, Ancient Slavery and Modern Ideology, London 1980, tr.it. Schiavitù antica e ideologie moderne, Roma Bari 1981.

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Sappiamo dal Digesto41 che almeno in un certo periodo nel cartellino descrittivo dello schiavo in vendita doveva comparire l’indicazione della natio (cioè l’identità etnica, linguistica, che non è la razza), a riprova che la fisionomia dello schiavo era di per sé indecifrabile.

Certo, nel caso degli Etiopi, la distanza da quello che i medici chiamano “normotipo” spesso provocava comunque sarcasmo, in alcuni casi persino disprezzo. Pensiamo al terribile verso di Giovenale derideat Aethiopem albus (“Che un bianco derida un negro [è naturale]”)42. È normale che nei testi di natura satirica, in Giovenale appunto, o in Marziale, si possano trovare raffigurazioni caricaturali: ma certo l’etiope risulta spesso ridicolizzato; forse anche nel teatro potrebbe aver assunto la fisionomia di una macchietta.

Certamente era deriso dal punto di vista estetico . Anche nelle arti plastiche molte statuine decorative sono state interpretate come “grottesche”, caricaturali, specie quelle di ambiente “nilotico”: un classico era il negro nelle fauci del coccodrillo.

41 Dig. XXI.1.31.21 (Ulpianus 1 ad ed. aedil. curul.): Qui mancipia vendunt, nationem cuiusque in venditione pronuntiare debent: plerumque enim natio servi aut provocat aut deterret emptorem: idcirco interest nostra scire nationem: praesumptum etenim est quosdam servos bonos esse, quia natione sunt non infamata, quosdam malos videri, quia ea natione sunt, quae magis infamis est. quod si de natione ita pronuntiatum non erit, iudicium emptori

omnibusque ad quos ea res pertinebit dabitur, per quod emptor redhibet mancipium.

42 Juv. II. 23

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Ma questo rientra purtroppo in un fisiologico etnocentrismo – non è ancora discriminazione razziale. Così come d’altra parte in una fisiologica xenofilia rientra anche la fascinazione sessuale che uomini e donne etiopi sembrano aver esercitato sui “normotipi” (anche la capigliatura bionda, la flava coma delle pallide donne del nord affascinava; gli occhi azzurri no43). La relazione sessuale, in particolare quella fra la dama dell’alta società, e l’umile negro, era quasi proverbiale: uno dei classici temi assegnati ai giovani studenti di retorica si intitolava Matrona Aethiopem pèperit44. Ma l’aspetto che noi definiremmo interrazziale non era di nessun interesse. Quello che suscitava attenzione era il fatto che il colore della pelle in questo caso diventava spia evidente e incontestabile dell’infedeltà, o comunque della rottura degli argini sociali. Perché la realtà è che in genere gli autori si consentono di insultare questi etiopi perché è il loro status sociale modesto che glielo consente. Sono parole dure come lo sono quasi sempre quelle indirizzate verso liberti, servi e altri elementi dell’infima plebs. Perché, a Roma soprattutto, quel che conta è il rango, lo status sociale. Negli sporadici casi che conosciamo di negri, di etiopi di alto livello, la musica cambia. Pensiamo ad esempio ad uno dei figli adottivi di Erode Attico, un ragazzo nero chiamato (non a caso) Mémnone45. Onorato, omaggiato. Ne abbiamo rinvenuto anche un suggestivo ritratto, proprio da una delle tenute di Erode in Grecia: un busto che ora si trova in museo berlinese.

43Data la tendenza a utilizzare tinture o parrucche bionde per abbellire la propria acconciatura, flava coma (almeno secondo Servio, ad Aen. 4.698), avrebbe assunto il significato traslato di “donnetta facile”: alla matrona si addiceva capigliatura nigra.

44 Calp. Sic., Decl. exc. 2.1

45 Su Memnone: Phil. Vit. Soph. II.10 547-549 e 555-556 e Vit. Ap.. III.11.

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Altre popolazione di pelle scura erano conosciute e segnalate con varie aggettivazioni, senza però che ciò abbia mai comportato una concettualizzazione generale dell’idea di “negro” contrapposto al bianco. Gli agettivi usati per descrivere l’oscurità della pelle sono ater, fuscus, niger; in greco μέλας. Fra queste popolazioni si possono segnalare anzitutto gli Indiani meridionali (fusci quos India torret: abbrustoliti dal caldo scrive Tibullo!46), che talvolta erano chiamati ethiopi anch’essi, benché si sapesse che alcune delle caratteristiche somatiche divergessero nettamente (ad esempio i capelli lisci: ci sono confronti famosi, ad esempio quello di Arriano47). Del resto le conoscenze geografiche dell’uomo della strada, ma anche degli eruditi rimasero piuttosto approssimative. Gli abitanti della Valle dell’Indo e del Pamir, con cui i Greci, dopo Alessandro, ebbero scambi e contatti intensi, sia economici che culturali, ma anche gli abitanti della costa meridionale della penisola indiana e quelli dell’isola di Ceylon, così come quelli di altre isole dell’Oceano Indiano si confondevano e sfumavano nell’immaginario comune di un Oriente favoloso; abitato anche da popolazioni teriomorfe, dall’aspetto strambo o animalesco (tipo i Cinocefali)48. Fra queste popolazioni segnalo i pigmei, che costituivano quindi un elemento dell’immaginario geografico. Poco più che dei lillipuziani, alti un avambraccio, sempre in guerra con le gru (come in queste raffigurazioni vascolari o musive) posizionati in un generico confine del mondo, spesso in India, e generalmente non sono descritti come uomini dalla pelle nera (anche se Erodoto conosce invece una popolazione di africani nani, situati lungo la costa atlantica49 – ma sono due cose distinte: a metterle insieme sono stati gli esploratori europei che nella seconda metà dell’Ottocento hanno riconosciuto nei membri di alcune delle tribù indigene centroafricane le creature mitologiche; così come tre secoli prima Francisco de Orellana e Gaspar de Carvajal avevano riconosciuto negli indigeni delle rive del fiume Marañon le mitiche Amazzoni!!)50.

46 Tib. II 3.55.

47 Arr., Indica 6:καὶ τἄλλα ἡ Ἰνδῶν γῆ οὐκ ἀπέοικε τῆς Αἰθιοπίης (…) τῶν δὲ ἀνθρώπων αἱ ἰδέαι οὐ πάντη ἀπᾴδουσιν αἱ Ἰνδῶν τε καὶ Αἰθιόπων. οἱ μὲν γὰρ πρὸς νότου ἀνέμου Ἰνδοὶ τοῖσιν Αἰθίοψι μᾶλλόν τι ἐοίκασι, μέλανές τε ἰδέσθαι εἰσὶ, καὶ ἡ κόμη αὐτοῖσι μέλαινα, πλήν γε δὴ ὅτι σιμοὶ οὐκ ὡσαύτως οὐδὲ οὐλόκρανοι ὡς Αἰθίοπες: οἱ δὲ βορειότεροι αὐτῶν καὶ Αἰγυπτίους μάλιστα ἂν εἶεν τὰ σώματα. «Anche sotto molti altri aspetti l’India non differisce dall’Etiopia (…) l’aspetto fisico degli Indiani e degli Etiopi non è poi del tutto differente. Gli Indiani del sud assomigliano maggiormente agli Etiopi: sono neri di pelle e neri sono i loro capelli, con la differenza che non sono camusi e non hanno i capelli crespi come gli Etiopi; gli Indiani del nord, invece, sono fisicamente più simili agli Egiziani» [tr. A.

Oliva]. Cfr. ad es. anche Erod. VII.70.

48 A. Dihle, Die Griechen und die Fremden, München 1994, tr. it. I Greci e il mondo antico, Firenze 1997.

49 Erod. IV.43.7

50 P. Janni, Etnografia e mito. La storia dei pigmei, Roma 1978.

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Spesso chiamiamo pigmei le caricature di pescatori di ambiente nilotico, come quelli raffigurati qui sotto in un affresco da Pompei, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ma è una denominazione

inappropriata.

Ci sarebbe infine da parlare di quelli che potremmo definire, ricorrendo a un desueto aggettivo utilizzato in Europa a lungo per indicare gli individui di pelle scura, i “mori” – che nella percezione europea medioevale e rinascimentale coincidevano con i musulmani. l’etimologia è facile: viene da mauros- maurus. I Mauri, assieme ai Numidi, ai Getuli, ai Garamanti e altre tribù costituivano la popolazione indigena nordafricana:

popolazioni berbere (quelli che si considerano i discendenti di queste popolazioni berbere ci tengono a distinguersi dai maghrebini) E rispetto agli Etiopi sicuramente la situazione era diversa. Conosciamo un elenco sterminato di uomini e donne di origine maura, o numida, o libica, assolutamente integrate nel mondo classico; anche ai massimi livelli istituzionali: pensiamo a Mastànabal, il padre di Giugurta, principe numida, che nel 158 concorse ad Atene alle Grandi Panatenee vincendo una competizione di bighe (come sappiamo

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da una iscrizione): ne abbiamo anche un ritratto, o meglio la testa di un notabile di origine berbera in cui qualcuno ha proposto di riconoscere Mastànabal51

o pensiamo a Lusio Quieto, un mauro che alla fine del I sec. d.C. scalò tutta la gerarchia militare: da ufficiale della cavalleria maura, che guidò nel corso delle campagne daciche di Traiano (e che si possono vedere riprodotte nel fregio della colonna coclide) a senatore, consigliere del principe, governatore della Giudea (prima di essere fatto ammazzare da Adriano: qualcuno ha pensato di identificarlo in uno dei personaggi raffigurati in uno dei pannelli superiori dell’Arco di Traiano a Benevento)52.

51 D. W. Roller, A note on the Berber head in London, JHS 122, 2002, pp. 144-146.

52 Origini e carriera di Lusio Quieto in Cass. Dio, LXVIII.32.4. Cfr. S. Bussi, Lusio Quieto, un “maghrebino” ai vertici dell’impero, in A .Akerraz, P. Ruggeri, A. Siraj, C. Vismara (curr.), Africa Romana 16, Roma 2006, pp.721-728.

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Questi “mori” per noi, che abbiamo l’ansia di categorizzare le persone in base al colore della pelle, anche se non sono proprio neri, certamente non sono “bianchi”. Cioè non sono la nostra razza. Sono in qualche modo stranieri, di impatto: oggi si dice “di colore”; mentre nell’antichità sembrerebbe potersi registrare a riguardo una sostanziale indifferenza (non cecità: indifferenza). La diversità, l’estraneità, la barbaricità era misurata e còlta su altri elementi: lo stile di vita, il vestiario, l’alimentazione, soprattutto la lingua. C’è un aneddoto esemplificatorio, riportato dalla Historia Augusta e riguardante la famiglia dell’imperatore Settimio Severo.

Severo veniva da Leptis Magna: una parte della sua famiglia, il ramo paterno, era di origine punico berbera.

Per cui lui stesso, e le sue sorelle, ragionevolmente saranno stati un po’ scuri di pelle.

Insomma l’Historia Augusta racconta che quando la sorella (una certa Septimia Octavilla) venne a trovarlo a Roma a palazzo, lui la rispedì a casa in quattro e quattr’otto perché se ne vergognava: si vergognava cioè

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della sua barbaricità (de illa multum imperator erubèsceret). Per il colore della pelle? No, perché parlava un latino stentato (vix latine loquens)53. Quando bisogna ridicolizzare, barbarizzare un imperatore non si colora la sua pelle, ma si deridono il suo latino e il suo greco stentati.

Il richiamo a Settimio Severo ci apre la via a un paio di riflessioni conclusive. Qualche anno fa, quando Barak Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti, è circolata sui social network insistentemente l’informazione che, in maniera analoga, Settimio Severo sarebbe stato il primo “black emperor”. È una balla.

In nessun modo Settimio Severo può essere affiancato alla negritudine di Barack Obama. Ma si tratta di una provocazione sintomatica. Ci rivela in controluce il nostro atteggiamento. Senza accorgercene, il nostro approccio al mondo antico, al mondo classico, contiene uno sguardo razziale. Non solo perché lo abbiamo letteralmente sbiancato, depotenziando il vivace cromatismo che ne caratterizzava architetture e abbigliamenti, ma perché lo abbiamo trasformato di fatto nella storia antica dei “bianchi”. Negli ultimi decenni si è assistito a una reazione, spesso esagerata, da parte di quelli che sono stati etichettati come studiosi “afrocentrici”. Molti di voi conosceranno “Atena Nera”, di Martin Bernal.54 Anche loro hanno ripreso questo modo di guardare all’antichità, raffigurandosene l’umanità in termini di bianchi e neri, cioè tendendo a incasellare gli individui e le popolazioni in queste due categorie, e considerando “nero” chiunque non fosse chiaramente bianco. Avete mai provato a digitare sul web Hannibal was black? È un classico caso in cui cavalcando l’ambiguità e confondendo l’africanità con la negritudine, si è potuto creare un caso mediatico fenomenale. Immagini come queste (stampate dal birrificio Anheuser-Busch di St. Louis) hanno invaso la rete:

Nel 2016 History Channel ha mandato in onda un docufilm con un Annibale Barca scuro di pelle, interpretato dall’attore afrobritannico Nicholas Pinnock

53 SHA, Sept. 15.7

54 M. Bernal, Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, 1987 (tr. it. Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Milano 1997)

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«HANNIBAL» , 2016, History Channel

Ma già Spike Lee nel 2012 aveva aprogettato un film con Denzel Washington nella parte del condottiero fenicio (pellicola che però non è stata più girata) scatenando un vero putiferio (che non era sorto invece quando a interpretarlo era stato Victor Mature).

«ANNIBALE», 1959 di C. L. Bragaglia

Bizzarro destino di Annibale, che un secolo fa, all’inizio Novecento, veniva additato dal nazionalismo classicistico europeo come l’avversario semita per eccellenza; e inducendo un ebreo come Freud a sviluppare un dichiarato e intenso senso di immedesimazione con lo stratega fenicio.55

Ma questa domanda, cioè se Annibale fosse nero, come altre simili (era nero sant’Agostino?), domande che a noi appaiono semplici e oneste, sono domande tutte nostre, nostre intendo come tipiche degli uomini della contemporaneità. Per gli antichi si dà sostanzialmente identità etnica, culturale, non razziale in senso anatomico. Quel che conta è la lingua che si parla, lo stile di vita, quello che si mangia, i rituali sacrificali che si adottano – non è l’aspetto fisico. La diversità dell’aspetto fisico viene invece sottolineata proprio lì dove essa rappresenta (mai da sola, ma sempre assieme agli altri elementi della cultura e della vita materiale) il risultato di una diversità (e spesso di una inferiorità) dettata dalle costrizioni ambientali56. È in questi casi che il cromatismo della pelle assume agli occhi degli antichi un valore significativo: come la pelle gialla dei Fasiani e quella rossa degli Sciti nelle pagine del trattato pseudoippocrateo “sulle arie, acque e luoghi”57.

55 S. Timpanaro, La “fobìa romana” e altri scritti su Freud e Meringer, Pisa 1992, p.68.

56 F. Borca, Luoghi, corpi, costumi: determinismo ambientale ed etnografia antica, Roma 2003

57 (Ps.)Hipp., De aere aquis et locis 15: (οἱ Φασιηνοί) τά τε γὰρ μεγέθεα μεγάλοι, τὰ πάχεα δ᾽ ὑπερπάχητες, ἄρθρον τε κατάδηλον οὐδὲν οὐδὲ φλέψ: τήν τε χροιὴν ὠχρὴν ἔχουσιν ὥσπερ ὑπὸ ἰκτέρου ἐχόμενοι, «(Gli abitanti della regione del

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La sfida che ci attende come educatori, e come semplici uomini di cultura, impegnati nella trasmissione di un sapere che coinvolge la collettività è dunque questa: Siamo in grado di non far sentire straniere nel mondo classico le nuove generazioni di non bianchi che qui da noi ne studiano la storia? Siamo in grado di restituire la dimensione universale del passato? Che il legame con gli uomini che ci hanno preceduto sul territorio che abitiamo, vale anche se dal punto di vista biologico non dovessero essere i nostri antenati? Ricordiamoci che la più classica e celebre delle formule dell’umanesimo che tanto pomposamente mettiamo al centro della nostra cultura si deve alla penna di un uomo, di un ex schiavo, un immigrato forzato, scuro di pelle (secondo l’indicazione del biografo Donato che lo definisce colore fusco58).

Fasi) sono di grandi dimensioni infatti ma grassissimi, non hanno alcuna articolazione o vena visibile: hanno la pelle di colore giallastro come se la avessero ottenuta così a causa dell’ittero»; 20: πυρρὸν δὲ τὸ γένος ἐστὶ τὸ Σκυθικὸν διὰ τὸ ψῦχος, οὐκ ἐπιγινομένου ὀξέος τοῦ ἡλίου. ὑπὸ δὲ τοῦ ψύχεος ἡ λευκότης ἐπι καίεται καὶ γίνεται πυρρή. «La gente scita è rossa a causa del freddo dal momento che non sopraggiunge mai un sole acuto. A causa del freddo però il biancore viene bruciato e diviene rosso» [tr. G. Cordiano].

58 Ael. Don., Vita Ter. 6.

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